di Raffaella Di Meglio
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L’anguilla, la sirena dei mari freddi che lascia il Baltico per giungere ai nostri mari, ai nostri estuari, ai fiumi che risale in profondo, sotto la piena avversa, di ramo in ramo e poi di capello in capello, assottigliati, sempre più addentro, sempre più nel cuore del macigno, filtrando tra gorielli di melma finché un giorno una luce scoccata dai castagni ne accende il guizzo in pozze d’acquamorta, nei fossi che declinano dai balzi d’Appennino alla Romagna; l’anguilla, torcia, frusta, freccia d’Amore in terra che solo i nostri botri o i disseccati ruscelli pirenaici riconducono a paradisi di fecondazione; l’anima verde che cerca vita là dove solo morde l’arsura e la desolazione, la scintilla che dice tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi, bronco seppellito; l’iride breve, gemella di quella che incastonano i tuoi cigli e fai brillare intatta in mezzo ai figli dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu non crederla sorella? |
Metrica:
Versi liberi con prevalenza di endecasillabi e settenari. Rime interne, assonanze e consonanze.
Analisi:
Del componimento, appartenente alla raccolta Bufera
e altro (1956) e risalente al 1948, colpisce innanzitutto la struttura
formale. È costituito infatti da un unico periodo sintattico di
30 versi, una proposizione interrogativa, i cui due elementi principali
sono separati dai 28 versi centrali: al primo verso compare in rilievo
«l’anguilla», che, dal punto di vista sintattico, è
il complemento oggetto della proposizione interrogativa, il cui soggetto,
«tu», compare solo alla fine del penultimo verso.
«L’anguilla», costituisce dunque l’incipit da
cui prende avvio una successione di metafore
appositive che, prolungandosi in ampi movimenti sintattici, la
allontanano dalla proposizione di cui fa parte.
La ripresa del termine al v. 15, proprio a metà del componimento,
segna il passaggio dal piano denotativo, quasi documentaristico
della prima parte della poesia a quello connotativo della
seconda parte, con i sintagmi appositivi «torcia», «frusta»,
«freccia d’Amore», «anima verde», «scintilla»,
«iride breve», fino all’ultima definizione, «sorella»
che, nel rilievo della clausola finale, chiude circolarmente il componimento
ricollegandosi alla prima parola, «anguilla», di cui è
predicativo. I due termini («anguilla» e «sorella»)
sono uniti dalla posizione speculare e dalla consonanza.
Le uniche pause rilevanti, i punti e virgola ai versi 14, 19 e 25, isolano
tre unità sintattico-semantiche, ognuna relativa ad una qualità
dell’animale. Dalla prima unità, che si estende per ben 14
versi in un periodo molto ampio e complesso, articolato in subordinate
(«che lascia», «per giungere», «che risale»,
«filtrando», «finché … accende»),
emerge la resistenza del pesce nel suo lungo, faticoso
viaggio, guidato solo dall’istinto, di risalita dei fiumi nei fondali
melmosi. Il poeta lo accompagna in questo percorso (acquatico) di progressivo
avvicinamento geografico e di restringimento spaziale che è nello
stesso tempo un percorso di progressivo prosciugamento, dal Baltico ai
«nostri mari» agli «estuari» ai «fiumi»
alle loro diramazioni sempre più sottili, come dei capelli («di
capello in capello»), ruscelli sassosi, rivoli melmosi che si riducono
infine a «pozze d’acquamorta» nei fossi della Romagna,
dove pure l’anguilla riesce a sopravvivere.
Pare emergere in questa prima metà della lirica
una volontà descrittiva, suggerita dalla precisione
dei riferimenti naturalistici e geografici (legata ai ricordi e ai luoghi
dell’infanzia, secondo le dichiarazioni dello stesso Montale), che
indugia sul percorso avventuroso dell’anguilla e ne imita, attraverso
il ritmo sintattico, il movimento tortuoso, flessuoso.
L’intera poesia ha infatti un ritmo avvolgente, sinuoso, dilatato,
ottenuto attraverso periodi lunghi, l’uso limitato di pause forti
(le tre indicate), e continui enjambements.
Il valore allegorico di questo animale comune,
basso e terrestre, poco letterario, è però tradito
e anticipato fin dal verso iniziale dalla prima apposizione «sirena»
. Il termine proietta l’animale, nobilitandolo, in una dimensione
mitologica, atemporale e nello stesso tempo antropomorfica, associandolo
all’immagine della donna, di cui nei versi finali si rivela un emblema.
Il sostantivo implica anche una valenza ambigua, oscillante tra un’idea
di fascino, di richiamo sessuale-amoroso e un’idea di minaccia e
di mistero.
Il lungo periodo iniziale si chiude con un’immagine di luce, quella
filtrata dai castagni, che «accende il guizzo» dell’anguilla
nelle «pozze d’acquamorta» rivelandone l’inaspettata
presenza. Il termine «guizzo», che letteralmente si riferisce
sia ai tipici contorcimenti del pesce che alla colorazione argentea assunta
nel periodo di maturità sessuale, quando inizia il viaggio verso
il mare, metaforicamente allude alla sua energia vitale. Efficace la consonanza
con «pozze» ed il legame fonico con «fossi» del
verso successivo, effetti sonori che sottolineano la dialettica vita-morte,
alto-basso che percorre tutta la poesia.
L’immagine prepara il repentino, alogico passaggio alla serie di
metafore della seconda parte, tutte appartenenti all’area
semantica della luce e della vita e contrapposte ad immagini
di morte e di oscurità.
Sotto lo sguardo del poeta l’anguilla inizia a subire
una serie di metamorfosi, diventando «torcia»,
«frusta» (nel senso di sferzata di vita contro l’inerzia,
l’immobilità), «freccia d’Amore» (vv. 15-16).
Le immagini, suggerite dalla struttura fisica del pesce, come il successivo
«iride breve» al v. 26, recuperano l’iconografia classica
del dio Amore, tradizionalmente raffigurato con arco e frecce e con fiaccola.
Esse ribadiscono dunque quella forza irresistibile, quell’istinto
di conservazione e di riproduzione, capace di vincere qualsiasi
resistenza, già affermata nella prima parte («risale in profondo,
sotto la piena avversa», v.5, « sempre più addentro,
sempre più nel cuore del macigno», vv.8-9) e fanno emergere
l’anguilla quale emblema di amore-eros e di procreazione
(«paradisi di fecondazione»).
Le metafore sono accumulate per asindeto
con effetto di accelerazione del ritmo rispetto alla prima unità.
È ripreso però lo stesso modulo sintattico, costituito dal
sostantivo appositivo seguito da proposizione relativa, che si ripete
con regolarità per tutto il componimento in forme progressivamente
abbreviate e con ritmo via via più veloce («sirena …
che», «freccia d’Amore … che», «l’anima
verde che», «la scintilla che», «l’iride
breve … che»).
Al v.20 il sintagma analogico «anima verde» apre la terza
unità: un concetto immateriale (anima) è qualificato con
una percezione sensoriale (verde) che, su un piano denotativo può
riferirsi al colore dell’anguilla, ma metaforicamente ribadisce
il suo potere di cercare la vita anche dove le condizioni sono più
ostili, «là dove solo morde l’arsura e la desolazione».
La rima con «fecondazione» del v.19, come la consonanza «guizzo»/«pozze»
al v. 12, rafforza il nesso vita-morte.
Ancora, l’anguilla è «scintilla» che può
nascere persino da un «bronco seppellito» (v.25).
Tutte queste immagini vitali, come anticipato, sono in
antitesi con altre che riconducono al topos montaliano del paesaggio
arso e desolato: «macigno» al v. 9, «pozze
d’acquamorta» al v. 12, «i disseccati/ruscelli pireanaici»
ai vv. 17-18 (che riprendono in rima i fiumi «assottigliati»
del v.7), «l’arsura e la desolazione» al v. 22, «incarbonirsi»
«bronco seppellito» al v. 25.
La terza pausa forte del v. 25 delimita anche questa unità sintattica
e segna la conclusione del percorso circolare dell’anguilla, dal
mare ai fiumi, di nuovo al mare.
Dal verso successivo inizia l’ultima parte del componimento, costituita
dai cinque versi finali, dove si precisa e si esplicita l’identificazione
animale-umano, anguilla-donna (già segnalata e anticipata
dal sostantivo «sirena» al v. 1), attraverso il comune termine
di paragone «l’iride breve» (per metonimia gli occhi
dell’anguilla), «gemella» di quella che brilla negli
occhi della donna, il «tu» a cui si rivolge il poeta (in rilievo
in clausola).
L’anguilla si rivela ora correlativo oggettivo
della donna, assimilata al pesce per un miracoloso potere
rigenerativo, un istinto biologico, per la capacità di
(pro-)creare, quasi di modellare la vita nel «fango» («figli
dell’uomo, immersi nel tuo fango»), nel fango di un mondo
contaminato dalla violenza, così come l’anguilla
è capace di sopravvivere «tra i gorielli di melma»
(v. 10).
Ancora una volta, dunque, come in Le Occasioni
e nella maggior parte dei componimenti de La bufera ed altro, l’interlocutrice
privilegiata del poeta è una figura femminile, enigmatica e sfuggente
compagna di viaggio, cercata come rifugio e fonte di salvezza, sulla quale
in questa raccolta si proietta l’angoscioso clima bellico, postbellico,
nel caso specifico de L’anguilla.
Si tratta di un motivo tipico dell’universo poetico di Montale.
Qui la donna-anguilla è un’immagine ambigua, sospesa, proprio
come l’anguilla nelle pozze e nei fondi melmosi, tra visibilità
ed invisibilità (la sua identità resta nascosta). È
qui, anziché donna-angelo come in altri componimenti, portatrice
di valori bassi, istintuali, di una vitalità biologica, sessuale,
ma pur sempre estrema difesa contro il male del mondo.
La poesia viene in tal modo ad essere un atto di omaggio, di lode
alla donna. L’accostamento ad un essere così forte,
pur se povero (viene in mente A mia moglie di Saba), fa acquistare
alla figura femminile qualità di figura salvifica,
di annuncio e di speranza di vita, garanzia di continuità,
di sopravvivenza, di resistenza anche là dove la vita
sembra impossibile, araba fenice («la scintilla che dice/tutto comincia
quando tutto pare/incarbonirsi, bronco seppellito»), angelo terrestre
di «paradisi di fecondazione», luce che brilla «intatta»,
come il «guizzo» dell’anguilla «in pozze d’acquamorta».
Alla figura femminile si lega infatti un’altra tematica ricorrente
nella poetica montaliana, la ricerca di una luce, del
«lampo che candisce» (La bufera, v.10), di un barlume
nel buio, qui affidata ai termini «guizzo», «scintilla»,
«iride».
Il sintagma «iride breve», inteso nell’accezione di
arcobaleno, fa inoltre della donna una sorta di ponte tra cielo
e terra, alto e basso, divino e terreno.
Con il predicativo «sorella» all’ultimo verso, per altro
in rima interna con «gemella» del v.26, l’identificazione
è completa perché la domanda all’interno della quale
è inserito è una domanda retorica («puoi tu non crederla
sorella?»).
«Sorella», ultima parola della lirica, richiama il cantico
francescano: alla fine, dunque, la lirica è un inno alla
solidarietà tra esseri umili, un inno alla vita, al suo
ciclo, di cui il percorso stesso dell’anguilla è una metafora.
Inoltre il lemma, come già evidenziato all’inizio dell’analisi,
essendo predicativo di «anguilla», riconduce al primo verso,
così che la forma stessa della lirica riproduce il percorso a ritroso
dell’animale.
La domanda rivela che anche il poeta si riconosce, si identifica nella
figura dell’animale, si sente solidale e partecipe della sua esistenza
faticosa e umile ma paziente, perché anch’egli guidato da
una sorta di istinto creativo.
Il valore emblematico dell’anguilla si estende
dunque dalla donna alla poesia, forza creatrice per eccellenza
(poiéó = fare, creare), e, così come intesa
da Montale, testimonianza umile ma tenace - in questo
senso la scelta di un animale ‘basso’ rientra nel suo sforzo
costante e coerente di demistificazione del ruolo della poesia e del poeta
- di un’esperienza umana ed esistenziale che resiste e attraversa
le metamorfosi di una società e di un mondo sempre più critici
e disorientati, sconvolti dal male della storia.
L’allegoria
animale diventa così una dichiarazione della resistenza della poesia,
che non rinuncia a confrontarsi neanche con la realtà più
difficile e scomoda.
Il bisogno di dialogo con il «tu» (qui suggerito anche dall’uso
dell’aggettivo possessivo «nostri» che compare due volte
ai vv. 3 e 4) conferisce alla lirica un tono colloquiale che però
è più debole rispetto alla raccolta precedente Le occasioni:
la sintassi prevalentemente ipotattica, quasi difficoltosa,
oltre ad avere il valore semantico già segnalato all’inizio
dell’analisi, traduce la fatica di comunicare una
conoscenza sempre più angustiata dell’esistenza.
Non mancano comunque termini più ricercati («gorielli
di melma», «botri», termine usato anche da D’Annunzio,
«bronco») né il poeta rinuncia ad una musicalità
fatta di echi, di accostamenti sonori. Ne sono esempi le allitterazioni
come guizzo-pozze (di dantesca memoria), incarbonirsi-bronco,
frusta-freccia; i richiami fonici all’iniziale anguilla:
guizzo, scintilla, gemella, quella,
sorella, ma anche gorielli, ruscelli; il ricorrere
della stessa vocale tonica /i/ nei vv.23-25 da scintìlla
a incarbonìrsi; l’uso iterato del fonema /r/ nei
versi 15-18.
Montale non esita poi ad accostare termini comuni tratti dalla realtà
quotidiana, quali torcia o frusta, a sintagmi di tono più alto
quale «freccia d’Amore», evidente richiamo al lessico
stilnovistico (significativa in questo senso l’iniziale
maiuscola, anche se Montale sceglie il più prosaico freccia rispetto
al classico dardo).
In La bufera e altro, non a caso definita dalla critica una moderna
Vita nuova, frequenti sono i richiami tra i vari componimenti:
Montale insiste su figure, immagini, creando una sorta di personale
repertorio lessicale neostilnovistico. Il termine «iride»,
ad esempio ricompare in Piccolo testamento (1953) dove assume
l’emblema di una testimonianza di fede autentica, l’unica
che il poeta può lasciare a Clizia (definita «strana sorella»
in La bufera); Iride è anche il titolo di un
componimento della sezione Silvae dove alle immagini del volo
legate alla donna si sostituiscono quelle della caduta; «d’Amor
l’arco del tuo ciglio» e «le tue pupille d’acquamarina»
in Verso Finisterre richiamano la «freccia d’Amore»
e l’«iride breve» incastonata dai «cigli»;
ritroviamo «la scintilla» in Luce d’inverno,
«la freccia» in Nel parco.
Dalla poesia duecentesca Montale riprende dunque la lode della donna e
dei suoi effetti miracolosi, benefici, l’insistenza sugli occhi,
la metafora della forza penetrante dell’Amore («risale
in profondo» del v.5, la risalita «nel cuore del macigno»,
sintagma ossimorico dei vv.8-9, la «luce scoccata dai castagni»
del v.11) e l’associazione ad immagini di luce, di calore;
se ne possono rintracciare le fonti, oltre che in Dante e in Petrarca,
nei sonetti di Guinizzelli come Al cor gentile rempaira sempre amore
dove compare anche l’immagine antitetica del fango, o di Cavalcanti,
quale Voi che per li occhi mi passaste ‘l core. Qui però
la donna è emanazione di una divinità che resta assente
e sconosciuta.
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