Il Calamaio Bianco

Tra le righe dell'Albania

Il sangue acqua di Haris Valvianòs

apr 242021

Qualche mese dopo il vostro arrivo a Roma, tua madre si innamorò di un americano enorme che dopo la guerra e dopo essere stato in Corea, fece carriera a Cinecittà come protagonista nei film di gladiatori. Aveva interpretato anche un centurione romano in Spartaco. Non faceva altro che sollevare pesi, inghiottire polveri e mangiare insalate. Ti aveva regalato anche una spa da. Era appartenuta, ti disse, a Kirk Douglas. Lei era talmente innamorata che finanziò il film Il tesoro della foresta pietrificata solo per fargli ottenere il ruolo principale. Un fiasco clamoroso. Per fortuna, dopo un po’ comparve all’orizzonte un altro uomo – in grado di aggiustare i conti. L’americano se ne andò da casa vostra in malo modo, ma si lasciò dietro la spada. 

Haris Vlavianòs nasce a Roma nel 1957, dove trascorre i primi anni della sua infanzia, fino a quando non si trasferisce in Grecia in compagnia della sua mamma, mentre il suo papà si stabilisce in Brasile con la sua nuova famiglia. Il giovane fa un percorso di studi che si divide tra Bristol e Oxford ed è qui, che dopo aver terminato un dottorato, ha un'esperienza di insegnamento che dura cinque anni. 

Decide poi, di tornare a vivere in Grecia, dove insegna Teoria Politica, Storia e Relazioni Internazionali. Per circa quattordici anni dirige la rivista "Poesia", da lui fondata e oggi edita dalla casa editrice Patakis, una delle maggiori in Grecia, presso la quale Vlavianòs ricopre il ruolo di direttore editoriale. Per i suoi meriti di letterato è stato insignito nel 2005 del titolo di Cavaliere dell'Ordine d'Italia. Vlavianòs non è solo uno scrittore, ma è anche un grande traduttore e grazie alla sua impegnativa opera di trasposizione, sono entrate in Grecia l volumi di grande spessore letterario.

Il sangue acqua è un libro dall'impronta marcatamente autobiografica. Il breve romanzo in 45 atti, come lo stesso autore lo definisce, traccia il suo percorso di vita, dall'infanzia, all'adolescenza, fino all'età adulta. Una narrazione che si incentra prevalentemente sulle emozioni derivanti dal rapporto che l'autore ha avuto con la madre e con il padre. Il sangue acqua non è un titolo scelto a caso: vuole essere l'emblema dell'influenza che i rapporti famigliari possono avere sulla crescita dell'individuo. Vlavianòs racconta la sua esistenza, si mette a nudo e vuole sottolineare con la sua scrittura elegante nella sua semplicità e con uno stile musicale e armonioso, quanto le azioni genitoriali errate possano modificare in negativo il percorso di un figlio. Un romanzo forte, che consegna al lettore un messaggio di vita importante, stemperato da un sottofondo di sarcasmo e leggerezza. 

I legami famigliari sono stati spesso alla base della poetica di Haris Vlavianòs e in questo Il sangue acqua, l'autore si mette a nudo forse più che altre volte. I rapporti con i genitori non costituiscono l'unico argomento alla base del romanzo: è fortemente presente anche un'analisi profonda dell'Io e una ricerca della propria identità. Un libro di una potenza disarmante, consigliato a chi ha voglia di una buona lettura e di un romanzo che offra corposi spunti di riflessione. 

                                                                                                                                                                      U Calamaru

 

 

 

Negli occhi di lei. Antologia di scrittrici ucraine contemporanee, a cura di Lorenzo Pompeo

apr 182021

Di domenica, fino all’alba, dopo l’alba e il tramonto del sole, fino alla messa, durante le letture del Vangelo e dopo la triplice benedizione del sacerdote, a Tysova Ryvnja, a piena voce o con sussurri di un’altra conversazione rispetto a quanti sostengono che

                                 O scoppierà una nuova guerra,
                          oppure sul paese cadrà un’altra punizione,
                          e l’ora della pace toccherà agli uomini
                                   forse solo dopo la morte.


Ma così non fu e non poteva essere.Perché né a Tysova Ryvnja né altrove, dove si fosse posato il piede di quei soldati di tutto il mondo e di quei commercianti di tutto il mondo, di quei villaggi circondati dalle montagne e battuti dai venti, ai quali è piaciuto il nome dell’albero più resistente di tutti, il tasso, a nessuno, né a un duro né a un fifone né ad altri, era mai capitato un tale prodigio: una persona sana come un pesce alla sera, al mattino rimane a dormire sul fienile per tre anni lì sul posto dove si era addormentato. E lui era rimasto a dormire notte e giorno non durante le feste di Pasqua o dopo la lettura delle carte, ma proprio così:davanti agli occhi della cognata, che per poco non era svenuta, un mattino, dopo tre giorni di non esistenza, si era alzato, aveva contemplato, non riconoscendole, le pareti, e anche se non troppo risolutamente, era riuscito ad arrivare con le sue gambe alla porta, per raggiungere a tentoni, dopo il sonno notturno, la latrina. Dopodiché, come riferiscono poi i volontari dello spettegolare sulle sciagure e le fortune altrui, ai fifoni si drizzarono i capelli, ai duri gli occhi si trasformarono in sale. Perdona, o Signore, tutti questi rumori, queste bugie e queste fantasie. L’unica verità consisteva nel fatto che Timofij Sanduljak, un sabato mattina, se ne tornò dall’altro mondo, dove a nessuno era ancora toccato in sorte di trovarsi e di tornare da lì vivo. E il fatto che Sanduljak si fosse trovato all’altro mondo, a Tysova Ryvnja non lo metteva in dubbio neanche un bambino piccolo e non lo dicevano solo gli ammuffiti giusti, i riconosciuti guaritori, ma anche i ladri belli e fatti e gli imbroglioni matricolati.

– E tu chi sei? – Timofij strabuzzò gli occhi ancora un po’ assonnati, un po’ ubriachi e gonfi, guardando la nuora Sofia, alzandosi dal letto sorprendentemente certo che a un estraneo, qualora una cosa del genere fosse successa a casa, poteva apparire così: un uomo che non aveva fatto in tempo a fare un sonnellino come si deve, e poi dei levrieri inquieti o un onnipresente vecchio spiritello della casa lo avevano spinto a fare qualche marachella nel podere. Sofia proprio in quel momento spingeva nella stufa con l’attizzatoio la forma con l’impasto per il pane. Così per la sorpresa, anche se lo avesse voluto, non sarebbe potuta cadere che sulla panchina fredda vicino alla stufa.

L’attizzatoio in un attimo le cadde dalle mani, colpendo le dita dei piedi ma, spaventata a morte com’era, Sofia non se ne accorse nemmeno. Per un attimo guardò senza capire, inorridita, quasi fuori di sé, il vecchio canuto nudo, simile a uno scheletro, con la pelle secca e con i capelli grassi che gli pendevano, con la lunga barba bianca, il quale taceva, ma le andò incontro con decisione strappandosi dal naso, mentre camminava, il sottile e trasparente tubicino. (estratto di Apocalypsis di Maria Matio)

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Negli occhi di lei. Antologia di scrittrici ucraine contemporanee, edito Besa Muci 2021, AA.VV. di Lorenzo Pompeo, curatore e traduttore dell'opera, è una raccolta di racconti interamente dedicata alla prosa femminile ucraina. Sono diverse le narrazioni che la compongono, differenti per stile, contenuti, messaggio che contengono, tutte nate dalla penna di autrici ucraine protagoniste assolute del panorama letterario del loro paese, ma pressoché sconosciute in Italia. Decisamente particolare la prosa femminile ucraina e fortemente interessante, non solo analizzandola dal punto di vista letterario, ma anche da quello socio-culturale. Basti pensare che la lingua stessa è stata potentemente influenzata dalle vicissitudini che la nazione ha attraversato e proprio per questo, scrivere in ucraino non è così scontato e semplice, come può essere per qualsiasi scrittore di qualsiasi altra nazione. Una raccolta, quindi, che contiene "un campione variegato di scrittrici", già molto differenti tra loro, per scrittura e contenuti riportati, che appartenenti a epoche differenti, rendono alquanto difficoltosa la ricerca di punti in comune tra loro. Quello che si può, con certezza, ammettere che questo Negli occhi di lei, consegna al lettore una lettura che sa di nuovo, di grande impatto emotivo e offre spunti di riflessione e ragionamenti su una realtà letteraria, che merita tutta l'attenzione del lettore italiano. Ci piace concludere questo breve articolo con un significativo estratto dall'introduzione di Lorenzo Pompeo

Un altro elemento importante che vale la pena mettere qui in luce è il ruolo della città di Kyjiv, unico e centrale nella prosa di queste autrici. La capitale rappresenta il centro dove converge la vita culturale del paese, il luogo dove pulsa la vita moderna, l’unica vera e propria me-tropoli ucraina. Anche le scrittrici nate nelle regioni più remote prima o poi quasi sempre si trasferiscono a Kyjiv. Per diversi motivi le storie ambientate in altre regioni assumono un colorito locale, una sorta di “retrogusto provinciale” che però può aggiungere un sapore caratte-ristico a una narrazione (come nel caso del racconto di Maria Matios). Tuttavia in quasi tutte le autrici vi è un rapporto ambiguo con la metropoli: malgrado rappresenti la meta, il punto di arrivo, una volta raggiunto, vi affiora subito un sottile senso di disagio e di disorienta-mento, legati solitamente alla delusione delle promesse di una vita migliore. Ed è anche per questo che molte protagoniste delle storie ambientate a Kyjiv sognano terre lontane, viaggi in luoghi esotici o semplicemente un luogo dove sia possibile trovare una realizzazione nella sfera lavorativa e/o sentimentale, dove le due sfere possano convivere in armonia.

Ottanta infinto di Leonard Guaci

gen 282021

Il romanzo di Leonard Guaci, Ottanta infinto, edito da Besa Muci e in uscita oggi 28 Gennaio, è un delicata e forte incursione in quelli che possono essere definiti gli anni più controversi e duri della storia italiana contemporanea.undefined Gli anni Ottanta, hanno affascinato, intristito, entusiasmato, bloccato e mutato l'animo di chi li ha vissuti e Leonard, ragazzino guardava questa epoca attraverso la televisione italiana, rimanendo colpito dalla figura di Calvi e da tutto quello che si snoda intorno a questo personaggio. Ne nasce un libro che è un vero e proprio excursus in un'epoca fatta di cose non dette, di situazioni strane e di trame cucite da un orlo sottile nel suo spessore. Ed è così che si sbizzarrisce Guaci, con uno stile armonico, nella sua semplicità, che a volte strappa un sorriso e molte volte vorrebbe tirare fuori un impeto di rabbia, trattenuto dal freno inibitore del buon senso. Una valigia, un rapimento, tutto in sintonia con i fatti che accadono in quell'epoca controversa e per certi versi paurosa. Fatti creati ad arte, che portano a incuriosire e a indagare su quanto accade in un periodo buio. Un romanzo questo Ottanta infinto, che nasce da una penna curiosa, dal corretto italiano e dalla scrittura sinuosa, che colpisce e coinvolge. 

                                                                                                                               Marco Carrera

Beate Baumann presenta E in mezzo: io di Julya Rabinowich, prossimamente in libreria

gen 032021

E in mezzo: io di Julya Rabinowic

Da dove vengo? Non importa. Potrebbe essere da qualsiasi luogo…

Madina ha 15 anni, è fuggita insieme alla sua famiglia dalla guerra ed è arrivata a Vienna, dove finalmente inizia a sognare un futuro migliore. L’integrazione però non è cosa facile e a lei tocca assumere il ruolo di mediatrice tra la famiglia, che vive in un centro profughi e la vita sconosciuta fuori. Le notti inquiete e il rapporto tormentato con il padre, che non vuole lasciarsi il passato alle spalle, non fermano Madina, che grazie alla sua compagna di scuola Laura troverà accoglienza in terra straniera.

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 “Potrei usare due parole per definire il romanzo: voce e ponte. Julya Rabinowich ha voluto dare voce a chi non ce l’ha, a persone costrette ad abbandonare la propria terra e i propri cari. Lo fa attraverso la protagonista, fuggita dalla guerra, ritrovandosi così, in un nuovo mondo. La voce di Madina racchiude un po’ tutto; da un lato la delicatezza e l’ingenuità straordinariamente sincera, dall’altro la chiarezza e la determinazione. I due punti, inseriti nel titolo, stanno a simboleggiare proprio quel ponte, dato dalla voce che funge da collegamento. Madina si trova nel mezzo, tra il mondo occidentale e quello orientale, tra l’universo degli adulti e quello dei ragazzi. La lingua diviene lo strumento, che trasforma la voce in una sorta di ponte, che permette a Madina di approdare nella nuova terra, sviluppando le proprie radici e le propria identità. La giovane incarna una voce contemporanea, una di quelle voci silenziose molto presenti nella nostra società, che gli altri faticano a sentire, perché, infondo, sono di persone trasparenti. E in mezzo:io, è un libro che sottolinea la sensibilità della Rabinowich nei confronti delle problematiche dei profughi. Julya ha lavorato presso un centro di accoglienza per rifugiati ceceni, dove ha ascoltato e dato voce a racconti scioccanti e angoscianti. Direi che la figura dell’interprete si identifica con il ponte tra le lingue.”

                                                                                           Beate Baumann

                                                                                                                 

Dieci giorni in manicomio, il libro denuncia di Nellie Bly

lug 072019

Elizabeth Jane Cochran, (1864-1922), conosciuta come Nellie Bly, è stata la prima giornalista investigativa e la più grande cronista infiltrata della storia. Statunitense, fu protagonista di coraggiose inchieste a fianco dei più deboli - donne, bambini, carcerati - e di un importante servizio giornalistico sulla I Guerra Mondiale. Una grande donna, in un lavoro all'epoca considerato da uomini.
Celebre il suo viaggio da cronista intorno al mondo — ispirato al libro di Jules Verne Il giro del mondo in 80 giorni — con partenza da New York il 14 novembre del 1899 per percorrere 40.000 chilometri in 72 giorni.

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La sua prima inchiesta, se non una tra le più famose, fu quella da infiltrata, che nel 1887 a ventitré anni la portò nel manicomio femminile dell’Isola di Blackwell — oggi isola di Roosevelt — nell’East River di New York. Elizabeth si finse malata di mente e vi fu prontamente portata, cosa per niente difficile per le donne dell'epoca. Qui la reporter rimase chiusa per ben dieci giorni.  

Da questa terribile esperienza nacque un grande e interessante articolo, che in seguito divenne un libro  Ten Days in a Mad-House - Dieci giorni in un manicomio -. Il servizio, fu dato alle stampe, per andare incontro alle richieste dei lettori, a oggi ancora numerose. 

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La sua inchiesta non fu vana: ne scaturì, infatti, un'indagine giudiziaria e furono presi seri provvedimenti affinché la gestione del manicomio garantisse una buona permanenza alle pazienti. La città di New York, viste le condizioni denunciate dalla giornalista, decise di stanziare   un milione di dollari in più all’anno per la cura e l’assistenza alle persone affette da disturbi mentali.

"Così ho avuto almeno la soddisfazione di sapere che i poveri sfortunati saranno curati meglio grazie al mio lavoro."

Non che le condizioni del manicomio di Blackwell non fossero note, per carità, già si sapeva qualcosa, già qualche grido di denuncia c'era stato. Ma era fondamentale essere sul posto, serviva una testimonianza reale: per questo motivo, il direttore del quotidiano di New York World chiese a Elizabeth Cochran di infiltrarsi e documentare fedelmente le sue esperienze. Nellie Brown, così si sarebbe chiamata in manicomio e avrebbe poi firmato l'articolo con lo pseudonimo di Nellie Bly.

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Piacere e rimpianto diceva di provare Elizabeth al suo rilascio: il piacere per la ritrovata libertà e il rimpianto per aver lasciato nella sofferenze donne altrettanto sane. 

Nel ruolo di Nellie Brown, la giornalista riuscì a simulare atti tipici delle persone con problemi mentali: una volta raggiunto l'obiettivo e quindi rinchiusa tra le quattro mura del manicomio, iniziò ad avere atteggiamenti normalissimi, ma più si comportava normalmente e più veniva considerata pazza. 

Certi è che Nellie non improvvisò nulla: tante e davvero tante furono le prove fatte dalla donna davanti allo specchio, dove trasformava il suo volto in quello di una vera pazza. Le prime escandescenze decise di averle nella casa di accoglienza per donne lavoratrici, dove chiese di pernottare. Qui con atteggiamenti sconclusionati, riuscì a turbare la cena e la notte di tutte le altre ospiti, tanto da indurre la responsabile a chiamare la polizia. Così i due poliziotti portarono la donna davanti al giudice, che ordinò per lei una visita medica immediata, che naturalmente la dichiarò malata di mente. Così sotto gli occhi incuriositi dei passanti, Nellie fu trasferita in ospedale. Quella però non fu l'unica visita a cui la donna fu sottoposta, tutt'altro. Appena ricoverata, insieme ad altre pazienti sicuramente sane quanto lei, fu sottoposta a un'altra visita medica, in seguito alla quale fu dichiarata positivamente demente, un caso disperato e bisognoso di assistenza. Questa seconda diagnosi la condusse direttamente al manicomio Blackwell.

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A Blackwell un’ulteriore visita medica avrebbe confermato la malattia mentale e decretato l’internamento a vita di Nellie Brown e di altre quattro compagne di viaggio, tra le quali la signora Schanz, che non ebbe modo di intendere le domande o di fornire spiegazioni dal momento che conosceva solo il tedesco.
Fu all’ora di cena che Nellie Brown si rese conto della situazione. Nell’aria gelida che arrivava dalle finestre aperte, le altre residenti livide per il freddo piangevano, parlavano da sole o sedevano rassegnate sulle panche a cercare di mandar giù una specie di tè rosato, dei pezzi di pane con sopra del burro nauseabondo e delle prugne mezze marce. Naturalmente Nellie Brown non poté mandare giù nemmeno un boccone quella sera.

Arrivò così l'ora del bagno: la stanza riservata al lavatoio era fredda e umida, le donne venivano spogliate con la forza e gettate in una vasca di acqua sporca e fredda. A Nellie Brown sembrò di annegare, rimase senza fiato. Poi, sotto gli sguardi terrorizzati delle altre che attendevano il loro turno, tra i brividi che le scuotevano tutto il corpo scoppiò in una risata tipica di una persona instabile.

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Ancora bagnata le infilarono una camicia  con la scritta “Lunatic Asylum, B. I., H. 6”: manicomio per lunatici, isola di Blackwell, Padiglione 6.

Nella sua cella c’era qualcosa di molto lontano da un letto, sul quale Nellie provò a sdraiarsi per riposare, con i capelli gocciolanti e la camicia completamente bagnata. Naturalmente fu vana la richiesta di avere una camicia asciutta. secondo l'infermiera di turno, era già tanto che avesse addosso qualcosa, visto che si trovava in un istituto pubblico.

“I cittadini pagano per mantenere questi posti”, disse piuttosto stizzita Nellie Brown, “e pagano perché le persone siano gentili con le sfortunate residenti”.
“Non deve aspettarsi alcuna gentilezza qui perché non l’avrà”, fu la risposta fulminante dell'infermiera.

Quella che trascorse fu una notte da incubo: non chiuse occhio ed era terrorizzata all'idea che potesse scoppiare un incendio, perché le 1600 degenti sarebbero tutte morte. Sveglia ore 5.30, furono accompagnate ai bagni per lavarsi ed essere energicamente pettinate. 

Seguì la colazione, che aveva lo stesso tè, lo stesso pane e lo stesso burro della cena. Finita la colazione, alle degenti vennero assegnate diverse mansioni, come pulire, fare il bucato e fare i letti. Quindi non erano le assistenti a tenere in ordine gli ambienti, bensì gli stessi poveri pazienti.

Dopo aver terminato le faccende, le degenti corsero tutte verso il cortile, per la consueta passeggiata, anche se c’era freddo. Nellie Brown poté vedere anche le donne alloggiate in altri padiglioni: c’era chi si muoveva in modo ripetitivo, chi aveva uno sguardo smarrito, alcune facevano smorfie, c’erano giovani e anziane, altre erano legate con cinghie o imprigionate nelle camicie di forza.

“...una massa senza senso. Nessun destino potrebbe essere peggiore”.

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Quello che colpì ancora di più Nellie fu la bellezza dei prati di Blackwell e aveva ingenuamente creduto che potessero dare ristoro alle povere pazienti: in realtà le donne non potevano calpestarli, ma solo guardarli. Se si fossero azzardate a camminarci su, piuttosto che a raccogliere un fiore, sarebbero state punite severamente.
Quando rimanevano per ore nella sala comune, le residenti provavano a muoversi ma se si alzavano veniva loro ordinato di sedersi, se si sedevano di fianco o su una gamba di stare dritte, se parlavano o cantavano di stare zitte. Non erano ammessi libri, né quaderni o matite. Il blocchetto dove Nellie Bly aveva iniziato a scrivere le sue osservazioni fu subito sequestrato. Una serie di atroci trattamenti che avrebbero portato anche lei alla malattia mentale, molto presto.
Cibo che scarseggiava e di pessima qualità, trattamento disumano, percosse, faceva del manicomio un posto da dove uscire solo da morte.

Dopo dieci giorni la giornalista fu rilasciata e scrisse un articolo di forte impatto socio-emotivo e legale. Per questo fu invitata a comparire davanti al Gran Giurì e convinse i giurati con il suo racconto, tanto da far partire un'ispezione, durante la quale furono raccolte prove sufficienti a conferma di quanto detto dalla donna. Le prove furono raccolte a dispetto della furberia di chi aveva provveduto ad avvisare per tempo il direttore, che fece allontanare chi aveva ricevuto i peggiori trattamenti e cercò di introdurre una qualche miglioria dell'ultimo minuto.

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Non mi aspettavo che il gran giurì mi credesse,” — scrisse Elizabeth Cochran — “dopo aver trovato condizioni del tutto diverse da quelle nelle quali mi ero trovata io. Eppure è andata così e il rapporto inviato alla corte consiglia di attuare tutti i cambiamenti che avevo proposto. La mia consolazione è che grazie alla mia storia sarà destinato un milione di dollari in più all’anno, a beneficio dei malati di mente”.

Dal libro è stato tratto un film, decisamente fedele al racconto, quindi molto impressionabile, viste le scene particolarmente cruente per richiamare la realtà dei fatti.

Via col vento: un romanzo tra storia e psicologia

lug 012019

Via col vento il celebre romanzo di Margaret Mitchell, è ormai noto a tutte le generazioni e la speranza è che lo sia anche per quelle a venire. A renderlo ancora più famoso, la grande trasposizione cinematografica, che ha potuto contare su un cast eccellente. Il best-seller della Mitchell è stato più volte catalogato come romanzo rosa, ma è giusto "incastrarlo" nel genere del romanzo d'amore? Non sarebbe più giusto definirlo un libro che offre la descrizione di un grande panorama storico, con una importante impronta psicologica e una particolare attenzione all'evoluzione dei personaggi? La narrazione delle storie d'amore che si susseguono e si intrecciano nel romanzo, non costituiscono il filo conduttore del libro, bensì sono eventi intrinseci alla vita delle figure che animano il racconto. Via col vento, quindi può essere definito un romanzo storico-psicologico: vediamone il perché.

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La Mitchell offre una descrizione dettagliata e fedele della comunità dell'America del Sud, negli anni compresi tra lo scoppio della Guerra Civile (o di Secessione) e la sua conclusione, che sfocia nella costituzione di un unico stato federale. I dati storici riportati dalla scrittrice statunitense sono assolutamente corretti e precisi, esattamente come la ricostruzione che la Mitchell fa dell'epoca e della società. L'autrice ha la grande capacità di catapultare il lettore nel mondo dei grandi latifondi sudisti e di consegnare al lettore un disegno accurato di quello che è il rapporto tra padroni e schiavi neri. Si avverte sin dalle prime righe del romanzo, come quel mondo in cui la Mitchell immerge sin da subito chi legge, sia destinato a scomparire. Nel corso della storia, infatti, tutte quelle persone che circondano Rossella O'Hara, l'indiscussa protagonista femminile, sono destinati a estinguersi. Qualcuno muore in guerra, qualcuno ucciso da una terribile malattia, altri abbandonano le terre e qualcuno preferisce la vita monastica a quella laica. Una società morente, sin dalle prime battute del testo, che lascerà il posto a una nuova collettività e i veri superstiti, come Rossella o Rhett, sono gli “atipici” della vecchia società, gli impudenti rifiutati.

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Margaret Mitchell è davvero abile nel ricostruire una società realistica, in cui i personaggi, se pur della fantasia, rispecchiano palesemente chi ha vissuto all'epoca. Impossibile per il lettore, non sentire il profumo della terra di Tara, non sentire il frastuono di Atlanta, città magistralmente descritta. La scrittrice riesce a dare a ogni evento storico la sua giusta collocazione, riesce a narrare in maniera ineccepibile di malattie, carestie e soprattutto riesce a far arrivare tutto il dolore provocato dalla guerra. Si può considerare uno dei pochi libri che mostra storicamente e realisticamente la Guerra di Secessione Americana, dal punto di vista dei sudisti, cioè i perdenti. La connotazione di romanzo storico è pertanto più che appropriata.

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Parliamo adesso del lato psicologico del romanzo, che è decisamente più complesso e allo stesso tempo anche più semplice, visto che la Mitchell ha catalizzato questo aspetto del libro, quasi interamente sulla figura della protagonista, pur non trascurando gli altri personaggi. Attraverso la figura di Rossella, la Mitchell offre un'analisi psicologica a dir poco eccellente.

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 Rossella vive e cresce durante gli anni della guerra, negli Stati del Sud, passando dall'adolescenza all'età adulta. È una ragazza ricca di vitalità: la si ritrova ragazzina, per assistere alla sua evoluzione e alla sua crescita, pagina dopo pagina. Ad oggi, la figura di Rossella è considerata una tra le più straordinarie dell'intero panorama letterario mondiale. Rossella è una donna dalle connotazioni fortemente realistiche, è testarda e piena di orgoglio come il padre, un irlandese forte e deciso. È una donna grintosa Rossella, per niente ingenua, dalla forte personalità, tenuta a bada dalla ferrea educazione materna. Quella Rossella che è seduta, ferma, composta, ma che non sta ferma con gli occhi, quegli occhi verdi, vispi, vivi, che nulla hanno a che vedere con la figura di una ragazza di buona famiglia. Rossella non assomiglia alle ragazze del suo ceto, non assomiglia alle sue sorelle, non assomiglia a Melania, quella donna che, di fatto sposa Ashley Wilkes, l’amore di Rossella. Melania è dolce, virtuosa, dedita alla casa e votata al matrimonio, alla famiglia, si adegua ad ogni richiesta, è paziente e silenziosa. Rossella è di indole travolgente e a tratti aggressiva e nulla a che vedere con la dolce Melania.

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La Mitchell disegna accuratamente l'evoluzione di Rossella, da ragazzina viziata, a donna matura e responsabile. I punti di svolta della vita della protagonista si possono identificare in svariati momenti:

  • Il matrimonio con Carlo Hamilton, voluto per fare dispetto ad Ashley e Melania e sono a dir poco commoventi le pagine che narrano della sua prima notte di nozze con un marito non voluto.
  • La guerra, che la obbliga in qualche modo a prendere decisioni e a fare cose di cui non si pensava capace.
  • L’incontro con Rhett Butler, che la trascina in un tormentato rapporto tra discussioni, amicizia e amore.
  • La perdita della madre prima e la morte del padre dopo.
  • La sua resistenza a un mondo che sta scomparendo e a una società, la sua, destinata a morire.
  • Il matrimonio di interesse col fidanzato della sorella maggiore.
  • La direzione dell'impresa di legname, in una collettività che la critica per questo.
  • L’accogliere in casa sua Melania e Ashley, ridotti in povertà dopo la guerra.
  • Il matrimonio con Rhett.

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Il filo conduttore di tutte le fasi evolutive della vita di Rossella è comunque da ricercare nel suo amore per Ashley, una sorta di dannazione per la protagonista, un sentimento che si trascina per anni interi, sino a quando, dopo la morte di Melania, finalmente Ashley dichiara tutto il suo affetto a Rossella. Solo in quel momento, la donna comprende di aver idealizzato la figura del suo amato e che forse, quanto provato per lui, non è mai stato amore. Il vero Ashley, quello privo della sua idealizzazione, non le interessa. In realtà Rossella comprende di amare   Rhett, un uomo concreto e reale, che però adesso è stanco dei suoi atteggiamenti. È qui che emerge tutto il potere di Rossella, tutta la sua forza: non si abbatte ma progetta di riconquistarlo, perché “domani sarebbe stata più forte. Perché, dopo tutto, domani è un altro giorno”. Un giorno in cui rialzarsi in piedi e combattere.

Una donna vera Rossella, una donna di una potente semplicità e dal carattere complesso, una figura capace di guerreggiare, di vivere e sopravvivere. Un personaggio che va oltre i pregiudizi sociali ed educativi, capace di evolversi senza badare ai contorni della collettività. 

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