Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Oggi si pubblica troppo a discapito della qualità...

feb 072024

 

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Nella foto Eros Alesi (1951-1971)

Tomasi di Lampedusa scrisse un solo romanzo, “Il gattopardo”. Salinger oltre a “Il giovane Holden” pubblicò solo tre libri in vita e altri racconti su riviste. Pessoa pubblicò in vita solo su riviste letterarie. Campana ebbe la gloria postuma solo per “I canti orfici”. Svevo scrisse solo tre romanzi e poche pagine di un quarto, intitolato “Il vecchione”, rimasto incompiuto per l'incidente automobilistico mortale. Del poeta romano Eros Alesi, scomparso a soli 19 anni, resta un solo libro, “Che puff. Il profumo del mondo. Sballata”, edito da Stampa alternativa. Del poeta Giuseppe Piccoli, nonostante in vita avesse pubblicato dieci sillogi in piccole case editrici, resta oggi solo il volume “Fratello poeta”, edito da Lietocolle. Insomma si può scrivere poco, pubblicare ancora meno e passare alla storia. Oggi però le case editrici forzano la mano. Uno scrittore deve battere il ferro finché è caldo. Quindi deve essere molto prolifico. Spesso deve pubblicare un libro all'anno. Poco importa se le opere sono più commerciali che letterarie. Poco importa se tutto questo va a discapito della qualità. Poco importa se i libri di uno scrittore si assomigliano tutti troppo e risultano poco originali. In teoria una creatività veramente rispettabile presupporrebbe tempi lunghi per l'incubazione, per la stesura, per l'editing. In teoria ci vorrebbe talento, impegno, fatica ma anche pazienza, calma. In teoria non dovrebbero essere fatte pressioni indebite agli scrittori. Uno scrittore in teoria dovrebbe prendere tempo, correggere, aggiungere, tagliare, rivedere, pensarci sopra. In pratica ci sono le esigenze editoriali. In pratica anche gli scrittori devono guadagnarsi il pane e tengono famiglia. Inoltre un romanzo scritto nel 2024 potrebbe non interessare nessuno e risultare datato pubblicato dieci anni dopo. Aspettare tempi più propizi non avrebbe senso, perché tempi più propizi non ci saranno! Quindi non avrebbero più senso oggi il riserbo, la discrezione, la gelosia degli scritti inediti che rimanevano nei cassetti dei letterati del secolo scorso. Custodire gelosamente le proprie opere, sperando che i posteri possano apprezzare e capire è mera illusione, è una mistura di follia e albagia. Oggi l'imperativo è pubblicare, anche sul web, ma pubblicare. Un'altra osservazione: nessuno sa oggi chi e cosa resterà tra mezzo secolo, quali saranno gli autori memorabili. Pessoa per alcuni al suo tempo era solo un alcolizzato, Campana per molti era un pazzo, Morselli e Tomasi di Lampedusa per molti erano solo dei dilettanti che vivevano di rendita, molti crepuscolari per gli uomini della loro epoca erano solo dei tisici. E oggi? Oggi è molto difficile dire chi resterà. Degli indicatori che forniscono una certa predittività ci sono, come la pubblicazione con grandi case editrici, la vittoria di premi importanti, il consenso critico dei più autorevoli italianisti. Ma ciò che conta per molti è affermarsi in vita, avere successo, prestigio, riconoscimento, soldi vita natural durante, perché tanto la gloria postuma è una grande incognita, probabilmente non salva l'anima, ammesso e non concesso che esistano l'anima e l'aldilà. Un proverbio dei pigmei recita: “se non qui e ora, che cosa importa dove e quando?”

La triplice ingiustizia del mercato e dell'editoria nei confronti degli autori, veri o presunti...

gen 232024

 

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Supponiamo che abbiano ragione i critici letterari e i veri intenditori di poesia e narrativa. Supponiamo che il loro parere sia più competente, autorevole, sensato rispetto al pubblico. Supponiamo che esistano ancora dei canoni e dei criteri interpretativi per valutare talento, originalità, qualità di un libro. Ebbene per le persone competenti o supposte tali ogni giorno si consuma una triplice ingiustizia nei confronti degli autori da parte dell'editoria e del mercato. Questa triplice ingiustizia viene appena accennata, spesso sottaciuta dagli addetti ai lavori, che si rassegnano ormai a questo stato di cose. Invece ciò va detto e tutti ne devono prendere coscienza. Premetto che le grandi case editrici vogliono sempre più far cassa e quindi pubblicano libri che possono vendere. Premetto che per le grandi case editrici sono più importanti il marketing, il social marketing, il posizionamento, il positioning branding (quanto un libro o un autore possano occupare la mente del lettore) della qualità. Luciano De Crescenzo quando approdò alla grande editoria pensò di primo acchito che ora sarebbe stato libero totalmente di esprimere la propria creatività e di essere apprezzato per questo, ma si ritrovò qualche giorno dopo a essere costretto a fare riunioni con esperti di marketing, che snocciolavano dati, statistiche, sondaggi. Premetto che le grandi case editrici hanno una politica editoriale diversa rispetto al passato, ovvero non reinvestono una parte consistente dei loro profitti nella pubblicazione di autori di nicchia per tutelare la qualità della loro editoria. Persino le grandi case editrici accettano passivamente le dinamiche del mercato e spesso sono restie a cercare di imporre un libro di qualità sul mercato. Premetto che molte piccole case editrici spesso pubblicano ogni cosa, facendo l'editing opportuno, per fare cassa. D'altronde l'editoria è industria culturale. Quindi perché stupirsi? Le case editrici, piccole, medie o grandi devono pur sopravvivere e cercare di fare utili. Chi cerca di far presente queste dinamiche editoriali spesso viene fatto rientrare dal sistema nella categoria degli odiatori o dei rosiconi. 

Abbiamo perciò una triplice ingiustizia, come scrivevo prima:

1) ci sono influencer e vip che pubblicano con grandi case editrici solo perché hanno follower e non si meriterebbero assolutamente di venir pubblicati. Spesso i loro libri hanno bisogno di un grandissimo lavoro di editing oppure i loro libri sono scritti addirittura da ghost writer.

2 ) ci sono autori di piccole case editrici che non hanno talento e vengono pubblicati solo perché hanno sborsato dei soldi.

3) ci sono autori di piccole case editrici che hanno talento, ma sono costretti a pubblicare a pagamento, perché non sono ritenuti “collocabili” dalle grandi case editrici per la logica di mercato che ho detto. 

L’editoria quindi, sempre più succube del mercato, commette ogni giorno delle ingiustizie sulla pelle degli autori, illudendoli, ostracizzandoli, addirittura emarginizzandoli. 

 

Credits: foto dell'amico Emanuele Morelli

 

Nuove opportunità lavorative nel web per umanisti...

gen 032024

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Se un tempo il web era fonte di guadagni esclusivamente per ingegneri, laureati in informatica, smanettoni autodidatti capaci, oggi anche gli umanisti o comunque chi ha una formazione scolastica umanistica possono iniziare a guadagnare qualcosa, ad arrotondare, talvolta fino a farne una professione. Certo i ricavi sono ancora molto minori rispetto agli informatici. Sembra però che il web stia andando verso una nuova fase, dove conterà anche la scrittura e la padronanza del linguaggio. Non a caso sono aumentate notevolmente le iscrizioni alla facoltà di informatica umanistica: informatica e umanesimo, due cose antitetiche qualche decennio fa, che oggi possono unirsi. Per prima cosa un "umanista" può fare l'articolista. Può scrivere articoli su commissione, iscrivendosi a siti, chiamati marketplace, come Melascrivi. È il cosiddetto "paid to write". Inoltre un articolista può collaborare con testate giornalistiche online, facendosi pagare per ogni articolo oppure in base alle visualizzazioni ottenute dall'articolo. Esiste il mestiere di copywriter, che non comprende solo la scrittura di articoli, ma si occupa anche di pubblicità ed è più complesso. Esiste la figura del content creator, ovvero del creatore di contenuti, non solo scritti ma anche su Instagram e audiovisivi. Esiste il web content editor, che corregge gli errori ortografici, di sintassi, di punteggiatura nei siti e apporta migliorie ai testi. Rispetto all'editor classico, che lavora in una casa editrice, questo mestiere richiede meno meticolosità, meno fatica. Esiste il web content writer, che scrive completamente contenuti per siti e blog, occupandosi anche del posizionamento sui motori di ricerca, della cosiddetta Seo optimization. Un'altra occasione per guadagnare è quella di fare i book influencer, recensendo i libri. Ci sono i book blogger, i booktuber, gli Instagram book influencer. Ci sono anche i recensori su Tik Tok, più precisamente su BookTok. Costoro possono diventare collaboratori di case editrici.
Ci sono due piccole grandi insidie per tutti questi lavori:


- non copiare perché per i siti Wordpress ad esempio c'è la possibilità del Check duplicate content, che permette di controllare se un testo è inedito oppure se è già presente nel web e perché esistono software antiplagio, anche gratuiti, di cui sono ormai provvisti quasi tutti gli insegnanti di scuola superiore e i docenti universitari. 


- pagare sempre le tasse. Spesso uno può essere pagato tramite paypal, postepay o bonifico bancario. Ma bisogna dichiarare questi soldi. La Guardia di Finanza può accertare facilmente e oggettivamente l'evasione. Anche gli youtuber, in questo caso i booktuber devono pagare le tasse. Anche qui l'evasione è facile da accertare oggettivamente. È meglio in questi casi aprire una partita Iva.  È comunque molto meglio lavorare per un periodo gratis, costruendosi una buona reputazione online, accumulando esperienze e referenze nel curriculum, che essere evasori.

 

 

Due parole di numero sulla collana bianca dell'Einaudi...

dic 032023

 

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La collana di poesia Einaudi, detta anche "collana bianca" o semplicemente "bianca" per via del colore della copertina, è il non plus ultra della poesia italiana. È la pubblicazione più prestigiosa. È molto selettiva, molto esclusiva; infatti di solito vengono pubblicati ogni anno dagli 8 ai 10 volumi e alcuni talvolta sono di autori stranieri. La poesia non vende in Italia: in media i nuovi volumi vendono  2000 copie con picchi di 4000, ma l'Einaudi fa cassa con l'intero catalogo, visto e considerato che è dal 1964 che pubblica poeti autorevoli, molti memorabili. Essendo molto selettiva e pubblicando pochissimi poeti c'è anche del risentimento tra gli esclusi. Essere pubblicati nella bianca significa diventare personaggi, significa assurgere alla notorietà, seppur di nicchia, perché la poesia è di nicchia. In primis i poeti sperimentali lanciano i loro strali e parlano a chiare lettere di ingiustizia, accusando poi per estensione tutta la grande editoria di marginalizzare la poesia di ricerca. Altri invece criticano negativamente i poeti einaudiani, sostenendo che siano antiquati, che si limitino a fare il compitino, che non abbiano da dire niente, etc, etc. È vero che la maggioranza dei poeti "einaudiani" sono neolirici con alcune eccezioni, come ad esempio Attilio Lolini e Cesare Viviani, che, pur essendo a grandi linee lirici, sono a tratti anche assertivi-aforistici. Se ci limitiamo a una classificazione in neolirici e poeti di ricerca, però si capisce che questa distinzione è troppo limitante, dato che Aldo Nove e Tiziano Scarpa sono di difficile collocazione a mio modesto avviso.  Un tempo vennero pubblicati nella bianca anche poeti sperimentali come Roberto Roversi, Paolo Volponi, Andrea Zanzotto. Sorge spontanea una domanda: se oggi i poeti sperimentali non vengono pubblicati, è per via di una scelta ideologica e stilistica dell'Einaudi o perché i nuovi autori di questo filone non sono ritenuti degni, non sono ritenuti all'altezza? I critici della bianca sono apocalittici: per loro non si salva nessun poeta pubblicato nella bianca. Ci sono poeti veri, aspiranti o sedicenti però che hanno ambizioni sbagliate e sono megalomani: bisogna sapersi accontentare e accettare le scelte editoriali, anche se sono sfavorevoli. Un poeta deve accettare non solo premi, consensi ma anche rifiuti e no. Poi ci sono alcune critiche a mio avviso legittime: se scorriamo l'intero catalogo le poetesse sono poche e lo stesso dicasi per i poeti meridionali. A mio modesto avviso, vista la grande scrematura che fa l'Einaudi, per utilizzare una terminologia medica e psicologica, sono molti di più i falsi negativi dei falsi positivi, ovvero ci sono molti poeti validi non pubblicati nella bianca ma molto spesso i poeti pubblicati lì sono validi e originali. Insomma la bianca è sinonimo di alta qualità e tutti ambiscono a pubblicare lì. Un motivo ci sarà. Un tempo i letterati sostenevano che i poeti memorabili pubblicassero con grandi case editrici e le piccole case editrici fossero una fossa comune per i restanti poeti su cui sarebbe sceso l'oblio. Oggi è sempre più difficile dire chi passerà alla storia o meno. Di certo ci sono una miriade di blog letterari, di riviste di poesia online, di piccola editoria a pagamento che riescono a dare una visibilità insperata già venti o trenta anni fa e che sono il segno inequivocabile di un grande fermento poetico che esiste in Italia. Ma la bianca resta la bianca e ve lo scrive uno che ha smesso da qualche anno di scrivere "poesie" e non ha mai inviato i suoi versi all'Einaudi. Queste due realtà poetiche non devono essere mondi paralleli: blog e riviste online continuino a fare da cassa di risonanza ai poeti riconosciuti e l'Einaudi cerchi anche del buono tra i poeti del web. Le due cose non si devono considerare mutuamente esclusive, perché non lo possono essere se si ha a cuore la poesia italiana contemporanea.

Il nichilismo in sintesi (dalla filosofia alla letteratura)

giu 132022

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Il nichilismo è un termine che si può declinare in molti modi e ha perciò diverse accezioni. È un termine troppo diffuso e perciò inflazionato. Spesso viene frainteso perché considerato solo anarchia, rifiuto delle istituzioni o negazione dell’oggettività. È un termine che non ammette sinonimi. Nessuna altra parola rende bene l’idea. Quindi scusatemi se ripeterò continuamente il termine “nichilismo”. Esso è un termine abusato nel linguaggio comune. Quindi partiremo considerandolo da un’altra ottica. Il nichilismo è innanzitutto un problema filosofico complesso, che può portare il pensiero a girare a vuoto. In queste poche righe cercherò di semplificare la questione. Naturalmente spero di non banalizzarla. È così facile poi andare fuori tema, divagare e debordare. È così facile contraddirsi. Questo problema è una patologia occidentale ed è difficilissimo sapere la terapia e la prognosi. Il nichilismo a livello speculativo comprende molti passaggi filosofici e concetti-limite. Anticamente Gorgia aveva avvertito: “nulla è; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; e se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile”. Per Nietzsche è un “ospite inquietante” della metafisica occidentale e per questa ragione Heidegger pensava che va “guardato in faccia”. Trattare il nichilismo e filosofare su di esso significa confrontarsi con i limiti ontologici, mentali, esistenziali dell’uomo perché come pensava E. Junger è impossibile per ogni essere umano rappresentare il niente. Il nulla non si può ascoltare: il silenzio assoluto non esiste. C’è sempre qualcosa che lo scalfisce. Il niente è anche indicibile e invisibile. Chiudiamo gli occhi per guardare il buio ma ci sono i fosfeni. C’è sempre una impurità fisiologica tra l’io e il nulla. Il nulla lo possiamo solo intuire. Non lo possiamo percepire totalmente e neanche comprenderlo. Abbracciare il nulla è solo un modo di dire. Il nulla non si può pensare. Anche pensare a nulla è solo un modo di dire. La coscienza come insegna Husserl è sempre intenzionale. È sempre orientata verso qualcosa. In realtà il nulla ci trascende in tutto e per tutto. Dire “il nulla è” a rigor di logica è già una contraddizione di termini. L’unica cosa che possiamo affermare è che il nulla è non essere. Anche desiderare nulla a mio avviso è impossibile. Al massimo si può desiderare di non desiderare nulla ma ciò significa desiderare qualcosa. Insomma qualcosa si desidera sempre. Nichilista è chi non crede in niente. Il nichilista non trova alcuna risposta a domande come “perché sono venuto al mondo?” o “che senso ha la mia vita?”. Alcuni illustri pensatori sono nichilisti come ad esempio Cioran. Il nichilismo è il destino dell’Occidente. Essere nichilisti invece in buona parte dei casi è una scelta come essere atei. Quindi se un nichilista uccide spesso non ha scusanti. D’altronde non si può dare sempre la colpa all’ambiente, alla società, alla cultura. Per Nietzsche il nichilismo nasce dalla morte di Dio ed è la svalutazione di tutti i valori della tradizione.
Tutti i valori hanno perso valore. Per il filosofo tedesco non ci sono più le categorie di unità, verità, fine. Niente ha più uno scopo. Niente è più vero. La realtà finisce per frammentarsi. È stato l’uomo occidentale ad uccidere Dio. È nostra la colpa. Ma ciò da alcuni è stato considerato positivo perché ci ha liberato da ogni pretesa di assoluto. Indietro comunque è impossibile tornare. Nietzsche distingue un nichilismo passivo da uno attivo. Il nichilismo passivo è rappresentato dalla distruzione dei valori e in casi estremi anche dal disprezzo della realtà e quindi dal dire no alla vita.
Al contrario il nichilismo attivo vuole distruggere i valori per ricreare, attuare una trasvalutazione di essi e dire sì alla vita. Nietzsche è anche l’artefice di un altro nichilismo, quello delle interpretazioni. Il filosofo può essere per questo considerato il padre del relativismo, perché ha anticipato di un secolo gli antropologi culturali. Infatti per lui non esistono fatti ma solo interpretazioni. Nel romanzo “Padri e figli” di Turgenev il protagonista è lo studente di medicina Bazarov, che crede solo nella scienza (non fa altro che sezionare rane) e nell’utile, disprezzando il bello, il bene, il vero. Questo è il nichilismo russo, che è anche un nichilismo politico che si pone contro il potere degli zar. Per Heidegger il nichilismo nasce dal fatto che per la metafisica occidentale l’essere diventa un ente tra gli altri. Il nichilismo secondo lui è oblio dell’essere. Non solo ma per Heidegger esiste anche un nichilismo della tecnica, che assieme al denaro domina la nostra società. Queste due entità hanno preso il posto di Dio attualmente; lo hanno sostituito totalmente. Secondo Heidegger dietro alla tecnica non c’è alcun fondamento ontologico: c’è il nulla. Non va però confusa la tecnica con la tecnologia. La prima è una mistura di razionalità strumentale e massima efficienza. La tecnologia invece è l’insieme di prodotti creati grazie all’impiego della tecnica. Per Marx l’uomo è alienato ed è anche cosa tra le cose in un mondo caratterizzato dal feticismo delle merci (le relazioni sociali sembrano rapporti tra cose, nonostante si salvi l’interdipendenza) e dal valore di scambio degli oggetti. Marx tuttora può essere considerato attuale, nonostante il pessimo sfruttamento delle sue idee: nonostante i comunismi e alcuni comunisti. Per Emanuele Severino il nichilismo è originariamente dovuto alla credenza che le cose e le persone sono nel niente, esistono per un determinato periodo di tempo e ritornano nel niente. Il divenire quindi sarebbe solo l’apparenza del nulla. Ciò comporta di conseguenza una totale assenza di valori perché se il niente ha la meglio non c’è più alcun senso della vita, che non vale più la pena di essere vissuta. Secondo Severino il nulla fagociterebbe tutti i principi della società. Per Umberto Galimberti i greci consideravano il tempo come ciclico per cui il nichilismo non poteva avere la meglio perché tutto era prestabilito ed era destinato a ripetersi. Invece per i cristiani il tempo è lineare: il passato è il peccato originale, il presente è la redenzione, il futuro è la salvezza. Ma questo senso del tempo con la morte di Dio è scomparso. Il nichilismo deriverebbe quindi anche dal fatto che siamo orfani di un senso. Inoltre i greci avevano il senso del limite, mentre la razionalità tecnologica-scientifica non si pone mai limiti. Anche la produzione industriale non si pone limiti. Continua senza sosta. Junger la chiama “mobilitazione totale”. Ciò non è altro che il faustismo della civiltà occidentale individuato da Spengler. Il nichilismo perciò si manifesta nella tecnica. I greci avevano anche una altra cosa che noi non abbiamo più per combattere il nichilismo: una letteratura mitopoietica, che fissava degli archetipi nei miti. Per Stefano Zecchi solo una nuova concezione dell’arte (il mitomodernismo) può salvare dalla decadenza inevitabile a cui conduce il nichilismo. C’è inoltre un nichilismo morale (“se Dio non c’è tutto è permesso” nei fratelli Karamazov), secondo cui si può anche uccidere e un nichilismo esistenziale, che può portare in casi estremi all’autodistruzione (“Meglio bruciare subito che consumarsi lentamente” di Kurt Kubain). Se tutto va bene un pensatore occidentale può "credere in Dio ma non accettare questo mondo" perché è un mondo assurdo, sempre riprendendo Dostoevskij.  Ci sono filosofi che sostengono che bisogna ritornare a pensare come i greci per sconfiggere il nichilismo. Altri che ritengono che bisogna pensare come gli orientali ed altri che propongono la rinascita di una società cristiana, anche se secondo molti lo stesso cristianesimo contiene in sé alcuni elementi nichilistici. Inoltre il cattolicesimo ha mostrato molte contraddizioni, un perbenismo e una ipocrisia di fondo da parte dei propri rappresentanti, che ha generato in alcuni il nichilismo. Non solo ma molti cattolici sono dei nichilisti. Per Junger un modo per combattere il Leviatano, ovvero il nichilismo per esempio è l'arte.  Per alcuni filosofi il nichilismo è il vaso di Pandora. Per alcuni marxisti invece è un falso problema perché per essi è la struttura economica a determinare la sovrastruttura ideologica. Per gli idealisti è esattamente il contrario.
Per altri ancora struttura e sovrastruttura invece interagiscano continuamente e quindi non ci sarebbe il primato dell’una sull’altra. Ma andiamo oltre. Ognuno - dicevamo - ha la sua ricetta per debellarlo. Alcuni intellettuali aspettano l’avvento di un “ultimo uomo” che riesca a coesistere pacificamente con il nulla. Altri propongono “il pensiero debole” di Vattimo che indebolisca il soggetto e la ragione. Altri aspettano la radura di Heidegger: il gioco di ombre e di luci, che disvela l’esserci. Altri ancora sono a favore di una metafisica dei limiti. C’è chi aspetta un nuovo umanesimo e chi invece un nuovo Dio. Camus per combattere l’assurdo proponeva la rivolta: “mi rivolto, dunque siamo”. Il suo era un appello alla solidarietà tra gli uomini. Lo scrittore francese riprendeva la frase di Karamazov: “Se non sono salvi tutti, a che serve la salvezza di uno solo!”. Camus diceva no alla religione per abbracciare l’umanismo. Nel frattempo il nulla ci sovrasta. Forse il nichilismo non è ancora il peggiore dei mali, ma è senza ombra di dubbio uno dei più insidiosi perché non ci sono ancora rimedi efficaci e nell’affrontarlo spesso si rischia di imboccare dei vicoli ciechi e di finire nelle trappole della metafisica. Riflettere su questo problema culturale può voler dire spesso fare una grande confusione e talvolta rischiare di prendere degli abbagli. Per Umberto Galimberti nichilismo non significa caduta dei valori ma totale assenza di essi. Nichilismo quindi significa che i vecchi valori supremi non esistono più e non sono neanche stati rimpiazzati, sostituiti. Per alcuni filosofi il nichilismo nasce da una civiltà che pensava di aver raggiunto la verità e affermare che si ha il rimedio per sconfiggere questo male del nostro secolo significherebbe affermare che si sa la verità. Forse il nichilismo non ha soluzioni invece e finirà per divorarci. Il nichilismo è un termine che può acquisire tantissimi significati e può essere considerato la radice di tutti i mali e delle ingiustizie umane. C’è anche chi sostiene che il capitalismo selvaggio e il consumismo siano dovuti al nichilismo. Altri ancora sostengono che dietro le guerre ci sia il nichilismo e la volontà di potenza. Alcuni a torto ritengono che anche i kamikaze siano dei nichilisti, ma è tutto il contrario perché loro sono degli integralisti, degli assolutisti: ai loro occhi solo i loro valori sono gli unici veri e devono imporsi ad ogni costo sulla civiltà occidentale. Comunque il nichilismo può essere considerato un rompicapo metafisico, un rovello culturale, un atteggiamento esistenziale. Non solo ma dal punto di vista gnoseologico il nichilismo è scetticismo. Non dimentichiamoci poi che il nulla, così pervasivo nella società, causa disorientamento e malessere in alcune persone, che sono probabilmente anche più fragili psicologicamente. Secondo taluni tutto è vuoto e vano. Non c’è più fede. Non c’è più alcuna ideologia e neanche alcuna utopia. Non c’è più futuro. Nessuna prospettiva. Tutto è menzogna. Tutti sono degli impostori. Tutto è sterile. Tutto è caos. Nessuno può essere sé stesso perché tutto è recita. Tutto ciò che era verità oggi è divenuto favola. Non c’è più alcuna certezza assoluta. Il senso di annichilimento, lo sgomento del vuoto sono il brodo di coltura. Il nichilismo diviene inconfutabile. Il nulla è una ombra costante. I simulacri sono infiniti. Non si esce dal circolo vizioso del nichilismo se si cerca di speculare. Chi vuole smascherare la metafisica si trova al cospetto di un fantasma. Tutto è visto in modo pessimista. Tutti vorrebbero fuggire dal nichilismo ma è sempre più difficile farlo. Andy Warhol a proposito della vita scriveva: “Ti ammali e muori. Tutto lì. Perciò non devi fare altro che tenerti occupato». Alcuni si drogano. Altri ammazzano. L’emblema del nichilismo più significativo è quello di giovani che lanciavano sassi dal cavalcavia, nonostante avessero bevuto molte birre e probabilmente avessero disturbi di personalità. Quando a questi ragazzi chiesero per quale motivo l’avessero fatto risposero che non sapevano come passare il tempo. Però non tutti i nichilisti si comportano male. Bisogna anche ricordare che sono molto di più gli studiosi europei che quelli americani per esempio a riflettere su questa problematica perché probabilmente appartengono ad una civiltà più antica e percepiscono di più il tramonto della civiltà occidentale. La domanda che bisogna porsi per oltrepassare il nichilismo è la seguente: perché il nulla sta prendendo il sopravvento? I filosofi non si trovano minimamente d’accordo. Molteplici sono le diagnosi, ma forse il nichilismo è una malattia inguaribile di noi occidentali. È un virus invincibile; un veleno senza antidoti. È una piaga. Per alcuni è l’origine di ogni male. Hemingway scriveva: «Nulla nostro che sei nel nulla, nulla sia il tuo nome ed il tuo regno, nulla la tua volontà in nulla come in nulla. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano e rimetti a noi i nostri nulla come noi rimettiamo ai nostri nulla e liberaci dal nulla». E che dire di Leopardi, secondi cui “Tutto è nulla”? Probabilmente avevano entrambi compreso molto e cioè che l’essenza della nostra civiltà era il nulla: una società reificata e fondata sul nulla. A meno che non si ritrovi il senso autentico del tutto nella religione e/o nell’umanesimo.

 

Valentino Zeichen o della sopravvivenza...

giu 122022

 

 

 

 

 

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Valentino Zeichen (Fiume 1938- Roma 2016) è stato un grande poeta italiano. Tommaso Landolfi scriveva che gli artisti dovevano stare a contatto con il popolo, dovevano quindi viaggiare in terza classe. Ma il grande Landolfi, scrittore sopraffino, fu un giocatore dissoluto, che dilapidò parte del patrimonio di famiglia: almeno nacque e visse per un certo periodo di tempo in una certa agiatezza economica. Zeichen fu anche lui un dandy ma povero scannato. Da giovane conobbe anche il riformatorio. Visse in una baracca lungo fiume a Roma. Zeichen visse perciò sempre in terza classe e poco mancò che lo mandassero via anche da lì. Sapeva cosa fossero gli stenti. Conosceva quanto fosse difficile mettere insieme il pranzo con la cena. La sua arte di arrangiarsi può ricordare in piccola parte “Seminario sulla gioventù” di Aldo Busi. Ma se Busi visse per alcuni anni in ristrettezze economiche invece Zeichen fece la miseria per tutta la vita con grande dignità. Se è vero che frequentava salotti della Roma bene lo faceva più per rompere la solitudine, per essere nel mondo, per aggiornarsi sulle tendenze culturali e su ciò che capitava in Italia che per vendersi al migliore offerente. Era un autodidatta. Non aveva compiuto studi regolari. Ma non era naif. Ormai di poeti naif non ne esistono più. Conosceva a menadito la tradizione letteraria, filosofica, in senso lato tutta quella umanistica. Era un intellettuale vero e non solo a grandi linee, onnivoro e versatile. Noi nel pisano diciamo di un cane che tutto gli fa filo, nel senso che sta attento a tutto e a tutti. Ebbene Zeichen era così, annusava tutto e tutti, bastava un piccolo spostamento d’aria per metterlo in allerta: lo incuriosivano tutto e tutti, era incuriosito da tutto e da tutti. Non era solo il grande talento o la sua biografia originale ad averlo fatto diventare un grande poeta ma una spiccata vivacità intellettuale. Ciò che colpisce di Zeichen è che nonostante la vita grama, agra (ricordando Bianciardi) sia riuscito a mantenere una grande onestà intellettuale, a coniugare coerenza e lucidità, oltre che avere un grande senso di ironia. Sapeva anche essere autoironico, prendersi in giro senza autocommiserarsi più di tanto su dove lo avesse portato la sua vita. Insieme a Luigi Di Ruscio e Alda Merini il nostro fu un grande irregolare delle patrie lettere. Rispetto alla Merini Zeichen fu più stabile psicologicamente, mentre a differenza di Di Ruscio fu consacrato poeticamente molto prima, pubblicando subito con Guanda e Mondadori. Inoltre tutti gli altri poeti, a torto o a ragione, si prendevano più sul serio o forse prendevano solo più sul serio la funzione sociale dell’artista in questa società. Erano gli anni in cui molti si perdevano in un finto ribellismo o facevano i rivoluzionari da salotto. Il nostro invece non aveva queste illusioni, se così si possono definire. Eppure lui molto più di altri avrebbe potuto rivendicare il fatto di essere un artista non appartenente a nessuna borghesia, né per estrazione né per formazione. Molti credevano nell’impegno politico, diventavano militanti. L’unico modo che aveva il nostro di fare politica era scrivere ironicamente della sua condizione, senza atteggiarsi a maestro di vita o a grande saggio. In definitiva dopo aver fatto diversi lavori “il suo rifiuto sdegnoso del lavoro” , così descritto da Valerio Magrelli, era anch’esso un atto politico oltre che poetico. Dario Bellezza, per quanto suo amico, gli diceva che doveva alzare l’asticella e fare più sul serio. Zeichen riusciva a scrivere tra il serio e il faceto, arrivando a fare autentica poesia da una arguta battuta di spirito; aveva questa rara qualità quando il motto di spirito spesso non raggiunge la letterarietà nei più. Non a caso il poeta pubblicò un libro di aforismi poetici. Zeichen era un grande poeta perché sapeva scrivere d’amore, cosa più unica che rara di questi tempi, ma non solo: sapeva parlare di tutto e mettere a disposizione la sua cultura a tutti, nonostante la sua poesia fosse caratterizzata da un alto coefficiente intellettuale (trattava anche di Kafka, Rubens, Popper, Bruno Giordano, Giotto, Duchamps, Umberto Eco e delle bellezze artistiche di Roma). La compianta poetessa e professoressa Biancamaria Frabotta scrisse: «Chi non intende la differenza che esiste fra un poeta intelligente e un poeta dell’intelligenza, legga la raccolta completa delle poesie di Valentino Zeichen […]. Zeichen scrive come vive, e viceversa. Il che, a un secolo di distanza da D’Annunzio, può fare anche notizia. E notizie della sua insolita biografia non ne son mancate, a causa della ghiotta curiosità dei media che ancora non cessano tributare incensi al personaggio, trascurando il poeta che è oggi in Europa, io credo, uno dei più originali e duraturi». Se qualcuno, aspirante suicida, mi chiedesse se la vita vale la pena di essere vissuta oppure se mi confessasse di non saper come tirare avanti gli consiglierei di leggere le poesie di Zeichen. Aveva moltissimi motivi per farla finita, ma tirò sempre avanti. Questo non solo perché sapeva prendere la vita alla leggera secondo alcuni o così com’è secondo altri, ma perché era anche uomo di fortemente tempra morale. Certo i suicidi sono quasi sempre depressi, ma leggere Zeichen consola, conforta e il poeta ti indica la strada maestra. La sua intera opera può essere letta anche come un manuale di sopravvivenza interiore, come un libro di istruzioni per non autodistruggersi. Zeichen non era depresso (e questo non è un merito né una virtù), ma a differenza di alcuni non era neanche deprimente (alcuni sono farraginosi, tortuosi, arzigogolati, pesanti). Nonostante mille difficoltà, innumerevoli lavori, Zeichen sapeva che aveva una missione nella vita: scrivere, scrivere, scrivere. Si ricordi che il poeta in “Area di rigore” scherzava addirittura sulla sua insufficienza cardiaca e con la sua poesia, per quanto elaborata e mai facilona, riusciva a fare della “metafisica tascabile”. Un altro grande merito del poeta fu quello di smarcarsi totalmente dalla tradizione lirica precedente e anche di non farsi abbindolare dalle mode letterarie, che imperversavano in quegli anni. Zeichen sapeva prendere da tutti, ma sentiva, pensava, scriveva senza rifarsi a nessuno: aveva uno stile tutto suo, inconfondibile. Nel tratteggiare la sua figura ho finito per parlare poco della sua poesia, ma quello che mi stava più a cuore era l’esempio umano e non solo quello letterario. Zeichen fu esemplare perché non si abbatteva mai; un’altra cosa che mi piace è il suo vitalismo sereno, mai accattivante né disperato; per il resto leggendo le sue poesie ognuno può farsi un’idea e constatare la sua bravura, almeno quella quasi universalmente riconosciuta dalla critica. Sicuramente Zeichen è importante perché pochissimi sono i poeti poveri e autodidatti. Molti autori diventano poveri, facendo i poeti. Zeichen lo fu sempre. Fu un’eccezione. Dispiace che sia conosciuto soltanto dalla ristretta cerchia dei letterati e della comunità poetica. Purtroppo quando cala il sipario di un protagonista della poesia contemporanea scendono sulla sua figura il silenzio e l’oblio. Eppure dimenticarlo è un piccolo torto e non conoscerlo è anche un’ingiustizia più grave, soprattutto nei confronti di sé stessi. Per come ha vissuto e per come è stato dimenticato possiamo affermare che la società civile italica, la stessa cultura italiana hanno compiuto un’altra ingiustizia. Senza Zeichen si può vivere, ma sensibilmente peggio. Riconoscere di aver bisogno di leggerlo è un piccolo passo avanti della propria evoluzione interiore, se di evoluzione si può parlare. Non a caso quando sono un poco giù di morale mi metto a rileggerlo. Non sono poesie che so a memoria, ma sono i suoi componimenti che mi mettono di buon umore. Talvolta mi illuminano l’esistenza. Spesso mi rispecchio nei suoi versi, talvolta mi ci ritrovo fedelmente. E lo ammiro perché nelle sue condizioni materiali ed esistenziali precarie non si è mai perso d’animo, non si è mai abbattuto, non si è mai affranto. Da Zeichen si può apprendere non solo qualche lezione di poesia ma anche molte lezioni di vita. Nonostante mille problemi non se la prendeva mai col mondo. Forse perché Zeichen in fondo la pensava come Montale quando faceva dire a una svampita che se il mondo va male non è solo per colpa degli uomini.

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