Il Blog di Anna Stella Scerbo

Uomini e donne del Mezzogiorno: mito, letteratura, storia

FRANCO COSTABILE

feb 222024

 

A cento anni dalla nascita di Franco Costabile ( 27 Agosto 1924)  riproponiamo il saggio sulla sua poesia, del 22 Aprile 2016

 

 

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“Gli ulivi e La rosa” di Franco Costabile


‹‹Un arancio
il tuo cuore,
succo d'aurora.
Calabria,
rosa nel bicchiere››.

Il poeta è sempre dentro ad una terra, ad un tempo esatto di cui scopre la sostanza più brutale, la legge dell'assurdo, del dolore e dell'ingiustizia, del distacco e dell’abbandono, della rabbia e della denuncia. La poesia di Franco Costabile è tutto questo.
E se non fosse che a tenere insieme questi sentimenti, in una sintesi di mirabile coscienza del vero, è l’ ineludibile certezza che ogni poesia da particolare si fa universale, da singolarissima e unica che nasce, si allarga all’umanità intera, quasi ci sembrerebbe che Costabile sia uno di quei poeti del Sud d’Italia che piangono la disperazione della propria terra e la propria, senza altra ragione se non quella di alleggerire il cuore dall’essersi fatto vittima di una storia ingrata e emarginante.

A Roma, il 14 aprile del 1965, Costabile si toglie la vita a soli 41 anni. Firma con questo la sua resa finale al tormento di un’esistenza amputata in tenera età dall’ abbandono del padre e straniata più tardi dal distacco dalla sua terra- Scriveva Brodskij che

“ compito della poesia, per quanto brutale possa essere il confronto con il reale, consiste nel resistere alla realtà, nel porgere un’alternativa linguistica, nel temprare il cuore ad ogni eventualità, inclusa la propria definitiva disfatta”.

Fu esattamente così per Costabile.

‹‹ Ce ne andiamo./ Ce ne andiamo via./ Ce ne andiamo /con dieci centimetri /di terra secca sotto le scarpe/ con mani dure, con rabbia con niente. […]/ Senza/ sentire più/ il nome Calabria / il nome disperazione. […]/ Troppo / troppo tempo/ a restarcene zitti / quando bisognava parlare, basta. […] Addio, /terra. / Terra mia /lunga / silenziosa. […] Cento volte/ ce ne siamo già andati /staccandosi dai rami, […]Siamo / un'altra volta /la fantasia / degli dei.[…] Addio terra./ Salutiamo, /è ora››.
Costabile è un poeta di libertà e di verità, agognate entrambe, cercate incessantemente anche al di là dei confini geografici e umani ricevuti in sorte. La sua poesia non appartiene a un non-tempo astratto, si sente dentro la volontà di affidarle un ruolo etico per affermare, dichiarare e denunciare una realtà che il poeta vede mutare nelle forme economiche, nei comportamenti, nei modi di vivere individuali e sociali e di cui coglie le forme illusorie ed effimere.

Non sono bastevoli le frequentazioni che egli aveva con altri letterati, Sobrero, Frattini, Accrocca, con i quali si incontrava in casa dello scultore Mazzullo, a dirci quale sia stata la genesi certa del suo processo interiore. Né l’amicizia con Ungaretti, di cui fu allievo all’Università, ci dà informazioni sulle ragioni letterarie e culturali che fanno particolare il timbro della sua poesia non accomunabile a quella di nessun altro poeta del Meridione d’Italia.

Costabile rimane a suo modo un poeta misterioso perché tale è l’intreccio delle vicende umane, infiniti sono i segni incisi nell’animo e il poeta sceglie quelli che rispondono, altrettanto misteriosamente, al senso che egli vuole imprimere alla propria esistenza.
Le sue raccolte, da “Via degli Ulivi” a “La rosa nel bicchiere” , al “Canto dei nuovi emigranti” testimoniano categorie eterne: l’uomo nel flusso dell’esistenza, la Calabria misera ed emigrante, i contadini schiacciati da regole crudelmente feudali, l’uomo-intellettuale che vive la disappartenenza, la disarmonia continua e dolorosa col reale
‹E la città, la grande città./ Vi arrivai una domenica d’estate./ E da allora, anche oggi,/rasento le vetrine/[…] fra le cicche e gli sputi/ raccolgo la pietà dei marciapiedi››
La realtà, in Costabile non è documentaristica né memorialistica, la Calabria è paradigma della pena del vivere. La sua vicinanza al Neorealismo è partecipazione al clima di speranza e di impegno che negli anni dell’immediato dopoguerra caratterizzò il pensiero e la produzione di svariati autori.

In “Via degli ulivi”, del 1950, la lezione del neorealismo appare secondaria ad altri influssi e la raccolta la leggiamo come un canzoniere d’amore in cui il dolore per il distacco dai luoghi amati, costituisce la trama su cui si ricama la sua storia d’amore-
‹‹E dov’erano solo fili d’erba/un poco innamorata e un poco stanca,/ ti piaceva guardare il mio paese./ E i silenzi immobili del bosco/leggevano le favole più antiche››
‹‹Amo i tuoi capelli/ riversi sulla bocca/e il tuo sorriso/ sparso nel bianco dei cuscini./Amo le tue pupille di stagno./Amo./ E dimentico ››
Il soggetto lirico rappresenta sé stesso nel racconto d’amore e già la via mediana tra scelte morali e scelte formali è raggiunta. Un tutto armonico sostanzia sentimenti e ricordi. Privi di vocazione prosastica, i moduli linguistici sono più vicini all’ermetismo, la parola polisemica e verticale, è sostanza autentica e vitale. La poesia, in Costabile, amplifica le lacerazioni dell’esistenza, fino a non poterle più esorcizzare. La prassi poetica assolutizza il suo male oscuro fino all’atto liberatorio e fatale. Ne “La rosa nel bicchiere”, seconda raccolta, i tempi sono quelli interiori della memoria soggettiva-
‹‹ Mio sud/ Mio sud,/mezzogiorno/potente di cicale,/ sembra una leggenda/che vi siano/ torrenti a primavera./ Mio sud,/ inverno mio caldo/ come latte di capre,[…] Mio sud,/ pianura mia,/ mia carretta lenta./Anime di emigranti/ vengono la notte a piangere/ sotto gli ulivi,/ e domani alle nove/ il sole già brucia, i passeri/ a mezz'ora di cammino/ non hanno più niente da cantare./ Mio sud,/ mio brigante sanguigno,/ portami notizie della collina./ Siedi, bevi un altro bicchiere/e raccontami del vento di quest'anno››.
Gli “universali” in senso Kantiano, della storia concreta di un Sud terragno e feudale, secondo l’espressione di Quasimodo, seguono il naturale processo di astrazione e di simbolizzazione di ogni linguaggio poetico e si nutrono della lezione dei grandi del Novecento.

In particolare, vi sono in Costabile, le orme dell’ermetismo di cui condivide la specularità vita- scelte formali, e gli archetipi della poesia ispano-andalusa, in specie di quella Lorchiana-
‹‹Forse morrò sopra questa chitarra/ che conosce il tumulto del mio sangue./E se bisogna attraversare il cielo/ l’appenderò sul corno della luna››.
Molto altro si può scrivere su Franco Costabile e su “Il canto dei nuovi Emigranti”, la più bella delle sue ultime, lunghe, tre composizioni in cui il tono di denuncia si fa alto e potente. Molto altro sulla sua disfatta che abbiamo detto essere estrema resa al ciclo assurdo della vita. I versi di Ungaretti , incisi sulla sua lapide nel cimitero, e sulla facciata della sua casa, a Sambiase, luogo di nascita, ci aiutano a chiudere la narrazione sul “cuore cantastorie” più amato di Calabria-
« Con questo cuore troppo cantastorie",
dicevi ponendo una rosa nel bicchiere
e la rosa s'è spenta poco a poco
come il tuo cuore, si è spenta per cantare.
una storia tragica per sempre››.

 





Viaggiatori di Calabria - Horace De Rilliet -

set 062023

Impegnato in una spedizione al seguito di Ferdinando II re delle due Sicilie, Horace de Rilliet, tredicesimo Battaglione Cacciatori, con mansioni di chirurgo, viaggia in Calabria tra il settembre del 1852 e l’ottobre dell’anno seguente. La spedizione militare ha l’obiettivo di soccorrere il re qualora si verifichino azioni di disturbo nei confronti dello stesso. Scrive di lui Benedetto Croce in “Aneddoti di varia letteratura”:


«L’opera di Rilliet se fosse messa a stampa col corredo dei disegni illustrativi formerebbe il più vivo quadro della Calabria circa la metà del secolo passato […]. Il Rilliet guardava e disegnava, osservava e annotava […] Si era bene istruito intorno alle vicende accadute negli ultimi cinquanta anni nella terra che stava per visitare, e aveva consultato e studiato molti libri per prepararsi all’opera sua […] paesaggi, scene, costumi, aneddoti, figure e figurine della più gente si susseguono nelle sue pagine [ …].


I paesaggi del Rilliet sono nello stesso tempo delimitazione e infinitezza della natura visitata, la visione degli elementi naturali è sentimentale e animata dalla presenza costante degli uomini-soldati che vi si avventurano e raramente ne traggono motivo di lamentazione; più spesso è una generosa baldanza giovanile ad avere la meglio fino all’ilarità liberatoria:

«[…]una spaventosa tempesta si riversò su di noi e ci bagnò fino alle ossa.[…] più la pioggia cadeva e più il buonumore e gli scoppi di risa raddoppiavano come se quella sovrabbondanza d’acqua fosse stata la cosa del mondo più divertente e felice […].

Ancora animato dalle sensazioni umane è questo paesaggio di Maida che sembra possedere capacità incantatrici:

«La vegetazione qui è estremamente abbondante, le piante più profumate coprono il terreno con uno spesso tappeto. Folate di profumo si sprigionano così forti da stordirci facilmente. Si vieta ai soldati di cedere alla spossatezza che l’aria carica di queste emanazioni esercita sui sensi. Nello stesso tempo i vapori che si alzano dalla pianura aumentano questo stato di torpore e di beatitudine, al quale sarebbe imprudente abbandonarsi».

Che il nostro viaggiatore sia padrone della cultura antica e gloriosa della Calabria risulta dall’intera tessitura del racconto di viaggio, così come risulta essere portatore di conoscenze del mondo classico. Che parli di Mattia Preti, «Più conosciuto col nome di calabrese» o di Tommaso Campanella «Che si distinse per il suo spirito filosofico che lo portò a fondare un nuovo sistema, quello del sentimento», che riporti alcuni versi delle Bucoliche Virgiliane di fronte allo spettacolo che a Curinga indora valli e montagne: «Et iam summa procul villarum culmina fumant/Maioresque cadunt altis de montibus umbrae» o versi dal Canzoniere di Petrarca nell’osservare i suoi soldati che bevono avidamente presso un limpido ruscello, la narrazione di Rilliet non cede mai a eccessi didascalici e se talvolta ci fa credere che il suo intento sia quello di aderire alla moda corrente dei viaggiatori dell’epoca, la sua Calabria non appare essere la rappresentazione di quella categoria dell’arretratezza che sola era esclusiva per interpretare la realtà di un’area geografica problematica e suggestiva.

Sicuramente giovano a questa impressione le numerose pagine che si soffermano su aspetti della cultura calabrese come quelle relative alla Certosa di Serra San Bruno e alle importanti figure della religiosità come Papa Urbano II o San Bruno, figure narrate con confini sottili fra storia e leggenda. Altre pagine, ci pare posseggano qualità di narrazione di cultura antropologica. E’ il caso della documentata storia degli Albanesi, delle vicende che spinsero il principe d’Epiro, Giorgio Castriota Scandemberg a stabilirsi in Calabria e dell’importanza che tale consistente emigrazione ebbe sui costumi e sulla formazione di nuovi linguaggi in Calabria.
Potremmo proseguire con annotazioni di diverso genere per ampliare gli elementi di un viaggio che possiede ricchezza e vivacità narrative, humor e ironia, serietà e profondità di documentazione. La Calabria di Rilliet, concludiamo, è proprio quella definita dal Croce, una realtà in continuo movimento, una rappresentazione delle sue varie e tutte affascinanti anime.

 

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ROCCO SCOTELLARO- Cento anni dalla Nascita-

apr 172023

                       

                     Mimmo Cecere, su "La Lettura" di Domenica 9 Aprile c.a. ha ricordato, con una "graphic poetry"  undefined il centenario della nascita di Rocco Scotellaro (Tricarico (Matera) 19 Aprile 1923). 

Per lo stesso motivo, ci piace riproporre ai lettori la terza parte dello scritto sul poeta, " incompreso da tanti, spesso avversato" apparsa su questo blog il 24 Ottobre del 2016. 

Rocco Scotellaro – La poesia-


“L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini, imparò dal fascino della notte il chiarore del giorno”. (Carlo Levi)


La ricezione della poesia di Rocco Scotellaro ha risentito per più anni del giudizio di Carlo Levi nella prefazione da lui curata per Mondadori nel 1954 della raccolta di poesie “E’ fatto giorno”. Egli scrive:
”Non ha radici colte( la poesia di Scotellaro), se non quelle dell’ antichissima ed ineffabile cultura contadina”.
Tale giudizio influenzò anche la critica tedesca che negli anni sessanta studiò con attenzione il fenomeno Scotellaro non discostandosi dall’ originario giudizio di Levi. La poesia del poeta-sindaco sarebbe troppo semplice e non conterrebbe alcun indizio di influenza della grande poesia tradizionale. A viziare la percezione del valore delle poesie di Scotellaro è stato senza dubbio l’aver voluto considerare come prevalente l’attività politica su quella artistica e aver voluto cogliere in lui soprattutto il rappresentante e il portavoce della Questione del Mezzogiorno in Italia. Il problema Scotellaro rimane dunque aperto su due fronti. Esiste uno Scotellaro “politico” che rappresenta il mondo contadino meridionale dal di dentro. Lo “scatto di fiducia preventivo” in quel mondo, pur ferito dall’incedere del novecento che lo aliena dalle sue radici culturali, gli permette di intravedere, al contrario di Levi, la possibilità che il meridione ha, di liberarsi da secolari e pesanti pastoie di asservimento e di partecipare, attraverso un percorso di autodeterminazione, al mondo nuovo venuto fuori dal secondo conflitto mondiale.


Esiste uno Scotellaro “poeta” sul quale è ancora in atto il dibattito se debba essere considerato l’autore di una poesia semplice e ingenua o piuttosto il portavoce di una nuova forma di poesia. Egli, intellettuale finissimo, sarebbe il protagonista di un’operazione singolare. I suoi versi si nutrono di una storia e di una cultura antiche e popolari e questo non è dato contestare. Ma ciò che i suoi versi producono è qualcosa di molto simile ad una poesia del tutto originale.
La sostanza antica dell’universo meridionale si mescola con l’inquieta coscienza novecentesca, la nostalgia dei tempi e dei luoghi amati si fa scarto e dissonanza con l’attuale, e la parola, libera da ogni possibile orpello, si fa pietra assolata e ruvida, ridotta al più scarno dei significati.
La poetica di Scotellaro, ha il fascino arcaico della sofferenza e dell’ amore per la vita. Egli è Poeta puro, ancora oggi considerato il più genuino e forse il primo simbolo poetico nella civiltà contadina. Il canto di Scotellaro è il pianto ribelle di chi si è visto sottrarre ciò che gli spettava di diritto.
‹‹ Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore /gl'intrecci degli uomini, chi ride e chi urla / giura che Cristo poteva morire a vent'anni / le gru sono passate, le rondini ritorneranno. / Sole d'oro, luna piena, le nevi dell'inverno /le mattine degli uccelli a primavera /le maledizioni e le preghiere››.
‹‹ Spuntano ai pali ancora /le teste dei briganti, e la caverna /l'oasi verde della triste speranza /lindo conserva un guanciale di pietra››.


Ancora Levi afferma:
“Il cammino percorso da Scotellaro, in pochi anni, da un muto mondo nascente ad una piena espressione universale, era quella di secoli e secoli di cultura: troppo rapido per il suo piccolo, fragile cuore contadino”.
                                               ***
E’ stata tentata una scansione temporale dell’opera di Scotellaro, una prima, 1940-1946, della giovinezza; una seconda, 1947-1949, dell’epopea contadina; una terza, 1950-53, della poesia della disperazione.
Un altro tentativo di definizione dell’opera del poeta è stato operato in Germania, nel 1997. A Münster, il professore Manfred Lentzen, propose allo studente Carsten Mann, laureando in Lettere, di scrivere la sua tesi su Scotellaro. Mann, pensò di usare grandi aree tematiche per meglio analizzare e definirne l’opera, tra le altre, “La terra d’origine”, L’emigrazione”, ”Le poesie politiche”.
Tanto la prima, quanto la seconda operazione non suscitarono grande interesse, né apportarono novità alla conoscenza del poeta. Il Centro di documentazione “Rocco Scotellaro e la Basilicata del secondo dopoguerra” di Tricarico, in collaborazione con le Edizioni Modern Poetry in Translation del Queen’s College di Oxford, ha voluto la pubblicazione in lingua inglese sulla rivista «MPT» di alcune poesie di Rocco Scotellaro. La rivista inglese è attenta soprattutto alle tematiche universali di cui il poeta di Tricarico è portatore, prima fra tutte la difesa della dignità dell’uomo. Tutto questo, aldilà dell’ importanza delle singole iniziative, testimonia l’interesse che una parte significativa dell’ Europa continua a nutrire nei confronti del poeta. Sebbene non apporti novità, e lo abbiamo detto, la divisione temporale della poesia di Scotellaro, pure è innegabile che ad un certo punto, egli abbia cambiato registro poetico. La poesia “Lucania” del 1940 è tutta negli stilemi del Crepuscolarismo di inizio Novecento:


‹‹M’accompagna lo zirlio dei grilli /E il suono del campano al collo /D’una inquieta capretta. /Il vento mi fascia /Di sottilissimi nastri d’argento /E là, nell’ombra delle nubi sperduto /Giace in frantumi un paesetto lucano››.


Non è difficile riconoscere “il mondo delle povere, piccole cose”, né si fatica a non trovare alcuna eco delle problematiche successive e già dolorosamente presenti nella sua terra. Dunque, la poesia giovanile di Scotellaro ( quale ossimoro per un poeta morto a trent’anni) entra di diritto nell’atteggiamento della poesia ermetica degli anni Trenta e nella tacita opposizione alla magniloquenza del regime fascista. Ma Scotellaro, aveva deciso di abbracciare la “religione dei poveri” e di travasare la politica nella poesia. Tale impegno, dopo la caduta del Fascismo, presupponeva che anche la letteratura fosse letteratura di “battaglia”, strumento liberatorio e non più consolatorio, territorio aperto di rivendicazioni e di diritti-


‹‹È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi /con i panni e le scarpe e le facce che avevamo./ Le lepri si sono ritirate e i galli cantano, /ritorna la faccia di mia madre al focolare.›› -
‹‹ […] I reduci borbottano nelle Camere del Lavoro./ Nessuno più prega/ ma braccia infinite assiepano i campi di grano›› -


<<Sto in viuzze del paese a valle
E sto bevendo con gli zappatori,
non m'hanno messo il tabacco nel bicchiere,
abbiamo insieme cantato
le nenie afflitte del tempo passato
col tamburello e la zampogna>>


L'elemento della sincerità nel racconto poetico sembra essere dominante così come i richiami ai simboli segni è obbligatorio Tre stralci da tre liriche diverse composte tra il1945 e il 1948, anni di terribili attese e di grandi speranze per il Sud che aspettava la Riforma Fondiaria e viveva in miseria il dopoguerra. Il poeta, sindaco di Tricarico dal 1946, dovette sentire come imprescindibile fare scendere nella strada la sua poesia, affidarle sangue e passione di lotta. La sconfitta del 1948 del “Fronte Popolare”, spense in lui ogni residuo di ottimismo e di speranza-
‹‹ Oggi, ancora e duemila anni/ porteremo gli stessi panni./Noi siamo rimasti la turba/ la turba dei pezzenti/quelli che strappano ai padroni/ le maschere coi denti›› 
Lo stesso può dirsi quando la poesia spazia all'esterno ed oscilla tra un dato idilliaco e un dato reale e concreto fino alla inevitabile condanna, nel contrasto solo apparente, tra l'individualità e l'abbandono alla pluralità, tra il canto come monologo, o quasi, e quello corale o tendente alla coralità.
"Già non accenna l'alba
e noi siamo risospinti
per dura forza del tempo da colmare
e mettere dei gesti nell'aria ad occhi chiusi."


Dal monologo alla pluralità delle voci, alla protesta, alla ribellione, sentita come tale:


"Siamo nel mese innanzi alla raccolta:
brutto umore all'uomo sulla piazza
appena al variare dei venti
e le donne si muovono dalla case
capitane di vendetta.
Gridano al Comune di volere
il tozzo di pane e una giornata
… E ci mettiamo a maledire insieme, il sindaco e le rondini e le donne,
e il nostro male si fa più forte…"


Affiora chiaramente il senso di appartenenza al mondo contadino con i suoi riti e le formule, le credenze e le certezze, la cultura e la metodologia e soprattutto con la volontà di riscatto, di cambiamento ed appare, legittimo e certamente giustificabile, una sorta di populismo vecchia maniera o ottocentesca:
"E non sempre il risultato è felice" scrive Giuseppe Amoroso-
<<Scotellaro, doveva avvertire dentro di sé la difficoltà derivante dall’essere un” intellettuale organico” e di ambire, nello stesso tempo, al ruolo di poeta lirico. Sapeva che di rado la poesia politica si fa poesia lirica, che di rado raggiunge la categoria dell’universalità, legata com’è ad un momento preciso, deperibile nei contenuti e nelle attese. Eppure dal 1950 e per tre anni, fino alla morte, compone i versi più convincenti, più autenticamente lirici, nei quali a fare da alimento sono il senso profondo di una realtà antica, una riflessione ripiegata e drammatica sulla propria e sull’ altrui condizione umana, fatta di dissonanze, di privazione e di perdita >>-
                                                    ***
‹Ho perduto la schiavitù contadina,/non mi farò più un bicchiere contento,/ho perduto la mia libertà./Città del lungo esilio/di silenzio in un punto bianco dei boati, […], /
devo disfare i miei bagagli chiusi,/regolare il mio pianto, il mio sorriso./Addio, come addio?/ terra gialla e rapata /che sei la donna che ha partorito,/e i fratelli miei e le case dove stanno/
e i sentieri dove vanno come rondini/ e le donne e mamma mia,/addio, come posso dirvi addio?[…]››-
Questo è il Rocco Scotellaro quale appare a noi, un poeta importante e non solo per il Sud e non solo per la testimonianza che ne ha dato. Di lui amiamo il sentimento della vita, il rifugio nella memoria lirica, la caduta “delle maiuscole”, come amava dire di fronte all’infrangersi dei sogni, la sorprendente, netta consapevolezza dei limiti della storia,

 



 

Viaggiatori di Calabria - Auguste de Rivarol

mar 152023

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Auguste de Rivarol è un soldato francese al seguito delle truppe napoleoniche del generale Manhès, si ferma in Calabria dal 1809 al 1812, é autore di una “Nota storica sulla Calabria”; nel De Rivarol la narrativa non trasfigura gli oggetti e le storie, non offre una rappresentazione dei fatti ma i fatti stessi con tutto quello che posseggono di affascinante o di brutale. E al termine il lettore ha la precisa cognizione dello sguardo interessato e attento con cui l’autore ha viaggiato e ha narrato. L’esperienza del viaggio era frequente presso gli intellettuali dell’Illuminismo e rispondeva alla sollecitazione tipica di quel periodo: comparare, attraverso la conoscenza acquisita sui luoghi, i caratteri e i costumi dei popoli. La Calabria del Rivarol è raccontata in quattro capitoli e al lettore potrebbero apparire impietosi se non vi riconoscesse l’attenzione dello studioso e se le affermazioni più crude non fossero mitigate dalla coscienza del passato mitico e raffinato della Magna Grecia. L’orizzonte fisico della Calabria ma ancor più quello antropico appaiono chiusi entro categorie negative.
«I Calabresi sono molto interessati. Questo difetto guasta ogni franchezza e ogni elevatezza di spirito. Sono sottili e diffidenti per natura, sono per ciò stesso falsi e adulatori. Come tutte le popolazioni poco civilizzate […] essi portano all’eccesso la perseveranza nelle passioni; amici fidati, ma nemici crudeli, l’odio in essi è incancellabile, il tempo lo esaspera e lo rinfocola […] ; poco curati nella persona, la loro indecenza è esagerata. È molto comune vedere animali e padroni in promiscuità sotto lo stesso tetto».

Anche le donne calabresi non sfuggono all’analisi del viaggiatore che ne coglie aspetti che nel nostro mondo di donne evolute conosciamo appartenere ancora a donne di altre culture e religioni:
<<Escluse dalla società e incaricate dei lavori domestici, le donne contraggono una goffaggine e una mancanza di maniere che persiste a dispetto della civilizzazione. Il matrimonio, piuttosto che aprirle al mondo, le allontana per sempre da esso e le incatena alla volontà tirannica di un padrone che in loro vede un utile acquisto».

De Rivarol è a suo modo un narratore storico: la visione razionale che ha degli eventi lo legittima nei giudizi che dà dei fatti accaduti durante la Repubblica Napoletana del 1799. Durante tale fase, egli afferma, i calabresi abbracciarono la causa del re, difendendola con ostinazione. Acuta è l’attenzione al fenomeno del brigantaggio e alla sua repressione –


«Proliferarono (i briganti), sotto il governo di Giuseppe la cui noncuranza e le amnistie concesse gli insegnarono a disprezzarne l’autorità […] Protetti dalle loro relazioni e dalle conoscenze dei luoghi, erano inafferrabili dalle colonne mobili[…] Giueppe introdusse tanti piani operativi dove non ne occorreva che uno soltanto, serio e attuato da una mente unica[..] In tal modo estendeva le radici di un male che bisognava invece colpire al cuore».


De Rivarol distingue le bande armate in difesa del loro re dai briganti, veri e propri criminali. Favoriti da una natura impervia, a volte inaccessibile, contro di essi si dispiegò il valore del generale Manhès. Non scorgiamo un’analisi storica che colga il fenomeno alle radici: responsabile certo è, per il De Rivarol, Giuseppe Bonaparte reo di una “vergognosa generosità” per aver concesso troppe amnistie al punto che il brigantaggio era divenuto una specie di mestiere. Dunque l’autore, usa nei confronti della Calabria dell’epoca, un atteggiamento disincantato. Da figlio dell’Illuminismo, il suo sguardo genera visioni lontane da qualsivoglia partecipazione emotiva. Racconta, in forme brevi, di Alarico, la cui salma fu scoperta chiusa tra due scudi nel fango del fiume Crati o di Neocastrum costruita sulle rovine dell’antica Hipponium. Descrive con minuziosità quasi scientifica -

«In Calabria abbondano le paludi e i terreni incolti […] che causano epidemie improvvise e mortali […]. Le cause di queste febbri endemiche è l’esalazione continua di acido carbonico dai vegetali in putrefazione che contornano i laghi e i luoghi umidi>>.

Giudica con decisione il Governo Napoletano, responsabile di non aver prestato la dovuta attenzione agli obiettivi delle Calabrie che se fossero stati perseguiti-
«L’ industria vi avrebbe preso uno slancio più vivo e queste province farebbero oggi la prosperità del regno».
E ancora da Illuminista che il nostro viaggiatore scrive le parole che prendiamo a conclusione di questo scritto -
«Certuni hanno parlato dei Calabresi con troppa leggerezza […] Il fatto è che essi hanno guardato queste contrade dal punto di vista dei loro interessi particolari, facendosene un buon concetto quando gli aggradava e cadendo nell’eccesso opposto quando non gli non conveniva».

 

 

 

Leggende di Calabria appese al filo della Storia ( seconda parte)

dic 282021

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Chista è a storia do Re Niliu
chi ppe amure e na cotrara
allu sule si squagghiau cumu la cira

A regina ppe a cotrara nun vulia.
Ma Niliu, nnamuratu, ull'ascultau
e a mamma mbelenata u smalediu.

Smaledittu mu si, si iddra ti pigghi
cumu a cira mu ti squagghi
quandu u sule ti cogghe.

E Niliu nummu u sule l'adducia
a na cambera scura si stapia
alla marina a cotrara sinde jiu
e ddra nu picciuliddu partoriu. […]

Niliu, era un gran bel ragazzo, soprattutto era figlio di re. Soprattutto non poteva, proprio non poteva, innamorarsi di fanciulla che non fosse del suo rango. E invece, come capita, e non solo nelle leggende, il bel rampollo si perse d’amore per una giovane popolana. Per lei sfidò le ire della famiglia e, cosa terribile, sfidò la maledizione della mamma: “Ti scioglierai come cera sotto i raggi del sole”.

 

                                                                                    ***

 Ancora una leggenda della nostra terra. E questa volta, un filo tenace con il mito. Siamo nella terra del popolo dei Feaci, fascia centrale della Calabria, compresa tra i golfi di Squillace e di S. Eufemia. Capitale di questa terra è Tiriolo. Qui vissero, nel loro palazzo delle meraviglie, re Alcinoo e sua moglie Arete. Qui Ulisse fu loro ospite e qui Demodoco, cantore della corte, cieco per volere divino, si immagina abbia cantato di Niliu all’ospite perché ne fosse rallegrata la serata, una delle tante che l’Odisseo trascorse a Tiriolo.

Di leggenda però si tratta e pensate, che nonostante le determinazioni del professore Armon Wolf, dell’Università di Francoforte, ancora oggi, Tiriolo e Marcellinara si contendono la verità, quella storica naturalmente, e pare addirittura che la capitale dei Feaci, non sia stata né più in alto, né più in basso delle sedi animate dal contenzioso.

                                                                        ***
Torniamo al nostro Niliu. Dunque, il giovane principe, innamorato e infelice, incontrava la sua amata, in un cunicolo dentro al monte Tiriolo che era una via naturale e nascosta per arrivare al mare, nei pressi della fonte del Corace. Era il canto del gallo ad avvertire Niliu del sole nascente. Il principe tornava alla corte prima che potesse correre il rischio di sciogliersi ai raggi dell’astro. La storia d’amore continua, nasce un bambino. Qualche maligna divinità fa tacere il gallo in una mattina di morte. Niliu esce dal cunicolo. Le sue membra si indeboliscono, si deformano in masse molli e gelatinose. Ha appena il tempo, disperato e col fiato stanco a dire al suo servo di voler lasciare le sue ricchezze al diavolo che del giovane possente e bello resta una larga chiazza molle sul terreno.

                                                                               ***

Grande verdeggia in questo e d’ampie foglie
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe
La temuta Cariddi il negro mare.
Tre fiate il rigetta, e tre nel giorno
L’assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi
Non t’accostar mentre il mar negro inghiotte;
Ché mal saprìa dalla ruina estrema
Nettuno stesso dilivrarti.

 

Questo è scritto nel XII canto dell’Odissea. La traduzione è di Ippolito Pindemonte. Ad Ulisse non mancavano certo le emozioni forti e una la visse quando fu costretto a salvarsi, sulla punta dello stretto di Messina, da Cariddi.

Creatura mostruosa, figlia della terra e di Poseidone, voracissima al punto da divorare le mandrie di Gerone quando il malcapitato si trovò a passare da lì. Zeus, che in quanto a fulmini non si faceva pregare, ne scagliò uno a Cariddi per punirla. La voracità non le passò, ma, una volta trasformata in mostro, tre volte al giorno ingurgitava enormi masse d’ acqua con tutto quello che sull’ acqua si trovava, navi e marinai compresi. Ulisse, che già una volta era scampato al pericolo, si aggrappò ad un albero di fico, maestoso e forte all’ ingresso della spelonca del mostro, ed ebbe salva la vita.

 

                                                                       ***

Dall’altra parte havvi due scogli: l’uno
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge
Né su l’acuto vertice, l’estate
Corra o l’autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi non potrebbe altri, o calarne,
Venti mani movesse e venti piedi:
Sì liscio è il sasso e la costa superba.
Nel mezzo, volta all’occidente e all’orco,
S’apre oscura caverna[…]
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par che un guaiolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino ad un dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici ha piedi, anterïori tutti,
Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara in ogni dente.
Con la metà di sé nell’incavato
Speco profondo ella s’attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que’ mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.

 

Scilla viveva in Sicilia, e in quel clima dorato di sole, fare il bagno sulla spiaggia di Zancle, era per lei, diletto grande. Erano i tempi in cui dalle onde era facile che apparisse un qualche dio dalle fattezze strane. E così fu.

Una sera, mentre la ninfa era sulla spiaggia, vide apparire dalle onde, Glauco, figlio di Poseidone, dio marino metà uomo e metà pesce. Scilla, ne rimase terrorizzata e si rifugiò sulla vetta di un monte appena dietro alla spiaggia. Il dio, invece, rimase  infatuato da Scilla. La implorò, le urlò il suo amore ma niente, la ninfa continuò a fuggire, lasciando il povero Glauco piangente. Piangente ma non rassegnato anzi, deciso ad averla vinta sul testardo rifiuto di Scilla.

Si recò all'isola di Eea, presso la maga Circe e volle da lei un filtro d'amore. Circe, (cosa non messa in conto dal dio) era innamorata persa proprio di lui. -  “ Prendi il mio amore, Scilla non ti merita”- è lei che voglio, non te”- Non si è mai saputo di una donna, maga o non maga, che se ne sia stata buona dopo avere incassato un rifiuto d’amore. Circe preparò una pozione per vendicarsi dell’affronto s e si recò alla chetichella, presso la spiaggia di Zancle, versò il filtro in mare e ritornò alla sua dimora.

Scilla, ignara, entrò nell’ acqua. Mostruose teste di cani sorsero intorno a lei, fuggì al largo, i cani la seguirono. Quale orripilata meraviglia essere  ancora ninfa fino al bacino ma al posto delle gambe, attaccati al resto del corpo con un collo serpentino, vedere spuntare sei musi feroci di cani.

Scilla andò a vivere nella cavità di uno scoglio che da lei prese il nome. Questa è la versione che va per la maggiore. Secondo altri, a volere infierire su Scilla era stata Anfitrite che rifiutata da Poseidone, innamorato invece di Scilla, aveva chiesto a Circe la pozione malefica, causa dell’orrenda trasformazione della ninfa. Sempre di vendette d’amore si tratta. E Scilla

Con la metà di sé nell’incavato
Speco profondo ella s’attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que’ mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.
Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poiché quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola.
                                                        ***

L’intreccio tra leggenda e mito è fuori discussione. Per quanto possano essere netti i confini tra di essi, per quanto la definizione di ognuno di essi abbia caratteri propri e incontrovertibili, a noi piace pensare che a tenerli insieme siano la narrazione, il rimandare e il tramandare il senso profondo di ciò che è stato raccontato.

 

 

 

 

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