Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Neosentimentalismo contro intellettualismo: Susanna Tamaro e i suoi epigoni...

giu 052023

 

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(Nella foto Sanguineti)

Si diceva e si scriveva anni fa che i bestseller erano fatti di "sesso e/o sangue e/o soldi". Difficile dire quali siano gli ingredienti o il filone giusto per fare un bestseller. Più si va avanti e più mi accorgo che sta prendendo piede il sentimentalismo. È vero che ci sono i gialli che vanno sempre di moda (Carlo Lucarelli, Maurizio De Giovanni, Loriano Macchiavelli, etc etc). Ma domina su tutto la retorica dei buoni sentimenti, che non ha a niente a che vedere col sentimentalismo etico, che permette la sana empatia, l'immedesimazione nella sofferenza e nel dolore altrui. Prevale su tutto un sentimentalismo deteriore e ricattatorio, che istiga alla lacrima facile. Il sentimentalismo è la via più facile per avere successo. È in voga quello che definirei un neosentimentalismo, raramente condito con un poco di dandismo estetizzante, talvolta condito con un certo neocrepuscolarismo alla buona. È di moda sia in prosa con ottimi successi di vendite, sia in poesia, dove prevalgono soprattutto soggettività e l'emotività. D'altronde cosa volete sperare? Negli anni di piombo sparavano e mettevano bombe, ma poi si commuovevano per le canzoni amore/cuore. La canzone italiana del secolo è "Piccolo grande amore" di Baglioni e non "Rimmel" di De Gregori. Oggi se guardi i profili social dei più ci sono le frasi sdolcinate d'amore, le foto degli animali domestici, i video youtube di canzonette sentimentali acchiappa like. È il modo più semplice per avere seguaci e consenso quello di essere sdolcinati, anche se falsi e ipocriti come Giuda. Il sentimentalismo è da sempre un tratto stilistico, definiamolo così, socialmente accettato. È quello più socialmente accettato di tutti. Le Liale vincono sempre. Ma ci sono anche degli intellettuali che vedono del sentimentalismo anche dove non c'è. Mi dispiace dirlo ma questo fu il caso anche del grande Sanguineti che vide in Bassani e Cassola delle "Liale del nostro tempo" e fu una critica a mio avviso troppo negativa e fuori luogo. Ma Sanguineti era un genio a cui molto si poteva perdonare e infatti lo stesso Cassola andava a braccetto con lui ed era suo amico.  La filosofa Ilaria Gaspari è controcorrente e su "Domani" scrive un articolo riabilitando il romance, i romanzi rosa, affermando che finalmente ci siamo liberati dei pregiudizi su di essi. Un conto a mio avviso è oggettivare un sentimento. Un conto è sfruttare commercialmente l'ingenuità delle persone. Un conto è disprezzare ogni moto del cuore. Un conto è essere strappalacrime. Un conto è con la giusta motivazione di mettere distanza tra sé stessi e le passioni eliminare ogni residuo di emozione. Un conto è oggettivare un sentimento. Un conto è cercare di rimuovere dalla poesia e dalla letteratura ogni traccia di sentimento. Un conto è disapprovare e criticare a ragion veduta il sentimentalismo e un altro è avere una reazione spropositata, fare un fallo di reazione, che nel calcio porta spesso all'espulsione. In questo caso alcuni letterati vengono espulsi dal mercato. Ci sono ancora oggi dei critici che se vogliono attaccare qualcuno per partito preso o idiosincrasia, scrivono che è un sentimentale. È vero che chi è sentimentale di solito non è impegnato politicamente, socialmente, culturalmente. È vero che spesso chi scrive di sentimenti lo fa per non scrivere d'altro, perché scrivere d'altro è più problematico, scomodo, difficile e meno remunerativo. È vero che De Amicis insegnava qualcosa, formava le coscienze e oggi questo neosentimentalismo non è affatto didascalico, educativo, propedeutico. Insomma il neosentimentalismo di oggi non porta a niente, non è istruttivo, è fine a sé stesso. Così da un lato c'è chi vende molto con il neosentimentalismo e dall'altro c'è chi utilizza come discrimine per stabilire cosa è o non letteratura l'assenza o meno di sentimento. Sono due scuole contrapposte: da una parte questo neosentimentalismo commerciale, dall'altra l'intellettualismo freddo ed elitario. Non ci sono mezze misure, pochissimi trovano un'armonia, un connubio tra ragione e sentimento, tra intelletto e passione. Ecco così facendo una narrativa e una poesia a compartimenti stagni. Nei primi anni del duemila ci avevano provato a rompere gli schemi le cosiddette pornoromantiche, ovvero Carolina Cutolo (un suo libro per l'appunto si intitolava "Pornoromantica"), Pulsatilla ("La ballata delle prugne secche"), Gisela Scerman ("La ragazza definitiva"), ma oggi pochi parlano di queste scrittrici: allora c'era chi puntava sulla grande novità di ragazze che scrivevano sia dei loro sentimenti che delle loro esperienze sessuali, come le vecchie generazioni non avevano mai fatto, ma poi sono arrivati youporn, la diffusione del porno di massa, anche amatoriale, e sono molte le ragazze che fanno sesso e parlano di sesso, cosicché oggi è stato abbattuto qualsiasi senso del pudore. Insomma le pornoromantiche non fanno più scalpore. Così abbiamo romanzi commerciali che emozionano ma non sono letteratura e opere che sono letteratura ma non emozionano più i lettori. Abbiamo così romanzi di intrattenimento che fanno piangere e una letteratura che è troppo fredda, che non sa interessare più, se non gli addetti ai lavori. Così finiamo per avere degli scrittori facili che vendono molto e pretendono che le loro cose vengano ritenute letteratura per il solo fatto che vendono molto e dei letterati che non vendono e si arrogano il diritto di ritenere ciò che è letteratura e ciò che non lo è. Con questo non voglio criticare totalmente chi scrive bestseller sentimentali, perché non è semplice, altrimenti molti professori di letteratura scriverebbero, come si suol dire, bestseller sotto pseudonimo e i più non ne sono capaci (è anche vero che i più non vogliono arricchirsi in questo modo perché lo considerano una furbata scorretta). Insomma anche per scrivere dei bestseller sentimentali  bisogna essere in sintonia con i gusti nazionalpopolari degli italiani o saper intercettare il pubblico, studiando tutto a tavolino. Bisogna cioè essere nazionalpopolari o fingere bene di esserlo. D'altronde anche un grandissimo scrittore come Flaubert, che voleva scrivere un romanzo sentimentale, finì per scrivere "L'educazione sentimentale", che è tutto, fuorché un romanzo sentimentale.

Due parole sulla mafia a trent'anni dalla strage dei Georgofili...

mag 272023

 

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Alcuni servitori dello Stato sono costretti a vivere sotto scorta e a spostarsi con auto blindate. Negli anni Novanta abbiamo assistito alle stragi mafiose. Io e mio padre siamo passati dopocena esattamente una settimana prima della bomba scoppiata in via dei Georgofili. Potevamo essere noi le vittime. Molti sanno e non parlano perché hanno paura di ritorsioni, di rimanere uccisi. Fino a qualche decennio fa molti sostenevano addirittura che la mafia non esistesse. Nessuno sa come e perché siano nate le mafie. Nessuno sa con certezza se le mafie siano state determinate dalla povertà, dal familismo amorale, dal fatto che ognuno tiene famiglia, dallo scarso civismo oppure no. C'è chi dice che la mafia sia dovuta alla particolare storia del Sud: a una pessima unità di Italia, alla repressione del brigantaggio (anche se diversi studiosi tendono ad escluderlo oggi). C'è chi dice che la mafia si respiri come l'aria. C'è chi dice che sia stata causata dalla mancanza di acqua. C'è chi dice che tutto nasca dai gabellotti. C'è chi dice che la colpa è dello Stato che è assente e latita. Nessuno sa con certezza. Molti studiosi hanno fatto molteplici ipotesi e dato le più svariate interpretazioni. Una cosa che bisogna tener presente è che i cosiddetti uomini di onore non sono mostri di malvagità. Non sono assolutamente altro da noi. Non sono un corpo estraneo. Sono assolutamente come noi. Sono italiani esattamente come noi e noi non siamo esattamente meglio, perché che siamo meglio è tutto da dimostrare. Se non teniamo presente ciò non andiamo da nessuna parte. I cosiddetti uomini d'onore hanno solo una mentalità differente. Non cercate in loro una personalità antisociale, perché loro hanno solo una mentalità mafiosa: né più, né meno. Nella loro testa conciliano codice cavalleresco (Osso, Mastrosso, Carcagnosso) e imprenditorialità spregiudicata. Sono atavici e moderni allo stesso tempo. A mio avviso alcuni mafiosi hanno una loro singolare forma di religiosità. Molti hanno un loro codice "etico". Nell'immaginario di alcune persone i mafiosi un tempo difendevano i più deboli e rispettavano le mogli degli altri. Non so esattamente. Forse è così anche oggi. Molti uomini di onore ancora oggi pregano e hanno fede, nonostante fin dalla tenera età siano stati abituati a trasgredire le leggi dello Stato. Molti appartengono a una famiglia mafiosa e sono stati affiliati da ragazzini. Per molti di loro è difficile uscire dalla mafia e fare come ha fatto a sue spese Peppino Impastato. Infatti fin dalla tenera età sono stati costretti a credere in certe regole. Fin dalla giovinezza sono costretti a crescere in fretta, a estorcere denaro, a rapinare, a rubare, a spacciare ed altro. Alcuni diventano mafiosi perché si ritrovano disoccupati. Se ci fosse meno disoccupazione nel Sud saremmo già a più di metà dell'opera! Ma che dire comunque di chi nasce mafioso? Quanto è difficile dire no alla mafia per loro? In fondo vorrebbe significare dire no ad un sistema che ha dato e riesce a dare da mangiare alle loro famiglie. Vorrebbe significare rinnegare tutti i propri famigliari. Pochissimi riescono a pentirsi. Come fanno a ribellarsi se hanno ricevuto una certa educazione e se appartengono a un determinato contesto? Alcuni allora compiono azioni illegali e nonostante ciò cercano di mantenere un cuore apparentemente puro. Vorrebbero cambiare, ma la loro vita procede per inerzia. Direttamente dire no alla mafia vorrebbe dire sfuggire ai propri amici che vorrebbero uccidere i pentiti. Con questo non voglio giustificare alcunché. Lo so bene che il vero dramma è quello delle vittime di mafia e dei loro famigliari. Voglio comunque solo cercare di capire. Non voglio assolutamente fare una apologia dei mafiosi perché alcuni di loro uccidono senza rimorso. Molti mafiosi però sono amorevoli padri di famiglia e premurosi mariti. Se non accettiamo questo non si può capire il consenso sociale di cui godono le mafie. Bisogna sapere veramente perché piacciono alla gente, oltre al fatto che la mafia è un sistema che purtroppo dà lavoro a tante persone, anche ai parcheggiatori abusivi e ai contrabbandieri di sigarette. Spesso anche le loro donne sono pie e devote. Pregano per il marito ininterrottamente. Eppure nonostante la loro morigeratezza sono sempre a fianco del marito mafioso, trasmettono ai figli i codici mafiosi, condividono e rispettano tutte le scelte del congiunto. Che cosa può spezzare questa catena? Apparentemente niente sembra efficace. Forse bisogna sperare che domani i mafiosi riescano a riciclare tutto il denaro (pecunia non olet...dicevano gli antichi) e diventino a tutti gli effetti imprenditori, che rifiuteranno di usare i loro antichi metodi? Dobbiamo forse sperare in questo? Sarebbe giusto forse per coloro che sono sempre stati onesti? Dobbiamo sperare che lo Stato intervenga con un esercito di maestre elementari (come sosteneva Bufalino), con dei grandi investimenti al Sud e con una repressione efficace delle forze inquirenti? Oppure è già troppo tardi perché le mafie hanno già inquinato l'economia di tutto il mondo e quello che possiamo fare è assistere impotenti alla loro proliferazione? Lo Stato riuscirà a vincere il controllo del territorio delle mafie? Qualcuno riuscirà a distruggere gli intrecci tra mafie, politica, economia, apparati dello Stato? Qualcuno riuscirà a denunciare tutti i compromessi della società civile con le mafie? Qualcuno riuscirà a rompere il rapporto con la buona borghesia e la mafia? Qualcuno incarcererà tutti i colletti bianchi, i cosiddetti cravattari mafiosi? Bisognerà aspettare grandi eventi storici che determineranno una nuova struttura sociale ed economica? Alcuni dicono che basta andare nel Sud per avere dei contatti episodici con i mafiosi e citano il fatto che vip e politici spesso a loro insaputa si trovano a fare le foto ricordo con i mafiosi. La verità è che una frequentazione casuale e occasionale non pregiudica niente se il politico o il vip non fa favori ai mafiosi, né si fa fare favori dai mafiosi. La realtà è che spesso c'è un legame così profondo tra politica e mafia che questi contatti non sono episodici ma frequenti e rappresentano solo la punta dell'iceberg. Un'altra cosa che dobbiamo tenere presente è che ogni volta che parliamo di mafia non dobbiamo assolutamente puntare l'indice, ma farci tutti un esame di coscienza. Non dobbiamo pensare solo ai Mafiosi con la M maiuscola, ma anche a tutti i comportamenti mafiosi con la m minuscola che abbiamo noi persone apparentemente oneste. La Mafia uccide, ma anche i piccoli abusi di potere e i piccoli comportamenti illegali o anche solo illegittimi creano ingiustizia e sofferenza. Anche spaccare la faccia a qualcuno, tagliare la strada a qualcuno con la macchina, diffamare qualcuno, costringere a un compromesso di qualsiasi natura o accettarlo è un comportamento mafioso con la m minuscola. Con questo non voglio fare di tutta l'erba un fascio. Al di là della retorica (inveire astrattamente contro la mafia non serve a niente) bisogna però vedere concretamente nel nostro piccolo cosa ognuno di noi può fare per combattere la mafia. Facendo una breve analisi di abusi di potere italici così diffusi scopriremo che gran parte del Paese è malato. Resta da stabilire se sia un malato incurabile o meno. Cosa si vuole sperare però da una nazione in cui i concorsi per professori universitari talvolta sono truccati? Cosa dobbiamo sperare se si comporta così chi dovrebbe dare agli altri innanzitutto l'esempio? Concludendo, nessuno ce l'ha fatta a sconfiggere la mafia. Non ce l'hanno fatta il prefetto Mori, il generale Dalla Chiesa e neanche i giudici Falcone e Borsellino. Spesso c'è stata anche la complicità degli apparati dello Stato. Diciamocelo onestamente a Portella della Ginestra non erano solo i mafiosi probabilmente a sparare. Gli americani per paura del comunismo nell'immediato dopoguerra appoggiavano uomini di onore come candidati sindaci in Sicilia. Diciamocelo senza retorica lo Stato ha spesso cercato di convivere con la mafia piuttosto che debellare il fenomeno. Cosa dobbiamo sperare se nel corso della storia di Italia è mancata la volontà politica di combattere la mafia? È forse invincibile oppure anche questa forma di criminalità organizzata avrà una fine? La mafia oggi è ancora molto potente. Una cosa però è certa: da qualsiasi punto di vista lo si guardi questo è un fenomeno con cui "rompersi la testa", come scriveva Sciascia.

 

Su Aldo Moro e sul terrorismo interno...

mag 092023

 

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Oggi è il 9 maggio. 45 anni fa venne ritrovato il corpo dello statista Aldo Moro. Vorrei fare una breve riflessione...

In un Paese come il nostro in cui c'è stato un connubio tra materialismo spicciolo e un idealismo deteriore il terrorismo è stato vinto dai partiti, dalle istituzioni, dai sindacati, dal popolo, ma soprattutto dalla fine della guerra fredda (ammettiamolo pure). Qualcuno violento e fuori dalla storia è pur rimasto nella foresta a combattere una guerra già persa, ma nessuno oggi può far leva sul disagio sociale e trasformarlo in barbarie. Il terrorismo nero è stato subito vinto perché non c'è stata da anni alcuna possibilità da parte di nessuno di sfruttare lo spontaneismo armato (nato per esempio dai fatti di via Acca Larentia). Quella contrapposizione di forze (gli opposti estremismi) non esiste più. Quello che è accaduto un anno fa al circolo Arci di Reggio Emilia con cretini incappucciati che cantavano inneggiando alle Br però dimostra che c'è più indulgenza per il terrorismo rosso. C'è da decenni un pregiudizio negativo nei confronti delle vittime delle br ("se la sono cercata", "erano colpevoli", "erano imperialisti", "erano servi dello Stato") e un pregiudizio positivo nei confronti dei brigatisti rossi ("hanno le loro ragioni", "sono intellettuali", etc etc). Gli intellettuali dell'epoca non hanno aiutato il popolo, coniando perfino lo slogan "né con lo Stato, né con le Br" (frase erroneamente attribuita a Sciascia che non l'ha mai detta né scritta), ma non c'è da stupirsi perché erano gli stessi che ce l'avevano a morte con Luigi Calabresi e lo lasciarono solo al suo destino. Le Brigate Rosse sono finite quando hanno ammazzato un operaio sindacalista (Guido Rossa) e un antennista fratello di un pentito delle Br (Roberto Peci). Non potevano più avere un consenso popolare (poco tempo prima se le Brigate Rosse avessero potuto presentarsi come partito avrebbero preso 200000 voti secondo i sondaggisti dell'epoca). Bisognerebbe considerare che Aldo Moro era innocente come la povera Maria Fresu (una vittima della strage di Bologna), anche se il suo lavoro comportava più responsabilità e quindi più rischi. Sicuramente il terrorismo nero colpiva nel mucchio la povera gente in modo efferato, faceva delle carneficine, ma non bisogna mai giustificare o addirittura quasi assolvere i brigatisti rossi, la cui versione di comodo è che la loro violenza organizzata nasceva solo ed esclusivamente come reazioni alle stragi, mentre colpiva a freddo e a tradimento onesti lavoratori e padri di famiglia. Bisognerebbe considerare che i veri colpevoli dell'estremismo rosso non sono i giovanotti autoesaltati e ubriacati ideologicamente che uccidevano, ma i cattivi maestri che li hanno indottrinati e armati: ancora non è stata fatta piena luce su questo e i cattivi maestri non hanno pagato del tutto, sicuramente hanno pagato troppo poco; sono stati proprio quei professorini freddi e spietati come Senzani che hanno armato giovani che stravedevano per loro. Così questi terroristi hanno distrutto vite altrui e le loro. Ma ora possiamo dirlo serenamente che, salvo improbabili colpi di coda, tutto è finito, ma ciò deve servire da lezione. Non deve finire nel dimenticatoio. Infine riporto a memoria una dichiarazione del terrorista nero Giuseppe Fioravanti, che in un'intervista dichiarava che quelli della sua generazione si erano scannati tanto per poi fare anni di galera e ritrovarsi certa gente al governo. Era l'amara constatazione del proprio fallimento umano e politico, nonché di una parte della sua generazione. Basta avere una visione un minimo (ma un minimo) approfondita per sapere che le Brigate Rosse erano infiltrate per quanto riguarda la base ed erano infiltrate ai vertici, pur non trattandosi solo di "sedicenti Brigate Rosse", mentre il terrorismo nero era diretto dalla P2 e dai servizi segreti deviati (o a essere più precisi dalle deviazioni dei servizi segreti, perché non tutta l'intelligence era coinvolta ma solo una parte, seppur consistente): c'era la guerra fredda, l'Italia era sotto la Nato e allo stesso tempo nel nostro Paese c'era il più grande partito comunista occidentale; diciamocela tutta: se Aldo Moro non fosse stato ammazzato dalle Br, c'erano i terroristi neri che volevano probabilmente fargli un attentato, perché in questa contrapposizione brutale di forze politiche molti non volevano il compromesso tra Dc e comunisti e invece i dorotei lo volevano, alcuni perché pensavano, a torto o a ragione, che il marxismo fosse una dottrina ideologica e scientifica superiore e che con i suoi rappresentanti bisognasse allearsi, anche perché in quel particolare periodo storico esprimevano meglio le istanze sociali del popolo. A ogni modo ognuno deve mettersi contro i figli di buona donna (con tutto il rispetto per le loro madri; è solo un modo di dire) del suo tempo. Terroristi rossi e neri ormai sono di un altro tempo. Così si spera.

Sulle due culture, anzi sulla cultura sempre più divisa e divisiva...

mag 012023

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(Nella foto il poeta Leonardo Sinisgalli)

 


Nel 1959 lo scrittore e scienziato Snow pubblica "Le due culture", in cui tratta delle incomprensioni, delle divergenze, addirittura dell'incomunicabilità tra umanisti e scienziati. Scriveva che gli umanisti sapevano pochissimo di scienza, che gli scienziati sapevano pochissimo di arte e che quando si ritrovavano non avevano argomenti di conversazione.  Insomma non parlavano più la stessa lingua. Le cose a mio avviso sono peggiorate in questi ultimi anni. Oggi c'è ormai una sola cultura, quella tecnologica-scientifica. Io affermerei che non esiste più la cultura umanistica in un mondo in cui tutto è cultura, in cui qualsiasi cazzata viene riconosciuta come elemento culturale. Oggi a onor del vero non è cultura ciò che un tempo era cultura, ma viene ritenuto cultura tutto ciò che è e porta business. Sono finiti i tempi in cui per diventare ragionieri o periti bisognava sapere abbastanza Pascoli e Montale. È finita l'epoca del latinorum! Purtroppo e per fortuna allo stesso tempo! Oggi basta qualche nozione umanistica raffazzonata, approssimativa ed en passant anche nei licei per andare avanti. Oggi c'è più tecnologia e i giovani sono più informatizzati, ma qualcosa abbiamo perso per strada, per esempio le giovani leve hanno perso senso critico e competenze linguistiche (prendendo con beneficio di inventario la tanto citata ricerca di Tullio De Mauro sul numero di parole conosciute dai ginnasiali). Sono finiti anche i medici di un tempo, che avevano una buona formazione umanistica, non solo perché magari avevano fatto il Classico ma perché leggevano molti romanzi, molti libri di poesie, molti saggi e andavano a vedere le mostre, etc etc. Oggi i professionisti e le persone di cultura versate in un campo specifico non sono curiose e onnivore come un tempo, perché pensano, a torto o a ragione, di togliere parte del loro tempo allo studio e all'aggiornamento della loro disciplina. Oggi la vita scorre frenetica, non c'è più tempo e poi in fondo decenni fa, nel secolo scorso, per una persona di buona cultura era un imperativo informarsi e rimanere aggiornata su tutto. Oggi nessuno lo esige più. Oggi ci sono anche laureati in discipline umanistiche disoccupati, precari o sottoccupati, mentre ci sono tecnici che non hanno studiato affatto e che guadagnano molto bene, addirittura sono così richiesti che non si trovano mai, spesso si dimostrano tronfi e maleducati (al limite della nostra capacità di sopportazione spesso). Qualcuno dirà che è la legge della domanda e dell'offerta. C'è inoltre nella mentalità comune l'affermarsi della supremazia degli ingegneri sugli umanisti. È la solita tiritera: ingegneria è necessaria, diventare ingegneri è più difficile. Sono gli stessi che considerano gli umanisti dei cretini per aver scelto quel corso di studi e li rispettano raramente, ovvero solo se si affermano culturalmente, anzi spesso solo economicamente. È vero che le facoltà umanistiche sono più facili di quelle scientifiche (a Pisa ad esempio il preside di ingegneria Villaggio aveva lasciato un cartello sulla sua porta dove era scritto "ingegneria deve essere difficile" e in quella facoltà i professori agli studenti impreparati tiravano il libretto universitario fuori dalla finestra). È vero che ci sono nelle facoltà umanistiche alcuni (non tutti) professori sessantottini, che dispensano buoni voti a molti. Ma è disonesto intellettualmente oltre che falso far passare il messaggio che tutti o quasi riuscirebbero, se si iscrivessero, a laurearsi in una disciplina umanistica, perché anche in queste facoltà esistono a onor del vero i ritiri. Che poi le nostre facoltà umanistiche sono più facili anche perché tutte le nostre scuole elementari, medie, superiori sono più umanistiche che scientifiche e Leopardi viene già fatto alle elementari, mentre le derivate e gli integrali vengono fatti in modo decente solo nell'ultimo anno del liceo scientifico! Che poi un conto è laurearsi in lettere e un conto è diventare letterati perché per fare la prima cosa bisogna studiare un centinaio o poco più di libri di testo, mentre per fare i letterati bisogna leggerne qualche migliaio! Che poi a ben vedere ci sono ingegneri e matematici tedeschi, inglesi, americani, cinesi, giapponesi, indiani che sono più preparati dei nostri italiani, mentre gli umanisti italiani sono rispettati e stimati in ogni parte del mondo, pur avendo lo svantaggio di scrivere in italiano, così poco diffuso nel mondo! Insomma bisognerebbe stare a vedere e considerare saggiamente in cosa consista veramente l'eccellenza. A onor del vero a ogni modo secondo la mentalità comune vale il detto "conta l'articolo quinto, ovvero chi ha i soldi ha vinto". Importante è fare soldi e non pensarci più, come cantava Angela Baraldi negli anni '90. Inoltre qualcuno dirà che ci sono troppi laureati in Italia (quando i dati dimostrano l'esatto contrario) o che comunque ci sono troppi laureati nelle discipline umanistiche, mentre invece le facoltà universitarie non formano tecnici. Obiezione fondamentale a questo tipo di discorso: l'Italia non eccelle nel mondo per gli ingegneri, i matematici o gli scienziati (ci sono nazioni che ci surclassano, come ho precisato prima), ma per la grande presenza di artisti, poeti, scrittori, per le bellezze naturali e artistiche, che non sappiamo valorizzare ancora. Ci sono nazioni con molte meno bellezze e molti meno capolavori che ci passano di gran lunga avanti nel turismo e soprattutto nel turismo culturale. Vengono chiamate città d'arte Firenze e Venezia, mentre molte più città italiane dovrebbero essere considerate città d'arte. Se borghi e città italiani venissero fatti veramente conoscere agli stranieri quanti alberghi, bed and breakfast, guide turistiche, bar, ristoranti, etc etc ci sarebbero in più rispetto a oggi? L'Italia potrebbe vivere quasi di rendita grazie al turismo culturale internazionale, senza inquinare e senza bisogno di industrializzarsi di più. Invece ogni governo spreca molte risorse economiche in spese militari e investe poco nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio artistico, del paesaggio, dell'ambiente. Invece vogliamo seguire l'onda. Vogliamo essere conformisti, seguire a tutti i costi gli altri Paesi più ricchi, senza renderci conto che non stiamo sfruttando adeguatamente le nostre risorse e specificità. Ma le controversie, le rivalità, gli antagonismi con il conseguente senso di superiorità, vero o presunto, non sono solo tra umanisti e persone con formazione scientifica. Che dire dei medici di condotta che non considerano i dentisti, dei medici che prendono in giro i veterinari, dei pedagoghi e dei sociologi che ce l'hanno con gli psicologi, degli psichiatri che non considerano minimamente gli psicologi, dei poeti che considerano incomprensibili e stupidi certi artisti concettuali, dei poeti che snobbano i cantautori, di certi pittori che considerano poco o niente i poeti contemporanei, dei normalisti della classe di scienze che si considerano superiori a quelli della classe di lettere e filosofia? Il rispetto reciproco spesso manca. Essendo assente il rispetto, spesso viene covato reciprocamente nell'animo di molti l'odio. Oggi la cultura è divisa più che mai e sempre più divisiva.
E dire che un tempo c'era il sapere unitario; c'erano nel Medioevo persone con una cultura enciclopedica come Dante. Nell'Umanesimo e nel Rinascimento c'erano artisti e scienziati come Leonardo da Vinci. E come non dimenticare Galileo che era un grande scienziato e secondo Calvino (lo scrive in "Lezioni americane") uno dei più grandi scrittori italiani di tutti i tempi? Nel 1600 in Toscana va ricordato anche Francesco Redi che fu medico e letterato. Bisogna ricordare che sempre nel corso del 1900 si poteva essere scientifici e umanisti allo stesso tempo; ci sono stati Primo Levi, Gadda (si veda su tutti "Meditazione milanese"), Sinisgalli (si veda il "Furor Mathematicus"). Oggi su tutto e su tutti prevale la specializzazione, anche se qualche voce inascoltata e fuori dal coro talvolta parla di interdisciplinarietà. Gli studiosi non vogliono essere tuttologi. Scelgono un ramo. Rinunciano alla globalità per eccellere in un campo. Non c'è niente di peggio al mondo d'oggi che invadere il campo di competenza altrui ed essere tacciato di essere un dilettante o un autodidatta ignorante! Ma oggi è anche molto difficile, quasi impossibile sapere tutto. In qualche ramo dello scibile si finisce sempre per essere analfabeti. Oggi è impossibile essere enciclopedici. Chi dice di sapere tutto è un illuso, un delirante o un impostore. Spesso è già difficile sapere tutto molto genericamente nel proprio ambito. Anzi mi correggo: spesso è già difficile avere un'infarinatura generale nel proprio ambito di competenza. Le persone che conoscevano, che sapevano tutto di tutto sono morte da tempo. Ci sono mille rami dello scibile; vengono pubblicati ogni anno tantissimi libri per ogni ramo del sapere. Neanche i critici letterari italiani riescono a stare dietro a tutte le novità poetiche ogni anno. È già molto difficile se non impossibile rimanere aggiornati nel proprio ambito di competenza. Figuriamoci sapere tutto!

Sull'utilità, sul senso di scrivere, sul contenuto di verità, passando per De Carlo, Tondelli, Orwell, Rilke...

apr 252023

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"Malinconie discrete che non sanno star segrete,

le piccole modeste storie mie,

che non si son mai messe addosso il nome di poesie,

amiche mie di sempre, voi sapete!

Ebbrezze conosciute già forse troppe volte:

di giorno bevo l' acqua e faccio il saggio.

Per questo solo a notte ho quattro soldi di messaggio

da urlare in faccia a chi non lo raccoglie."

("Canzone delle situazioni differenti" di Francesco Guccini)

 

 

 

 

 

 

Ha più senso oggi scrivere? Ha più senso scrivere una silloge poetica, se la leggeranno solo pochi e per di più quasi solo aspiranti e sedicenti poeti? Ha più senso oggi scrivere romanzi o racconti quando pochi vogliono leggere storie e allo stesso tempo si registra uno scadimento generale, perché chiunque ha una storia da raccontare, magari quella della sua vita, e moltissimi si sentono in diritto, quasi in dovere di scriverla, visti e considerati l'aumento della scolarizzazione, la diffusione esponenziale di programmi di videoscrittura e l'università di massa? Probabilmente nella storia dell'umanità di libri ne sono già scritti troppi; i grandi capolavori sono già stati tutti scritti; nessuno uguaglierà o supererà Omero, Dante o Shakespeare. Da giovane un mio ex amico mi disse che trovava molto interessanti gli input di un manuale di psicologia sociale che gli avevo regalato, ma mi chiese anche a cosa servisse leggere i romanzi, ad esempio come quelli di Andrea De Carlo. Io rimasi un poco interdetto e poi mi arrampicai sugli specchi, risposi che De Carlo descriveva bene la Milano degli anni '90, la sua vita frenetica, la carambola degli incontri. Allora lui efficacemente controbattè che i personaggi dei romanzi di De Carlo erano tutti liberi professionisti, artisti, intellettuali, insomma borghesi. Io risposi che comunque era anche quello uno spaccato della realtà, che De Carlo non faceva sconti a nessuno, tanto meno alla sua classe sociale di appartenenza. Risposi che anche i personaggi di Moravia, tranne poche eccezioni come la ciociara, erano altoborghesi, eppure nei suoi libri c'era molta verità, anche se solo della verità dell'umano e della Roma da lui vista e vissuta. Aggiunsi che De Carlo era un bravo scrittore, a volte commerciale, ma comunque spesso criticato per invidia, per partito preso, perché ad alcuni non andava giù che avesse avuto successo. Continuai dicendo che leggendo letteratura o comunque narrativa si migliora il nostro italiano e si arricchisce il nostro vocabolario; gli spiegai cosa volesse dire Tondelli quando scriveva che la letteratura contemporanea serve per "ritestualizzare il mondo". Gli dissi che a volte ci sono scrittori che dicono cose nuove oppure che dicono le stesse cose in modo nuovo, che hanno una sorta di sguardo obliquo sul mondo. Ma lui mi riportò subito alla realtà concreta e non soddisfatto rispose che faceva l'operaio, che per lui certi romanzi erano una perdita di tempo. Insomma con poche parole voleva dirmi che non aggiungevano niente al suo mondo interiore, alle sue conoscenze pratiche, alla decifrazione e alla lettura del mondo circostante. E me lo diceva in modo molto franco e onesto, se vogliamo crudo. Si noti bene: quello di Andrea De Carlo era solo un esempio perché non sono un detrattore né un ammiratore dello scrittore milanese (l'ho rammentato perché molti lo conoscono). Estendendo il discorso, anche le scienze umane quale apporto danno in fondo alle nostre conoscenze, se dimostrano spesso delle ovvietà oppure se scoprono delle cose controintuitive, che a molti risultano opinabili? Non a torto alcuni scettici, disfattisti e nichilisti potrebbero ritenere che la conoscenza che deriva da ogni branca dell'umanesimo sia maieutica e quasi tautologica. Però io a tal riguardo obietto questo: che una cosa sia facile da capire non significa che sia facile da scoprire, che una realtà che hanno sotto gli occhi tutti solo pochi sono in grado di rappresentarla, descriverla e in questo mondo ci vuole anche chi descriva una realtà o racconti o si inventi una storia. In definitiva per me essere semplici o dire cose semplici non significa essere facili o dire cose facili. Fatta questa premessa, risultano sempre più fuori dal mondo e deliranti quei poeti, veri o presunti, aspiranti, sedicenti o effettivi, che pensano che la loro arte sia necessaria, addirittura un dono a un pubblico inesistente, a un popolo bue, che si ostina a non capirli. Può darsi invece che loro non abbiano niente di nuovo da dire sul mondo e al mondo. Può darsi che le loro parole non abbiano più forza eversiva o meglio non abbiano più forza alcuna. Non rallegri a questo proposito il fatto che ci siano molti blog di poesia e che alcuni vengano visitati: molto spesso vengono visitati solo da aspiranti poeti, che a loro volta li visitano solo per proporre i loro versi alle redazioni di quei siti. E poi ad aprire un blog di poesia, che spesso ha vita breve, non servono grandi competenze, grande talento, grandi curriculum, grandi referenze. È ammirevole lo sforzo profuso da molti, ma non andiamo oltre e voliamo basso, rasentando terra, come cantava Bob Dylan. Infine forse non ha alcun senso scrivere, se non si è pagati. Quelli capaci e/o furbi scrivono canzoni, per la televisione o per il cinema. Non ha alcun senso spedire quotidianamente il proprio messaggio nella bottiglia nel mare magnum del web. Gli italiani leggono solo libri di intrattenimento oppure testate giornalistiche online per aggiornarsi gratuitamente. A onor del vero non comprano neanche più quotidiani. E allora c'è poco da autoesaltarsi o da vantarsi per un libro pubblicato a pagamento o comunque presso una piccola casa editrice. Non tutti gli scrittori e non tutti i poeti hanno il coraggio e la capacità di trovare la verità dentro di sé e nel mondo circostante, a volte non la cercano neppure, e pochi lettori hanno la capacità e la voglia di raccoglierla questa verità. Chi vuole scrivere dovrebbe farlo, nonostante tutto, con un minimo di pragmatismo, di umiltà, a capo chino, soprattutto scribacchiando le sue cose nel web, quasi esclusivamente nel web. E non dovrebbe scrivere per vanità, per profitto o per personal branding. Con la letteratura è molto difficile campare. Campare facendo gli scrittori è quasi un'utopia. Non si dovrebbe scrivere per trovare un proprio posto nella società: si finirebbe disillusi, disperati e/o sul lastrico. Consiglio a tutti gli aspiranti o sedicenti scriventi che hanno troppe albagie di leggere o rileggere sempre "Fiorirà l'aspidistra" di Orwell e "Lettere a un giovane poeta" di Rilke. In quest'ultima opera il grande poeta scriveva che per scrivere e per trovare le vere ragioni, le vere motivazioni della nostra scrittura bisogna innanzitutto guardare dentro di noi. Questa è la più grande verità che sia stata scritta per coloro che vogliono fare arte. 

 

È primavera. Svegliatevi bambine...

mar 242023

 

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In fondo che mi manca? Un tetto sotto cui dormire ce l'ho. Così come ho 4 mura che mi riscaldano d'inverno e mi tengono al fresco d'estate. Ho da mangiare e da bere. Ho un bagno in cui cacare. Ho i miei genitori e mia sorella. Ho un cane che mi fa i complimenti. Ho una zona molto tranquilla in cui camminare. Ho un bar in cui prendere i caffè e in cui conosco qualcuno per fare due chiacchiere. Ho una biblioteca comunale in cui prendere dei bei libri usati a 1 euro, mezzo euro o 2 euro. Ho una camerina tutta mia in cui posso leggere, raccogliermi, meditare sulla vita e sul mondo. Ho un posticino in cui mangiare una pizza con il mio migliore amico. In fondo sono fortunato perché altrove si muore di fame o di guerra. E inoltre godo di buona salute. Che me ne importa del sesso, dell'amore? Oh certo…tutto l'amore che ho provato e che non è stato ricambiato!?! Oh certo l'imperativo sociale qui è avere una scopamica! Oh certo ora è primavera e quei due ragazzi davanti a me si scambiano effusioni e io sono solo. No. Non posso considerare solo questo. Certamente ho dei momenti di crisi ogni tanto, ma sono più le cose che ho di quelle che non ho ed è a queste che devo guardare, non mi devo crucciare troppo, fissare troppo su ciò che non ho avuto, su ciò che non ho. Ci sono cose che la letteratura e le scienze umane non sempre ti insegnano. Ci sono cose che a scuola non ti insegnano. Puoi solo impararle dalla vita vera. E infine nessuno è solo a primavera. Siamo tutti partecipi del creato. E poi fuori è primavera e c'è il cielo sgombro, il tepore del sole, la vita, anche per chi non ha un amore.

Sull'egoismo, il possesso, il cambiamento che non avviene...

feb 262023

 

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L’egoismo dal punto di vista economico si manifesta con il possesso e l’avidità. Inoltre c’è la voglia di comandare, di dominare: insomma il potere dell’uomo sull’uomo. Ma l’arricchimento da parte di taluni deriva anche dalla paura del futuro. Dal punto di vista sessuale e sentimentale abbiamo anche qui il possesso, ma anche la paura di rimanere soli e l’angoscia di separazione. Ancora oggi per molti uomini ad esempio la donna è considerata di loro esclusiva proprietà, anche se sono i criteri della società a stabilire cosa considerare come perdita del possesso (di solito il tradimento sessuale). Di certo la povertà in ambito economico e la solitudine in ambito affettivo sono delle ingiustizie ai danni di alcuni. Ma se si volesse riparare queste ingiustizie nascerebbero altre ingiustizie. Ciò che io considero ingiustizia per alcuni è un diritto acquisito o una giusta ricompensa dei sacrifici o delle scelte di vita e viceversa. Perfino i comunisti credono nel motto: “a ciascuno a seconda delle sue capacità e dei suoi bisogni”. Ma in questa celebre frase ad esempio ci si scorda dell’impegno. I liberali invece si scordano che la fortuna gioca un ruolo determinante nello stabilire le sorti di una persona. Non c’è accordo unanime perché dove alcuni comunisti vedono la fortuna i liberali vedono il merito e viceversa. Ma come non pensare che nascere in una famiglia ricca e di sani principi non sia una grande fortuna? E se tutto dipendesse dalle capacità, non è forse una gran fortuna nascere con delle grandi capacità? È innegabile tutto ciò. Che fare allora per riparare tutti questi privilegi e ingiustizie? Eliminare la proprietà privata, come voleva Rousseau? Dividere tutto in parti uguali? Ritornare allo stato di natura? Riformare completamente lo stato di diritto, che garantisce, tutela, protegge i privilegiati? Oppure ognuno dovrebbe fare una scelta radicale e abbracciare la povertà come San Francesco? Una cosa è certa non si può vivere senza uno Stato. Io ad esempio vorrei uno Stato minimo, come Nozick. Ma ci vuole uno Stato. Ci vuole un contratto sociale perché la libertà selvaggia porterebbe alla guerra di tutti contro tutti, scatenerebbe la barbarie. Ci vogliono anche gli imperativi categorici kantiani, ma siamo certi che la legge morale non sia un modo di preservare i privilegi e non opporsi alle ingiustizie? Gran parte dei pensatori socialisti e utopisti pensava di poter cambiare la società a partire dall’uomo semplice con bisogni semplici. In fondo se tutti fossimo dei cittadini semplici con dei bisogni semplici nessuno vorrebbe di più e tutti si accontenterebbero. Ma la società capitalista ogni giorno inventa nuovi bisogni e nessuno è mai soddisfatto. Oltre a questo l’uomo per sua natura non si accontenta mai di quello che ha: è una costante antropologica. Oltre al problema di cosa cambiare e cosa fare, esiste un altro problema insanabile: di solito gli innovatori si dividono in coloro che vogliono difendere strenuamente le libertà, i diritti di tutti e coloro che vogliono soddisfare i bisogni primari di tutti. Visto e considerato che al mondo d’oggi non vengono ancora tutelati i diritti di tutti, né soddisfatti i bisogni primari di tutti, ecco allora che già in partenza ci sono divisioni profonde, incomprensioni, divergenze di vedute, analisi e sintesi differenti. Come al solito non ci si mette mai d’accordo e il cambiamento avviene raramente e in modo molto marginale. 

Sui valori, veri o presunti...

feb 012023

 

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Tutti sono concordi nel dire che a questo mondo non ci sono più valori. I preti parlano giustamente di secolarizzazione. Pasolini scriveva che negli anni settanta si stavano sempre più affermando i valori del consumismo, improntati sull'edonismo, sul laicismo, sulla tolleranza a discapito dei valori della tradizione cattolica. È difficile stabilire quali sono i valori che prevalgono oggi in questa Italia. Come scrive Giovanni Siri i valori a livello psicologico strutturano l'identità e la personalità di base di una persona. Dalla discrepanza tra valori e comportamento possono scaturire disagio esistenziale, sensi di colpa, tormento. Ma è anche vero che un valore non è una meta raggiungibile una volta per tutte, a cui approdare definitivamente, ma un principio che ci chiede continuamente prove, riprova e conferme. È difficile essere totalmente coerenti ai propri valori. Un valore è un fine a cui tendere quotidianamente. Aristotele sosteneva che più che professare dei valori bisogna metterli in pratica e qui la cosa si fa davvero difficile, quasi impraticabile, molto facile a dirsi e molto difficile a farsi. Per Allport i valori sono delle credenze morali. Alcuni studiosi fanno sottili distinguo tra valori e ideali. I valori per alcuni sono solo teorici, mentre dovrebbero anche per essere tali diventare delle norme di comportamento. Per altri i valori sono delle regole da seguire pedantemente, ma di cui non avvertono al di là della prassi la portata interiore di certe leggi morali. I valori dovrebbero essere vissuti sia interiormente che praticamente, perciò nessuno è una persona veramente risolta nei confronti della propria sfera valoriale, anzi è una partita sempre aperta, che dura tutta la vita e di cui è difficile, quasi impossibile sapere il risultato. Bisognerebbe vivere autenticamente i nostri valori, crederci veramente e seguirli nella quotidianità, ma spesso ci sono ostacoli insormontabili nel praticarli e poi chi ci dice che i valori che crediamo nostri siano veramente nostri? Spesso sono i valori che ci hanno inculcato da piccoli, ma forse questo non importa. Importante è stare bene con sé stessi nel viverli. In psicologia ci si basa sui valori per determinare la devianza o meno di un individuo. La psicologia ci insegna che negli ultimi anni gli uomini occidentali hanno delle "personalità fluttuanti", talvolta piene di piccole incoerenze e contraddizioni. Di solito di usa dire che uno che uno ha valori, è di sani principi. Ciò significa di solito che è un uomo all'antica, che non beve, non si droga, non è gay. Alcuni si dicono uomini di onore e per l'onore sono pronti a farla pagare per un apprezzamento volgare rivolto alla loro ragazza. Al di là di ogni ricerca di psicologia è giusto ritenere che ancora oggi i valori degli italiani almeno in teoria siano basati sulla morale cattolica. Vale ancora oggi ciò che scriveva Croce, ovvero che in Italia non si può non dirsi cristiani. Probabilmente a livello giovanile c'è un fiorire di "personalità fluttuanti", ma inserite, volenti o nolenti, in un contesto socioculturale cattolico. Il nostro Paese, volenti o nolenti, è un baluardo, una roccaforte del cattolicesimo in un mondo in cui prevalgono sempre di più la soggettività dei valori e il relativismo culturale. Ma cosa si intende ad esempio per valori? I più comuni sono Dio, la giustizia, la libertà, la solidarietà, l'amore. Comunque data una morale qualsiasi la gente peggiorerà, deteriorerà, deformerà sempre a sua immagine e somiglianza, a suo piacimento quei codici etici. Sgombriamo il campo da ogni equivoco: non è la morale cristiana che si presta ontologicamente all'odio. Sono piuttosto gli animi delle persone che covano l'odio. Non è la morale sessuale cattolica ad essere omofoba oggi (un tempo lo era), ma è soprattutto una quota parte della popolazione ad essere omofoba per i più disparati motivi psicologici. Nella Bibbia c'è anche scritto che chi è senza peccato scagli la prima pietra, c'è scritto di amare il prossimo tuo come te stesso, c'è scritto di non fare mai agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. I valori per certi versi vengono sempre stravolti dalla popolazione, che giudica e condanna il prossimo. Data un'etica qualsiasi una parte della popolazione trasformerà dei valori impeccabili in disvalori e commetterà delle ingiustizie. Fa parte della realtà delle cose.

 

 

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A ogni modo esiste una sorta di pansessualismo della morale degli italiani. Viene data dagli italiani grande importanza alla sfera sessuale, che determina l'onorabilità e la reputazione delle persone. Molto spesso è il giudizio impietoso su una sfera così intima come quella sessuale e non la professionalità, l'onestà, la lealtà, la validità che determina la vita sociale delle persone, soprattutto in provincia e l'Italia è fatta più che altro da piccoli paesi. Per alcuni comunque non ha più un senso parlare di valori perché la parola valore è un termine desueto. Viene da chiedersi che senso ha parlare di valori in un mondo in cui gli uomini sono dei mezzi e dei mezzi come il denaro diventano dei fini. Viene da chiedersi che senso ha parlare di valori quando conta un sistema premiante imperniato sull'avere, sull'apparire, sul successo. La maggioranza cerca gratificazioni immediate, il facile consenso nel numero dei like, nel culto della macchina, intesa come status symbol, nel carnet di conquiste femminili esibite agli amici come trofei di caccia. Probabilmente i valori più importanti da promuovere oggi sono il rispetto per l'ambiente, il rispetto per la dignità umana, la capacità di vivere qui ed ora. Rispetto a quest'ultimo principio c'è da ricordare che molti vivono talmente immersi nel virtuale da non saper più godere il reale. Ma come dice la filosofa Ilaria Gaspari in una intervista chi si ferma a fotografare la luna ritorna a casa con una fotografia che non rende la bellezza della luna vista e vissuta realmente. Chi fa delle foto in pizzeria per metterle sui social difficilmente si gode il momento. Ritornando alla moralità degli italiani questa si è sempre distinta tra etica pubblica e moralità privata. Ancora oggi si pensa che un politico dovrebbe essere di specchiata moralità e spesso con questa espressione si sottintende che non abbia mai avuto scandali sessuali, che rispetti la morale sessuale corrente. Molti pensano ancora oggi che senza un'adeguata condotta morale non si possa essere buoni politici. In realtà abbiamo avuto uomini politici corrotti che erano irreprensibili mariti e padri di famiglia, ma forse erano altri tempi. Forse alcuni politici allora scelsero deliberatamente il compromesso come male minore. A onore del vero in Italia oggi la reputazione è fatta da molta ipocrisia e perbenismo, perdendo di visto l'onestà, la lealtà, la correttezza, l'incorruttibilità, l'affetto, il rispetto reciproco, mentre invece ancora oggi ipettegolezzi pruriginosi hanno la meglio.

 

Arte, scrittura e terapia...

gen 212023

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Non tutto ciò che è terapeutico diventa ufficialmente psicoterapico. Solo nel 1961 Boris Levinson definì il cane come "coterapeuta" ad esempio. Eppure i benefici degli animali domestici erano noti da millenni. Ma solo con la pet therapy sono stati, per così dire, istituzionalizzati a livello psicologico. Allo stesso modo non tutti i disturbi psichici dell'umanità sono classificati nel DSM. Ogni volta il manuale viene aggiornato e spuntano fuori nuove sindromi. D'altronde la natura umana è la stessa, ma l'ambiente, gli artefatti, il modo di ambientarsi a essi sono sempre nuovi. Lo stesso disturbo psichico inoltre può essere diagnosticato in modi diversi a seconda della cultura di appartenenza dello psicologo. A dirla tutta neanche tutto ciò che è psicoterapico ha proprietà terapeutica: talvolta per la scarsa ricettività del paziente, talvolta per la scarsa efficacia del curatore o della cura. Spesso le persone usano gli psicofarmaci perché come dicevano gli analisti un tempo almeno questi inibiscono il sintomo, anche se non eliminano il problema psicologico. Prima di continuare su questa falsariga espliciterò alcune mie convinzioni: tutti avremmo bisogno di uno psicologo, anche gli stessi terapeuti avrebbero tutti bisogno di un supervisore, per una buona salute mentale pubblica. Per quanto riguarda i benefici interiori dell'umanesimo possiamo citare tre pratiche psicologiche abbastanza recenti: la biblioterapia, la psicosintesi di Assagioli, l'arteterapia. Per chi volesse approfondire la biblioterapia consiglio di leggere i due libri dello scrittore Miro Silvera, editi entrambi da Salani. In questo caso il terapeuta consiglia di leggere dei volumi per far acquisire una maggiore autoconsapevolezza ai pazienti. Esiste catarsi e beneficio psichico sia nella fruizione di opere d'arte che nell'esprimersi artisticamente. Male che vada anche il più goffo tentativo di esprimersi artisticamente è un modo per conoscersi meglio, per una migliore esplorazione di sé. La psicosintesi di Assagioli prevede anche lo scrivere un diario interiore perché l'io raggiunga il Sé transpersonale. Scrivere per Assagioli è un modo efficace per conoscere le proprie subpersonalità, per approdare a ogni tipo di inconscio, anche quello individuale superiore, fatto di simboli, e anche quello collettivo, costituito da archetipi. Secondo Assagioli esiste un inconscio inferiore, quello freudiano, un inconscio medio, costituito dalla razionalità, e uno superiore, sede della creatività. Secondo lo schema psichico o diagramma dell'ovoide di Assagioli tutte le istanze psichiche sono comunicanti, esiste un continuo interscambio tra conscio e inconscio: ecco perché le linee che collegano i vari nuclei psichici sono tratteggiate nella figura. Il diagramma dell'ovoide è fondamentale perché l'individuo compia il suo percorso di individuazione. Ma ancor prima del geniale Assagioli, considerato dallo stesso Jung e ideatore di una delle più importanti scuole di psicoterapie italiane, era nota a molti la scrittura come autoterapia. Così come l'arteterapia era già nota agli antichi greci. Le tragedie greche avevano un effetto catartico collettivo. Per quanto riguarda l'arteterapia si sono diffuse molto la musicoterapia e la teatroterapia. Fondamentale per questa scuola è la figura carismatica dello psicoterapeuta, che dovrebbe essere anche un artista a tutti gli effetti. Invece molto spesso non lo è e conosce solo teoricamente senza averle sperimentate di persona le tappe del processo creativo. Ci sono tanti presunti professionisti che in realtà sono improvvisati. Così facendo, i pazienti/discenti sono allo sbaraglio. Però sgombriamo il campo da ogni equivoco: i pazienti non devono avere aspettative troppo elevate e pensare di guarire completamente con queste pratiche psicologiche o di diventare artisti a tutti gli effetti. In definitiva l'arte non ha salvato tutti gli artisti. Molti hanno dovuto convivere malamente lo stesso con la loro nevrosi o psicosi. I suicidi tra gli artisti sono ricorrenti. Lo stesso psicodramma di Moreno può risultare davvero terapeutico e formativo perché è il cosiddetto teatro della spontaneità, è un'occasione di incontro. Con lo psicodramma avevano luogo molte trasformazioni e molte rivoluzioni interiori: questo spaventava i dittatori sudamericani che infatti lo proibirono. Anche i cosiddetti libri di filosofia pratica possono farci evolvere interiormente e aiutarci nel nostro cammino. La consulenza filosofica può aiutare, tant'è che in America è diffusa. Un'ultima cosa: perché queste pratiche psicologiche facciano effetto bisogna che la persona creda veramente in chi la guida, in quello che sta facendo e nei benefici interiori dell'umanesimo. Una volta consigliai a un amico depresso, che era stato lasciato dalla ragazza, tre libri: Lettera alla madre sulla felicità di Alberto Bevilacqua, La conquista della felicità di Bertrand Russell, E liberaci dal male oscuro di Cassano. I primi due libri erano umanistici. Il terzo era sulla depressione ed era scritto da uno psichiatra. Ebbene non li apprezzò. Non stimava me né quegli autori e credeva, avendo una formazione scientifica, che l'umanesimo fosse un'enorme perdita di tempo. Invece anche i libri possono essere antidepressivi. Anche queste scuole psicoterapiche fanno parte della terapia della parola. Anche i libri possono cambiare e migliorare a lungo termine la nostra neurochimica. Per quanto riguarda esprimersi artisticamente allo stesso modo ogni sintomo può diventare un simbolo. Le recenti scuole psicoterapiche suddette comunque non hanno influenzato ancora la letteratura, come fece a suo tempo la psicoanalisi, con Virginia Woolf, Kafka, Joyce, Svevo, Moravia, Gadda. In poesia in fondo gli automatismi psichici dei surrealisti e il paroliberismo dei futuristi scaturiscono dalle libere associazioni freudiane, così come i monologhi interiori e i flussi di coscienza di tanti scrittori derivano dalla scuola psicoanalitica. La psicosintesi, la biblioterapia, l'arteterapia non hanno fatto altro che confermare conoscenze già note agli umanisti, pur non sottovalutando l'apporto significativo di questi maestri di pensiero. Freud invece è stato un grande innovatore e grazie a lui gli artisti hanno iniziato a esplorare l'inconscio in modo mai così approfondito, anzi prima della psicoanalisi molti lo rimuovevano. Perché un'opera sia veramente artistica, secondo il diagramma dell'ovoide di Assagioli, l'io deve approdare al Sé transpersonale, almeno in modo parziale e provvisorio, e anche all'incontro collettivo, anche esso in modo almeno parziale e provvisorio: un'opera artistica quindi si caratterizza prima di tutto per la sua universalità a livello psichico. Dispiace che la letteratura difficilmente sia mitopoietica, ovvero non crei più miti, grazie a cui si potevano fissare degli archetipi nella psiche dei fruitori. I greci avevano il nichilismo, ovvero la concezione secondo cui persone e cose sono nel niente, esistono nel divenire e poi ritornano nel niente, ma avevano anche una letteratura mitopoietica, che trasmetteva dei valori perché in ogni mito c'era un principio etico e ogni favola aveva una sua morale. Questo era l'antidoto efficace al nichilismo. Oggi solo il cinema in parte è mitopoietico, ma più che miti spesso lo show-business crea mode e idoli di celluloide, che dopo qualche mese vengono sostituiti e fagocitati. Oltre ad avere un bombardamento pornografico e un bombardamento di notizie l'uomo contemporaneo è bombardato da miti di ogni genere di brevissima durata.

 

Sui limiti, Leopardi, le capacità intellettive...

gen 132023

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Il limite può essere inteso come mancanza, difetto oppure come confine. Ai tempi dell'università pensavo ingenuamente che uno dei modi di superare il nichilismo fosse creare una metafisica dei limiti, che io avevo chiamato limitismo, ovvero riconoscimento dei limiti fisici, ontologici, conoscitivi, esistenziali della specie umana. D'accordo ci sono senza ombra di dubbio dei modi più efficaci per sconfiggere il nichilismo, per combattere quello che Junger e Heidegger chiamavano il "Leviatano": una letteratura mitopoietica, ritornare a Parmenide, credere in Dio. La verità è che allo stato attuale delle conoscenze nessuno può stabilire con esattezza questi limiti. L'uomo ha dei limiti? Nessuno lo sa con certezza. C'è un limite nell'aspettativa di vita? Non si può campare più di 120 anni? Oppure può essere sconfitto l'invecchiamento e si può diventare immortali? Nessuno sa cosa sarà la vita umana e cosa sarà l'uomo in futuro. La scienza ha dei limiti? Forse oggi si può stabilire con maggiore accuratezza i limiti metodologici di una disciplina, ma anche questa è una conoscenza provvisoria. Chomsky sostiene che se nessuno ha mai dimostrato in modo semplice l'ultimo teorema di Fermat, come pensava di aver fatto il celebre matematico, vuol dire che forse la mente umana non è fatta per questo ma significa anche che sappiamo risolvere altri problemi. Esiste quindi una sorta di meccanismo di compensazione. Può benissimo darsi -scrive Chomsky- che un extraterrestre con una struttura mentale diversa dimostri subito l'ultimo teorema di Fermat senza alcuna difficoltà. Non esiste una stima oggettiva e certa delle capacità intellettive. Kant originariamente aveva chiamato la Critica della Ragion Pura “Limiti della Sensibilità e dell’Intelletto”. Non per criticare il grande genio di Kant ma nessuno sa stabilire il sostrato noumenico, irraggiungibile per la mente umana. Sappiamo che la nostra mente ha dei limiti empirici nel percepire il nulla e l'infinito, gli "interminati spazi", i "sovrumani silenzi" leopardiani. Sempre per riprendere "L'infinito" di Leopardi noi miseri esseri umani possiamo percepire l'indefinito e mai cogliere pienamente l'infinito. La differenza nel celebre capolavoro sta tutta nel pronome dimostrativo: l'infinito è "di là di quella" (siepe), mentre l'indefinito viene nominato con "questo mare", "quest'uomo colle", "queste piante". Perfino "quest'immensità" deve intendersi come percepita soggettivamente e non come ciò che è illimitato in modo assoluto, come al di là di un confine oggettivo ad esempio. Abbiamo quindi dei limiti certi oppure possiamo sempre superarci? Forse la vita umana è come la dialettica hegeliana e consiste tutta in una serie progressiva di autosuperamenti nel migliore dei casi. Una cosa è certa: nessuno sa definire i limiti propri, mentre è assolutamente certo di identificare quelli altrui. A tutti sembra così facile dire quali sono i limiti mentali altrui. La verità è che nessuno può stabilirlo.

 

 

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Un tempo gli psicologi ritenevano che le attitudini fossero stabili per tutta la vita. Ma è una concezione datata. Non è assolutamente così. Si può perdere dei punti o acquistarli, intellettivamente parlando. Un tempo pensavano che il Q.I fosse stabile. Un tempo nei "Cinque libri del sapere" trovai un grafico in cui per ogni professione c'era il Q.I necessario per esercitarla. Non è così semplice. È una concezione retrograda. È vero che esistono delle professioni cosiddette intellettuali, ma è difficile stabilire il livello intellettivo: si può solo stabilire approssimativamente il livello culturale. Esistono i falsi positivi e i falsi negativi in ogni test che si rispetti, anche nei test d'intelligenza. Come ne "Il cavaliere inesistente" di Calvino esistono dei Gurdulù che dovrebbero avere tutti i requisiti per essere validi, non essendolo, e degli Agilulfo, che non avrebbero modo di esistere e invece sono validi. L'intelligenza di una persona può migliorare o peggiorare, ammesso e non concesso che si riesca a definire in modo univoco che cosa sia l'intelligenza umana. I neurologi e i neuropsicologi hanno scoperto recentemente molte prove della neuroplasticità umana. Tutto sta nell'applicarsi con costanza e impegno, nel versarsi in una materia. Stabilire dei limiti così come cercare di rintracciare delle potenzialità inespresse talvolta è cosa soggettiva. Se non capisci una cosa oggi puoi sempre capirla domani, se spiegata o approcciata in modo diverso. Alcune cose non è assolutamente necessario saperle. Se non sei un fisico non è importante sapere come funziona l'interferometro. Importante è che tu sappia per un minimo di cultura generale che con esso sia stato dimostrato che l'etere non esisteva, che la relatività galileiana non valeva per la luce e che da quell'esperimento fallimentare Einstein capì che la luce aveva velocità costante, uno dei capisaldi della sua teoria della relatività. A volte basta sapere l'abc. Altre volte però è necessario approfondire. A volte la mancanza di apprendimento sta nel discente che non capisce ma talvolta anche nel docente che non si sa spiegare bene, che salta dei passaggi, che dà alcune nozioni per scontate. Se uno è genitore non deve credere in modo totale agli insegnanti che dicono che suo figlio è un genio oppure uno duro di comprendonio. Valutare le capacità cognitive è una cosa molto difficile e probabilmente i test di intelligenza non è detto che misurino l'intelligenza, come pensava alla fine della vita Cattell. Poi il giudizio degli insegnanti può essere errato e basato su delle distorsioni cognitive. Ci possono essere allievi sottostimati e altri sovrastimati. Però molti insegnanti spesso in perfetta buona fede credono di poter stabilire con certezza assoluta le capacità dei loro allievi. Sempre in perfetta buona fede alcuni insegnanti decidono in modo negativo il futuro dei loro allievi o almeno li condizionano in modo negativo. Alcuni insegnanti pensano di poter valutare l'intelligenza dei loro alunni in base alle competenze acquisite e in base all'esperienza. Tutto ciò può invece portare a formulare giudizi totalmente errati. Un insegnante non può stabilire con esattezza le abilità, l'impegno, la motivazione, il grado di sviluppo fisico e cerebrale di un adolescente ad esempio. Basarsi sull'esperienza può essere fallace. I test di intelligenza prima di essere validati ufficialmente vengono prima sottoposti a decine e a volte a centinaia di migliaia di soggetti. Nonostante questa standardizzazione di massa i test sono ancora criticabili e considerati perfettibili. Immaginiamoci quanto è poco attendibile l'esperienza di un insegnante, basata su un numero limitato di casi! Lo studio delle capacità intellettive è forse ancora agli albori. Il grande psicologo comportamentista Watson sosteneva che tutto dipendeva dall'ambiente e che se gli avessero dato da educare dei bambini li avrebbe fatti diventare quel che lui volesse: scienziati, scrittori, impiegati, operai, eccetera eccetera. Mi fanno ridere alcuni che credono di non avere limiti. Ma mi fanno ridere anche alcuni che fanno la predica a altri, dicendo che devono riconoscere i propri limiti. Se una cosa non ti riesce ora può darsi che ti riesca domani. Nessuno può stabilire con esattezza il motivo per cui non ti riesce: può essere ansia, mancanza di capacità, mancanza di interesse, mancanza di impegno, inesperienza oppure un insieme di tutti questi fattori. Non porsi limiti significa proiettarsi all'infinito, avere una fiducia smisurata delle proprie qualità: questo è troppo, bisogna sapersi fermare, bisogna saper circoscrivere la nostra sfera di competenza, nessuno può diventare onnisciente. Ma è sbagliato anche rinunciare a molto, dire troppi no, non provarci, dire troppe volte "non posso", "non ci riesco", "non ce la farò mai". Esiste un settore della psicologia chiamato "crescita personale" in cui i coach propongono ai clienti/pazienti di superare ogni tipo di limite mentale, da loro stessi definito "blocco mentale". Diffidate di questo tipo di psicologia troppo spicciola e motivazionale: non è tutto così facile, spesso è solo un modo per spillare soldi e fare business. Ritornando alle abilità, se un compito non ci riesce la prima volta che ci viene presentato può diventare più facile le volte dopo perché più familiare. Spesso l'esperienza e l'abitudine giocano un ruolo fondamentale. Tutto sta nel non abbattersi e nel non mollare troppo presto la spugna. A ogni modo nel valutare le capacità proprie e altrui bisogna essere sempre possibilisti.

Luci e ombre sul Nobel per la letteratura...

dic 202022

 

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Qualche tempo fa 18 donne denunciarono pubblicamente di essere state molestate da Jean-Claude Arnault, marito dell'accademica Katarina Frostenson. Questo scandalo travolse il premio Nobel per la letteratura. Da allora il Nobel per la letteratura è meno considerato. Negli anni si è molto discusso delle scelte a dir poco opinabili dell'Accademia svedese. Qualcuno riteneva a torto o a ragione che alcuni accademici alzassero il gomito. Ma quale scrittore può vincere il Nobel? Quali sono i requisiti? Ebbene chiunque abbia dato in termini generici "considerevoli benefici all’umanità” e chi "si sia maggiormente distinto per le sue opere in una direzione ideale". Ci sono sempre molte diatribe e polemiche riguardo al Nobel per la letteratura. Fortunatamente per ora nessuno si può autocandidare, ma nonostante ciò ci sono molte associazioni culturali, molte accademie di paesini sperduti che candidano al Nobel i loro preferiti. Certe candidature non sono minimamente credibili, ma certi personaggi in questo modo possono fregiarsi dell'etichetta "candidato al Nobel per la letteratura". Sicuramente per alcuni autori il Nobel è un'ossessione. Non sempre la candidatura viene fatta con cognizione di causa, a ragion veduta. Lo stesso Licio Gelli venne candidato al Nobel per la letteratura. L'associazione in teoria deve essere rispettabile e riconosciuta. Detto in termini più appropriati, deve essere selezionata dal comitato del premio Nobel per la letteratura. In Italia l'istituzione più seria in questo senso è l'Accademia nazionale dei Lincei, ma va bene anche il Pen Club. Dopo che è stato reso noto il nome del vincitore nei circoli letterari scaturiscono molte polemiche. Quando l'autore è sconosciuto ci si chiede chi sia questo carneade e molti pensano che sia dovuto a una ragione prettamente politica: alcuni sterili polemisti dicono per esempio che lo hanno scelto perché africano oppure perché oppresso ed esiliato, non per merito o bravura. A onor del vero le minoranze sono sottorappresentate. Pochi africani hanno vinto. Per non parlare degli scrittori asiatici. In compenso l'Europa può vantare un grande numero di vittorie. Niente contro la letteratura francese, certamente di grande tradizione, ma che dire delle sue 15 vittorie? E che delle 12 vittorie degli Stati Uniti? E che dire delle 8 vittorie della Svezia? E che dire del fatto che i cinesi sono 1 miliardo e 400000 ma solo due scrittori cinesi hanno vinto? Ci sono molte controversie. Innanzitutto come ha avuto modo di interrogarsi il poeta Luca Alvino: come mai per altre discipline il Nobel può avere vari vincitori mentre in letteratura no? Forse premiare più scrittori nello stesso anno significherebbe scrivere più motivazioni e ciò potrebbe apparire paradossale? Oppure bisognerebbe scegliere più scrittori e motivare le scelte con la stessa motivazione? Ma esiste una motivazione valida per più premiati? Andiamo oltre. Due volte è stato rifiutato il premio: da Pasternàk e da Sartre. Ci furono polemiche anche per il Nobel attribuito a Bob Dylan. Qualcuno sostenne che avevano dato il premio a un cantante, come se il grande menestrello fosse un semplice cantante.

 

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Polemiche tutte nostrane ci furono per il Nobel a Dario Fo. Allora alcuni dissero che era stato premiato un buffone, mentre il poeta fiorentino Mario Luzi aveva subito una grave ingiustizia. Luzi certamente era un professore universitario stimabilissimo e allora veniva considerato il più grande poeta del mondo. Il poeta fiorentino aveva scritto capolavori come "Nel magma". Evitando l'effimero e cercando l'eterno non scadeva mai nel patetico, come ebbe a scrivere Carlo Bo. Giuseppe De Robertis scriveva che le sue poesie erano "un continuo parlare a sé, all'anima, o a persona vicina e compagna di vita". Luzi spiccava per la sua espressività, per il suo simbolismo, per la sua vita interiore così ricca, infine per il suo spessore culturale. Le sue opere si contraddistinguevano per gli endecasillabi canonici, per le analogie mai scontate. Luzi diceva a tutti che c'era sempre qualcosa di ermetico nel reale, un quid enigmatico e sfuggente. La sua condizione esistenziale assumeva una forma universale. L'animo umano compenetrava il paesaggio e viceversa, non a caso "l'albero di dolore" scuoteva "i rami". Era tutto teso a cogliere i propri moti dell'animo e al contempo "l'immobilità del mutamento". "Nel magma" si poteva rintracciare la sua più alta espressione per i fitti dialoghi, per gli interrogativi esistenziali, per la commistione felice di percezione e filosofia, per essere un libro sapienziale, proprio come alcune opere dell'Antico Testamento. Per chi volesse approfondire la conoscenza del poeta fiorentino è consigliabile leggere "Saggio su Mario Luzi" di Anna Panicali (Garzanti editore). Però pochi leggono Luzi. È sempre stato di nicchia, come moltissimi poeti. Pochi avevano letto la sua opera omnia, come fecero Carlo Azeglio Ciampi e sua moglie Franca, che passarono una notte intera a rileggere i suoi versi prima di nominarlo senatore a vita. Ma anche il sottovalutato Dario Fo non era da meno: aveva utilizzato il Grammelot in "Mistero buffo", aveva portato in teatro e fatto conoscere ai più Ruzzante. Certo politicamente poteva essere divisivo: era un uomo schierato e aveva difeso a spada tratta Adriano Sofri, che la Corte di Cassazione aveva condannato come mandante dell'omicidio Calabresi. L'Italia era spaccata in due tra innocentisti e colpevolisti a riguardo. A ogni modo Fo aveva molti meriti e alcuni lo definivano un giullare di Dio. Chi ha una certa età si ricorderà che gli fu comunicata la vittoria quando era in macchina con Ambra Angiolini, con cui festeggiò. L'Italia, per quanto non sia una nazione importante politicamente e la cui lingua sia parlata relativamente da poche persone, ha vinto il premio ben 6 volte con Carducci, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Montale, Fo. Certamente ci furono delle polemiche per i Nobel alla Deledda e a Quasimodo perché alcuni letterati non li consideravano meritevoli, non li ritenevano all'altezza. Invece un gigante come Ungaretti non lo vinse mai. Lo stesso vale per Pascoli.

 

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Alda Merini fu candidata ma non lo vinse. Aveva descritto l'inferno dei manicomi, la povertà, il disagio psicologico come nessuno. Il suo genio fu ripagato con l'indifferenza: fu sempre senza lavoro e fu sempre a corto di soldi. Gli italiani dimostrarono di non avere gratitudine e non diedero alcuna solidarietà a una donna così straordinaria, che aveva grande sensibilità. Albino Pierro fu in lizza e la sua candidatura accese i riflettori sulla sua Tursi. Tonino Guerra era ben visto a Stoccolma perché eccellente poeta e inoltre sceneggiatore di Fellini. In un suo celebre componimento scriveva che c'erano persone che da generazioni facevano case e non possedevano una casa. In pochi ma memorabili versi c'era tutta l'ingiustizia capitalista, l'iniqua distribuzione della ricchezza. Anche Alberto Bevilacqua fu candidato, ma da alcuni era ritenuto troppo commerciale, troppo presenzialista in TV. Comunque forse la vera ragione era che non gli perdonavano libri come "La califfa", in cui un'operaia si innamora del padrone, e "La polvere sull'erba", in cui trattava degli omicidi nel triangolo della morte nell'immediato dopoguerra. Pasolini se non fosse stato massacrato sarebbe stato in lizza per il Nobel. Ma il potere gliela fece pagare per i suoi Scritti corsari. Non lo colpì per la sua diversità, ma tramite la sua diversità. Lo colpì nel suo punto debole in una delle sue notti brave. Anche Zanzotto probabilmente fu uno dei papabili per la vittoria. Tra i suoi meriti quello di aver diffuso il dialetto veneto, di aver creato quasi dal nulla un nuovo modo di fare poesia, di aver denunciato l'inquinamento e la perdita di identità della sua gente nel cosiddetto mitico Nord-Est. Zanzotto era un poeta estremamente lucido e brillante. Un suo detto memorabile che amava ripetere nelle sue interviste e spiegava tutto sulla sua lirica "Al mondo" era che nella vita bisogna fare come il barone di Munchausen, ovvero bisogna tirarsi fuori dalle sabbie mobili afferrandosi per i capelli. Aveva come difetto il fatto che la sua poesia metteva a dura prova anche i più preparati, ma era allo stesso tempo il segno inequivocabile che con lui si dovesse fare letterariamente i conti. Anche Dacia Maraini fu candidata e non vale la pena soffermarsi perché è una scrittrice davvero celebre. Più recentemente molti avanzarono la candidatura di Claudio Magris per la sua produzione saggistica di elevata qualità e per la sua promozione della letteratura mitteleuropea. Si parlò anche di Roberto Benigni per la divulgazione della Divina Commedia. Qualcuno a onor del vero considerò biasimevole questa scelta. I più esigenti ritenevano che l'esegesi di Benigni fosse inadeguata, approssimativa e in un certo modo improvvisata, se si confrontava alla smisurata preparazione di Vittorio Sermonti. Naturalmente non poteva mancare tra i papabili il grande Umberto Eco, uno dei pochi intellettuali noti in tutto il mondo grazie a "Il nome della rosa". Era uno dei fondatori del gruppo 63 e pochi sanno che fu anche uno degli ideatori del Dams. Oltre a essere un grande scrittore fu un professore universitario, un semiologo, un saggista a tutto tondo. Disquisì su tutto nelle sue Bustine di Minerva per decenni. Scrisse anche un saggio breve di poche pagine su Mike Bongiorno, citato a sproposito da molti che ritenevano avesse scritto un intero libro sul celebre conduttore. Faceva discutere sempre. Per molti era un obbligo culturale comprare il nuovo libro di Eco. Era considerato all'estero uno degli italiani più intelligenti. Per capire l'Italia all'estero chiedevano lumi, interpellevano Umberto Eco. Ma nessuno è perfetto. Anche a lui non vennero risparmiate critiche in patria. Dicevano e scrivevano che era troppo comunista, troppo fazioso. Secondo alcuni era un professore universitario come molti altri, che aveva saputo sfruttare il momento opportuno. Invece in ogni cosa che fece si dimostrò in modo incontestabile molto originale, profondo, estremamente colto. Si parlò anche della candidatura di Roberto Vecchioni, stimato professore, noto cantautore e poi scrittore di alcune opere, pubblicate da Einaudi. Le canzoni di Vecchioni avevano una cifra poetica innegabile, erano pregnanti e piene di riferimenti colti, di rimandi al mondo greco. Vecchioni cantava di Aiace come di Euridice. Fu memorabile un confronto molto acceso alla trasmissione di Lilli Gruber tra Vecchioni e il grande poeta Valerio Magrelli sulla vexata quaestio del Nobel a Dylan. Magrelli rivendicava la superiorità della poesia e sosteneva che la canzone non fosse minimamente paragonabile. Vecchioni ricordava che anticamente le poesie venissero cantate. La questione era già dibattuta e comunque sempre molto controversa. Ricordiamo che è stato candidato a Stoccolma anche il poeta marchigiano Umberto Piersanti, che è autore Einaudi, operatore culturale, saggista, vincitore di prestigiosi premi letterari. Più recentemente è stato candidato al Nobel il professore e poeta Francesco Benozzo, che ha pubblicato tutti i suoi libri con Kolibris edizioni e che suona magistralmente l'arpa mentre canta i suoi versi. Nel 2021 è stato candidato a Stoccolma anche il poeta Guido Oldani, padre del Realismo Terminale. Ma veniamo ai soldi: il premio Nobel ha un grande ritorno economico per la casa editrice con cui pubblica lo scrittore o il poeta premiato. Già il premio Strega è una grande fortuna per un editore. Tutti vogliono comprare i libri dell'autore premiato. Immaginiamoci il premio Nobel oltre al fatto non indifferente che la vincita consiste in circa un milione di euro! A ogni modo gli accademici svedesi hanno fatto molte ingiustizie a livello planetario, non solo per gli italiani. Joyce, Tolstoj, Virginia Woolf, Fitzgerald, Borges, Proust, Nabokov, Roth non vinsero mai il celebre premio. Scorrendo i nomi dei vincitori ci accorgiamo che non necessariamente tutti hanno fatto la storia della letteratura, che talvolta alcuni sono rimasti seminoti. Viene da chiedersi se questo premio possa davvero contribuire alla letteratura, se il prestigio di cui gode è veramente meritato. Probabilmente il Nobel ancora oggi è molto utile a promuovere un autore, una nazione, una causa.

 

Calvino e Pavese, due autori così vicini e così distanti...

dic 052022

 

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Calvino e Pavese lavorarono per alcuni anni alla Einaudi. Fu lo stesso Pavese a scoprire il talento di Calvino. Questo ultimo però stroncò il romanzo "Tre donne sole" di Pavese, che poi rispose il 29 luglio 1949: “Ma tu – scoiattolo della penna – calcifichi l’organismo componendolo in fiaba e in trance de vie. Vergogna”. Pavese si suicidò nel 1950. La sua scomparsa fu dovuta alle delusioni sentimentali e alla sua depressione. Era uno scrittore riconosciuto. Aveva vinto anche il premio Strega. Pavese era una figura di riferimento per molti. L'Einaudi pubblicherà postume nel 1966 le sue Lettere 1945-1950, proprio a cura di Italo Calvino. I critici non si trovano minimamente d'accordo. C'è chi sostiene che Calvino considerò Pavese un suo maestro per tutta la vita; chi scrive che la Ginzburg e Calvino erano molto invidiosi di Pavese; chi ricorda l'affinità ideologica tra i due grandi scrittori, ma sostiene che avessero modi di intendere la letteratura diversi; c'è chi sostiene che Calvino era grato a Pavese e chi sostiene che in fondo non gli dimostrò molta riconoscenza in vita, ma solo a posteriori.
Nel 1953 Calvino ebbe modo di scrivere: "E posso dire che per me, […], l’insegnamento di Torino ha coinciso in larga parte con l'insegnamento di Pavese. La mia vita torinese porta tutta il suo segno; ogni pagina che scrivevo era lui il primo a leggerla; un mestiere fu lui a darmelo immettendomi in quell’attività editoriale per cui Torino è oggi ancora un centro culturale d’importanza più che nazionale; fu lui, infine, che m’insegnò a vedere la sua città, a gustarne le sottili bellezze, passeggiando per i corsi e le colline". C'era rivalità allora tra i due? C'era antagonismo? Oppure solo qualche incomprensione come succede anche tra sodali, tra migliori amici? Stilisticamente Calvino non sembra aver subito l'influsso di Pavese. La scrittura del primo era determinata dall'ossessione descrittiva e dalla completezza della resa della molteplicità fenomenica; quella del secondo dall'adesione alla vita, al flusso ininterrotto degli eventi e degli incontri: Calvino voleva descrivere il mondo, Pavese la vita dei suoi personaggi. Lo scrittore ligure era molto puntiglioso nel descrivere ambienti e personaggi. Pavese invece utilizzava un linguaggio meno esatto o comunque meno forbito, ma era sempre rigoroso ad ogni modo nella scelta dei vocaboli. Si potrebbe pensare che Calvino aveva un rapporto conflittuale con il linguaggio e che la sua scrittura fosse piena di revisioni e stesure. Invece Pavese aveva un rapporto più conflittuale con l'esistenza stessa, non riuscendo a venirne a capo. Pavese non riuscì a entrare nel pieno della vita, per tutto il suo tempo però fu un osservatore partecipe, come nei suoi romanzi. In Calvino tutto il suo intelletto era proteso verso il linguaggio, che doveva rappresentare in modo esatto le cose e le persone. In Pavese il linguaggio meno esatto ma pur sempre molto accurato doveva trovare l'essenza stessa della vita: entrambi si ponevano quindi degli obiettivi molto impegnativi, forse irrealizzabili. Se si analizza un singolo periodo potrebbe sembrare di primo acchito che chiunque possa scrivere come Pavese, ma lui fu il primo a scrivere in quel modo e al contempo va detto che ci voleva il retroterra culturale di un grande intellettuale per imbastire i suoi romanzi. Come ebbe modo di scrivere lo stesso Calvino c'era sempre qualcosa di sottinteso nei romanzi di Pavese; c'era sempre qualcosa di sottaciuto e fu definito per questo "reticente". Pavese quindi solo apparentemente poteva considerarsi uno scrittore semplice, anche se la lettura dei libri di Calvino per la loro ricchezza lessicale mette alla prova un lettore non letterato, richiede talvolta l'utilizzo del vocabolario. Il primo romanzo di Calvino, "Il sentiero dei nidi di ragno" in un certo qual modo da un punto di vista tematico, contenutistico, stilistico poteva avere dei punti in comune con le opere di Pavese, ma successivamente Calvino si dimostrò realista-favolistico, mentre Pavese un neorealista con il mito delle Langhe. Calvino fu creatore di miti e di archetipi, mentre Pavese li prese direttamente dalla sua realtà quotidiana per poi metterli sulla carta. Calvino dimostra tutta la sua creatività, pescando a piene mani dalla fantasia; Pavese attinge invece dalla quotidianità, è maestro impareggiabile nel descrivere la vita della sua epoca. In Pavese ci sono le Langhe e la Torino di quegli anni; talvolta sembra che invece dello sfondo siano dei veri protagonisti dei romanzi: comunque sono determinanti, hanno un ruolo non marginale nella sua narrativa. Forse è proprio per questo che il mondo di Pavese oggi può apparire più distante e meno attuale, mentre Calvino che ha scritto opere più scientifiche come "Palomar" e "Le cosmicomiche" sembra più attuale e per niente datato. Va ricordato a tal proposito che Calvino morì nel 1986, mentre Pavese solo nel 1950: lo scrittore ligure perciò ebbe modo di intuire e intravedere alcuni aspetti della nostra realtà odierna, mentre Pavese è ormai relegato in un'altra epoca più lontana. Forse Pavese ha meno da dirci oggi rispetto a Calvino e noi stessi possiamo capirlo di meno rispetto a Calvino.

 

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Il successo attuale della narrativa di Calvino probabilmente è dovuto al fatto che insieme a Rodari venga considerato uno scrittore per bambini, a differenza di Pavese, che forse viene ritenuto più cupo e più drammatico, insomma meno adatto per gli studenti. Questo non rende pienamente giustizia a nessuno dei due: Calvino con la trilogia de I nostri antenati, che raccoglie i romanzi “il visconte dimezzato”, “Il barone rampante e “Il cavaliere inesistente”, compie delle riuscite metafore dell'intellettuale della sua epoca (e questi libri sono perciò a doppio fondo, hanno una doppia chiave di lettura), mentre lo stesso Pavese, seppur tragico e suicida, può essere un esempio per tutti come uomo, intellettuale e scrittore antifascista. Si potrebbe affermare che Calvino fu più gnoseologico e Pavese più esistenziale, pur essendo entrambi accomunati dalle stesse idee politiche. Il modo di approcciare la realtà fu quindi completamente differente. La scrittura di Calvino sembra inimitabile, inarrivabile, sembra sempre così difficile, irraggiungibile, quasi perfetta. La scrittura di Pavese sembra più sciatta, mai impreziosita con vocaboli non comuni, apparentemente a uso e consumo di tutti, mentre in realtà a un'analisi più attenta non è così perché anche lo stile pavesiano richiede molto talento, molto studio, molto impegno. Ci sembra di poter affermare che nell'epoca in cui vissero Pavese ebbe più successo, mentre oggi è caduto più nell'oblio, a differenza di Calvino che oggi è in auge, ormai di moda. Attualmente leggere i libri di Calvino è un must, è un dovere a cui non si deve sottrarre una persona dalle buone letture. Ma Calvino e Pavese si capirono? Calvino dichiarò che non aveva mai presagito niente delle volontà suicidarie dell'amico. Forse entrambi erano tutti presi a livello intellettuale da mettere da parte le vere ragioni di vita. Viene da chiedersi quanti anni bisogna frequentare e vivere fianco a fianco con una persona per capirla davvero. A volte nonostante una frequentazione assidua le persone sono mondi lontani che si sfiorano appena, ma che non si incontrano veramente. Forse Calvino scoprì veramente quel che covava segretamente nell'animo Pavese solo dopo aver pubblicato le sue opere postume. In “Sono nato in America…Interviste 1951 – 1985” (a cura di Luca Baranelli) lo scrittore ligure dichiarò: "Conobbi Pavese dal ’46 al ’50, anno della sua morte. Era lui il primo a leggere tutto quello che scrivevo. Finivo un racconto e correvo da lui a farglielo leggere. Quando morì mi pareva che non sarei più stato buono a scrivere, senza il punto di riferimento di quel lettore ideale. Prima che morisse, non sapevo quel che i suoi amici più vecchi avevano sempre saputo: che era un disperato cronico, dalle ripetute crisi suicide. Lo credevo un duro, uno che si fosse costruita una corazza sopra tutte le sue disperazioni e i suoi problemi, e tutta una serie di manie che erano tanti sistemi di difesa, e fosse perciò in una posizione di forza più di chiunque altro. Difatti era proprio così, per quegli anni in cui lo conobbi io, che forse furono gli anni migliori della sua vita, gli anni del suo lavoro creativo più fruttuoso e maturo, e d’elaborazione critica, e di diligentissimo lavoro editoriale". Il lascito intellettuale dei due fu molto differente non solo a livello narrativo ma anche per così dire saggistico; il testamento di Pavese fu "Il mestiere di vivere" fatto soprattutto da riflessioni esistenziali, mentre quello di Calvino fu "Lezioni americane", costituito da intuizioni letterarie e culturali.

 

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Comunque il critico letterario Guido Davico Bonino dichiarò, ricordando una conversazione avuta con Calvino: "Mi disse: io ho addosso ancora il rimorso pieno di non aver fatto quello che avrei dovuto per impedirgli di fare la scelta finale. C'era un affetto fortissimo di Pavese per Calvino. E schiettissimo". Calvino non aveva capito nel profondo Pavese. Forse si può affermare che la loro stima e la loro conoscenza fu soprattutto letteraria, intellettuale. Calvino non afferrò pienamente il tormento, il disagio esistenziale del suo maestro o presunto tale. Sempre su Calvino come critico letterario ci sono luci e ombre. Da una parte fu il talent scout di Daniele Del Giudice e Andrea De Carlo. Dall'altra dimostrò una idiosincrasia per il grande Guido Morselli, morto suicida e inedito (la cui scoperta fu dovuta a Calasso, che lo pubblicò postumo con Adelphi). Su Calvino poteva raccontarci qualcosa di interessante fino a poco tempo fa Eugenio Scalfari, suo compagno di liceo e amico. Sicuramente il grande scrittore ebbe una personalità complessa e ricca di sfaccettature. A ogni modo non bisogna mitizzare troppo gli scrittori e ciò non significa non apprezzarne il talento o la genialità. Sono esseri umani come tutti con i loro difetti, con le loro pecche e quindi ogni ritratto non deve essere una immaginetta votiva, come vogliono alcuni.

 

 

Due parole sulla solitudine, Danilo Dolci, introversione, psicologia e mistica...

nov 182022

 

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"Vivo nella fraternità / delle stelle // È soltanto ai solitari / che l’universo /spalanca le sue porte” (versi della poetessa lussemburghese Anise Koltz)

 

 

 

Il gruppo svolge funzioni psicologiche fondamentali per l'equilibrio dell'individuo come il mantenimento dell'autostima, il sostegno morale, la comprensione dei problemi. Almeno questo è vero per la psicologia. Durante il quarto congresso internazionale di psicoterapia di gruppo, svoltosi a Vienna nel 1968, il gruppo venne concepito come "difesa contro l'ansietà che ci viene dal pensiero dei miliardi di individui che vivono sul nostro pianeta". È argomento controverso stabilire quali possono essere i fattori che sono cause di emarginazione di una persona dal gruppo. Il motivo più facilmente rintracciabile è la diversità dell'individuo emarginato rispetto alla comunità. Una rassegna di studi ha rilevato infatti la contiguità tra somiglianza, credenze simili e amicizia. La diversità dell'emarginato può essere volontaria o involontaria. Nel primo caso il soggetto è spesso un deviante che non si conforma alle regole, alle idee, ai principi, ai valori del gruppo. Nella nostra società occidentale sono fondamentali i gruppi informali, che forniscono sostegno, solidarietà, rimozione dell'ansietà individuale grazie alla coesione di più persone. Il grande poeta e sociologo Danilo Dolci, famoso per i suoi libri-inchiesta, per la sua lotta alla mafia, per le sue marce, per i suoi digiuni, per la sua non violenza scriveva: "Così la vita di gruppo, la vita comunitaria, è pure un indispensabile strumento di verifica e di costruzione personale e collettiva. La vicinanza fisica con gente autentica può generare chiarezza morale"; ma non scordiamoci che lo stesso autore scriveva anche: "Dove c'è un vivo, lì, palese o no, nasce una comunità". La stragrande maggioranza di noi hanno bisogno di essere in coppia; molti non riescono a concepire sé stessi da soli. Il primo motivo è che non riescono a stare bene da soli. Il secondo motivo è che hanno bisogno di trovare un'altra persona per essere soddisfatti sessualmente, per non soffrire di carenze affettive, per trovare un dialogo continuo, una compagnia. Esiste anche la pressione sociale che spinge le persone a cercare la dolce metà. Molti cercano una persona che li completi perché da soli non si bastano. Abbiamo bisogno per natura o per cultura di altra pelle oltre la nostra, di un altro corpo oltre il nostro, di altre parole, di altro udito, di un altro sguardo, di altra umanità oltre la nostra. O almeno così ci sembra di primo acchito. Forse è proprio perché la società ci impone la rottura della solitudine che questa ci sembra così innaturale e ci sembra infelice chi non sa o non può amare o stare in mezzo agli altri. Da giovani chi non ha un partner sessuale si sente irrimediabilmente solo perché il bombardamento pornografico impone l'estroversione sessuale a ogni costo e a ogni modo. Poco più che ventenne ho lavorato per un anno in un collegio di salesiani e in un ambiente più casto mi sono accorto che alcuni miei impulsi sessuali erano socialmente indotti.
La verità comunaue è che la stragrande maggioranza di noi cercano un human touch (un tocco umano) per dirla alla Bruce Springsteen. Quello che mi sono sempre chiesto è se il voler rompere la solitudine sia dovuto alla natura o alla cultura. Mi sono sempre chiesto quanto la socialità sia socialmente costruita e quanto sia fisiologica. Ma io mi chiedo, dopo essere cresciuti socialmente, culturalmente, umanamente quanto abbiamo bisogno sempre socialmente, culturalmente, umanamente degli altri, se non si è malati e si è autosufficienti? Per Rousseau e per Freud gli uomini hanno creato una civiltà, barattando buona parte della loro libertà per la loro sicurezza.

 

Ogni test di personalità che si rispetti prevede la misurazione del grado di socievolezza del soggetto. Il MMPI prevede una scala che quantifica l'introversione sociale, che viene considerata negativamente, ovvero come difficoltà o meno a rapportarsi con gli altri. Il Big Five prevede la misurazione di due tratti di personalità a tal riguardo: l'estroversione e l'amicalità. Dietro a tutti questi costrutti psicologici c'è il retropensiero diffuso tra gli studiosi, che diventa molto spesso un postulato dato per certo, ovvero che l'uomo è un animale sociale. Sarà pure vero. Ma in me sorge spontanea una domanda: l'uomo può fare a meno degli altri, dopo che è stato istruito, educato e quindi gli altri li ha interiorizzati? Secondo la mistica cristiana e non solo l'uomo per cercare, pregare, trovare Dio sta meglio da solo e gli altri sarebbero una distrazione, addirittura un disturbo. Basta ricordarsi dei Padri del deserto oppure in epoca medievale degli stiliti. Talvolta ci si ritira dalla solitudine per fuggire dagli altri...


Così Petrarca scrive:

"Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co·llui."

 

Anche in letteratura e nell'arte ci sono tanti esempi di persone che hanno scelto l'introspezione, la ricerca interiore, considerandole quasi come una necessità dell'animo, per creare. Si pensi solo a Proust che per scrivere il suo capolavoro si isolò per anni in una stanza con pareti ricoperte di sughero e dalle finestre sbarrate. Alcuni psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, a torto o a ragione, ritengono che il bisogno di solitudine sia correlato significativamente con il livello di introversione dell'individuo. Ma alcuni artisti e religiosi si impongono la solitudine e il raccoglimento interiore per i loro scopi, mentre per altri la cosa è molto più spontanea e naturale. La realtà è che si potrebbe considerare patologico chi non sa stare da solo, ma, siccome il mondo va avanti grazie a chi fa figli (oggi il problema è casomai che stanno facendo troppi figli e la sovrappopolazione è un grave problema), viene molto spesso considerato patologico l'asociale, cioè colui che decide di non stare tra gli altri o colui che non sa stare tra gli altri.

Due parole soltanto sulla Storia (quella con la S maiuscola)...

nov 132022

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(Nella foto Karl Popper)

 

"Se Atene piange, Sparta non ride"

 

 

Un professore di mio padre diceva che è necessario almeno un secolo perché certi fatti storici vengano valutati con serenità di giudizio e imparzialità. Trovo che avesse ragione. Per valutare con obiettività e con equanimità i fatti spesso bisogna esserne distanti. La vera Storia la devono scrivere i posteri, naturalmente studiando fatti e documenti già raccolti. Naturalmente non voglio in questa sede fare una distinzione tra cronaca e Storia, tra Storia e storiografia, oppure rifarmi al distinguo degli antichi tra cronache e annali. Dico semplicemente che ad esempio oggi gli storici non sarebbero sufficientemente equipaggiati di obiettività nel valutare il conflitto tra Israele e Palestina. Inoltre il susseguirsi degli eventi è incalzante, inarrestabile. Il mondo moderno è caratterizzato da un dinamismo impressionante. Di punto in bianco ecco presentarsi -quando nessuno se lo aspetta- una svolta epocale, per cui al momento è difficile fare disamine o trovare modelli esplicativi adeguati. Si pensi all'11 settembre. Fino ad allora quanti occidentali sapevano le distinzioni tra sunniti e sciiti? Ci eravamo a mala pena "abituati" alle istigazioni al suicidio per uccidere gli infedeli da parte di Khomeini e degli Ayatollah, ma non pensavamo certo che Bin Laden colpisse al cuore l'America. Tutto a un tratto ecco presentarsi una contrapposizione inaspettata tra la solita America gendarme del mondo e gli uomini-kamikaze della Jihad. Ancora oggi questa è attualità, è cronaca. Quanto tempo ci vorrà per metabolizzare questi fatti e farli divenire Storia? Non è un caso quindi che ultimamente la ricerca storica sia in crisi. C'è addirittura chi propone la "microstoria", ovvero di restringere il campo d'indagine a dei fatti e delle situazioni particolari e più facilmente documentabili.
E' chiaro che la Storia non può essere mai totalmente obiettiva, ma lo storico può avvicinarsi asintoticamente all'obiettività. In questa sede non voglio nemmeno parlare dei libri sulla resistenza di Pansa. La Storia non la scrivono sempre i vincitori, come ad esempio Churcill. Erodoto e Tucidide sono stati dei grandi storici, eppure erano esuli. E' altrettanto vero che alcuni storici vincitori rimuovono le testimonianze dei vinti e nascondono gli orrori generati dalla loro parte. Ma la verità viene sempre fuori. Nonostante i negazionisti, che sono i peggiori storici. Niente di nuovo sotto il sole: sono sempre esistiti. Attualmente esistono i negazionisti dell'Olocausto, così come i negazionisti delle foibe; non voglio certo strumentalizzare; è vero che gli italiani fascisti non si erano comportati da "brava gente" in Jugoslavia, avevano commesso eccidi. Bisogna sempre saper contestualizzare ed è una regola che vale per tutti e per tutto. Però anni fa c'erano estremisti che non lasciavano parlare i familiari delle vittime delle foibe alle conferenze e per molti allora le foibe erano solo delle cavità carsiche e niente più. Tempo addietro in Turchia esistevano anche i negazionisti del genocidio armeno da parte dell'impero ottomano, che oggi è stato riconosciuto sia dall'Onu che dal Parlamento europeo. Ancora oggi ben poco sappiamo di tutti i morti che ci sono stati nella repressione del brigantaggio meridionale. Il potere ha sempre tenuto all'oscuro i cittadini per paura che l'effettiva conoscenza dei morti facesse aumentare la voglia di separatismo nel Sud. In tutto questo bailamme mi sembra assurda la domanda che si pone Spengler ne "Il tramonto dell'Occidente", ovvero se la Storia ha una sua logica. Non credo affatto che la Storia abbia una sua logica, semmai infinite contraddizioni, orrori e atrocità. Popper criticò la miseria dello storicismo, ovvero il determinismo secondo cui la Storia debba per forza avere un senso ed una direzione. Con buona pace di molti la Storia non può essere maestra di vita e grazie a essa non si possono fare previsioni. La Storia è piena di orrori, ma spesso non insegna niente. Si pensi che addirittura i nazisti hanno confezionato i paralumi con la pelle degli ebrei e i rivoluzionari francesi hanno conciato l'epidermide dei reazionari. Abbiamo forse imparato qualcosa da allora? È difficile imparare dagli errori e dagli orrori del passato. Nonostante tutto talvolta la Storia mostra i vichiani corsi e ricorsi. Spesso ci ritroviamo al solito punto di partenza. Secondo Fukuyama il mondo intero sarebbe dovuto arrivare alla "fine della Storia", cioè tutte le nazioni con la scomparsa del comunismo sovietico sarebbero giunte al livello dei Paesi occidentali.  Ebbene questa profezia per il momento non si è avverata. Alcuni sostengono che non siamo alla fine della Storia, ma solo alla fine dell'Antropocene e forse non avremo futuro. Forse esiste solo il progresso scientifico ma non lo sviluppo storico. Se qualcosa può insegnare la Storia, perché conoscere il passato significa conoscere chi eravamo (anche se poco può dirci su chi saremo), di certo molti giovani non sono pronti a raccoglierne l'insegnamento, a causa della loro scarsa memoria storica.

 

Due parole su un'intervista di Gianfranco Ravasi, su Pasolini e sugli intellettuali odierni...

nov 042022

 

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Il Cardinale Ravasi oggi in un'intervista al quotidiano La Nazione (che legge mio padre e io di tanto in tanto sfoglio) ha detto che stiamo vivendo in Italia un periodo di 'sottosviluppo culturale", che gli intellettuali sono dormienti, che ci vorrebbero altri Pasolini a "scuotere le coscienze". In un certo qual modo Ravasi, autore prolifico e di qualità, può anche permettersi queste critiche. Ne ha l'autorevolezza. I suoi libri sono pregevoli. Vi consiglio di leggerli. Sono davvero stimolanti. Si leggono bene. Ravasi sa scrivere per tutti, avendo il dono della chiarezza. Io stesso ho passato piacevoli giorni a immergermi nelle sue riflessioni. Ravasi prima ancora di essere un teologo e un uomo di Chiesa è un pensatore che non si risparmia e che spazia a 360 gradi. Il suo libro che mi è piaciuto di più è "Breviario laico". Bisogna però discutere nel merito se le osservazioni dell'intervista sono pertinenti a meno, se sono legittime o meno, visto anche il ruolo ecclesiastico che ricopre. Bisogna vedere se le sue argomentazioni centrano il bersaglio oppure no. Prima di tutto siamo sicuri del sottosviluppo culturale? Siamo sicuri che mancano le eccellenze o forse non vengono valorizzate? Probabilmente oggi un nuovo Pasolini lo si riconoscerebbe a ottant'anni oppure solo da morto, mentre ai suoi tempi Pasolini era riconosciuto fin dalla giovane età. Probabilmente i nuovi Pasolini sono sconosciuti o conosciuti solo a pochi addetti ai lavori. La realtà probabilmente è che oggi né al potere né a noi del popolo interessa scoprire dei nuovi Pasolini o dei nuovi Gadda, che altrettanto probabilmente verrebbero messi a tacere in ogni modo o si farebbe opera di convincimento per farli desistere dal rappresentare certe realtà italiche o dal fare certe polemiche. Non dico che siano lacrime di coccodrillo quelle di Ravasi, ma è senz'altro questo un riconoscimento molto tardivo per il poeta friulano, oltre al fatto che oggi è una moda culturale molto diffusa sostenere che come Pasolini non ce ne saranno più, che poi è anche un modo molto elegante per scoraggiare o non riconoscere i nuovi Pasolini, ammesso e non concesso che ce ne siano. A essere un poco maligni queste esternazioni di un teologo molto ponderato e saggio potrebbero sembrare di primo acchito un contentino per i pasoliniani di ogni risma, che ormai spuntano come funghi. Pasolini era scomodo intellettualmente (per "Scritti corsari" e "Petrolio"), ma era anche scomodo moralmente (""Orgia", "Porcile", etc etc). Pasolini non poteva essere fermato, minacciando di travolgerlo in uno scandalo perché lui creava scandalo, faceva già scandalo, era scandalo sia nelle opere che nella vita. Cercarono già allora di gettare fango su di lui, di perseguitarlo legalmente, ma lui continuava imperterrito. Era un vero masochista sessuale, ma freudianamente anche un masochista morale. Era martire ed eslege allo stesso tempo. Dopo i fatti di Ramuscello niente poteva fermarlo. Dopo quello scandalo e quello spubblicamento (con i danni conseguenti come l'espulsione dal partito comunista per "indegnità morale" e la disoccupazione romana) niente poteva fermarlo. Lo scandalo era già avvenuto. Per non rinunciare alla sua libertà di azione e di espressione preferì morire piuttosto che farsi frenare dal conformismo culturale. Che poi perché gli intellettuali di oggi dovrebbero rischiare la vita per "scuotere le coscienze"? Potrebbero finire per essere minacciati, vivere sotto scorta, essere come minimo diffamati per ottenere che cosa? Per le magnifiche sorti progressive di un Paese, che a stento e solo dopo molti anni li riconoscerebbe? Siamo sicuri che riuscirebbero davvero a scuotere le coscienze? Io ne dubito fortemente. Così molti pensatori si guardano le spalle e si limitano a fare il compitino. Pasolini docet, ma anche la sua fine docet. Pochissimi, forse nessuno è vocato al martirio. Che poi spetta davvero agli intellettuali formare e scuotere le coscienze in un Paese in cui il lavoro intellettuale è sottopagato o non pagato per niente e gli intellettuali non vengono riconosciuti o non viene riconosciuto niente? E poi cosa significa concretamente oggi "scuotere le coscienze"? Siamo sicuri che esistano realmente "le coscienze", come le si intendeva un tempo? Non è che così facendo si chiede troppo, addirittura l'impossibile agli intellettuali? Oppure probabilmente oggi nessun intellettuale è più capace di destare attenzione, di provocare, di far riflettere? A un certo punto anche gli intellettuali devono vivere o almeno sopravvivere e l'Italia probabilmente non è un Paese ideale per gli intellettuali, per i liberi pensatori, per i lettori forti, per gli artisti, veri o presunti. Gli intellettuali per colpa dell'audience, dei follower, dei mass media, della stessa industria culturale vengono relegati ai margini delle loro nicchie (di mercato e/o editoriali), se non addirittura delle loro bolle. Ai suoi tempi Pasolini era incisivo nella realtà ed era ritenuto importante. Oggi nessun intellettuale è importante. Oggi probabilmente niente e nessuno sono importanti. Oggi tutto fagocita tutto. Oggi il buco nero dell'oblio assorbe tutto. Oggi niente fa più scandalo e nessuno si accorge che questo è il vero scandalo. Non mi stupisce quindi che molti degli intellettuali facciano come gli struzzi, mettendo la testa sotto la sabbia e negando oppure non trattando dei problemi scottanti italiani. La verità è che siamo nella palude, anzi nelle sabbie mobili. E poi non dimentichiamoci che la mentalità di cui erano intrisi i mandanti e gli assassini di Pasolini era piccolo-borghese e pescava a piene mani in certa sottocultura pseudocattolica omofoba, arretrata e violenta, anche se Pasolini non fu ucciso perché era gay, ma perché dava noia al potere con articoli e saggi. Lo colpirono solo nel suo lato debole, in una sua notte brava a cercare "ragazzi di vita". E tutte quelle denunce a suo carico per i motivi più impensabili? Addirittura lo accusavano di essere anche un rapinatore. A cosa erano dovute quelle accuse fuori luogo, quelle violenze psicosociali ai suoi danni, se non a una mentalità comune, che prendeva a prestito certi dogmi della morale sessuale cattolica di quei tempi? Ma Ravasi naturalmente omette tutto ciò. Non approfondisce. Si limita alle brevi dichiarazioni, certo pregnanti, ma che lasciano in sospeso molte cose. Non dico che dovrebbe scusarsi, giustificarsi per l'omicidio pasoliniano a sfondo pseudocattolico/piccolo-borghese/fascista, ma dovrebbe perlomeno menzionare certe colpe della Chiesa in quei tempi. E io lo scrivo da ammiratore e da lettore di Ravasi.

Due parole su talento, genio, libertà di creare...

ott 152022

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"Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d'esecuzione." (Dal film "Amici miei")


" Il nostro genio è per l’1% talento e per il 99% duro lavoro” (Albert Einstein)

 

 

 

 Antefatto: una volta io e un mio amico discutemmo sulla gente. Per lui la maggioranza delle persone non ci arrivava mentalmente e si trattava di una grande stupidità collettiva. Per lui ciò che non dava la natura non lo dava neanche Salamanca.  Secondo lui era un fatto di natura e perciò andavano scusati tutti. A mio avviso si trattava solo di ignoranza e quindi era rimediabile.  Io comunque che ero meno conservatore ero quello più arrabbiato con la gente perché pensavo che molti si desssero la zappa sui piedi e che la loro ignoranza fosse colpa loro. A ogni modo siamo tutti un poco ignoranti. La questione di fondo è come essere civili e umani. 

 

L'immunologa Antonella Viola su Alessandria Today e su Alessandria Online, blog ideati e gestiti dal consulente marketing e social media manager Pier Carlo Lava, ha scritto che il genio e il talento non esistono, che conosce premi Nobel che nella vita si dimostrano persone banali, che la maggioranza degli studiosi sono persone mediamente intelligenti che si sono impegnate. Perseverare insomma sarebbe fondamentale. Secondo questa scuola di pensiero non sarebbe questione di differenze individuali, ma di impegno e costanza. Che poi la branca della scienza che dovrebbe illuminarci a riguardo è la psicologia delle differenze individuali, che con test d'intelligenza e psicoattitudinali vari dovrebbe misurare le capacità di ognuno. Comunemente si usa avere una concezione molto lineare dell'intelligenza: qualcuno potrebbe obiettare che le differenze di intelligenza esistono e che sono lampanti, ma non è così semplice se si vuole approfondire la cosa. Cattell, noto studioso di questo argomento, alla fine della vita si chiese se poi l'intelligenza umana era quella misurata dal Q.I, dopo che aveva sottoposto quei test a migliaia e migliaia di persone. Ma secondo alcuni studiosi l'intelligenza non può essere misurata. Diciamo che per convenzione, per tradizione, per presunta scientificità la psicologia ha la funzione sociale di misurare l'intelligenza e le attitudini, seppur tra dubbi e criticità. In verità non è una scienza esatta. I suoi risultati sono controversi e si devono prendere col beneficio di inventario. Come esistono i falsi negativi e i falsi positivi nei test di medicina, esistono anche i falsi positivi e i falsi negativi nei test di psicologia. In realtà non c'è ancora nessun test che misuri il talento. Secondo i test d'intelligenza Andy Warhol aveva un Q.I di 86 punti, Salinger un Q.I di 104, Jim Watson (scopritore insieme a Crick della doppia elica del DNA) un Q.I di 115 punti, Muhammad Ali (campione di pugilato e leader dei diritti civili) aveva un Q.I di 73 punti. Al contrario non mi risulta che le persone più intelligenti del mondo secondo i test del Q.I abbiano mai fatto scoperte o invenzioni importanti oppure scritto o dipinto capolavori. La stessa precocità intellettuale spesso confusa con la genialità non è sempre indice di talento né di genio. Bisogna mettere in chiaro cosa si intende per talento o per genio. Se si intende andare in modo eccellente a scuola forse finiamo fuori strada e poniamo in modo errato la questione. Se si intende la capacità di scoprire, inventare, creare cose importanti, nuove, originali allora il talento e il genio non possono essere predetti con certezza, non possono essere sempre individuati ex ante ma solo ex post. E poi che differenza c'è tra talento e genio, al di là delle frasi fatte, delle frasi a effetto, delle citazioni, che invece di chiarire la cosa la complicano ulteriormente? Il genio è un talento maggiore, il talento è un genio minore, ma ad esempio quanto talento ci vuole per fare un genio? Non essendo quantificabili queste qualità non si può fare una ricetta con le dosi. Alcuni studiosi parlano appunto di qualità intellettuali e creative, che possono essere solo qualificabili. Inutile fare sottili distinguo tra genio e talento perché non si finirebbe più e saremmo punto e a capo. Al talento e al genio non si può dare una definizione esaustiva. Si può di volta in volta definire e specificare in che cosa consista per ogni opera creativa. La prova del nove è l'opera. Di Salinger non ci deve importare assolutamente il suo Q.I, ma il fatto che abbia scritto "Il giovane Holden" e molti racconti. Si può dire che aveva del genio perché aveva scritto dei capolavori. A ogni modo un'opera artistica oppure la soluzione di un rompicapo scientifico sono strettamente connessi a un certo sfondo culturale, a quello che Popper chiamava un quadro di riferimento, insomma a un contesto che nessun test d'intelligenza o di pensiero divergente ha ed è per questo che non sempre le persone ritenute brillanti secondo queste prove intellettive si dimostrano creative. Non sempre il talento e il genio, ammesso e non concesso che esistano, sono riconosciuti e riconoscibili. È proprio per questo che alcuni mollano, abbandonano la loro attività creativa, dopo delusioni e fallimenti, mentre altri continuano imperterriti, considerandosi dei geni incompresi. Il talento e il genio dipendono dai fatti e i fatti sono le opere creative. Ma artisticamente non esistono dei valori assoluti e davvero universali di capolavoro. Tutto ciò rientra nell'ambito dell'opinabile. Di solito si considera oggettivo il consenso quasi unanime della comunità artistica dell'epoca del genio presunto o di quella dei suoi posteri. La questione cruciale è essere considerati dei talenti e dei geni. Sono dei geni solo coloro che vengono considerati tali, a torto o a ragione. La genialità ha quindi una valenza sociale. In definitiva nessuno sa con certezza assoluta se il genio esiste o se non esiste perché non è definibile universalmente, perché non è quantificabile, perché talvolta non è riconoscibile. Ma poi è così importante saperlo? Nessuno può vedere se una persona è geniale da Tep, Tac, Risonanza magnetica. Secondo lo studio del cervello di Einstein lo scienziato aveva addirittura molte più cellule gliali della media e niente più. A una mente geniale non sempre corrisponde un cervello eccezionale allo stato attuale delle conoscenze. Se esistono dei geni o meno nessuno lo sa. Però esistono delle opere geniali, perché necessarie per l'umanità o perché capolavori artistici. Ma a volte i critici letterari o i critici d'arte sono faziosi, incompetenti o solo miopi. Anche loro hanno delle sviste e compiono degli errori. Non si potrebbe forse scrivere un'altra storia della letteratura oggi con gli autori scartati, ignorati, dimenticati, ostracizzati, perduti? Il fatto è l'opera creativa, ma il vero fatto, a pensarci bene, probabilmente non è la legittimazione dell'opera creativa? Cosa importa che tizio scriva un capolavoro sul suo blog o lo lasci nel cassetto se le grandi case editrici non lo considerano? A volte mi chiedo cosa sarebbe successo nel mondo della letteratura se le persone a loro care avessero rispettato i voleri di Pascal e di Kafka di disfarsi delle loro opere per sempre. Oppure penso a cosa sarebbe successo se non avessero pubblicato postumi Proust, Pessoa, Tomasi di Lampedusa, Morselli. Il problema non è che di solito non si riesce a capire quale alunno sarà un genio creativo domani, ma riuscire a riconoscere il talento a opera creativa compiuta, anzi talvolta il talento non viene riconosciuto neanche da morti. Comunque forse ognuno a suo modo è dotato se non di genio almeno di un piccolo talento, che deve essere messo a frutto. Invece molte persone hanno per tutta la vita delle potenzialità inespresse. E allora qui si aprirebbe tutto un discorso sulla crescita personale e sullo sviluppo umano, che viene malinteso almeno in questa società perché identificato con la concretizzazione di business e di successo economico e professionale. In fondo le persone che si rivolgono ai mental coach e ai life coach (figure solo recentemente regolate legalmente e professionalmente) chiedono solo e soltanto la realizzazione sul lavoro e monetaria. Mi vengono alla mente a riguardo i suicidi di alcuni studenti universitari molto indietro con gli esami, che avevano invece detto alle loro famiglie che avrebbero dato la tesi. Un mix incredibile di aspettative deluse, pregiudiziali insoddisfatte, sogni non realizzati può portare all'estremo gestto. I più vulnerabili in questa società, dove bisogna essere persone di successo, finiscono per soccombere. Bisognerebbe che tutti avessero la stessa libertà di creare. Ma siamo distanti da questo traguardo, oggi irraggiungibile. Il problema comunque alla base dello sviluppo delle capacità intellettuali invece come aveva capito il poeta Eliot riguarda soprattutto l'uguaglianza di possibilità prima ancora della possibilità di uguaglianza e la scuola, almeno quella italiana, che dovrebbe essere il primo motore della mobilità sociale è ancora lontana da dare tutto ciò agli studenti più disagiati. Tutto ciò non è una questione necessariamente politica, ma che dovrebbe essere affrontata da ogni tipo di politica.

Cultura, ignoranza e violenza, ovvero un piccolo gioco di specchi...

ott 132022

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La violenza è dentro di noi. Chi non ha sognato di ammazzare qualcuno? Chi non lo ha desiderato a occhi aperti? C'è una neuroanatomia dell'aggressività ed esistono i correlati neurofisiologici della violenza. Esiste una biologia della violenza. Alcuni studiosi hanno parlato di un gene della violenza. Freud scrisse di violenza come desiderio umano di morte. È altrettanto vero che esistono anche i neuroni specchio, che ci fanno immedesimare negli altri, seppur in modo meccanico perché l'empatia ha anche basi socioculturali. È una guerra incessante dentro di noi e nel mondo. C'è la teoria dell'aggressività come effetto della frustrazione. Esiste anche lo spostamento dell'aggressività: il capo tratta male l'operaio, che tratta male la moglie, che tratta male il figlio. Esiste la violenza socialmente indotta. Esiste l'aggressività per sovraffollamento, per gregarismo, per scarsità di risorse, per ingiustizia subita, per competizione, per antipatia, per odio, per anomia, per stati alterati di coscienza, per raggiungere degli obiettivi prefissati, per invidia, per rivalità sessuale/sentimentale, per ubbidire all'autorità, per disimpegno morale, per diffusione della responsabilità, per prepotenza, per l'effetto Lucifero scoperto da Zimbardo, per goliardia, per rito d'iniziazione, per altri motivi personali o prettamente psicologici. Esiste anche una psicopatologia della violenza, che viene considerata legalmente una attenuante. È tremendamente facile uccidere. Basta caricare un'arma e poi sparare. Basta prendere un coltello, poi portarlo alla gola di qualcuno ed esercitare un poco di pressione qualche secondo. Oppure è altrettanto facile avvelenare qualcuno senza che se ne accorga. Ma ricordiamoci anche come è facile ammazzare qualcuno nel sonno, prenderlo alla sprovvista, sfruttare i suoi punti deboli. Ci sono delle differenze individuali sia nella possibilità di compiere azioni violente che di avere reazioni violente. Talvolta il mix esplosivo è dovuto a una concomitanza di cause individuali e circostanze avverse senza scomodare il Fato, il destino. La violenza l'abbiamo anche interiorizzata a scuola, nei libri. Esiste una parte della cultura che è sadica, addirittura necrofila. Marx proponeva la rivoluzione proletaria. Nietzsche, per quanto filtrato e deformato dalla sua sorella prima e poi da Hitler è responsabile per alcuni versi del nazismo per alcuni e gli altri che lo difendono a spada tratta non possono negare che la sua filosofia elitaria, superomistica, contraddittoria può portare taluni all'autoesaltazione e alla sopraffazione dei più deboli. Per Darwin la vita è una lotta, esiste la selezione naturale. Per Freud nel complesso edipico uccidiamo il padre. E che dire della religione, visto che anch'essa è cultura? Ci sono state Crociate, Santa Inquisizione, terrorismo islamico, etc etc. Il nazismo aveva fatto come sua scienza l'eugenetica e guardate cosa è successo. La violenza talvolta è determinata dal furore religioso o ideologico. I brigatisti rossi erano quasi tutti intellettuali o comunque avevano un buon livello intellettuale. La violenza organizzata è spesso indice di un certo spessore intellettivo. L'ideologia nel Novecento è stata violenza al culmine. Mussolini leggeva un libro al giorno. Hitler era a suo modo una persona colta, per quanto folle e necrofila. Stalin era a suo modo un intellettuale. Ma guardiamo un attimo nel nostro piccolo mondo italiano ai tempi del nostro terrorismo interno. Perfino la Normale ha avuto i suoi estremisti, macchiatisi di sangue; Adriano Sofri, mandante dell'omicidio Calabresi, è stato un normalista: non è stato espulso dalla scuola di eccellenza perché violento ma perché portò in camera la sua ragazza. Roberto Rosso, terrorista rosso, studiò matematica alla Normale. Ma passiamo oltre. Senzani, capo delle Brigate Rosse, è stato anche un professore universitario. Ma anche alcuni terroristi neri erano persone con buon coefficiente intellettuale. Per non parlare di Licio Gelli, oggi ritenuto dalle forze inquirenti l'ideatore della strage di Bologna, che fu candidato addirittura da alcuni professori stranieri al Nobel per la letteratura, anche se la sua candidatura era assai debole e dovuta esclusivamente a intrallazzi culturali-massonici. Il grande poeta Villon fu un assassino. Caravaggio fu un assassino. Verlaine sparò a Rimbaud, anche se non lo ferì mortalmente. Althusser, filosofo e studioso marxista, uccise la moglie. Sono solo pochi esempi. Questo non giustifica né legittima nessuno a essere violento. Queste non sono delle scusanti perché la responsabilità è individuale e non si può dare la colpa solo alla cultura o alla società e nemmeno in gran parte a esse. Però esiste una cultura violenta oppure, meglio ancora, alcuni fattori ed elementi culturali possono condurre alla violenza. La cultura stessa è archeopsichica, è fatta anche dal nostro cervello rettile. C'è una parte della cultura che scaturisce dai nostri impulsi violenti. Ma c'è anche una cultura che viene travisata e interpretata in modo violento. Oppure ci sono brani di libri che vengono interpretati in modo letterale e perciò fraintesi totalmente. Esiste la violenza intellettuale quindi. Così come esiste la violenza degli intellettuali e la violenza tra intellettuali. Ma la violenza è la combinazione di più fattori, alcuni individuali, alcuni sociali, alcuni culturali. Si usa anche dire che la cultura, l'istruzione, l'educazione salvano dalla violenza, dalla criminalità organizzata. Di solito è radicata in moltissimi la convinzione che sia proprio l'ignoranza la causa della delinquenza e della violenza. Il problema è complesso. C'è chi delinque per mancanza di opportunità e per mancanza di scolarizzazione. In teoria dei bambini socializzati e degli adulti integrati socialmente non dovrebbero compiere reati. In realtà li compiono, anche se meno frequentemente di coloro che non sono socializzati e integrati. Laddove i bambini non vanno a scuola è dimostrato scientificamente che è più probabile che prendano da adulti una cattiva strada. Chi va a scuola interiorizza dei valori o almeno delle regole, si forma una morale. Almeno questo in teoria.

 

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Per Pasolini la cultura e l'istruzione italiana portano a un gioco al massacro. Lui stesso odiava per questo i piccoloborghesi perché violenti e pensava che ci fossero due persone realmente candide e buone: coloro che erano estremamente colte e creative, coloro che erano totalmente ignoranti. Da una parte c'erano coloro che superavano il conformismo culturale e dall'altra coloro che ne erano totalmente sprovvisti. Ma volendo portare il ragionamento agli estremi si potrebbe affermare che anche la vita di strada, le regole della criminalità organizzata siano a loro volta cultura, anche se noi per etica, per legge, per convenzione la chiamiamo sottocultura. A onor del vero sono tante le forze in gioco che determinano la violenza. Bisogna anche vedere il vissuto del responsabile del crimine. Ci sono persone che agirebbero in modo violento sia da colte che da ignoranti. Come ci sono persone colte violente che non sarebbero state violente se fossero ignoranti e viceversa. Sono tantissime le variabili e le microvariabili umane. Sono anche se non infiniti illimitati per le nostre menti i casi della vita. Esiste una cultura della violenza ed esiste anche una violenza della cultura, che talvolta si fondono in modo incredibile. Anche la buona cultura, apparentemente cultura del bene, può diventare strumento di inganno e di dominio sugli altri. Si pensi ad esempio al latinorum di Don Abbondio o ai giri di parole degli azzeccagarbugli di tutto il mondo. Ogni violento ha una sua cultura di appartenenza e ogni violenza è espressione, anche solo per antitesi, di una cultura. La disumanità scaturisce dell'umanità. L'umanità talvolta porta alla disumanità. La cultura è umana e ciò che è umano è violento. Ma la stessa cosa vale per l'ignoranza.

Due parole sull'Italia e sugli italiani...

ott 072022

 

 

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Non voglio fare assolutamente una descrizione dei tratti distintivi del carattere nazionale degli italiani. Illustri pensatori lo hanno già fatto. Giacomo Leopardi scrisse un saggio a riguardo, che si intitola “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani”. Secondo Leopardi l’Italia, pur avendo le stesse cognizioni delle altre nazioni civili (Francia, Inghilterra, Germania) non ha una “società stretta”, “una società buona”, caratterizzata dall’opinione pubblica, dal “buon tuono”, dall’onore. Secondo il grande poeta il cinismo degli italiani determina un’immoralità diffusa. Prezzolini nel 1921 scrisse il “Codice della vita italiana”, in cui suddivise gli italiani in due categorie: i furbi e i fessi. Riguardo ai fessi scrisse: “non c’è una definizione di fesso. Però: se uno paga il biglietto intero in ferrovia, non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente nella magistratura, nella Pubblica Istruzione ecc.; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, ecc. questi è un fesso”. Ma non bisogna dimenticare nemmeno il lavoro di Luigi Barzini jr. e i recenti libri di Montanelli riguardo allo studio degli italiani. In questa sede non voglio trattare dei valori in cui credono gli italiani. Sarebbe un’impresa non ardua, ma addirittura improponibile in quest’epoca di soggettivismo dei valori. Probabilmente sono i difetti e i vizi piuttosto che le pubbliche virtù ad accomunare gli italiani: il trasformismo, la ricerca sempre più vana di individualismo, l’arte del compromesso, l’abilità di rendere complicate anche le cose più semplici, il pressappochismo, il disfattismo, la mancanza di amor patrio, l’assenza di civismo, la tendenza all’anarchia (non dal punto di vista politico, ma organizzativo), l’insofferenza nei confronti dell’autorità, la scarsa fiducia nelle istituzioni, il predominio costante dei diritti sui doveri. Orson Welles a proposito del nostro Paese ebbe modo di dire: “In Italia per trecento anni sotto i Borgia ci sono stati guerra, terrore, criminalità, spargimenti di sangue. Ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo, il Rinascimento. In Svizzera vivevano in amore fraterno, avevano cinquecento anni di pace e democrazia. E cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù”. Gli italiani nonostante mille problemi riescono sempre ad arrangiarsi e a creare. Un popolo di santi, poeti e navigatori dunque, come si diceva un tempo. Nonostante il nostro machiavellismo perché da noi il fine giustifica sempre i mezzi. Nonostante mille crimini e delitti, spesso senza castighi. Questo infatti è ancora il Paese della mafia. Ma è anche uno dei paesi più industrializzati del mondo malgrado la scarsità di materie prime come ferro, rame, carbone, cotone. Comunque è facile incorrere nel rischio di fare delle generalizzazioni indebite e di cadere nel qualunquismo. L’Italia cambia continuamente. Anche il clima è mutato radicalmente. Se anni fa esistevano stagioni e mezze stagioni, oggi il clima è diventato totalmente instabile. In estate non è più un clima mediterraneo, ma addirittura torrido con alte percentuali di umidità. Gli esperti ci dicono che dipende dall’innalzamento delle temperature in tutto il globo terrestre. L’accelerazione storica di questi ultimi decenni è stata impressionante. Le indagini demoscopiche ci aiutano, in quanto ci forniscono delle istantanee dell’Italia. Ma non ci dicono le cause di certi comportamenti. Questa società è in continua trasformazione, anche se talvolta noi abbiamo il vizio di confondere il nuovo con il già visto, di dare a cose vecchie parole nuove. Ad esempio nel giro di pochi anni l’Italia, che appariva culturalmente fondata da archetipi della cultura latina e da principi cristiani (con qualche tocco di laicismo qui e là), oggi sembra apparentemente diventata la patria del relativismo culturale. Ma in realtà ciò che a prima vista sembra relativismo culturale -a mio avviso- non è altro che un binomio indissolubile di antico permissivismo e di solito menefreghismo, che da secoli dominano incontrastati nella nostra penisola. Scrivendo ciò non voglio offendere l’italianità. A tal proposito abbondano già i preconcetti e gli stereotipi degli stranieri. Ci vedono ancora come la patria degli spaghetti, della pizza, dei mandolini e della mafia. Un tempo forse eravamo davvero così. Forse certi pregiudizi erano dovuti alla nostra emigrazione massiccia. Le cose sono cambiate in questi anni. Se un tempo italiani semianalfabeti emigravano in America o in Germania in cerca di fortuna, oggi esiste invece la fuga dei cervelli: ricercatori scientifici, che espatriano perché non si sentono valorizzati da noi. Gli italiani poi se ne infischiano altamente di difendere la loro nazione. L’italiano a mio avviso fa bene a non essere patriottico o sciovinista. Però un minimo di orgoglio nazionale in più ogni tanto non guasterebbe. Invece prova sollievo ogni volta che parla male dell’Italia. Io ora voglio solo riflettere ironicamente (o forse amaramente?) sugli italiani e sull’Italia attuale. Può darsi che commetta molti errori, ma il compito non è facile. D’altra parte l’Italia non è solo quella disegnata sulle cartine geografiche, non è solo fatta di arte e di luoghi dell’anima, ma è anche una matassa senza bandolo di modi di essere e di modi di vivere. L’Italia attuale è come un disegno di Escher, dove le realtà socio-economiche e culturali più svariate si intrecciano e si sovrappongono. E’ anche il Paese tragicomico per eccellenza, dove regnano sovrani paradossi e contraddizioni di ogni sorta. Dopo secoli di dominazioni straniere D’Azeglio dichiarò: “L’Italia è fatta, restano da fare gli italiani”. Ci si potrebbe chiedere paradossalmente che senso abbia parlare degli italiani. Non è più l’epoca dei guelfi e dei ghibellini, però gli italiani non si sono ancora amalgamati a dovere. Si pensi anche ai regionalismi e ai campanilismi, che talvolta creano anche problemi di ordine pubblico in occasione di partite di calcio. Anche se la televisione è stata determinante per l’unificazione linguistica del nostro Paese, sono molte le persone che parlano con famigliari e amici il dialetto e lo preferiscono alla nostra lingua nazionale neolatina così musicale. Ma in fondo l’unità di Italia da un punto di vista storico è recente. Per secoli l’Italia è stata frantumata in comuni e signorie nel Medioevo e successivamente in statarelli. Gli ultimi a dominarla prima dell’unità sono stati i francesi, gli spagnoli, gli austriaci. E’ stata devastata e saccheggiata. Ci si ricordi a tal proposito alla immane confisca delle opere d’arte dovuta a Napoleone. Forse il problema oggi non è più nemmeno sapere se sono stati “fatti” o meno gli italiani, piuttosto viene da chiedersi se domani ci saranno ancora gli italiani, dato che le culle sono vuote o quasi e la crescita demografica è prossima allo zero, nonostante la densità della popolazione rimanga elevata in tutta la penisola. Viene inoltre da chiedersi anche se la qualità della vita degli italiani coincida con il benessere economico, oppure se la qualità della vita sia data non solo dal reddito, ma anche dal potere d’acquisto, dal tasso di microcriminalità nel proprio quartiere, dai servizi sanitari, dalla tutela dell’ambiente, dallo stare bene al lavoro, dalla vivibilità del proprio paese. Superficialmente potremmo ritenere che gli italiani vivono serenamente in un clima di permissivismo ed edonismo. In realtà il clima di permissivismo e di edonismo esiste, ma gli italiani non vivono serenamente. Pensiamo solo alle preoccupazioni per la guerra, per la crisi economica, per il lavoro, per i rincari, etc etc. Se consideriamo le centinaia di migliaia di italiani insonni, ansiosi, depressi, stressati ci possiamo subito rendere effettivamente conto che gli italiani non versano in buone condizioni di salute, oppure che non possiedono più gli anticorpi delle generazioni precedenti per superare gli ostacoli e le avversità della vita quotidiana. Gli italiani sono insicuri e per questo assumono tranquillanti, pagano profumatamente agenzie di vigilanza, aziende di porte, casseforti e di impianti di allarmi. Si stava quindi meglio quando si stava peggio? Alcuni rimpiangono la civiltà contadina. Pasolini denunciò la scomparsa delle lucciole. E’ facile rimpiangere la poesia e la magia della civiltà contadina: gli odori autentici e i sapori genuini di un tempo, le veglie, la comunità, l’armonia con la natura, i venditori di castagnaccio e di caldarroste. Ma qualcuno rimpiange forse il latifondismo del Sud? Qualcuno rimpiange forse le cene esclusivamente a polenta nel Nord? Qualcuno rimpiange forse i vasi da notte in quest’epoca di grandi comodità (di forni a microonde, di aria condizionata, di idromassaggi)? Ci ricordiamo davvero come era la vita quando non c’era l’insulina, il cortisone e la penicillina?

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