Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Due parole su arte, vita, piccole meschinità...

apr 122023

 

undefined

 

 

 

Scriveva Bukowski che nessun uomo è forte come le sue idee. Ho appena passato mezzo secolo e conosco un minimo la natura umana per sapere quanto avesse ragione. Da giovani molti hanno grandi ideali, che puntualmente tradiscono con azioni riprovevoli. È così facile cadere e/o ricadere. Non parlo moralisticamente di peccati o vizi (non pensiamo solo al sesso, che è poca cosa, un peccato veniale, se non viene fatto male ad altri), ma di errori in senso lato nella vita e di come è facile ricadere nei soliti errori, insomma essere recidivi. Ho conosciuto persone che da giovani volevano condurre una vita irreprensibile e dopo hanno sconfessato totalmente i loro ideali. Vale sempre per tutti il detto: "Soldi e santità, la metà della metà". Ma conosco anche un poco la comunità poetica e a volte mi chiedo quanto sia difficile per un artista non solo non tradire i suoi valori, ma vivere all'altezza delle sue parole. Spesso anche i poeti, i sedicenti e aspiranti tali si rovinano il fegato in piccolezze (meschinità, grettezza d'animo, invidia, gelosia, frustrazione, complessi di superiorità dietro a cui si celano complessi di inferiorità come insegna Adler, vanagloria, presunzione, smania di grandezza, egocentrismo, etc etc). Insomma sembra una cosa banale, però non sempre c'è correttezza nei rapporti umani (dallo scambio di favori, al compromesso sessuale, alla recensione pretesa come atto dovuto, alle alleanze interessate, all'arruffianamento, alla polemica sterile per ottenere visibilità). Che poi non si sa bene dove inizi e dove finisca la comunità poetica, né si sanno con certezza i criteri con cui si stabilisce che uno ne faccia parte o meno! Si ritorna al solito binomio arte e vita, letteratura e vita. Come faceva dire D'Annunzio ad Andrea Sperelli: «Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte». Più recentemente anche il sociologo Bauman ha scritto che bisogna fare della nostra vita un'opera d'arte e lo scriveva senza alcuna traccia di superomismo. Ma spesso in passato si voleva che l'artista desse il buon esempio con la sua condotta di vita, che fosse di specchiata moralità. Se questa regola fosse valida per tutti allora avrebbero ragione quelli del politically correct e anche quelli della cancel culture a rimuovere opere e artisti discutibili. Ma ci sono molti casi limite. Lo stesso D'Annunzio e molti futuristi non erano forse dei guerrafondai? Caravaggio non era forse un assassino? Althusser non strangolò forse la moglie che voleva lasciarlo? Dovremmo cancellarli, rimuoverli? E la lista potrebbe continuare. Senza andare troppo indietro negli anni e limitandosi al mondo dello spettacolo italiano basta ricordare il presunto scandalo di Mina, che era incinta e non sposata. C'è vita nell'arte e arte nella vita. L'arte a onor del vero si dovrebbe occupare della vita. L'arte dovrebbe imitare la vita, riprodurla, tradurla, trasfigurarla, invece del contrario. Il grande Carlo Bo scrisse che la letteratura dovesse essere come la vita. Ma era giovane e non ne poteva più degli intellettuali succubi del fascismo. All'epoca si doveva prendere le distanze da certi compromessi e si doveva indicare una nuova strada maestra. Alcuni decenni più tardi lo stesso Bo scrisse invece: «Il critico deve tenere conto della vita dello scrittore oppure deve limitare la sua indagine soltanto ed esclusivamente all'opera? La questione è antica: per il maestro di tutti, Sainte Beuve, la conoscenza della vita era più che utile, insuperabile. Per altri, a cominciare da Croce e da Proust, se ne poteva fare a meno, anzi era bene stringere lo studio alla valutazione pura dell'opera». La critica biografica purtroppo sopravvaluta la vita e considera poco le opere di un artista. La critica biografica pone troppo l'accento sulla sessualità di un artista e alimenta la pruderie, se non addirittura cerca lo scandalo. Da Freud in poi questo filone della critica spiega le opere in base alla sessualità di uno scrittore, un poeta, un pittore. Ma è davvero necessario? Un poeta dovrebbe essere considerato soprattutto per la sua arte e invece spesso si finisce per ricordarlo solo per i dettagli scabrosi o anche solo piccanti della sua vita. A mio avviso la morale sessuale, a meno che uno non sia uno stupratore o un pedofilo, dovrebbe passare in secondo piano. Certamente si dovrebbe guardare più all'etica e meno alla moralità sessuale in senso stretto. C'è una scuola di pensiero, nata dai poeti maledetti, che basa tutto sulla distinzione tra borghese e artista: all'artista sono concessi certi eccessi, però perde la rispettabilità borghese, a meno che non si penta e ritorni nell'ovile come una pecorella smarrita. Un pregio della comunità poetica è che Pasolini è stato per nostra fortuna uno scandalo vivente e chi veniva dopo ha imparato a non scandalizzarsi mai. Almeno i poeti più avveduti e meno cretini si salvano così dal perbenismo moralistico, tanto presente nella mentalità comune. Vecchioni comunque in una canzone dedicata alla Merini scrive: "Basta un niente per essere felici. Basta vivere come le cose che dici". Ma quanti ci riescono veramente? Quasi nessun poeta, se conosciuto realmente, è all'altezza dei suoi versi, che sono la parte più pura di sé; il critico dovrebbe considerare quanta purezza c'è a suo avviso nella parte più pura di un poeta, ovvero in un'opera. La vita di un artista dovrebbe essere considerata spesso come materiale spurio, grezzo, addirittura in molti casi irrilevante. Invece si è giunti spesso all'eccesso opposto, ovvero a un eccessivo psicologismo, a considerare un'opera come un test proiettivo di personalità. Si ritorna alla celebre frase hegeliana che nessun eroe è tale per il suo cameriere. Oggi più che la vita di un autore interessa il personaggio che riesce a far credere di essere. Oggi uno scrittore deve crearsi un personaggio, diventare riconoscibile, adirittura inconfondibile più con la sua figura che con il suo stile. L'importante a ogni modo è salvare la faccia e le forme, dare un'ottima impressione di sé, fare una bella figura perché anche i poeti, veri o presunti, al mondo d'oggi vivono di apparenza e immagine. E allora avremo il poeta che si vanta delle sue conquiste femminili, dei suoi premi, dei suoi consensi, delle sue pubblicazioni. Avremo poeti che sminuiscono altri poeti per affermare sé stessi, che dicono di essere invidiati da tizio, che dicono che caio è un pazzo o che sempronio è un poveretto. Oppure avremo delle poetesse che scimmiottano le veline perché oggi per essere, per esistere, per essere accettati bisogna fare così e l'apparire diventa non più il mezzo ma il fine. Salvo poi di meschinità in meschinità, di snobismo in snobismo, di presunta selettività in presunta selettività, di pretesa esclusività in pretesa esclusività, di malcelato disprezzo in malcelato disprezzo ritrovarsi a non vendere i propri capolavori e maledire il popolo bue che non sa apprezzare cotanto talento e tanta originalità!

 

"Uno, nessuno, centomila" di Pirandello

giu 212022

 

undefined

 

 

La questione principale di questo romanzo di Pirandello è come possa esistere una parte del proprio self inconoscibile ai propri occhi. La topica del naso, l’ombra di Genge, le sopracciglia circonflesse portano il Moscarda a uno slittamento della propria coscienza. Il protagonista vorrebbe porsi fuori di sé per osservarsi e riappropriarsi delle immagini che gli altri hanno di lui, per ricomporre definitivamente con questa serie di frammenti il proprio io. Moscarda scopre che gli altri vedono una parte di sé stesso che lui non può vedere e nel procedere in questa analisi si accorge che gli altri non percepiscono soltanto delle semplici immagini, a seconda delle angolazioni e delle prospettive da cui lo osservano, ma anche la sua maschera sociale, la “Persona”, che indossa. La tematica centrale di questo romanzo riguarda la scoperta da parte dell’io del protagonista che altre identità con le loro percezioni possono scoprire i suoi punti deboli, i suoi difetti, i suoi lati oscuri di cui lui può addirittura ignorare l’esistenza. Ma gli interrogativi che suscitano questo romanzo allora sono: ma gli altri possono davvero - come ritiene Pirandello – conoscere più del soggetto? La conoscenza degli altri riguardo ad un individuo (in questo caso Moscarda) supera quindi l’autoconoscenza, l’autoconsapevolezza e l’autocoscienza dell’individuo stesso? La telecamera può essere considerata lo specchio moderno di Moscarda. Meglio ancora, è come se fosse un enorme specchio circolare, che può rimandare immagini di tutte le parti del corpo, di tutte le movenze e di tutte le posture dell’individuo. Rivedersi in un filmato di una telecamera, può allora essere un’esperienza non dico traumatica, ma spesso deludente: ci si accorge che la propria voce può essere più baritonale di quello che credevamo, che di profilo il nostro naso risulta più pronunciato di quello che pensavamo, che ripresi di spalle siamo più curvi di quello che credevamo, etc etc. La telecamera è come un grande occhio esterno che ci può analizzare e registrare da tutte le possibili angolazioni.

 

 

undefined

 

 

Anche gli altri che scrutano Moscarda sono occhi esterni, che hanno la stessa possibilità della telecamera di vedere e registrare da tutte le prospettive. Ma viene da chiedersi: la loro registrazione è altrettanto fedele e oggettiva? Inoltre le riprese della telecamera possono indicarci se siamo o meno telegenici, ma la telecamera non ricompone tutte le immagini di noi stessi e non si fa un’opinione globale, come fanno gli altri. La telecamera è un punto di partenza per l’autoconoscenza della propria corporeità, non della nostra identità psichica, sociale, culturale, come invece sono gli altri per noi. E’ stato il fondatore della psicologia americana William James a dare un contributo notevole a riguardo. Il Sé di ogni persona possiede fondamentalmente due dimensioni: l’io (ovvero tutte le capacità di autoconoscenza: il conoscitore del Sé) e il Me (ovvero tutti quegli attributi e quei tratti di personalità che l’Io riesce a conoscere dell’individuo: il conosciuto del Sé). James fa un’ulteriore distinzione per quel che riguarda il conosciuto del Sé: esiste un Me materiale (tutto ciò che l’individuo conosce del proprio corpo, dei propri oggetti, della propria casa, degli ambienti in cui vive), un Me sociale (tutte le rappresentazioni sociali che gli altri hanno dell’individuo), un Me spirituale (tutto ciò che l’individuo conosce della propria personalità, della propria interiorità e della propria identità psichica). Considerando queste distinzioni di William James ci accorgiamo allora che nel romanzo di Pirandello il protagonista inizia il proprio percorso di autoconoscenza dal Me materiale, continua con l’esplorare il Me sociale, per approdare infine al Me spirituale. L’originalità e la genialità dell’opera di Pirandello è aver posto l’accento su questo fatto: l’io (il conoscitore) non riuscirà mai a sapere tutto del Sé perché questo avrà sempre zone inesplorate ed inesplorabili, che non potranno mai far parte dei vari Me (ossia del conosciuto). Esisteranno sempre regioni della psiche in cui dominano incontrastati ciò che è rimosso, ciò che è represso e quello che è semplicemente non conoscibile dal soggetto.

 

undefined

 

 

 

Ma oltre a aver affrontato questo problema il romanzo di Pirandello fa scaturire anche una domanda fondamentale: gli altri, avendo possibilità di osservare da prospettive sconosciute all’individuo e dall’esterno un individuo, possono potenzialmente conoscere più di quello che una persona conosce di sé stessa, essendo questa più continua e dettagliata nell’osservazione e nello studio di se stessa? In definitiva: è maggiore fonte di conoscenza riguardo alla propria individualità l’esterno o l’interno? La moderna psicologia a riguardo ci fa sapere che c’è una continua interazione tra interno ed esterno: un incessante interscambio tra intrapsichico ed interpsichico. Addirittura secondo la teoria dell’immagine l’idea che ci facciamo di noi stessi dipende in modo determinante dalla considerazione e dalla stima che gli altri hanno di noi. Secondo questa teoria sviluppata da Beach e Mitchell anche le decisioni che prendiamo nel corso della vita non sono basate tanto su un’analisi dei costi e dei benefici, quanto piuttosto dall’insieme di valori, norme, credenze, aspettative: insomma dalla concezione che noi abbiamo di noi stessi. Però allo stesso tempo gli psicologi sociali ci indicano che, quando noi stessi giudichiamo gli altri o quando gli altri giudicano noi, il giudizio spesso è errato, semplicistico, perché esistono nella mente umana scorciatoie cognitive errate, tratti impliciti di personalità, correlazioni illusorie, stereotipi infondati che possono portare a pareri erronei sulla persona o sulle persone osservate. Siamo cattivi giudici degli altri e gli altri sono cattivi giudici di noi stessi. Ma Pirandello è anche un anticipatore dei tempi odierni: è riuscito a intuire la frammentarietà dell’Io, problema reale dell’epoca moderna, se si pensa alla pericolosa sindrome che ne è scaturita, ovverosia la personalità multipla. Nonostante questa continua interazione o interdipendenza tra intrapsichico ed interpersonale l’assurdo inteso alla Camus dell’opera di Pirandello rimane però inalterato. L’uomo continuerà ancora a cercare di estrapolare dalle relazioni dal mondo esterno per assurgere a un principio chiarificatore, a una sintesi che possa cogliere e abbracciare la totalità della propria essenza. Nonostante ciò “l’assurdo” (che si verifica quando l’intelligenza dell’uomo si accorge di essere alle prese con la realtà che la supera) rimarrà una categoria astorica dell’umanità, perché il mondo esterno neanche in futuro sarà completamente raffigurabile e l’interno rimarrà per certi versi ancora inafferrabile, indicibile, inconoscibile.

Atom

Powered by Nibbleblog per Letteratour.it