Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Due parole su "Jack Frusciante è uscito dal gruppo" di Enrico Brizzi...

ott 182022

 

 

 

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Enrico Brizzi (1974) è uno scrittore bolognese, amante della montagna, delle camminate e della natura. Si è laureato al Dams. Con questo romanzo si è fatto conoscere dal grande pubblico, ma l'autore non ha deluso mai neanche nei libri successivi, nonostante siano meno famosi. Ho letto altri libri e sono stati sempre piacevoli. Leggendo questo libro ci si può far trasportare dalla fantasia e ci può sembrare di camminare sotto i portici bolognesi insieme allo scrittore, ma questo romanzo è anche un tuffo al cuore per chi ha vissuto gli anni Novanta e vuole ricordarli. Oppure quest'opera è anche un modo per far conoscere ai giovanissimi come vivevano e i miti in cui credevano i loro genitori della generazione X.


Trama:
"Jack Frusciante è uscito dal gruppo" è un romanzo generazionale, pubblicato nel 1994. Innanzitutto il titolo è dovuto al fatto che Frusciante dei Red Hot Chili Peppers lasciò il gruppo. Il romanzo non è ideologico e sessuale come "Porci con le ali". Non è trasgressivo come "Altri libertini" di Tondelli, anche se Enrico Brizzi riconosce nello scrittore di Correggio un maestro. Pur avendo anche come punto di riferimento "Il giovane Holden" non è presente in questo romanzo il tour de force del gergo giovanile presente nell'opera di Salinger. Il protagonista Alex è un diciassettenne che frequenta un liceo classico bolognese e si innamora di Adelaide, che però non lo ricambia, anche se tra di loro nasce una tenera amicizia. La ragazza in questione è troppo presa dall'ansia di futuro, dovrebbe andare a studiare in America, non vuole impegnarsi, vuole essere libera e allo stesso tempo non vuole illudere nessuno. Mentre Alex è alle prese con la sua prima delusione sentimentale, si suicida un suo amico, più benestante di lui, più svogliato negli studi e più nichilista. Il suo amico era pieno di ragazze e di amici, era un assiduo frequentatore di discoteche, ma al suo funerale ci sono poche persone perché quel popolo della notte, quegli amici della fauna notturna non lo hanno accompagnato per l'ultimo viaggio e questa è una constatazione di fatto molto amara per il protagonista, che vuole dirci che il sesso facile e il divertimento sfrenato non sono sinonimi di amore e amicizia veri. Il romanzo è colmo di citazioni postmoderne, molto spesso ludiche. Non voglio spoilerare ulteriormente.


Recensione:
Si tratta di uno dei libri più divertenti e spassosi degli anni Novanta in Italia. Brizzi irrompe nel mondo della narrativa con freschezza, originalità, talento. Di solito gli scrittori italiani si perdono nelle descrizioni ossessive o nelle narrazioni minuziose: Brizzi giovanissimo riesce a dosare sapientemente, con maestria, narrazione e descrizione. Pensate che il libro ha venduto più di un milione di copie e persino Umberto Eco lo ha trattato in una sua Bustina di Minerva. Prima di acquistarlo avevo sentito parlare Brizzi al Maurizio Costanzo Show e mi aveva incuriosito. È sicuramente stato molto furbo, intelligente e capace Brizzi ad aver trasformato una cocente delusione amorosa in un libro. Tuttavia il romanzo, anche se mischia cultura bassa e cultura alta, non è commerciale o quantomeno non è stato scritto con l'intento di farne un best seller. Forse l'autore voleva solo scrivere un libro non noioso. Comunque sia, Brizzi ha avuto il merito di scrivere un libro che meglio di molti altri rappresenta la generazione X italiana. Molto azzeccata la scelta di mettere in copertina una bicicletta scassata, come a voler rappresentare una storia giovanile qualsiasi tra persone comuni. In parte mi ricorda anche il film Ovosodo, seppur ci siano delle differenze e nessuno abbia copiato da nessuno. Brizzi colpisce per il suo modo delicato e ironico di raccontare una vicenda adolescenziale agrodolce, ma colpisce anche per le sue sentenze e il fatto di non guardare in faccia nessuno: così scrive a proposito di Adelaide che sono le albechiare che ti fregano e a proposito del cattolicesimo scrive che sono le persone che si mettono in prima fila in chiesa a rovinare la religione cristiana, attaccando quindi frontalmente il perbenismo e la vuota apparenza. Insomma un libro non pretenzioso ma ben scritto, che merita il successo che ha avuto. Un libro quindi da leggere a tutti i costi. È in definitiva un romanzo che punta sulla leggerezza, ma che fa anche riflettere.

 

 

Due parole sullo scrivere e il parlare...

giu 302022


Riguardo al mito di Teuth:  "O ingegnosissimo Theuth, c'è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, del richiamare alla memoria. Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza e non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti.»
(Platone, Fedro)

 

Sant’Agostino si stupì quando vide Sant’Ambrogio che leggeva non a voce alta ma silenziosamente. Il dialogo permette una maggiore interattività e una maggiore reattività. Le lezioni degli insegnanti servono anche a questo. Si può ricorrere maggiormente alla metacomunicazione; si possono avere chiarimenti, delucidazioni in modo più semplice e in tempo reale. Poi c’è naturalmente il mito di Teuth tutto a vantaggio dell’oralità, ma c’è da dire che lo stesso Platone a differenza di Socrate lasciò tutto per iscritto. La scrittura permette maggiore complessità, talvolta porta alla complicazione delle cose semplici. Però per quel che mi riguarda permette di argomentare, di approfondire, di elaborare, di rielaborare le idee, di formularle compiutamente, di ristrutturare il pensiero. Richiede più tempo e più ponderatezza. L’oralità richiede più sintesi e semplificazione. Il talk show indicato da molti come l’apice dell’intelligenza verbale sfocia invece a mio avviso nella tracotanza e nella rissa verbale. I dialoghi tra persone comuni spesso mi sembrano ricalcare i talk show, le interviste, le conduzioni televisive più che essere davvero frutto di autenticità.

 

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La scrittura porta a maggiore riflessività, a maggiore accuratezza. L’oralità richiede più sangue freddo. Con la scrittura si possono raffreddare gli animi, si può ragionare più a mente lucida. Ma questo non significa che l’oralità sia facile e la scrittura più difficile. Entrambe hanno pro e contro, punti di forza e punti deboli. C’è un modo per cercare la verità nel dialogo come nella corrispondenza epistolare, nella scrittura. Ci sono ostacoli, inganni che si frappongono alla ricerca della verità in entrambe queste forme comunicative. La scrittura, soprattutto quella artistica e filosofica, è frutto di meditazione estenuante. I dialoghi sono spesso più approssimativi e improvvisati, specialmente quelli quotidiani. Ci sono scrittori che non sanno parlare bene perché sono introversi e/o ansiosi. Tra scrittura e oralità vinse una mistura raffazzonata come i commenti nei blog, sui social, i messaggini, etc etc. Chi sa cosa ci riserva il futuro in questo senso? Ci sarà la creazione di nuove forme di comunicazione? Oggi sembra avere la meglio l’oralità sulla scrittura: fondamentale è bucare lo schermo; un Leopardi senza oratoria, senza un eloquio veloce non sarebbe minimamente considerato. Leggere permette di entrare in contatto intellettuale con i pensieri di grandi uomini vissuti in tutti i tempi e in tutti i luoghi (come in una celebre canzone). Borges annovera tra i giusti del mondo “Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto”.

 

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Che poi, scrittura o oralità, alla fine è importante questo, come ha scritto Gianni Rodari: “Tutti gli usi della parola a tutti: mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”. Un poco classista invece Valentino Bompiani che scriveva: ““Un uomo che legge ne vale due”. Non sempre questo corrisponde a verità. Don Chisciotte a leggere pessimi libri impazzisce per esempio. Comunque sul furgoncino della biblioteca comunale hanno verniciato proprio questa frase. Alla frase di Bompiani fa da controcanto Rino Gaetano, il cui “fratello è figlio unico” perché “è convinto che anche chi non legge Freud può vivere cent’anni”. Io ritengo che Freud vada letto, ma poi subito dopo dimenticato per vivere meglio. Per quel che mi riguarda leggere non cambia la vita, almeno non ha cambiato la mia vita, forse l’ha addirittura peggiorata, ha contribuito a isolarmi, a peggiorare i rapporti umani. Ma forse dipende da me soltanto, mentre per altri la lettura è un mezzo di promozione sociale. Come ho scritto in un mio aforisma tempo fa (scusate l’autocitazione) la lettura fortifica l’intelligenza. Umberto Eco a favore della scrittura sostenne: “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro”.

 

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C’è una cosa però che lo scritto non darà mai ed è il calore umano, per quanto anche le parole scritte possono testimoniare vicinanza umana. Ci sono conversazioni banali quotidiane tra familiari che sono molto più importanti anche per persone ad alto coefficiente intellettuale del libro di un grande scrittore o di un filosofo memorabile, ma ci sono anche persone per cui le voci dei grandi artisti sono un bisogno insopprimibile, come un mio lontano parente di Bologna, che, pur essendo consapevole della fine, il giorno stesso della morte finì di leggere un libro. La lettura non avrebbe certo contribuito a salvargli l’anima, ma d’altronde in tutta onestà agiamo sempre per salvarci l’anima? Eppure leggeva perché ne traeva beneficio il suo animo e la sua mente. E poi chi può sapere con certezza, anche se è prossimo alla fine, che quel giorno morirà? A un colloquio di lavoro possono chiedere a un candidato quale è il suo ultimo libro letto (domanda molto sciocca), ma nessuno saprà mai quale sarà il nostro ultimo libro, l'ultimo libro della nostra vita.

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