Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Su follia, verità, letteratura come vita, letteratura come menzogna, post-verità...

giu 232022

 

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Il gruppo 63 aveva teorizzato lo "schizomorfismo" nella scrittura, ovvero ci doveva essere una mimesi (una copia che riproducesse rispecchiamento) tra un mondo schizofrenico e le forme letterarie. Se in particolare per Sanguineti l'ideologia era sempre linguaggio (primo passo per smascherare l'inganno della realtà) per la neoavanguardia (di cui lo stesso Sanguineti faceva parte) bisognava compiere un ulteriore passo avanti: denunciare la follia del mondo, riproducendola fedelmente nella letteratura. Il mondo per Sanguineti era folle e ingiusto per il predominio dell'ideologia capitalistica. Nel gruppo 63 non veniva esplicitata la natura della follia del mondo. Il mondo era folle fisiologicamente, ontologicamente? Oppure il capitalismo selvaggio, che sfruttava alcuni uomini e la natura, era un agente catalizzatore? Il capitale era il motivo scatenante di tutto? Oggi sappiamo che il comunismo non è la panacea di tutti i mali. Ma la questione restava irrisolta. Secondo una diagnosi di natura la schizofrenia negli uomini era causata da un'eccessiva produzione di dopamina nel sistema mesolimbico. Ma cosa causava la follia del mondo?  Che questo fosse un crazy world, che tra l'altro scatenava nevrosi e psicosi nei cittadini che vi si adattavano, l'aveva già scritto Fromm. Era il "disagio della civiltà" studiato, primo tra tutti, da Freud. Quindi la follia non solo scatenava in taluni disadattamento, ma in alcuni era l'effetto dell'integrazione a questo mondo. Perché trattare dei pochi folli quando era l'intero mondo a essere folle? Era la follia del mondo che contagiava gli esseri umani, che perpetuavano a loro volta le dinamiche perverse e ingiuste del sistema folle. La follia, intesa in senso erasmiano, può essere rivelatrice di conoscenza e verità. Il folle può coincidere con il saggio. Appartenendo a un mondo apparentemente altro, può vedere cose che le persone comuni non vedono e arrivare dove gli altri non arrivano. Scriveva in una sua celebre poesia Zanzotto: "Mondo, sii, e buono;/ esisti buonamente". Ma il mondo non è mai buono. Ha troppe brutture. Montale in una sua poesia scriveva:

"Se il mondo va alla malora
non è solo colpa degli uomini.
Così diceva una svampita
pipando una granita col chalumeau
al Cafè de Paris.
Non so chi fosse. A volte il Genio è quasi
una cosa da nulla, un colpo di tosse."

La colpa è di tutti e di nessuno? Il mondo va male non solo per gli uomini ma anche per Dio allora? La domanda fondamentale dell'etica cristiana è la seguente: "Se esiste Dio perché allora c'è il male?". Questa è la teodicea cattolica e non solo. La domanda che si fa un cattolico è: perché un essere onnipotente, infinitamente buono e misericordioso non ha fatto un mondo buono? E poi mi chiedo anche perché se Dio ha fatto a sua immagine e somiglianza gli uomini ha messo in noi anche la capacità di essere violenti e fare del male? Perché un Dio buono non ha fatto gli uomini buoni? Perché ci sono uomini più propensi a fare del male, essendo più predisposti dalla loro natura e/o dalle circostanze? La colpa è degli uomini ma anche di Dio che ha dato loro il libero arbitrio? Cosa può fare la letteratura di fronte a tutto ciò? Per Carlo Bo la letteratura deve essere come la vita. Per Bo la letteratura e la vita sono "strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi". Sempre Bo scriveva: "sappiamo che la letteratura è una strada, e forse la strada più completa, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza". Però per Bo la vita del letterato doveva essere pura o quantomeno coerente all'opera. Da tempo immemorabile a questo proposito ci sono critici letterari interessati anche alla vita dell'artista e altri meno. E ancora sempre per Bo gli autori dovevano essere di specchiata moralità e agire secondo coscienza. E allora gli autori con coscienza infelice o falsa coscienza? Per Giorgio Manganelli la letteratura è menzogna. La letteratura, quando va bene, è un "come se" per il grande scrittore. Ma se il mondo è diventato favola, come scriveva Nietzsche, allora Manganelli è nel giusto perché la letteratura come menzogna rispecchia la menzogna del mondo. Ci sono diversi modi in cui approcciare la realtà per uno scrittore o un poeta:
pensare che il mondo sia vero e riprodurlo con la verità dell'artista
pensare che il mondo sia vero e opporsi con la menzogna dell'artista
pensare che il mondo sia falso e opporsi con la verità dell'artista
pensare che il mondo sia falso e riprodurlo con altrettanta falsità

 

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Il mondo quindi può essere considerato vero o falso e poi essee capovolto, rovesciato con la scrittura. Ma qui la faccenda si complica ulteriormente perché verità e menzogna, falso e vero, possono essere mischiati e non c'è modo di dividerli, separarli. Oppure l'uomo non è più in grado di saper distinguere oggi il vero e il falso, di modo che vero e falso sono un tutt'uno inscindibile. Nessuno sa con certezza assoluta lo statuto né l'essenza della realtà. Inoltre per farla diventare letteratura la realtà va analizzata e sintetizzata correttamente. Quanti sono in grado di farlo? Riprendendo Nietzsche ne "Il crepuscolo degli idoli" non solo il vero può essere "inattingibile" ma anche il falso. Secondo l'ipotesi di Nietzsche il vero è inconoscibile. È naturale che se non si può distinguere il falso dal vero non si può neanche discernere tra il bene e il male. Noi occidentali abbiamo un'idea cumulativa del sapere, tendiamo alla verità perché pensiamo di potervi avvicinare sempre più, passo dopo passo, tassello dopo tassello, gradino dopo gradino. Come scrisse Emerson: "il saggio cerca la verità. Lo sciocco crede di averla trovata". Wittgenstein in "Della certezza" scrive: "Se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso". Ma quale è è cosa è il fondamento? La verità poggia su fondamenti instabili. Kant proponeva lo schematismo trascendentale. Le categorie con cui conosciamo la realtà per Kant erano innate e universali. Invece Umberto Eco ha messo in dubbio tutto ciò con l'esempio dell'ornitorinco che ha alcune caratteristiche dei mammiferi ma non è mammifero, bensì oviparo. Di conseguenza le categorie e gli schemi cognitivi non sono un a priori, ma spesso sono a posteriori, ovvero storicamente e culturalmente determinate. E poi anche se sapessimo la verità quale senso dovremmo darle e con esso quale senso dovremmo dare alla nostra vita? Ma c'è un altro problema insormontabile. Merleau-Ponty ne "La fenomenologia della percezione" scriveva che "la scienza non è stata per nulla capace di illuminare la natura dell'esperienza soggettiva". E ancora cosa è la coscienza? Grazie a cosa siamo coscienti?
E poi si aggiunge la difficoltà che viviamo nell'epoca delle post-verità, in cui si crede alle bufale del web, alle fake news, alla disinformazione, senza cercare la verifica e il controllo dei fatti. Trovo che questa frase sia inoppugnabile: "Il fatto moderno è che noi non crediamo più in questo mondo” (G. Deleuze, L’immagine-tempo. Ubulibri, 1989, p. 191). 

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E se la vita è liquida per dirla alla Bauman (ovvero precaria, imprevedibile, piena di incognite, estremamente mutevole) allora anche la verità potrebbe essere altrettanto "liquida". La vita comunque nella migliore delle ipotesi, in assenza di certezze, dovrebbe essere una ricerca incessante, spesso infruttuosa, si spera non vana. Jung scrisse che qualsiasi visione del mondo era da considerarsi solo un'ipotesi. Come cantava Enrico Ruggeri nella vita dovremmo morire crescendo.
Infine come scritto nell'Ecclesiaste il sapere accresce il dolore, ma è anche vero che la sofferenza accresce il sapere. Ma siamo così convinti di conoscere? E se la verità che ha il conforto e la sicurezza della conoscenza condivisa fosse solo un'illusione? Siamo poi così sicuri che possa verificarsi l'etica del discorso, la situazione discorsiva ideale di Habermas, secondo cui i dialoganti si dimostrano chiari, sinceri, comprensibili, onesti intellettualmente? Siamo certi che si possa mettere in pratica i dettami di Habermas sull'agire comunicativo? E se tutta la vita fosse illusione? Se questa vita non fosse che sogno?

 

Su Gadda e la rimozione dell'io lirico...

giu 202022

 PREMESSA:

Il gruppo 63 propose la riduzione dell'io ilirico in poesia. Oggi alcuni letterati vorrebbero eliminarlo, rimuoverlo. Io o mondo? Piuttosto io e mondo, visto che tra io e mondo c'è un'interazione continua. Ma se cognitivamdnte  io e mondo possono coesistere, letterariamente di solito c'è una prevalenza. 

 

 

NOTA BENE:

L’io lirico è la voce interiore nella poesia. Non è detto che coincida sempre con l’io empirico, ovvero con l’autore in carne e ossa. L’io lirico può essere anche in un certo qual modo fittizio. Si veda ad esempio Pessoa e i suoi eteronimi. L’io lirico può essere anche un alter ego.

 

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Gadda scrive ne "La cognizione del dolore": "[…] l'io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona". Però Gadda lo fa dire al protagonista, suo alter ego nevrotico, in una crisi parossistica. Non dimentichiamo che Gadda era notoriamente nevrotico, per quanto geniale, e ha messo molto del suo io empirico nevrotico in quel romanzo. Alcuni oggi, che vorrebbero rimuovere l'io lirico, citano questo brano dell'ingegnere. Inoltre per Gadda tutti i pronomi sono "pidocchi del pensiero", per cui non ci sarebbe via di uscita. Ogni narrazione sarebbe perciò tarata a priori. Infine queste frasi non vanno decontestualizzate. Estrapolare delle frasi dal loro contesto può essere fuorviante e indurre in errore. Si tratta pur sempre di un romanzo, "La cognizione del dolore", che ha senza ombra di dubbio un suo contenuto di verità, ma che è anche creazione di un mondo fittizio e di personaggi immaginari grotteschi, paradossali.

 

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Il problema è quanto della propria nevrosi, delle proprie fratture, dei propri vuoti uno riversi nella propria opera e ciò non è necessariamente detto che sia un male. Chi impone che l'impersonalità e il distanziamento siano degli obblighi della narrazione? E la narrazione di Gadda può essere forse presa di esempio? Bisogna sempre stare attenti quando si cita a non farlo a sproposito, a non strumentalizzare la fobia dell'io di Gadda (capisco che ognuno voglia portare acqua al suo mulino). Qui non si tratta di canoni della letterarietà, ma di una difesa a oltranza di quel poco che resta del soggetto freudiano (visto e considerato che il soggetto cartesiano è stato distrutto dai maestri del sospetto e del cogito, ergo sum resta solo il coito, ergo sum). A ogni modo ognuno è sempre circondato da sé stesso, come scriveva Sartre, indipendentemente dagli escamotage narrativi. A proposito di io e scrittura, oltre al celebre detto "Conosci te stesso", Gramsci in un articolo citava Novalis, che a sua volta scriveva: «Il supremo problema della cultura è di impadronirsi del proprio io trascendentale, di essere nello stesso tempo l’io del proprio io. Perciò sorprende poco la mancanza di senso e intelligenza completa degli altri. Senza una perfetta comprensione di noi, non si potranno veramente conoscere gli altri». Mi sembra che questa citazione sia appropriata e di non tirare per la giacchetta nessuno. Insomma sono necessarie anche l'autoconoscenza, l'autodeterminazione. Per decenni l'intimismo ha fatto da padrone nella cosiddetta poesia lirica. Attualmente in Italia alcuni letterati vogliono rimuovere l'io lirico e demonizzano l'io in senso lato. Voler rimuovere l'io lirico significa non poter scrivere in prima persona nelle poesie, essendo costretti a trattare gli altri che possono essere proiezioni del proprio io o riproposizione delle solite figure parentali. Insomma la psicoanalisi ci insegna a ragione che è lecito diffidare anche di chi parla troppo degli altri e che talvolta così facendo finisce per deformarli troppo con la sua lente o per rispecchiare sé stesso. Un'obiezione alla rimozione dell'io lirico: talvolta è difficile dire quanto io ci sia negli altri e quanto gli altri siano nell'io tra identificazioni, proiezioni, interiorizzazioni. Altra obiezione: in poesia come scriveva Zanzotto vige l'eterogenesi dei fini; si cerca una cosa e se ne trova un'altra; così chi cerca l'io trova talvolta il mondo e viceversa. Alcuni sostengono che i poeti contemporanei siano affetti da egolatria. È difficile dire quale sia il discrimine tra normalità e patologia. E poi si pensi al fatto che anche Stendhal scrisse "Ricordi di egotismo". La stessa poesia moderna americana è un continuum ai cui poli opposti ci sono la schiva Emily Dickinson e il titanico Walt Whitman.

 

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(Nella foto Gadda)


Da una parte l'introversione e dall'altra l'estroversione. Prima ancora che un atteggiamento intellettuale, filosofico, letterario, conoscitivo scegliere uno o l'altro di questi poli è questione di personalità. Ci sono introversi ed estroversi. Non c'è niente di giusto o sbagliato. Ci sono pro e contro di entrambe le condizioni esistenziali. Queste due diverse modalità di approcciare la realtà sono frutto prima di tutto questione di personalità. Dalla personalità consegue il modo di interfacciarsi al reale. Come esiste un orientamento sessuale, politico, valoriale esistono anche varie tipologie di personalità. Ma i critici letterari non dovrebbero giudicare il modo in cui gli autori si volgono alla conoscenza. C'è chi sceglie insomma prevalentemente l'interno e chi l'esterno. In alcuni autori gli altri si riflettono in loro stessi e in alcuni autori l'io si riflette negli altri. Si tratta pur sempre di rimandi continui, di un perenne gioco di specchi. Partire dagli altri e finire nell'io o viceversa è solo un punto di partenza. Privilegiare l'io o il mondo non deve essere una posa, basata su premesse teoriche. Ogni autore dovrebbe scegliere in base a ciò che sente, a ciò che ritiene più consono. Trovo che esimersi dal tranciare giudizi approssimativi sia senza dubbio un atto di onestà intellettuale. Trovo anche fuori luogo il fatto che a seconda dello spirito dei tempi sia di moda quando l'intimismo e quando invece gli altri. Un'altra cosa che mi fa sorridere è che alcuni autori postulino la rimozione dell'io e poi scrivano dei romanzi o delle raccolte poetiche autobiografiche. Evidentemente egoriferiti sono sempre gli altri. Non ho mai letto di nessuno che considerava sé stesso egoriferito. In questi ultimi anni in poesia nelle polemiche letterarie evidentemente vince chi dà per primo dell'egoriferito all'altro. È una moda come un'altra. Non è frutto di un'evoluzione stilistica o letteraria. Non è un punto di arrivo della letteratura come vorrebbero far credere alcuni. Un tempo c'era la vecchia disputa molto divisiva tra realisti e idealisti. Il vero atteggiamento conoscitivo equilibrato sarebbe trovare un equilibrio tra io e mondo e questo trascendendo i propri tratti di personalità. Ma ciò è quasi impossibile perché l'io o il mondo sono come calamite. C'è chi è attratto dall'uno e chi dall'altro, molto probabilmente più per attitudine che per scelta, più per natura che per cultura. Kafka sosteneva che tra io e mondo si dovesse scegliere il mondo, ma fece davvero così? Cosa sarebbe dei capolavori di Kafka senza il suo io? Quanto io e quante proiezioni ci sono nelle opere di Kafka? 

 

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(Nella foto Kafka)


Un interrogativo che sorge spontaneo è se la propria personalità di base sia un nucleo costante e inalterabile o se invece oggi come oggi sia modificabile. La cosa si complica perché sembra che le vecchie teorie sulla personalità come i tipi psicologici di Jung siano oggi inadeguate per decifrare il Sé così sfuggente dell'uomo contemporaneo. Sembra che entrino in gioco in ognuno di noi anche le cosiddette subpersonalità. Anche gli altri sono però sfuggenti. In ogni caso è vero che cresciamo e maturiamo grazie all'immagine che gli altri hanno di noi, ma è altrettanto vero che per conoscere bene gli altri bisogna conoscere bene sé stessi. È un circolo ermeneutico che dura tutta la vita. Sia la conoscenza di noi stessi che del mondo è sporadica, superficiale, discontinua. Di noi stessi conosciamo la nostra voce interiore, il discorrere tra sé e sé. Degli altri conosciamo una minima parte dei loro comportamenti e delle loro espressioni verbali. Uno dei problemi filosofici ancora irrisolti è come, nonostante i nostri limiti intrinseci, riusciamo a conoscere tutto quello che conosciamo. Avrete capito che la questione dell'io in letteratura è un intreccio inestricabile di letterarietà e psicologia. Non può essere altrimenti e le persone ponderate dovrebbero riconoscerlo senza tacciare chi la pensa diversamente di psicologismo. Non vi preoccupate comunque poeti introversi e intimisti: l'io tornerà di nuovo in auge. E poi perché estrovertirsi è necessariamente un bene e concentrarsi su di sé è necessariamente un male? La preghiera, il raccoglimento interiore, la meditazione (senza fare del moralismo) dovrebbero essere allora un male?

 

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