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Sylvia Plath,
Finisterre

di Ciro Sorrentino

Nella categoria: HOME | Analisi testuali

Qui finiva la terra: le estreme dita,
nocchiute e reumatiche, rattrappite sul nulla.
Ammonitori neri dirupi,
e il mare che esplode senza fondo,
o alcunché d'altro al di là, bianco di visi d'annegati.
Adesso è soltanto tetro, un ammasso di rocce -
soldati sbandati di vecchie, confuse guerre.
Il mare gli cannoneggia gli orecchi, ma loro non mollano.
Altre rocce nascondono i loro rancori sott'acqua.

Il precipizio ha un orlo di stelle, trifogli e campanule
ricamate si direbbe da dita, prossime a morte,
piccole al punto che quasi sfuggono alle brume.
Le brume sono parte dell'antico armamentario -
anime, rotolate nel cupo lamento del mare.
Cancellano le rocce, poi le rifanno alla luce.
Salgono senza speranza, come sospiri.
Ci passo in mezzo, mi riempiono la bocca di cotone.
E quando me ne libero sono imperlata di lacrime.

Nostra Signora dei Naufraghi va verso l'orizzonte,
le sue vesti di marmo sventolanti all'indietro come ali.
Assorto a lei s'inginocchia un marinaio di marmo
a cui s'inginocchia la donna vestita di nero
pregando al monumento del marinaio che prega.
Nostra Signora dei Naufraghi è tre volte il naturale,
e dolci le sue labbra di celestialità.
Non sente quel che dicono il marinaio o la donna -
è tutta presa dalla bella informità del mare.

Nastri color gabbiano svolazzano alla brezza
accanto ai chioschi di cartoline illustrate.
I contadini li ancorano a conchiglie.
"Comprate" dicono: "I bei gioielli che il mare nasconde,
piccoli gusci che fanno bamboline e collane.
Non vengono dalla Baia dei Morti laggiù,
ma da un altro posto, azzurro e tropicale,
dove non siamo mai stati.
Comprate le nostre frittelle, mangiatele ancora calde".

Analisi testuale

Il verbo epifanico

La nostra analisi non può che partire da questo periodo logico "Qui finiva la terra", volutamente collocato da Sylvia Plath all'inizio dei versi per creare un "diversivo", quasi volesse sviare l'attenzione dal luogo e dal momento "estatico" da lei vissuto. Vogliamo sottolineare come abbia esordito con un tempo all'imperfetto, siglando tutti gli altri predicati al presente, e questo per evidenziare che, laddove si era spinta per trovare una risposta, non ha trovato altro che l'assenza, l'irriducibile insolvenza della realtà. È come se le sue ultime vette scalate (leggi vite), ancora una volta fossero rimaste consunte e sfiorite, irrigidite sul baratro di uno spoglio orizzonte. Fatta questa necessaria premessa, possiamo rileggere l'intero verso e comprenderne il senso di intimo e aperto dialogo con il suo io, sempre esposto alla vertigine provocata dalla vita stessa. "Qui finiva la terra: le estreme dita, nocchiute e reumatiche, rattrappite sul nulla".

Logica e immaginazione

Detto questo, vogliamo ribadire con forza come Sylvia Plath non appartenga affatto a quel filone della poesia "confessionale" e quanto riduttivi siano i giudizi espressi da quella parte della critica che ha ravvisato sempre "interferenze" biografiche nel tessuto poetico di Sylvia Plath. E con questa nostra affermazione non intendiamo sostenere la tesi che "inferenze" e "pulsioni" dell'io profondo, a volte sconosciuto, siano separate dal bisogno e dall'urgenza di scrivere, vogliamo dire che tali "suggestioni" costituiscono solamente un inizio, sono la stazione di partenza per un poeta, che una volta "impugnata" la sua penna, viene preso da un "trasporto" a lui stesso anonimo, per cui gli resterà ignota la stazione d'arrivo. Dissentiamo, quindi, da quanti hanno provato a dare una spiegazione di questa lirica, riducendo l'analisi ad un viaggio reale, in un luogo geograficamente definito. In base alla nostra tesi, volendo accettare che di località reale si tratti, ciò non significa che Sylvia Plath si sia persa nell'emozione suscitata dalla vista del paesaggio circostante. Piuttosto, proprio la visione del panorama, la sua particolare conformazione, le luci e i suoni che gli appartengono, hanno spinto la sua fantasia a tuffarsi nel mare della logica, la sua "scienza del tutto", fatta di istanze ermeneutiche e metafisiche che sono e rappresentano Sylvia Plath, la sua coscienza assoluta e autentica, unica come quella di un "grillo parlante".

Preveggenza filosofica

Tornando all'analisi dei versi, abbiamo in precedenza affermato che "laddove si era spinta per trovare una risposta, non ha trovato altro che l'assenza", quella stessa assenza di cui ha sempre avuto sentore, e che ancora le lascia dubbi e perplessità, una gelida devastante sensazione di "sconcerto". La vediamo agitarsi tra cupe divinazioni e un moltiplicarsi di ipotesi che, ad una ad una, precipitano nell'abisso già presupposto e "sentito" dalla sua coscienza; e nella tetraggine di quel precipizio, in quella "distanza" incolmabile tra la sua vita e l'agognato altrove, Sylvia Plath può solo constatare che ogni umana congettura, anche la più logica, inevitabilmente viene smentita dall'incolore ed evanescente insolvenza della vita. Rileggiamo l'intero periodo: "Ammonitori neri dirupi, e il mare che esplode senza fondo, o alcunché d'altro al di là, bianco di visi d'annegati". Questa sottile metafora, fatta d'emozione e ragione, di misticismo e scienza, per noi apparenta Sylvia Plath agli esponenti della filosofia teoretica, ai grandi pensatori che si sono interessati a questioni metafisiche e gnoseologiche: l'essenza e le ragioni profonde dell'essere, il divenire, la dialettica, l'ontologia, le possibilità conoscitive dell'uomo.

Il lanternino di Diogene

La sua ricerca estrema l'ha spinta talmente oltre le umane possibilità che ogni suo verso "illumina" e fornisce stille di saggezza: quasi avesse ottenuto la "quadratura del cerchio", riesce a riconoscere il funereo squallore di un presente che travolge fedi e certezze, riducendo tutto ad un misero groviglio di dogmi, ad un intrecciato scontro di idoli e simulacri, ormai screditati dalla loro stessa conflagrazione. Si presti attenzione al verso "Adesso è soltanto tetro, un ammasso di rocce - soldati sbandati di vecchie, confuse guerre", ma soprattutto si rilevi la differenza tra il richiamo al passato, di cui si è già detto in apertura, e l'avverbio "adesso" che indica una lungimirante "prudentia", da Platone altrimenti detta "saggezza". Al riguardo, ci sembra opportuno ricordare che, prima delle quattro Virtù Cardinali - sia per Tommaso d'Aquino che per Aristotele -, la "prudentia" consente di raggiungere quadri superiori di conoscenza, perchè un'equilibrata riflessione sul passato fornisce una corretta visione del presente e la capacità di saper guardare al futuro. Un ulteriore riferimento lo riscontriamo nell'iconografia occidentale, che identifica gli attributi della "prudentia" nello Specchio e nel Compasso. Dunque, l'implicito invito è quello di porsi di fronte ad uno specchio, c'è forte il richiamo alla lungimiranza, a sapersi orientare negli oceani del non - senso, e Sylvia Plath, che sente e percepisce l' "altrove", la perfezione del cerchio che salva ed emancipa, grida con tutta la forza del cuore la sua verità. E tale verità è quella "del non sapere", del "mettersi in discussione", "della continua ricerca", perchè solo riuscendo a mediare tra le dimensioni conosciute e quelle ignote, si può coltivare un nuovo fiore, il fiore della saggezza e della prudenza, il fiore che libera dalle zavorre e dalle finzioni per spingere sui sentieri dell'amore vergine ed immacolato.

Le catene della vita

Fatta salva questa precisazione, rientrando nei parametri della nostra indagine, è da rilevare che nel turbinio dei pensieri, Sylvia Plath riesce ancora a distinguere come la vita sia stretta nella morsa dell'incoerenza e come flussi di energia provino ad emergere per lanciare "siluri" e aprirsi un varco negli universi infiniti: "Il mare gli cannoneggia gli orecchi, ma loro non mollano. Altre rocce nascondono i loro rancori sott'acqua". E seppure un burrascoso mare stordisce con onde impetuose, le attese di Sylvia Plath non sbiadiscono, anzi, dalla purezza rigeneratrice dell'acqua, attingono forza e si tramutano in pungente ribelle amarezza. Ma la "tregua" è breve, al margine tra il tutto e il nulla, riconquista spazio il cupo abisso, solo in apparenza fregiato di luci e colori, perché le "campanule", secondo antiche leggende, evocano la morte che sopravviene in breve tempo. "Il precipizio ha un orlo di stelle, trifogli e campanule ricamate si direbbe da dita, prossime a morte, piccole al punto che quasi sfuggono alle brume": quello che veramente cattura l'attenzione sono le "dita" (leggasi vite) divenute "piccole", come se le lancette dell'orologio in un lampo fossero scorse all'indietro, tanto da riportare l'essere al momento della nascita e infine "nel non si sa dove". Il ritorno ad un passato "neonatale", di cui non si ha coscienza (anche se Sylvia Plath, con quel "quasi", intende che ne ha percezione), sembra svincolare l'io dagli impedimenti di una realtà che confonde e smarrisce. Ed è giusto dire "sembra", perché, appena si mette in movimento il processo di crescita fisica e intellettuale, le "brume", gli insuccessi, i dolori segnano l'esperienza e la conoscenza, lasciando all'essere una difformità di volti tanto che i vari ego sono ancora e sempre travolti dagli infingimenti della realtà. Tra sinistre onde e flussi minacciosi, Sylvia Plath riconosce i suoi sogni, e li vede svanire come aliti senza peso: "Le brume sono parte dell'antico armamentario - anime, rotolate nel cupo lamento del mare. Cancellano le rocce, poi le rifanno alla luce. Salgono senza speranza, come sospiri".

Il mito fatto persona

D'altra parte nelle "brume" è velato un richiamo al mito, nello specifico alle Moire, le tre figlie di Zeus e di Temi: Cloto filava lo "stame" della vita, Lachesi lo avvolgeva sul fuso e stabiliva quanto filo spettasse a ogni uomo, Atropo con le sue cesoie, lo recideva inesorabilmente. Ad Atropo, colei cui non si può sfuggire, la dea "inflessibile", era assegnato il compito di recidere il filo della vita del singolo, decretandone il momento della morte. Alla luce di questo "indizio" mitologico si leggano i versi "Ci passo in mezzo, mi riempiono la bocca di cotone. E quando me ne libero sono imperlata di lacrime". Sylvia Plath "sente" avvicinarsi la prossima fine (i fili "di cotone" ne sono documento) e si scioglie in un pianto trasparente e lucido, un pianto liberatorio: con la morte finiranno le sue pene, la sua anima sarà libera di ascendere e librarsi nella freschezza di nuovi orizzonti. La raggiunta consapevolezza della turpitudine che sovrasta la vita terrena rende Sylvia Plath padrona assoluta della sua essenza, ormai, lei stessa mito, può sedere al fianco degli déi dell'Olimpo: ed in lei riconosciamo "Nostra Signora dei Naufraghi (che) va verso l'orizzonte, le sue vesti di marmo sventolanti all'indietro come ali".

Una deificazione in progress

In Sylvia Plath, la donna/dea, si fondono due spiritualità ormai divenute inviolabili: "Assorto a lei s'inginocchia un marinaio di marmo (Sylvia stessa che ha esaurito il suo tempo terreno) a cui s'inginocchia la donna vestita di nero (l'irriducibile Atropo) pregando al monumento del marinaio che prega". Dicevamo in precedenza che, secondo il mito, le Moire erano tre, e che, a nostro avviso, Sylvia Plath assurge al regno degli dèi, riunificando in se stessa i poteri soprannaturali di Cloto, Lachesi e Atropo; ulteriore conferma, semmai ce ne fosse bisogno, viene da questo lirico trasporto: "Nostra Signora dei Naufraghi è tre volte il naturale, e dolci le sue labbra di celestialità. Non sente quel che dicono il marinaio o la donna - è tutta presa dalla bella informità del mare". Sylvia Plath gestisce il filo della sua vita, può scrutare il mondo dall'alto del suo celeste trono, osservare quanti inconsapevolmente finiscono per immiserire le loro già sbiadite esistenze: "Nastri color gabbiano svolazzano alla brezza accanto ai chioschi di cartoline illustrate. I contadini li ancorano a conchiglie". Si noti il contrasto tra il bianco "color gabbiano" e i colori delle "cartoline illustrate", ma soprattutto si noti come quei "nastri" servano per fermare le fugaci luci e gli effimeri colori delle "cartoline" che il vento scuote, quasi volesse smaterializzarle.

Oltre il soprannaturale

"Nostra Signora dei Naufraghi è tre volte il naturale, e dolci le sue labbra di celestialità": possiamo dire che, se da una parte, si realizza l'identificazione con la natura, dall'altra, si sviluppa un superamento in termini di perfezione, perché all'insondabile e assurda realtà - che disorienta la mente e l'anima, elargendo odiose e amare gocce di pianto -, Sylvia Plath oppone la sua libera essenza e la sua "scienza del tutto". Si noti come miseri individui cerchino di utilizzare per fini utilitaristici ciò che invece simboleggia un disinteressato e sincero amore per la conoscenza. Ci riferiamo a quei "Nastri color gabbiano" trattenuti a terra, quasi rapiti e immobilizzati dagli uomini, così incapaci di vivere la bellezza e la leggerezza dell'esistenza, di immergersi nella luce e partecipare profondamente all'armonia che tutto permea. La perfezione e l'armonia, ovvero quell'equilibrio cui fa riferimento Richard David Bach nel suo racconto, "Il gabbiano Jonathan Livingston", nel quale il volo di un gabbiano è inteso come esercizio mentale, per avvicinarsi ad un superiore livello di esistenza e vivere secondo un'ideale di libero ed autentico amore.

Un tuffo nel mare della speranza

L'immagine del volo scopre la totale assimilazione tra l'animo di Sylvia Plath, che rappresenta in versi le sue aspirazioni, e la natura del gabbiano pronto a librarsi in uno spazio epifanico. Ma la realtà di questa vita si oppone alla perfezione, perchè quei "Nastri color gabbiano", saldamente fissati dalle avide mani dell'uomo, possono solo sventolare "alla brezza" che irrompe nell'aria: un flusso bruciante sembra accompagnare le discese e le risalite delle bianche ali, ultimi simboli di libertà. Questa condizione esterna sospende quasi il volo mentale, perché l'orrida umana realtà innalza le sue terribili lance contro i desideri e le aspettative, minando la possibilità stessa di una rinascita. Le tensioni nascoste nella "Baia dei Morti laggiù", sembrano riaffiorare e mischiarsi alle lancinanti pene dettate dalla vita, una vita irta di situazioni difficili e pesanti da sopportare. Eppure, nonostante il peso di tale condizione psicologica di alienazione e di estraniamento, "Nostra Signora dei Naufraghi" non sente "quel che dicono il marinaio o la donna - (perché) è tutta presa dalla bella informità del mare". A ben vedere è proprio questo medianico contatto con l'oltre che garantisce all'io di ritrovare la forza per superare il dolore e riacquistare l'energia per alzare la testa e guardare l'orizzonte, affrontando la bufera che stravolge ogni forma d'armonia. Con ritrovata fiducia, Sylvia Plath prosegue nella sua ricerca del varco che la condurrà alla salvezza eterna, in un'isola felice, in una dimensione libera dalle finzioni di un mondo allucinato e disarmonizzato. Sylvia Plath sa che il cammino è ancora lungo e difficoltoso, sa che un pensiero felice può perdersi nel nero abisso della disperazione e dello sconforto. Eppure, in lei c'è qualcosa di diverso e più profondo, un'intima e superiore energia che sostiene il suo estatico ed epifanico volo: la sua ricerca dell'oltre è simbolo e manifestazione di un fuoco divino, segreto ed interiore, che le fornisce la possibilità di aderire ad una ragione di vita ed oltrepassare ogni naturale ed umano limite. "E quando me ne libero sono imperlata di lacrime": così, dall'alto della sua raggiunta perfezione, può liberare tutta l'energia costretta nelle zone buie dell'inconscio e risalire dagli abissi dell'inconsistenza, sciogliendosi in un pianto di gioia e di soddisfazione emotiva e psicologica.

La poesia dell'anima

Sylvia Plath scruta il mondo, osserva l'affaccendarsi degli uomini, il loro adunarsi presso accoglienti ritrovi, i "chioschi" dove si vendono i tesori della natura, una natura saccheggiata per costruire piacevoli quanto effimeri simboli di vanità; i bottegai invitano a comprare "I bei gioielli che il mare nasconde, piccoli gusci che fanno bamboline e collane". Ed ancora invitano all'amenità: "le nostre frittelle, mangiatele ancora calde". È in questa chiusura lirica che Sylvia Plath scopre il tragico nulla e lo rappresenta, mimetizzandolo ad arte, in immagini trasparenti e naturalistiche, in ambientazioni che si scoprono colme di misera esuberanza. Da una natura permeata dallo stesso mistero del cosmo, si passa alla natura popolata da uomini che non sanno elevarsi e raccogliere i mormorii e le voci dell'eterno infinito, che le brezze raccolgono e propagano in ogni direzione. Sylvia Plath ha raccolto le voci che questa natura "altra" le reca, una natura straniata e straniante che salva, salva e riscatta nel momento stesso che diffonde l'antica e primordiale saggezza. Tale saggezza, la "scienza del tutto", ignota e sconosciuta agli uomini, è custodita nei versi Sylvia Plath, in un canto che si fa impercettibile voce della vastità che lei rappresenta e che ha saputo significare in una stilla d'acqua, in un petalo, in una piuma. É nelle piccole cose che Sylvia Plath ricerca e coglie la magnificenza e la sostanza divina di quegli universi paralleli che si intersecano e che attraversano ogni essere. Ma gli uomini, delle piccole cose, non cercano l'intrinseca bellezza, desiderano solo fregiarsene e poter dire che i loro "gioielli" "Non vengono dalla Baia dei Morti laggiù, ma da un altro posto, azzurro e tropicale, dove non siamo mai stati".

Lo spazio salvifico

Giunti al termine della nostra analisi, ci sembra opportuno dire che Sylvia Plath riuscirà ad aderire alla perfezione, nell'attimo di una quiete contemplativa, quando il manichino che traghetta lo spirito, in questa non ben definita realtà, lascerà l'anima libera di "sentire" altre dimensioni. Ma quali sono queste dimensioni? Sicuramente quelle che offrono, alle segrete pulsioni profonde dell'io, la possibilità di riconoscersi e di ritrovarsi nell'essenza mistica ed ignota, e perciò stesso divina, di un nuovo respiro di vita. Ecco allora che sorge la speranza di oltrepassare la soglia di questo mondo di delirante pazzia, la stessa che, se da una parte, mostra il vero oltre le apparenze e le contingenze, in altro modo, rende poi tristi, perché la consapevolezza procura pena e dolore irrisolvibili. L'uomo, o meglio la coscienza, si ritrova avvinta da forze oscure, da un contraddittorio esistenziale che annebbia il pensiero e trascina nel baratro fagocitante dell'insolvenza che non paga e che, piuttosto, tragicamente delinea il dramma della vita. Intorno all'anima, che pure nell'estasi si ritrova, si avvolgono ancora e sempre le spire di contingenze e straniamenti che intorpidiscono il pensiero togliendo l'energia necessaria a ritrovarsi nell' "Eden", nell'unico spazio dove si rende possibile essere vivi. La felicità per Sylvia Plath esiste ed è raggiungibile a patto che ci si lasci guidare da quell'apparente follia che libera dai vincoli dell'umana visione (non si tratta di delirio, ma di quello che i filosofi antichi definivano prudenza, saggezza, conoscenza). Ma di quale visione parliamo? Sicuramente non di quella fornita dai cinque sensi, che non mostrano tutto quello che ci circonda, ma di ciò che è sempre stato: la Stasi, Dio, l'Assoluto, o come meglio si creda definire il cerchio di fuoco ed amore eterno in cui, da cui e per cui si delinea e si svolge il tempo dell'esistenza. In alcuni passaggi sembra quasi che Sylvia Plath indietreggi smarrita, che dichiari le sue perplessità, i suoi dubbi che sconvolgono, togliendo la serenità a quanti cercano un "ubi consistam". Ma in quell'apparente "resa", in quell' "assenza" di senso, avviene l'epifania, la rivelazione, la scoperta che un universo d' "ombre", fatto di pensieri, timori e suggestioni conduce e salva nello spazio ultraterreno dell'eternità, dissolvendo le distanze tra l'uomo e l'infinito. I versi di chiusura, che sono invocazione alla comprensione, sanciscono e decretano la posizione assunta da Sylvia Plath, dell'io che si interroga allo specchio e si ritrova. Proprio la capacità di comprendere e rappresentare la monotonia della vita terrena salva e conduce sui sentieri dell'oltre. Già l'oltre, l'impercettibile oltre che, ancor prima d'essere fuori dal nostro io, è esso stesso umana sostanza e scintilla divina, essenza di liquida roccia eterna che si è liberata negli oceani immensi, dando sapore e scienza all'esistenza.

 

Ciro Sorrentino nasce a Torre del Greco il 08/04/1964. Cultore di studi umanistici, si è specializzato nell'esercizio di una pluriennale docenza. La sua ricerca spazia dalla letteratura moderna e contemporanea alla filosofia teoretica. Recensore e critico pirandelliano, ha pubblicato il saggio Luigi Pirandello. La coscienza della realtà su Letteratour. E' poeta, articolista e collaboratore del sito Le perle del cuore. Attualmente gestisce quattro siti intitolati a Sylvia Plath.

 

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