Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Ancora e di nuovo su un mio rovello, ovvero la solitudine (tra letteratura, psicologia e mistica)...

dic 162022

 

undefined

 

Siamo animali sociali, ma talvolta abbiamo bisogno di stare da soli. La vita oscilla tra questi due poli: socialità e isolamento. Talvolta c'è bisogno di stare da soli, riflettere sulla nostra vita, cercare di capire in quale direzione stiamo andando, farsi un esame di coscienza, come insegnava Ignazio di Loyola. La cosa migliore sarebbe trovare un equilibrio interiore, fondato su una sana alternanza tra questi due poli. La solitudine come la castità è molto più sopportabile se è una libera scelta e non una costrizione, dovuta a ostracismo, a emarginazione sociale. Anche stare troppo a contatto con gli altri può essere snervante, può esaurire. Alcuni lavoratori, che svolgono professioni di aiuto, soffrono di burn out, a forza di stare troppo a contatto col pubblico. Il grande poeta Kavafis scriveva: "E se non hai la vita che desideri cerca di non sprecarla nel troppo commercio con la gente". Si può essere soli perché si ha un problema, si vive una determinata condizione esistenziale, si soffre di un certo disagio. Gli altri però possono essere terapeutici così come possono essere l'inferno secondo Sartre. Filosoficamente qualcuno potrebbe affermare che stare con gli altri ci dà solo l'illusione di sentirsi meno soli, ma anche questa parvenza di convivialità è necessaria. Secondo uno studio del 2013 della Ohio University chi vive solo ha più probabilità di avere anomalie cardiache, di soffrire di depressione, di avere un sistema immunitario meno efficiente.
Oggi viviamo in una società senza comunità nella maggioranza dei casi. Alcuni si sentono soli e dicono che la città in cui vivono non dà loro niente, ma al mondo di oggi forse una città può offrire solo servizi e non sconfiggere la solitudine dei cittadini. Durkheim aveva coniato il termine anomia per indicare il disordine morale, la sensazione di anonimato, la mancanza di solidarietà della civiltà moderna e aveva chiamato anomico il suicidio dovuto proprio a questi fattori. Oggi quindi si è più soli probabilmente di un tempo. Nel mantovano e in provincia di Padova comunque è stato replicato il caso di Villa del Conte per vincere l’isolamento delle persone. Sono stati creati degli assessorati alla solitudine. Nell'antichità la solitudine era ricercata più spesso. Alcuni poeti antichi avevano un ideale di vita solitaria e bucolica. "Beata solitudo" dicevano i latini. Oggi siamo molto più connessi e più soli di un tempo. Gli psicologi chiamano tutto ciò solitudine digitale. Il caso esemplare sono i giovanissimi Hikikomori giapponesi che si rinchiudono tutto il giorno nella loro stanza per stare al computer. Il ritiro sociale è uno dei sintomi della schizofrenia, ma non è assolutamente detto che sia sempre patologico. La propria psiche è come un contenitore che non si può unicamente riempire del mondo o del proprio io. Probabilmente propendere verso il mondo o l'io dipende anche dalla personalità di base, dalla estroversione o introversione di un individuo. Cosa è che può vincere la solitudine? L'amore innanzitutto, poi l'amicizia, il senso di appartenenza a una comunità oppure a una generazione. Ma oggi non esistono più i movimenti studenteschi. Un tempo esisteva una fauna studentesca che apparentemente era lì per il famigerato pezzo di carta da portare ai genitori e poi in realtà reclamava il sacrosanto diritto di divertirsi, acculturarsi al di fuori degli schemi precostituiti, scopare, viaggiare, ballare. Erano stati scritti tre romanzi sulla realtà studentesca rappresentativi delle varie epoche: "Porci con le ali" (anni '70), "Altri libertini" (anni '80) e "Jack Frusciante è uscito dal gruppo" (anni '90). Forse questi romanzi avevano detto tutto sul mondo studentesco italiano. Dopo l'università non era più stata un momento di discussione, che talvolta diventava di scontro ideologico esasperato, ma un vero e proprio esamificio. Dagli anni '90 in poi si avvertiva che l'unica cosa che accomunava la generazione era l'autodistruzione. Si intuiva perfettamente ciò con il libro della Santacroce "Rimini", il primo della serie. Coloro che invece cercano di vincere la solitudine con l'amore possono imbattersi nell'insoddisfazione sessuale, nelle carenze affettive, nella delusione sentimentale. È difficile essere veramente soddisfatti in amore su tutti i fronti. Ci sono amori platonici e rapporti occasionali caratterizzati dall'impersonalità e l'anaffettività. È difficile avere tutto, trovare una perfetta corrispondenza d'amorosi sensi. L'abbraccio è sconosciuto a molti. Non ci si abbraccia più. È sconveniente. Bisogna essere formali. Ogni dimostrazione di affetto, ogni prova di calore umano viene considerata inopportuna. Lo stesso Papa Bergoglio ha sostenuto che per accorgersi dell'umanità altrui oltre all'ascolto ci vuole il tatto, che secondo il Pontefice è il senso più importante. Una ricerca, condotta da pediatri coordinati da Siavash Beiranvand, docente di anestesiologia, ha coinvolto 120 bambini tra i 2 e i 6 mesi e ha dimostrato che coloro che venivano abbracciati dalla madre piangevano molto di meno dopo un'iniezione. C'è chi per ovviare a questa carenze affettive si compra un animale domestico. La solitudine viene però caldamente consigliata dai mistici. I Padri del deserto si ritirarono appunto nel deserto per fuggire dalle tentazioni del mondo e del diavolo, come fece Cristo per 40 giorni. Per San Giovanni della Croce bisogna meditare in solitudine, pregare per combattere i tre nemici dell'anima, ovvero il mondo, la carne, il demonio. Anche per Santa Teresa d'Avila l'autoperfezionamento passa attraverso la solitudine e la preghiera. Eckhart scriveva che non è necessario essere soli per raccogliersi interiormente e trovare Dio: il vero credente porterà Dio con sé in ogni luogo e con qualsiasi persona, nella chiesa, nella solitudine, perfino in prigione. Per Simone Weil la solitudine va preservata e cercare di sfuggire a essa è una vigliaccaggine. Il mondo quindi distrae, tenta, fa peccare, sporca l'anima. Per i Sufi il vero essere spirituale sa raccogliersi così tanto da essere solo in mezzo alla folla, da non prestare alcuna attenzione alle voci della folla. Secondo i buddisti non bisogna farsi prendere dallo sconforto della solitudine, che può essere anche ritemprante e rilassante. Monaci e suore di clausura, nonostante gli inviti della mistica cristiana alla solitudine, vivono però anch'essi in comunità. Gli stessi eremiti moderni accolgono visitatori e curiosi, pubblicano le loro meditazioni in gruppi Facebook. Secondo i mistici cristiani e non, nonostante le debolezze e le pecche umane, l'isolamento sociale conduce a Dio e Dio è tutto il contrario della solitudine: Dio è amore. Il mondo stesso è fondato sull'interdipendenza degli individui. In un racconto di Calvino un uomo non si sa allacciare le scarpe e fortunatamente trova un uomo che gli fa questo favore: perfino in Hegel è il padrone ad avere più bisogno del servo perché è quest'ultimo che sa fare delle cose che il padrone non sa fare più. Al di là di questo tutti abbiamo un bisogno psicologico degli altri, di avvertire le loro voci, di udire il rumore del mondo. La camera anecoica degli Orfield Labs di Minneapolis, Stati Uniti, è un luogo insopportabile: nessuno ci resiste per più di un'ora. È insopportabile il silenzio assoluto, scalfito solo dal battito del proprio cuore.

 

 

 

undefined
Una differenza fondamentale è quella tra essere soli e sentirsi soli. Ciò che fa veramente male spesso è la percezione soggettiva della solitudine più che il riscontro oggettivo. Ci sono situazioni limite in cui si è malati e ci si trova soli di fronte alla morte: allora si avverte più che mai il bisogno degli altri. Si ha bisogno del conforto. Ci si ricordi dei familiari al capezzale del morente. C'è anche chi prova la solitudine perché si sente incompreso. Bisogna essere molto forti e godere di buona salute per amare la solitudine, come scrisse Pasolini in una sua poesia. Per molti il problema è come rompere la solitudine. Alcuni non sanno comunicare la solitudine. Beckett, Ionesco, Michelangelo Antonioni esprimono questa inadeguatezza. Altri si vergognano di dire che sono soli. Altri ancora si ritengono troppo giovani o troppo vecchi per dire che sono soli. Per i più comunicare la propria solitudine è sinonimo di debolezza. Al contempo la società post-industriale si basa su due opposte polarità: individualismo e conformismo. Molto spesso le persone trovano un compromesso a queste due esigenze sociali accettando un'omologazione dalle varianti minimali, cioè seguono le mode ma si discostano da esse in modo infinitesimale, aggiungendo un piccolo tocco personale. È anch'esso un modo per non sentirsi soli, per identificarsi in qualcosa, per far parte di qualcosa, di essere con gli altri, anche se è un'illusione effimera e momentanea. La propria identità sociale si basa sull'appartenenza a dei gruppi, a delle categorie sociali. Non sentirsi pecora nera è anch'esso un modo per non sentirsi soli. In letteratura H.Hesse propone "Il lupo della steppa", ma alla fine Erminia la donna amata va con un altro e in un raptus di gelosia il protagonista la uccide: imparare a ballare il fox trot non basta per uscire da sé stessi. Sartre ne "La nausea" ci comunica che il mondo, l'esistenza non hanno alcun senso. La stessa cultura impersonificata dall'autodidatta è inutile, non soddisfa le aspettative perché anche quest'ultimo è sorpreso a molestare un adolescente e viene mandato via dalla biblioteca per questa ragione. Thomas Bernhard ne "L'origine" tratta di un collegio, in cui si mischiano sadicamente nazismo e cattolicesimo. L'unico modo per salvarsi dal suicidio, dovuto al disagio per questo microcosmo concentrazionario, è allora suonare il violino. Primo Levi si suicidò perché non seppe convivere con l'orrore inenarrabile e inesprimibile del lager. Pavese si sentiva padrone da solo al buio a meditare, ma sarà proprio "la mania di solitudine", che aveva spesso tramutato in ozio creativo a ucciderlo. Sempre Pavese e Carlo Levi sperimentarono la solitudine del confino. Bassani tratta dell'emarginazione ebraica ai tempi del fascismo e ne "Gli occhiali d'oro" determinata dall'omosessualità. Ne "Lo straniero" di Camus il protagonista prima non versa una lacrima alla notizia della morte della madre, quindi uccide per futili motivi sulla spiaggia un uomo, infine quando viene condannato a morte è impassibile. Siamo quindi tutti stranieri di fronte all'assurdo, che sfugge alla nostra logica. Anche Moravia porta tutto alle estreme conseguenze con il romanzo "1934". Il protagonista, un intellettuale, vuole compiere un suicidio a due con una donna. Ma alla fine sarà beffato perché due donne si prenderanno gioco di lui. Come a dire che la disperazione non si può condividere, che si finisce per essere beffati da chi dimostra avere più attitudine alla vita. Al protagonista non resta che continuare a vivere da solo con la sua disperazione. Ma ora veniamo alla poesia del' 900. Giuseppe Ungaretti scrive sulla tragedia della Prima Guerra Mondiale: “Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto” in San Martino del Carso e finisce la poesia con “E’ il mio cuore / Il paese più straziato”. Pascoli si sente così abbandonato “come l’aratro in mezzo alla maggese”. Quasimodo scrive: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”. Per Kenneth Patchen la solitudine è "un coltello sporco puntato alla gola". Si possono avere molte amicizie e l'amore ma per molti al cospetto della morte siamo tutti soli. Per altri non bisogna sentirsi soli perché non lo siamo mai: c'è sempre qualcuno a questo mondo che ci capisce e condivide quello che sentiamo e proviamo, basta solo cercarlo.

 

 

undefined


Infine chiudiamo con un poeta della musica come Claudio Lolli, che cantava negli anni Settanta questo brano sul suicidio:

"Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Quante ore, quante ore che ho passato,
Accanto a un termosifone per avere un poco di calore.
Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,
Mentre nessuno vedeva, mentre, nessuno mi guardava.

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Dietro i vetri gialli e sporchi di una stanza,
Che aprono una città di ferro, senza voce, e senza una parola.
Quanto amore, quanto amore ho riversato.
Nelle cose più impensate e più banali,
Facendo collezione di farfalle o di vecchi giornali.

Le persone che ho fermato per la strada,
Sinceramente possono testimoniare,
Quanto amore ho cercato, ieri, prima, di essermi impiccato,
Ieri, prima di essermi impiccato.
Quanto amore, quanto amore, quanto amore, che ho cercato …"

 

Due parole sulla solitudine, Danilo Dolci, introversione, psicologia e mistica...

nov 182022

 

undefined

 

 

"Vivo nella fraternità / delle stelle // È soltanto ai solitari / che l’universo /spalanca le sue porte” (versi della poetessa lussemburghese Anise Koltz)

 

 

 

Il gruppo svolge funzioni psicologiche fondamentali per l'equilibrio dell'individuo come il mantenimento dell'autostima, il sostegno morale, la comprensione dei problemi. Almeno questo è vero per la psicologia. Durante il quarto congresso internazionale di psicoterapia di gruppo, svoltosi a Vienna nel 1968, il gruppo venne concepito come "difesa contro l'ansietà che ci viene dal pensiero dei miliardi di individui che vivono sul nostro pianeta". È argomento controverso stabilire quali possono essere i fattori che sono cause di emarginazione di una persona dal gruppo. Il motivo più facilmente rintracciabile è la diversità dell'individuo emarginato rispetto alla comunità. Una rassegna di studi ha rilevato infatti la contiguità tra somiglianza, credenze simili e amicizia. La diversità dell'emarginato può essere volontaria o involontaria. Nel primo caso il soggetto è spesso un deviante che non si conforma alle regole, alle idee, ai principi, ai valori del gruppo. Nella nostra società occidentale sono fondamentali i gruppi informali, che forniscono sostegno, solidarietà, rimozione dell'ansietà individuale grazie alla coesione di più persone. Il grande poeta e sociologo Danilo Dolci, famoso per i suoi libri-inchiesta, per la sua lotta alla mafia, per le sue marce, per i suoi digiuni, per la sua non violenza scriveva: "Così la vita di gruppo, la vita comunitaria, è pure un indispensabile strumento di verifica e di costruzione personale e collettiva. La vicinanza fisica con gente autentica può generare chiarezza morale"; ma non scordiamoci che lo stesso autore scriveva anche: "Dove c'è un vivo, lì, palese o no, nasce una comunità". La stragrande maggioranza di noi hanno bisogno di essere in coppia; molti non riescono a concepire sé stessi da soli. Il primo motivo è che non riescono a stare bene da soli. Il secondo motivo è che hanno bisogno di trovare un'altra persona per essere soddisfatti sessualmente, per non soffrire di carenze affettive, per trovare un dialogo continuo, una compagnia. Esiste anche la pressione sociale che spinge le persone a cercare la dolce metà. Molti cercano una persona che li completi perché da soli non si bastano. Abbiamo bisogno per natura o per cultura di altra pelle oltre la nostra, di un altro corpo oltre il nostro, di altre parole, di altro udito, di un altro sguardo, di altra umanità oltre la nostra. O almeno così ci sembra di primo acchito. Forse è proprio perché la società ci impone la rottura della solitudine che questa ci sembra così innaturale e ci sembra infelice chi non sa o non può amare o stare in mezzo agli altri. Da giovani chi non ha un partner sessuale si sente irrimediabilmente solo perché il bombardamento pornografico impone l'estroversione sessuale a ogni costo e a ogni modo. Poco più che ventenne ho lavorato per un anno in un collegio di salesiani e in un ambiente più casto mi sono accorto che alcuni miei impulsi sessuali erano socialmente indotti.
La verità comunaue è che la stragrande maggioranza di noi cercano un human touch (un tocco umano) per dirla alla Bruce Springsteen. Quello che mi sono sempre chiesto è se il voler rompere la solitudine sia dovuto alla natura o alla cultura. Mi sono sempre chiesto quanto la socialità sia socialmente costruita e quanto sia fisiologica. Ma io mi chiedo, dopo essere cresciuti socialmente, culturalmente, umanamente quanto abbiamo bisogno sempre socialmente, culturalmente, umanamente degli altri, se non si è malati e si è autosufficienti? Per Rousseau e per Freud gli uomini hanno creato una civiltà, barattando buona parte della loro libertà per la loro sicurezza.

 

Ogni test di personalità che si rispetti prevede la misurazione del grado di socievolezza del soggetto. Il MMPI prevede una scala che quantifica l'introversione sociale, che viene considerata negativamente, ovvero come difficoltà o meno a rapportarsi con gli altri. Il Big Five prevede la misurazione di due tratti di personalità a tal riguardo: l'estroversione e l'amicalità. Dietro a tutti questi costrutti psicologici c'è il retropensiero diffuso tra gli studiosi, che diventa molto spesso un postulato dato per certo, ovvero che l'uomo è un animale sociale. Sarà pure vero. Ma in me sorge spontanea una domanda: l'uomo può fare a meno degli altri, dopo che è stato istruito, educato e quindi gli altri li ha interiorizzati? Secondo la mistica cristiana e non solo l'uomo per cercare, pregare, trovare Dio sta meglio da solo e gli altri sarebbero una distrazione, addirittura un disturbo. Basta ricordarsi dei Padri del deserto oppure in epoca medievale degli stiliti. Talvolta ci si ritira dalla solitudine per fuggire dagli altri...


Così Petrarca scrive:

"Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co·llui."

 

Anche in letteratura e nell'arte ci sono tanti esempi di persone che hanno scelto l'introspezione, la ricerca interiore, considerandole quasi come una necessità dell'animo, per creare. Si pensi solo a Proust che per scrivere il suo capolavoro si isolò per anni in una stanza con pareti ricoperte di sughero e dalle finestre sbarrate. Alcuni psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, a torto o a ragione, ritengono che il bisogno di solitudine sia correlato significativamente con il livello di introversione dell'individuo. Ma alcuni artisti e religiosi si impongono la solitudine e il raccoglimento interiore per i loro scopi, mentre per altri la cosa è molto più spontanea e naturale. La realtà è che si potrebbe considerare patologico chi non sa stare da solo, ma, siccome il mondo va avanti grazie a chi fa figli (oggi il problema è casomai che stanno facendo troppi figli e la sovrappopolazione è un grave problema), viene molto spesso considerato patologico l'asociale, cioè colui che decide di non stare tra gli altri o colui che non sa stare tra gli altri.

Atom

Powered by Nibbleblog per Letteratour.it