Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Comunità poetica e dinamiche psicologiche in parole povere...

mar 262024

 

 

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Conoscendo almeno virtualmente la comunità poetica da anni, mi viene naturale talvolta analizzare le dinamiche psicologiche di essa, spesso soggiacenti. La prima cosa che mi salta subito all'occhio non è il cosiddetto amichettismo (termine coniato dallo scrittore Fulvio Abbate), ma la ricerca spasmodica ossessiva di consenso critico e legittimazione culturale. L'amichettismo, se esiste, è strumentale, è finalizzato a ottenere la gloria. Che vengano ottenuti o meno dei risultati, i poeti (veri, aspiranti, sedicenti) ricercano un maestro e/o dei sodalizi artistici. Intendiamoci bene: c'è chi si atteggia a maestro senza esserlo e c'è chi si finge sodale senza esserlo! Tutto ciò ha sempre dei secondi fini, sono frequentazioni “interessate”: un do ut des, perché nessuno fa niente per niente. Poi per dirla alla Montale “ognuno riconosce i suoi”: questo l'hanno già detto e scritto tanti a riguardo. C'è chi parla di cricche, chi addirittura di clan, di gruppi di potere. A volte penso che per comprendere adeguatamente i poeti e la comunità poetica sia necessario ricorrere ai principi basilari della psicologia dinamica, sociale e addirittura clinica, perché c'è una quota parte ineludibile di psicopatologia. A questo proposito apro una parentesi sulla scrittura del trauma sempre più diffusa. Va bene l'arteterapia, ma i traumi si superano sotto la guida di esperti della psiche e con gli psicofarmaci. Alcuni si affidano unicamente alla scrittura e talvolta fanno naufragio. Poi se tutto è trauma, niente è trauma e sappiamo dalla psicologia quali sono veramente i traumi. Inoltre sappiamo che l'incidenza nella popolazione del disturbo post-traumatico da stress è del 7,5%. Che moltissime persone, facenti parte di questa piccola percentuale, scrivano poesia oppure è anche una moda, addirittura una posa quella del trauma, pur essendoci grandi poeti e grandi poetesse, che ne hanno fatto il loro tema principale? Insomma tutta la poesia è dolore e trauma? Non ci si può esentare da ciò? Chiusa parentesi. A ogni modo chi ha vero potere editoriale è amato/invidiato/odiato senza mezze misure. Ma poi è vero potere quello poetico? O è solo un contentino, un palliativo, una valvola di sfogo, una piccola concessione che il vero potere dà ad alcuni individui? C’è chi è dentro e chi è fuori. Chi è dentro guarda con aria di superiorità e con paternalismo chi è fuori. Chi è out a volta sfoga la rabbia in velenosi post su blog, siti, riviste online. C’è chi aspira, più o meno legittimamente, e non trovando riconoscimento diventa frustrato/depresso e talvolta ciò si tramuta in smania di grandezza, in un ingigantimento smisurato dell'ego, dovuto a una ferita narcisistica non rimarginabile. Ma non esiste comunque una linea di demarcazione netta, un limite invalicabile tra chi è in e chi è out: sono dei vasi comunicanti, ci sono delle cooptazioni, delle inclusioni, tenendo ben presente le dinamiche di gruppo (dell'ingroup e dell'outgroup in questi casi). Diciamo che il potere poetico e il contropotere si studiano vicendevolmente. Io, essendo ormai un misero recensore, sto tra l'incudine e il martello, possibile vittima dei due fuochi. Ma tra gruppi poetici di solito nessuno pesta i piedi a nessuno, le critiche alle altre scuole di pensiero sono sempre circostanziate ma vaghe, generiche: di solito nessuno fa nomi e cognomi, gli attacchi ad personam vengono evitati per quieto vivere. Scusate la citazione scontata, abusata, ma “la poesia non cerca seguaci, cerca amanti”, come scriveva Lorca. Solo che talvolta certe logiche di potere fanno passare la voglia di amare la poesia e i poeti. Ad esempio ogni volta che viene fatta un'antologia di poesia pregevole alcuni esclusi fanno delle critiche al vetriolo. Ma come sottolinea il poeta Andrea Temporelli le logiche di potere sono le stesse identiche per tutti: gli esclusi si comporterebbero allo stesso modo, se avessero potere. I contestatori non sognano altro di essere riconosciuti. Non chiedono altro! E intanto stringono alleanze per arrivare al cosiddetto potere, aspettando che muoiano tutti i grandi vecchi. Se un difetto, un limite intrinseco si può trovare ai grandi critici e ai grandi poeti, è quello di passare spesso dalla selettività giusta e sacrosanta all'essere snob ed esclusivi fuori di maniera. E questo snobismo viene ricambiato dagli appassionati di poesia, dagli aspiranti poeti, che non comprano i loro libri, non vanno alle loro presentazioni e conferenze, etc etc. Insomma snobbami che ti risnobbo! Finisce così che i grandi poeti hanno poco seguito e predicano quasi nel deserto, mentre i poeti non riconosciuti cercano consenso nella loro bolla social. Tutto questo è asfittico, claustrofobico e ognuno se le dice e se le canta da solo. Per pura consolazione allora c'è chi ripete “meglio pochi ma buoni” oppure “la poesia non può che essere di nicchia”. In un gioco di snobismi reciproci, di piccoli favori, di attese vane, di idiosincrasie, di dispetti e ripicche, di invidie vivacchia la poesia italiana, in attesa della catastrofe o di una rinascita.

Sull'io e sulla poesia di ricerca...

set 202023

 

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Per secoli e secoli i poeti seguivano gli stessi canoni estetici. Rispettavano le regole della metrica. Scrivevano endecasillabi canonici. Talvolta li alternavano con dei settenari. Da Lucini in poi ci fu la diffusione del verso libero. Oggi la stragrande maggioranza dei poeti scrive in versi liberi, va a capo quando vuole. Nel Novecento abbiamo visto molte rivoluzioni copernicane nell'ambito della lirica. Hanno creato nonsense, calligrammi, montaggi. È comparsa anche la poesia concreta (a sua volta suddivisibile in poesia visiva e poesia sonora). Poi nell'epoca del postmoderno hanno pensato anche a delle sperimentazioni multimediali come la poesia elettronica (videopoesia e computer poetry). Da un lato, qui in Toscana, sembrava esserci la riscoperta dell'oralità con l'organizzazione di serate di poesia estemporanea, dove i poeti improvvisavano in ottava rima. Si sono diffusi, in tutta la penisola, anche gli slam poetry, importati in Italia dal poeta Lello Voce. Dall'altro lato sembrava che il virtuale avesse preso il sopravvento sui media tradizionali. Negli ultimi tempi sembra che sia sempre più difficile incasellare la poesia in una definizione, visto e considerato che ogni decennio nasce una nuova forma di poesia. 

I poeti di ricerca sperimentano. Uno dei padri nobili di questa sperimentazione fu Burroughs con il cut-up, che consisteva nel tagliare parole dai quotidiani, mischiare e creare poesie. Oggi i poeti di ricerca utilizzano l'eavesdropping, cioè l'intercettazione di una frase di una conversazione origliata. In questo caso non c'è alcuna autorità autoriale. I poeti di ricerca italiani si rifanno spesso al Flarf, movimento di avanguardia, creato da Gary Sullivan. Quest'ultimo utilizzava Google per scrivere poesie, assemblava i materiali verbali più eterogenei e definiva infatti il Flarf "un PC fuori controllo". Anche i poeti di ricerca nostrani si dilettano nel googlism, cioè nel comporre poesie, assemblando i risultati su un determinato argomento, chiedendo quindi a Google. In questo caso utilizzano l'intelligenza collettiva del web. Ricordo che il primo ad utilizzare il computer, un IBM della Cariplo, fu Nanni Balestrini nel 1962. Il poeta ideò un algoritmo e il computer generò una poesia, che sembra scritta da un poeta umano[1]. I poeti di ricerca si cimentano anche nel New Sentence, ovvero in frasi "paradossali", spesso pseudoaforismi, pseudosentenze. All'estero alcuni autori creano poesie con i messaggi spam di posta elettronica. Sempre all'estero è diffuso il "found poem", che nasce prelevando materiali da varie fonti (discorsi di politici, frasi di film, discorsi di star, eccetera eccetera), talvolta elaborandoli e altre volte no, e mischiandoli assieme. Esistono anche la micropoesia, ovvero un tipo di poesia brevissima al massimo di 140 parole, come i cinguettii su Twitter, e la poesia captcha, in cui estrapolano il testo scaturito dall'omonimo software. Recentemente in Italia il fotografo Silvio Belloni ha ideato la poesia dorsale, che consiste nel creare liriche, connettendo i titoli dei libri. Però la poesia dorsale, per ora, è praticata a livello, diciamo così, dilettantesco. Qualcuno ha sollevato dei dubbi sulla correttezza di questi metodi. Si tratterebbe di parole prese in prestito. D'altronde non esistono regole ferree nella "Fantastica" della poesia: è ammessa qualsiasi tecnica in quella che Rodari chiamava "Grammatica della fantasia". 

Il gruppo 63 voleva ridurre l'io, ma non eliminarlo perché è impossibile. Alfredo Giuliani scriveva nel 1961, introducendo l’antologia de Novissimi, che “La ‘riduzione dell’io’ è la mia ultima possibilità storica di esprimermi soggettivamente“. I motivi di questa riduzioni erano plausibili. Infatti Giuliani continuava così: "Io credo si debba interpretare la ‘novità’ anzitutto come un risoluto allontanamento da quei modi alquanto frusti e spesso gravati di pedagogia i quali perpetuano il cosiddetto Novecento mentre ritengono di rovesciarlo con la meccanica dei ‘contenuti’. Ciò che molta poesia di questi anni ha finito col proporci non è altro che una forma di neo-crepuscolarismo, una ricaduta nella ‘realtà matrigna’ cui si tenta di sfuggire mediante schemi di un razionalismo parenetico e velleitario, con la sociologia, magari col carduccianesimo". I futuristi volevano eliminare l'io lirico[2], usando i verbi all'infinito. La poesia di ricerca[3] vorrebbe escludere l'io lirico. Alcuni autori si lasciano scappare la frase "va eliminato l'io". Siamo sicuri che si tratti solo dell'io lirico? Nutro dei seri dubbi e in questo mio scritto esporrò tutte le mie perplessità. Mi auguro di sbagliarmi. Voglio spiegare i potenziali danni di una eliminazione non solo dell'io lirico ma dell'io freudiano: questo è il grande rischio. Forse alcuni rimarranno delusi per il razionalismo e le verità "lapalissiane" di questo scritto. Mi scuso quindi per le volgarizzazioni e le semplificazioni. D'altronde non sono un addetto ai lavori. La premessa implicita di questo saggio breve è che a mio avviso i poeti di ricerca potrebbero fare meglio, vista e considerata la loro levatura intellettuale e la loro ricchezza di contenuti. In queste righe cercherò di valutare le loro dichiarazioni di intenti e alcuni aspetti della loro poetica. Forse per alcuni filosofeggerò troppo, ma la poesia contemporanea è caratterizzata dall'estrema concettualizzazione. Sicuramente va preso atto che questi autori hanno trovato un nuovo modo di fare poesia. Ma andiamo al nocciolo della questione. Franco Fortini in "Verifica dei poteri" parlava di "mare dell'oggettività" per Calvino e di "cosismo" per Vittorini. Gli stessi termini, a mio avviso, si potrebbero adoprare per la poesia di ricerca, che riduce ai minimi termini la soggettività autoriale. L'io però è una metafora, alla fine: è un contenitore che contiene molte voci. Anche questo bisogna tenerlo presente. La poesia italiana degli ultimi secoli, secondo Guido Mazzoni[4], è figlia dell'egocentrismo, a causa dell'individualismo borghese. Insomma c'è troppo io. Non discuto dell'autorevolezza e della grande competenza del Mazzoni, ma non fidiamoci troppo però di chi usa pronomi diversi dall'io in poesia. Gli altri, il mondo possono essere frutto delle capacità allucinatorie, anche se l'autore può sembrare di primo acchito aperto al mondo. Oppure la narrazione degli altri può essere influenzata in modo determinante da proiezioni ed essere quindi un meccanismo di difesa di un io in crisi. 

Per Marx l'io è determinato dalla formazione economico-sociale, ovvero dalle relazioni sociali, dalla struttura economica, dalla sovrastruttura ideologica. Per Freud l'io ha la centralità nell'adulto, anche se "non è padrone a casa propria" perché subisce l'influsso dell'inconscio e del Super-Ego: è tra l'incudine e il martello. Esiste anche la psicologia dell'io, che è una branca della psicanalisi. Più recentemente è nata anche la psicologia del Sé[5]. Non cito le moderne neuroscienze perché come scrisse Maurice Merleau-Ponty: "L'intero mondo della scienza è costruito sulla vita, eppure la scienza non è stata per nulla capace di illuminare la natura dell'esperienza soggettiva"[6]. 

La poesia di ricerca addirittura tenta con l'asemico[7] di azzerare il significato e di estendere paradossalmente il polisemico. Diciamo che la scrittura asemica è Test di Rorschach per antonomasia. Regna l'inconscio. La coscienza, l'io viene relegato ai margini. Un'altra caratteristica della poesia di ricerca è quella di considerare impoetica l'assertività. Ma ciò non è forse anche esso assertivo? I poeti di ricerca - mi si scusi il gioco di parole - sostengono di non essere assertivi, ma affermando ciò lo sono: si verifica quindi il paradosso del mentitore. Diciamo, più seriamente, che non saranno assertivi nelle loro poesie, ma lo sono troppo nella loro poetica. Inoltre mi sembra che un'altra caratteristica di questo genere di poesia sia la ricerca di provocare lo shock, lo straniamento nel lettore. A mio modesto avviso il pregio della poesia di ricerca è quello di essere un fattore di rottura rispetto alla tradizione, ma non si può imporre come paradigma dominante. Un altro pregio è quello di aver gettato un poco di scompiglio nel panorama asfittico della poesia italiana. Un altro pregio ancora di questi autori è il gusto del divertissement. Mi auguro quindi che non si prendano troppo sul serio e non finiscano nell'accademismo. Il problema è che resta poco, quando prevale il gioco combinatorio dell'autore e scompare l'autore: resta solo l'arte combinatoria e forse è ben poco per rinnovare la poesia contemporanea. 

Apro una parentesi. A Firenze nel 2010 è nata una nuova comunità artistica o aspirante tale: il mep (movimento di emancipazione della poesia). Hanno un loro sito internet e una loro pagina facebook. Fanno volantinaggio. Affiggono le loro poesie sui muri dei vicoli dei centri storici di diverse città. Il mep non sporca i monumenti e gli edifici storici. Per il resto lascia le poesie nei posti più disparati: sui cofani delle macchine, nelle biblioteche, nei bar. Nessuno si firma. Tutti utilizzano un codice sia perché vogliono una poesia spersonalizzata sia perché le affissioni sono abusive. Perciò l'anonimato è un obbligo. Il movimento è formato da universitari, ma non mancano gli studenti delle scuole medie superiori e giovani post-universitari. È nato a Firenze, ma si sta diffondendo in molte città italiane. Staremo a vedere in futuro come si evolverà questo movimento. I giovani del mep non si firmano. In questo caso viene eliminato l'io empirico. Sono anche loro i poeti-massa di cui scrive Ennio Abate. 

Torniamo ai poeti di ricerca, che non si contano certo sulle dita di una mano. In questa definizione possono essere compresi tutti coloro che fanno poesia sperimentale. Sono il contropotere rispetto agli autori Einaudi o Mondadori, ma non è detto che domani siano loro il potere. Sono quindi molti di più di quelli che sono stati canonizzati, ovvero antologizzati dai critici. I migliori in Italia sono quelli antologizzati dal volume "Prosa in prosa", che è un libro divertente, ironico, autoironico, spassoso, caratterizzato da un notevole spessore culturale. Consiglio a tutti di acquistarlo per farsene una idea. Il merito maggiore di questi autori è di aver trasceso lo storytelling così in voga in Italia, come ha evidenziato Paolo Giovannetti[8]. Ma cosa è "la prosa in prosa"? Potremmo, semplificando un poco, definirla come una scrittura che non va a capo e che viene percepita lo stesso da gran parte dei critici e dei lettori come poesia. Tra questi artisti sperimentali ci sono sicuramente delle eccellenze, ma qui vorrei trattare delle loro premesse teoriche. Non voglio lodare nessuno (è innegabile comunque che la qualità letteraria di questa corrente è molto elevata, anche se talvolta di nicchia. I capiscuola di questa corrente sono talentuosi e scrivono magistralmente. Entreranno a pieno diritto nella storia della letteratura) e neanche stroncare nessuno; non ne avrei l'autorità. Vorrei ad ogni modo disquisire sui presupposti teorici senza fare un processo alle intenzioni. D’altronde riflettere su di essi è legittimo, perché nell’arte bisogna sempre valutare la poetica, anche se è la gestalt finale che conta. Vorrei quindi analizzare concettualmente questo tipo di poesia.

A mio avviso i poeti in questione hanno almeno tre cose in comune: il voler sminuire l’io, l’essere raffinati letterati e il raro pregio di essere intellettuali non cortigiani, ma spesso militanti. Direi che questi nuovi poeti cercano un rimodernamento in seno alla “tradizione del nuovo”. Per alcuni la maggior parte della poesia italiana di questi anni è caratterizzata dall'”epigonismo lirico”, ma anche tra i poeti di ricerca e la neoavanguardia c'è una parentela. Anche per il gruppo 63 si parlò di neooggettualismo, ma questo gruppo considerò anche l’arte come “fabbrica di antislogan” e demifistificò la civiltà consumistica, ritenuta alienante e mercificante. Non solo: la Neoavanguardia rifletteva la crisi della società neocapitalista e la crisi dell’uomo moderno. Tutto ciò allora era innovativo. Una cosa che non mi convince nella poesia di ricerca è la considerazione negativa della poesia lirica, in quanto espressione dell’io. A mio avviso la poesia lirica è anche ricerca di corrispondenze, uso di figure retoriche, ritmo e immagini. È possibile che i poeti di ricerca vogliano delegittimare le impressioni, le sensazioni e i sentimenti? Uno scrive poesie per cercare un poco di libertà e invece a conti fatti non ha nemmeno più la libertà di scrivere il pronome “io”! Personalmente trovo del tutto legittima la poesia come espressione dell’io: anche quella più incentrata tutta sulla capacità introspettiva, a costo che non sia troppo egocentrica e troppo prigioniera dell'io. La lirica può essere considerata conoscenza anche per la descrizione degli stati interiori dell’individuo. La poesia lirica può avere come limite quello di riguardare una dimensione privata e risentire troppo della personalità dell’autore. È ovvio che bisogna guardarsi bene dagli eccessi del lirismo, come il narcisismo e il compiacimento. Su questo hanno ragione i poeti di ricerca, che sono salutari quando contrastano l'ipertrofia dell'io di diversi poeti lirici. Però, secondo il più recente approccio post-razionalista, ogni individuo, tramite la propria esperienza, cerca di dare un senso al mondo. Nessun autore può giungere a una rappresentazione oggettiva perché nessuno è privo di condizionamenti e pregiudizi. L'oggettività è sempre pretesa. Ogni poeta ha un suo sguardo sul mondo e come sostiene Vittorio Sgarbi “la bellezza è oggettiva. La visione è soggettiva”[9]. Il rispecchiamento fedele e imparziale non esiste. Direi che nella poesia lirica prevale l'io, invece nella poesia di ricerca gli oggetti e l'inconscio. E del noi chi se ne occupa? 

C’è chi rispetto alla poesia di ricerca ha parlato di “annichilimento dell’io”. Forse è per raggiungere l'oggettività? Mi sembra quasi che questi nuovi poeti vogliano riprendere l’impersonalità del naturalismo francese e del verismo di Verga. Oggettivare il mondo è solo un’espressione. Si può anche dire “oggettivare uno stato d’animo”, che significa solo esprimere uno stato di coscienza. La realtà è la nostra costruzione logica e non solo: dipende anche da fattori psichici ed esistenziali. Per gli esistenzialisti ognuno ha la sua intuizione del mondo.

Ho l’impressione che i poeti di ricerca non stimino coloro che vengono definiti poeti lirici. Eppure qualsiasi tipo di poesia è una interazione tra io e mondo. Bisogna ricordarsi a tale proposito del criticismo kantiano (si pensi allo schematismo trascendentale) e di Schopenhauer, secondo cui il mondo è sempre una rappresentazione del soggetto e quindi della coscienza. Per Schopenhauer tutto quello che conosciamo si trova nella coscienza. Qui non si tratta di ritornare a essere platonici o idealisti in senso assoluto. Il soggetto non può determinare tutta la realtà. Non si tratta neanche di subordinare l’oggetto al soggetto o viceversa. Si tratta invece di considerare la continua correlazione tra soggetto e oggetto. L’oggettività in poesia è solo supposta. Possono certamente criticare l’introspezione e la ricerca di interiorità perché possono ritenere che uno in questo modo guardi il proprio ombelico. Però il mondo è una nostra percezione. Niente altro. Un tempo si diceva che l’idealista pensa e il realista conosce. Oggi invece in ambito scientifico si sta sempre più affermando il costruttivismo[10]. Non si può essere realisti a tal punto da mettere tra parentesi l’io. Il mondo là fuori non ci viene dato in base alle proprietà intrinseche dei fenomeni. Noi conosciamo le cose sia perché abbiamo una coscienza, sia perché esse sono intellegibili.

Potremmo affermare filosoficamente che la ricerca della verità umana è basata sulla compartecipazione di soggetto e oggetto. In psicologia si usano altri termini e si dice che esiste una interdipendenza tra osservatore e realtà osservata. Il concetto comunque è lo stesso. Naturalmente bisogna considerare che l’osservatore modifica sempre ciò che osserva e che l’osservatore fa a sua volta parte di quel che osserva. La poesia di ricerca quindi, al di là del talento dei suoi rappresentanti, mi sembra fondata su presupposti e su premesse errate. La realtà sensibile non può essere una cosa a sé stante. La coscienza è un flusso continuo, una continua interconnessione tra soggetto e realtà. Non si può fare a meno dell'io nella poesia.

La poesia, anche oggi, può essere sperimentale, può cercare di rinnovare il linguaggio come le avanguardie; può essere satirica, didascalica, religiosa (come fu quella di Turoldo, Rebora), aforistica, spirituale; può essere poesia sociale, può descrivere epifanie, può ricercare “corrispondenze”, può esprimere un sentimento amoroso; un poeta può scrivere anche metapoesia. In caso di metapoesia o poesia didascalica non mi sembra che un poeta esprima solo sentimento, come si intende per la poesia lirica. Trovo in molti giovani poeti la ricerca di originalità a tutti i costi. Spesso l’innovazione è cercata utilizzando l’inconscio o una cosiddetta poesia degli oggetti. Per la Neoavanguardia bisognava compiere “una riduzione dell’io”. Molti allora pensarono che essere “oggettuali” significasse essere oggettivi. A mio avviso c’è il rischio di fare una elencazione di oggetti più che scrivere una poesia. Non si può far parlare solo l’inconscio che si relaziona agli oggetti. Anche in Sanguineti l’io è presente. Il professor Romano Luperini in “Il Novecento (apparati ideologici ceto intellettuale sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea)” riguardo a Sanguineti parla di “autocommiserazione ironico-patetica” (pagina 838). Nemmeno Sanguineti è riuscito a “destituire l’io”. A mio modesto avviso sarebbe meglio se molti cercassero un equilibrio tra conscio e inconscio, tra io e oggetti. Infine manca forse qualcosa alla poesia di questi ultimi anni: il Noi, gli altri soggetti, gli altri insomma a cui relazionarsi. Manca anche la capacità di vivere la poesia in modo totalizzante, come fecero Adriano Spatola e Giulia Niccolai negli anni Settanta al mulino di Bazzano, fondando "la Repubblica dei poeti"[11]. Il problema, a mio modesto avviso, è che viviamo in una società asociale. I nostri io sono quasi delle monadi. Eppure la psicologia insegna che nelle prime fasi della vita l'interpsichico determina l'intrapsichico. Dimostrazione di questo è il fatto che i bambini che crescono nei primi anni di vita nella foresta, in modo selvaggio, senza altri umani, non riescono più a parlare e non sanno più interagire dignitosamente con altri, anche se vengono educati successivamente da degli scienziati[12]. Ritornando a questa società, da una parte c'è l'omologazione descritta da Pasolini, ovvero l'uniformazione dei modi di essere, di pensare e dei gusti. Ogni mutazione avviene tramite variazione (stabilita ad esempio nei consigli di amministrazione delle multinazionali) e fissazione (tramite l'affermazione della novità con la pubblicità). Non a caso Pasolini aveva mutuato il termine dalla biologia. L'omologazione avviene in gran parte, per ora, tramite la TV. Dall'altra parte c'è la bolla di filtraggio su internet, la cosiddetta filter bubble. Ognuno è chiuso quindi nella sua storia, nella sua bolla. La tecnologia ci isola. Ognuno appena ha un momento di tempo libero si isola e sta a smanettare al telefonino. Oppure in casa ogni familiare sta chiuso nella sua camera a guardare la TV. Insomma siamo sempre più isolati. Ma questo non significa che si è in grado di essere autenticamente sé stessi. La risultante di queste due forze (omologazione e bolla di filtraggio), apparentemente contrapposte, è l'immobilismo sociale. Abbiamo individualismo e "de-individuazione" (qui da intendersi come perdita della propria identità ed interiorità. Non come la intendeva Zimbardo) allo stesso tempo. La società di massa è spersonalizzante e ci condanna all'anonimato, all'appiattimento, al livellamento. Abbiamo tutte le libertà tranne quella di pensare, come cantava Gaber. Siamo liberi, ma dobbiamo muoverci in un certo raggio di azione. Non possiamo deragliare dai binari stabiliti. Altrimenti diventiamo devianti! Ad ogni modo essere noi è sempre più difficile. Per dirla in termini sociologici siamo in una società con uno scarso senso della comunità. È avvenuto un netto depotenziamento dell'io. È avvenuta la disgregazione dell'io. Siamo quasi tutti prodotti in serie. È avvenuta anche la disgregazione sociale. È avvenuta anche la disgregazione del noi. Si guardi ai giovani. Gli unici luoghi di aggregazione sono i vari divertimentifici, che talvolta stordiscono. Abbiamo quindi anche il tempo libero "alienato". L'interpsichico è ridotto ai minimi termini. È sempre più arduo pensarsi, dirsi ed essere noi. Ma è altrettanto difficile riappropriarsi dell'io ed essere veramente sé stessi. La poesia, in mancanza del noi, dovrebbe almeno essere espressione autentica dell'io. Dovrebbe affermare la nostra unicità e irripetibilità. Ma spesso questo non avviene. 

 

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Inoltre cosa è veramente l'io? Cosa è la coscienza[13]? L’io per Freud è quella parte della psiche che media tra le pulsioni dell’Es e il Super-Ego. Senza l’io non c’è quindi oggettività, ma un essere in balia delle altre due forze. Ridurre l’io significa sottrarre una parte a noi stessi. Forse ridurre l’io significa eliminare qualche problema, ma aggiungerne molti altri in più. Per secoli si voleva rimuovere l'inconscio. Un tempo in poesia si voleva rimuovere il Super-Ego (poeti maledetti, Scapigliati) . Ora si vuole rimuovere l’io. Invece non bisogna cercare di rimuovere nessuna di queste tre istanze psichiche. Queste istanze psichiche vanno tutte affrontate. Se non affrontiamo noi stessi non possiamo affrontare degnamente neanche gli altri. A mio avviso il rischio della poesia di ricerca è quello di iniziare con l'eliminazione dell'io lirico e di finire quasi con l'eliminare l'io freudiano. Secondo alcuni bisognerebbe scegliere tra l’io e il mondo e lo dicono/scrivono come se non si dovesse privilegiare l’uno piuttosto che l’altro, ma come se ci si trovasse di fronte ad un aut aut impietoso. In realtà l’uno non esclude mai l’altro. Non si tratta di giocare a biliardo e mandare in buca l’io, come vorrebbero in molti oggi in poesia, anche se capisco il disprezzo di fronte all’ipertrofia dell’io e alle persone egoriferite. Ad onor del vero la realtà umana è un quadro di riferimento, che include sia l’io che il mondo. L’io e il mondo fanno parte del medesimo circuito. C’è una interazione continua tra io e mondo. Ogni io, anche quello più alienato, si specchia nel mondo. Il mondo ritorna sempre in ogni io. Ci sono dei dati oggettivi nella percezione del mondo, che fanno in modo che possiamo condividere la realtà e comunicare tra di noi. Ci sono verità evidenti per i sensi (quella è una sedia, quella è una mela); altre apodittiche a livello logico; altre basate su delle convenzioni e sul senso comune; altre invece sono attendibili, come ad esempio le informazioni che formano la conoscenza scientifica e sono inconfutabili fino a quando degli esperimenti non le falsificano[14]. Non tutto comunque è opinabile e in questa realtà siamo provvisti di alcune certezze. C’è ad ogni modo un significato condiviso e comune del mondo. Ci sono anche molti altri elementi particolari che costituiscono l’unicità e l’irripetibilità della visione del mondo di ognuno. Come si suol dire, siamo per certe cose tutti uguali e per certe altre tutti diversi. Inoltre, come sosteneva Popper[15], osservare non è un verbo intransitivo. Si osserva sempre qualcosa e questo qualcosa lo si sceglie in base a delle aspettative precedenti. Ognuno conosce in base alla sua esperienza. Nessuno è tabula rasa. Ciò può essere un pregio o un difetto a seconda dei casi: più semplicemente è così che siamo fatti. Ognuno, ancora una volta, conosce a modo suo. È per questa ragione che in poesia chi aspira all’oggettività può ottenere soltanto l’oggettualità. In realtà ognuno ha la sua visione del mondo, formata anche da una quota parte imprescindibile di soggettività.

Secondo il filosofo Goodman[16] i modi di “fare” (interpretare/rappresentare/descrivere) il mondo sono tanti quanti gli uomini. Sono tanti quante le menti umane perché ogni mente è diversa: i gemelli omozigoti sono uguali in tutto, ma le loro menti invece sono diverse. Secondo lo psicologo George Kelly noi adattiamo continuamente il mondo alla nostra personalità e ai nostri schemi cognitivi. Questa raffigurazione/testualizzazione del mondo avviene ogni giorno ed è quindi dinamica. Neanche chi delira è fuori da questo circolo ermeneutico perché secondo gli psichiatri il delirio è una interpretazione del mondo, anche se errata o meglio non condivisa/condivisibile (si pensi soltanto alla pericolosità sociale e alla desiderabilità sociale). La comunità si dà quindi delle regole e delle restrizioni nell’interpretazione. Secondo Nietzsche “non esistono fatti ma solo interpretazioni”. Ognuno ad onor del vero ha la sua “versione” del mondo e nessuna è onnicomprensiva; nessuno può dire l’ultima parola sul mondo: ecco perché abbiamo sempre bisogno di scambiarci informazioni, parlarci, relazionarci. Ognuno aggiunge una tessera al mosaico dell’altro. Noi interagiamo con il mondo di fuori e alcune cose le percepiamo esattamente, come tutti gli altri esseri umani, mentre invece altre le percepiamo soggettivamente. Ci sono alcuni elementi in comune con il modo con cui le altre menti percepiscono il mondo. Altre cose invece le vediamo in modo diverso. Descrivere come percepiamo il mondo è estremamente complesso. Ci poniamo mille domande, ma non abbiamo nessuna certezza. Il mondo naturalmente esisterebbe anche senza di noi (sostengono i realisti). La realtà non è prodotta dalla mente cosciente, ma l’io è l’unica modalità in grado di distinguere io e non io, di percepire, di descrivere e nominare il mondo. Senza l’io il mondo non sarebbe più oggetto di indagine. Non ci sarebbe più nessuna indagine. Ecco perché l'io, ovvero la coscienza è importante!

Ma passiamo ad altro. Cito testualmente: "La prosa in prosa è letteralmente letterale vuol dire quello che dice nel momento in cui lo dice dopo averlo detto e la prosa in prosa come poesia dopo la poesia se esistesse avrebbe letteralmente, propriamente, l'unico stupidissima senso che sta dicendo cos'è." (Jean-Marie Gleize. La traduzione è di Michele Zafferano. Da" Prosa in prosa"). Gli autori di "Prosa in prosa", come sottolineato da Paolo Giovannetti, vogliono raggiungere "il grado zero della connotazione", teorizzato da T. Todorov. Per i poeti di ricerca molto probabilmente "una rosa, è una rosa, è una rosa"[17], come scriveva Gertrude Stein. A mio modesto avviso invece in poesia una rosa non è solo una rosa perché può avere diverse connotazioni (che possono essere anche considerate delle sfumature emotive. Anche la nominazione più precisa può avere quindi una sua vaghezza), può provocare le più svariate “corrispondenze” tra l’io e l’oggetto (più banalmente risonanze interiori). Inoltre ogni oggetto può essere suggestivo, può ispirare l’artista. Joyce ha insegnato che qualsiasi cosa può essere rivelatrice e chiarire l’esistenza. L’arte anche per questo motivo dimostra di essere ineffabile. Le “corrispondenze” tra gli stati d’animo e il mondo non solo variano da individuo a individuo ma anche di giorno in giorno e di istante in istante. Cambiamo continuamente noi. Cambia continuamente il mondo. Di conseguenza cambiano continuamente le corrispondenze. Ogni artista quindi deve sempre cogliere le occasioni perché le corrispondenze hanno carattere episodico. I pensieri sono casuali, come le gocce di pioggia sull’asfalto. Sta al poeta mettere ordine tra i suoi pensieri. Una rosa non solo può suscitare diverse sensazioni, ma anche portare ai più svariati simbolismi. A essere più puntigliosi il poeta rappresenta più che descrivere e ogni rappresentazione possiede deformazioni e approssimazioni. Eludere l’io, occultarlo per avere uno sguardo diretto ed oggettivo è impresa impossibile. Tutto ciò è paradossale. Invece bisogna considerare che esiste sempre una componente emotiva dell’artista: la sua soggettività. C’è sempre un quid mentale e parziale, così come è innegabile che esiste una realtà in certa parte comune e condivisibile. Spesso viene stimato grande poeta colui che riesce a descrivere sensazioni, emozioni o pensieri, che la maggioranza delle persone fino ad allora non vedevano, come il fanciullino del Pascoli. Cercare di eludere l’io per vedere meglio le cose, per distanziarle, per vederci più chiaro è impresa vana a mio avviso. In questo senso nessun artista può registrare oggettivamente il suo inconscio. È impossibile. Deve esserci sempre la mediazione della coscienza. Inoltre l’inconscio è per gran parte inattingibile e la coscienza non può accedere totalmente ad esso: molte zone restano inesplorate. Infine Gian Luca Picconi ha parlato di "soggettivazione di gruppo" per gli autori di "Prosa in prosa". Questa "soggettivazione di gruppo" può andare bene in una antologia, ma di che cosa se ne fa un lettore comune, quando legge la silloge di uno di questi poeti? Forse ben poco. Ogni poeta in definitiva, grazie alla sua soggettività, è unico. È anche grazie alla soggettività che un poeta inventa un linguaggio o rinnova il linguaggio. Ognuno, anche il più mediocre, ha la sua angolatura e da questa scaturisce la sua particolare prospettiva. Si usa dire che un artista apre un mondo quando trova un nuovo filone di cose, ovvero rappresenta un mondo che fino ad allora non era stato rappresentato[18]. Per Claudio Magris il poeta è “un nessuno che parla per tutti”[19]. Un poeta lavora per intuizioni verbali, piccole rivelazioni gnomiche, illuminazioni liriche. È efficace quando le sue parole riescono ad essere evocative, quando riesce a esprimere il fluire di immagini nella sua mente e anche quando riesce ad accostare cose lontane tra di loro. Un artista può rappresentare una nuova realtà oppure se è della Neoavanguardia può cercare di trovare un nuovo linguaggio, cercando di dare forma all’informe. L’artista è tale quando fa diventare universali i suoi pensieri e le sue percezioni.

 

 

Note

[1] Ecco la poesia in questione:

NANNI BALESTRINI

(Da Almanacco Letterario Bompiani – Bompiani, 1962)

 

TAPE MARK I

 

La testa premuta sulla spalla, trenta volte

più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno

finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine

delle cose accade, alla sommità della nuvola

esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono

la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.

 

I capelli tra le labbra, esse tornano tutte

alla loro radice, nell’accecante globo di fuoco

io contemplo il loro ritorno, finché non muove le dita

lentamente, e malgrado che le cose fioriscano

assume la ben nota forma di fungo, cercando

di afferrare mentre la moltitudine delle cose accade.

 

Nell’accecante globo di fuoco io contemplo

il loro ritorno quando raggiunge la stratosfera mentre la moltitudine

delle cose accade, la testa premuta

sulla spalla: trenta volte più luminose del sole

esse tornano tutte alla loro radice, i capelli

tra le labbra assumono la ben nota forma di fungo.

 

Giacquero immobili senza parlare, trenta volte

più luminosi del sole essi tornano tutti

alla loro radice, la testa premuta sulla spalla

assumono la ben nota forma di fungo cercando

di afferrare, e malgrado che le cose fioriscano

si espandono rapidamente, i capelli tra le labbra.

 

Mentre la moltitudine delle cose accade nell’accecante

globo di fuoco, esse tornano tutte

alla loro radice, si espandono rapidamente, finché non mosse

le dita lentamente quando raggiunse la stratosfera

e giacque immobile senza parlare, trenta volte

più luminoso del sole, cercando di afferrare.

 

Io contemplo il loro ritorno, finché non mosse le dita

lentamente nell’accecante globo di fuoco:

esse tornano tutte alla loro radice, i capelli

tra le labbra e trenta volte più luminosi del sole

giacquero immobili senza parlare, si espandono

rapidamente cercando di afferrare la sommità.

[2] L'io lirico è la voce interiore nella poesia. Non è detto che coincida sempre con l'io empirico, ovvero con l'autore in carne ed ossa. L'io lirico può essere anche in un certo qual modo fittizio. Si veda ad esempio Pessoa ed i suoi eteronimi. L'io lirico può essere anche un alter ego.

Un saggio sull'io lirico: http://www.leparoleelecose.it/?p=20689

[3] Sulla poesia di ricerca: http://www.leparoleelecose.it/?p=34663

https://www.glistatigenerali.com/letteratura/mappa-poesia-italiana-26082017/

https://www.versanteripido.it/prosa-o-poesia-di-francesco-di-lorenzo/

https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/21/humpty-dumpty-e-poesia-di-ricerca-in-italia/688793/

[4] "Sulla poesia moderna" di Guido Mazzoni (Il Mulino, Bologna, 2005)

[5]https://www.treccani.it/enciclopedia/io-se_(Enciclopedia-Italiana)/#:~:text=Il%20concetto%20di%20Io%20diviene,cio%C3%A8%20psicologia%20dell'Io)

[6] "Fenomenologia della percezione" di Merleau-Ponty (Bompiani, Milano, 2003) 

[7] https://www.alfabeta2.it/tag/enciclopedia-asemica/

[8] "Prosa in prosa" (Tic edizioni, Roma, 2020)

[9] "Lezioni private 2" di Vittorio Sgarbi (Mondadori, Milano, 1997)

[10]https://it.m.wikipedia.org/wiki/Costruttivismo_(psicologia)

[11] "La repubblica dei poeti. Gli anni del mulino di Bazzano. Con DVD" di D. Rossi (cur.) e E. Minarelli (cur.) (Campanotto, Udine, 2010)

[12]https://www.focus.it/ambiente/animali/le-vere-storie-dei-ragazzi-selvaggi

[13] In letteratura esiste il flusso di coscienza. Basta leggere la Woolf, H. James, W. Faulkner, Joyce. Gli scrittori inseguivano i loro pensieri senza punteggiatura. La loro scrittura registrava i dati psicologici, la loro interiorità; descriveva la loro mente, che vagava da una idea all'altra. Allora la mente non era ancora considerata esclusivamente un insieme di processi fisico-chimici. Naturalmente da allora è innegabile che siano stati fatti dei passi in avanti perché non si parla più di spirito e sappiamo che, privati del sistema limbico, non sapremmo più provare emozioni. Secondo la psicologia la coscienza è innanzitutto autoconsapevolezza. È allo stesso tempo consapevolezza del vissuto e responsabilità delle proprie azioni. Per Jaspers è "la vita psichica di un dato momento". È autoriconoscimento, memoria di sé, percezione di sé, conoscenza di sé, senso di sé; recentemente i neuroscienziati hanno parlato di sé autobiografico, ovvero conoscenza del proprio passato e presente. Coscienza significa accorgersi anche degli stimoli esterni. Coscienza è attenzione. È consapevolezza della propria identità. È organizzazione psichica di attenzione, memoria, linguaggio, desideri, intenzioni, emozioni, valori, stati mentali. Secondo il cognitivismo è anche metacognizione, ovvero conoscenza delle proprie operazioni mentali. Tutto ciò risulta in parte labile ed ineffabile. A tal riguardo dobbiamo ricordarci che il Sé è sempre sfuggente ed elusivo. Molte cose che sappiamo della coscienza le sappiamo grazie all'introspezione. La coscienza è ancora oggi un mistero.

[14] Dopo il principio di complementarietà di Bohr e il principio di indeterminazione di Heisenberg la scienza dipende non più da un rapporto di causa-effetto, ma da leggi di tipo statistico-probabilistico. 

[15] "Congetture e confutazioni" di K. Popper (Il Mulino, Bologna, 2009)

[16] "Vedere e costruire il mondo" di Nelson Goodman (Laterza, Bari 2008) 

[17]https://en.m.wikipedia.org/wiki/Rose_is_a_rose_is_a_rose_is_a_rose

[18] La rappresentazione non è mai totalmente fedele. La realtà è una commistione di drammaticità, tragedia, comicità, erotismo, mistero, etc etc. Noi non possiamo immagazzinare tutti gli stimoli del reale e ne selezioniamo solo alcuni per un puro fatto di economia cognitiva e per i nostri limiti mentali. Nella rappresentazione ne scegliamo solo alcuni da mostrare. La realtà ha moltissime sfaccettature e noi ne evidenziamo solo alcuni aspetti salienti. Sono illimitati i rapporti che un fatto, una cosa o un soggetto può avere con altri fatti, cose o soggetti. È impossibile prendere in esame l'immensa eterogeneità del reale e l'enorme casistica degli eventi. Gadda scriveva dello "gnommero". Montale a tal riguardo scrisse della "matassa da disbrogliare". Per Vincenzo Gioberti la verità è "un immenso poligono" dai lati infiniti. L'immaginazione umana è anche essa un immenso poligono dai lati infiniti. Quindi anche i più alti ingegni umani non possono che rappresentare tutto ciò in modo parziale. La realtà è un enorme caos. Noi possiamo solo cercare di fare dei modelli del reale. Possiamo solo dare una forma al caos. Ogni opera subisce perciò una deformazione in base al punto di vista e alla prospettiva dell'autore. La realtà umana è costituita da una illimitata molteplicità di eventi e di stati mentali. La realtà umana in fondo è una continua interazione tra io e mondo. È un continuo feedback. La realtà non esisterebbe senza i fenomeni neurochimici del nostro cervello, che ci permettono di rappresentarla. Quella che alcuni chiamano oggettività è solo una conoscenza condivisa. L'arte è un impasto di oggettività e soggettività. Anche gli artisti più realisti, che vogliono dare una visione il più possibile impersonale e distaccata della realtà, non possono mai essere totalmente oggettivi. In definitiva l'arte non dipende solo dalla verosimiglianza e dal realismo raggiunti. Una scoria di soggettività resta sempre. Per Picasso in fondo "l'arte è la menzogna che ci permette di conoscere la verità".

[19] "Alfabeti" di Claudio Magris (Garzanti, Milano, 2008)

 

 

80 buone, semplici ragioni per non stroncare libri di poesia...

lug 212023

 

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Non bisognerebbe mai stroncare libri di poesia italiana

PERCHÉ …

se vendono come i libri di Andrew Faber, Guido Catalano, Franco Arminio, Gio Evan, allora sono manna per le case editrici che possono fare cassa. Quindi non bisogna rompere gli zebedei, anche se forse quella non è vera poesia.

se non vendono certi libri, non bisogna far "piovere sul bagnato", per usare un'espressione di Montale. 

i poeti, veri, aspiranti, sedicenti se la prenderanno personalmente con voi, in quanto la stroncatura è per loro una ferita narcisistica.

molto raramente una stroncatura insegna davvero qualcosa a un poeta o ai lettori.

stroncando si suscita timore reverenziale ma non si cucca. 

tra tutta la poesia pubblicata solo una minuscola parte raggiunge il livello minimo di decenza. Se si dovesse stroncare tutto ciò che non è decente, non si finirebbe più. Stroncare solo qualcuno significa avercela con lui o fare comunque un'operazione faziosa o ingiusta. O si stronca tutti i pessimi poeti o non si stronca nessuno. Portare uno sfortunato come exemplum è ingiusto. 

bisogna considerare la buona fede e la buona volontà di chi scrive versi. Ci vuole pazienza, umana comprensione, un minimo di sopportazione.

 in quest'epoca dominano incontrastati il narcisismo e l'esibizionismo. I poeti non sono da meno. Quindi bisogna tollerare questi disturbi psicologici, che il nostro tempo slatentizza. 

anche scrivere brutti versi è una passione innocente. Che male vi hanno fatto i cattivi poeti in fondo? 

si rischia sempre più spesso di stroncare per puro gusto personale. 

 

i poeti, veri o presunti, credono molto in quello che scrivono. Lasciamoli credere in ciò che vogliono. Anche nelle loro pessime cose. 

non è colpa dei poeti se le persone in genere considerano grandi poeti coloro che sanno semplicemente andare a capo.

anche chi stronca si può sbagliare.

stroncare è una pessima azione.

stroncando si fa del male al poeta più che del bene.

 ogni poeta ha bisogno di essere incoraggiato e non demoralizzato. 

stroncando si uccide un sogno.

si può sempre criticare i punti deboli e i difetti di un libro in modo privato, comunicandoli solo al poeta.

non vale la pena di stroncare.

una stroncatura potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso di un poeta depresso e indurlo al suicidio.

stroncare è un modo letterario di menare le mani.

solo pochi hanno davvero l'autorevolezza per stroncare.

ma non vi fanno un poco di tenerezza i pessimi poeti? 

oggi l'epiteto di poeta è un contentino che danno a molti. 

i poeti, veri o presunti, nella maggioranza dei casi pubblicano a pagamento e criticarli negativamente dopo che si sono accollati certe spese editoriali è un piccolo atto sadico, di cattiveria, questa volta gratuita.

la stroncatura non cambia il mondo della comunità poetica, né il mondo editoriale.

la stroncatura è un genere datato, ormai finito.

la stroncatura in Italia non è quasi mai obiettiva, è sempre faziosa. Il critico prende di mira i suoi nemici giurati e poi osanna i suoi amichetti, i suoi sodali e naturalmente ha un occhio di riguardo per gli amici degli amici. Purtroppo, diciamocelo francamente, è davvero così.

la critica letteraria non può essere per niente obiettiva, perché mancano canoni estetici, metri di giudizio con cui valutare e ismi in cui incanalare gli autori, come un tempo.

la stroncatura è un opinione molto discutibile, che viene presentata come un dogma o quantomeno come una certezza assoluta.

bisogna valutare anche le conseguenze psicologiche e la sofferenza interiore di chi viene stroncato.

 chi stronca si mette su un piedistallo e si considera superiore.

non è detto che il critico abbia ragione a tutti i costi. 

siamo tutti fallibili, sia chi scrive versi, sia chi li critica.

ci vuole bonaria indulgenza, poiché siamo tutti esseri umani.

 la letteratura non è una scienza esatta. Nemmeno nessuna scienza oggi è esatta.

per quieto vivere è meglio non stroncare. Stroncare significa farsi dei nemici. 

alcuni poeti sono convinti di essere grandi poeti. Lasciateli pure vivere delle loro albagie, delle loro illusioni.

 alcuni estimatori di questi poeti si sentirebbero feriti o considerati degli idioti.

il mondo poetico italiano è già in una condizione desolante. Non affossiamolo ulteriormente. 

i poeti italiani hanno già tantissimi detrattori.

ci penseranno i posteri, se ci saranno, a distinguere il grano dal loglio.

la poesia è marginale e stroncando a ogni modo non si desta l'interesse.

stroncare è pura partigianeria, intesa nel senso più deteriore del termine, spacciata spesso per militanza. 

stroncando si dà troppa importanza alla vittima.

la vittima potrebbe farvi una causa civile.

meglio il silenzio, l'indifferenza al clamore che suscita una stroncatura.

al mondo d'oggi chiunque trova il diritto di replica e finirebbe tutto con una rissa sui social o sui blog letterari senza esclusione di colpi o quasi.

stroncare non è più pedagogico 

stroncare è una perdita di tempo.

la poesia italiana è una piccolissima torta in cui troppe persone vogliono una fetta. 

ci possono essere poeti, veri o presunti, che potranno perseguitarvi e diventare vostri troll, hater, stalker.

 stroncare può essere considerato un atto di bullismo o cyberbullismo.

stroncare spesso significa partire lancia in resta, accusare per partito preso senza ragionare con equanimità.

stroncare è manifestazione di puro livore.

dei punti di forza ci sono in ogni libro e nella stroncatura vengono omessi, dimenticati, totalmente rimossi.

chi lo dice che dietro a una stroncatura ci sia dietro una questione personale, una ripicca, un'antipatia, un'idiosincrasia, una vendetta? 

nessuno sa più stroncare come una volta.

uno si fa terra bruciata nella comunità poetica.

dietro a ogni libro c'è una persona che merita rispetto della sua dignità umana.

anche la pubblicità negativa è pur sempre pubblicità. 

si rischia di essere divisivi.

si rischia di non finirla più. Il poeta stroncato passerà alla controffensiva. Alcuni lettori commenteranno, dicendo che non sono d'accordo. La discussione potrebbe tirare per le lunghe. 

stroncando non si controbilancia la moltitudine di elogi e di endorsement fatta da tanti recensori ai poeti. 

la stroncatura viene ritenuta un atto di lesa maestà.

ci sono cose molto peggiori di scrivere brutti versi: ad esempio criticare malamente brutti versi, sentendosi superiori. 

una bugia innocente è meglio di una verità amara.

anche i migliori intellettuali e le migliori menti possono scrivere brutti versi. Nessuno ne è immune.

tanto i poeti comunque continueranno a scrivere ostinati e non si autocensureranno. 

spesso il critico, giunto a una certa età, intraprende l'attività poetica e allora le stroncature potrebbero ritorcerglisi contro.

la comunità poetica potrebbe esercitare una damnatio memoriae da morti.

certi pessimi libri di poesia sono davvero sotto la soglia del giudizio critico di un qualsiasi recensore onesto e allora non bisogna scriverne.

chiunque al mondo d'oggi pensa di avere diritto a una buona reputazione di poeta. 

la stroncatura suscita gli stessi bassi istinti sadici e voyeuristici di chi guardava bruciare Giovanna d'Arco.

chi lo dice che in futuro quei brutti versi non  saranno ritenuti dei capolavori? 

le stroncature non vanno più di moda.

le agenzie letterarie non vi pagano se scrivete stroncature.

una stroncatura tira l'altra e troppe stroncature creano il deserto.

prima di stroncare i libri di poesia gli stessi critici dovrebbero fare molte denunce sociali per questioni molto più importanti.

è meglio parlare bene dei migliori che male dei peggiori.

facendo un'analisi costi/benefici, uno ci guadagna di più a non stroncare.

 

 

Sono davvero solo canzonette?

giu 202023

 

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 (Nella foto Alice, al secolo Carla Bissi)

La musica, dal punto di vista sociale, è un linguaggio universale, emoziona chiunque, può abbattere barriere invisibili tra le persone e può veicolare messaggi importanti. A livello individuale sono ormai accertati i benefici della Musicoterapia[1]. Io ascolto spesso su radio Vintage[2] e su YouTube[3] rock progressive italiano e cantautori italiani. Per quanto riguarda il rock progressive ascolto Pfm, Eugenio Finardi, Alan Sorrenti (mi piacciono in particolare i brani remastered[4] "Vola", "Le tue radici", "Figli delle stelle", "Vorrei incontrarti"), Claudio Rocchi ("La realtà non esiste", "La tua prima luna"). Il rock progressive era caratterizzato da testi elaborati e mai banali, da musiche complesse e sofisticate. Non capisco come mai ci siamo fatti colonizzare così tanto musicalmente dagli americani. La nostra esterofilia, a mio avviso, sfiora l’imbecillità. Forse non potevamo ribellarci ai diktat del mercato? Intendiamoci: è sempre preferibile l’America che ci ha colonizzato culturalmente e sottoculturalmente a quella che vuole esportare con l’esercito la democrazia in alcune nazioni povere. Le radio passano esclusivamente musica straniera, molto spesso anglofona. È dai tempi dei Beatles che è così, anche se ai tempi dei tempi pochi sapevano l’inglese; lo stesso Shel Shapiro quando venne in Italia, si sentì un pesce fuor d’acqua perché pochi conoscevano la sua lingua. Attualmente l'industria discografica è in crisi. Molti ascoltano la musica gratis su internet. Molti collegano il tablet o il cellulare allo stereo della automobile. È il cosiddetto Bluetooth[5]. Chiunque lo può fare ormai gratis. C'è spazio solo per la musica commerciale, soprattutto straniera. Negli anni settanta i giovani guardavano all’America, ma buscavano anche ad Oriente. In quegli anni c’era molto fermento. I giovani riflettevano su tutto. Basta pensare alle radio libere, che portarono una ventata d’aria nuova e fecero un quarantotto, ebbero il merito di scoperchiare le carte. Poi tutto è ritornato come prima. Probabilmente peggio. Oggi il mercato in Italia è determinato dall’oligopolio delle major[6]. La musica indie[7] si sta facendo conoscere, ma soccombe ancora rispetto alle major. È tutto un business. Ogni canzone è soprattutto un prodotto commerciale da canticchiare e ballare. Insomma panem et circenses. Un piacere immediato e indiscriminato per tutti. C'è chi la pensa come Adorno. "Il concetto di gusto – scriveva il filosofo - è superato in quanto non c’è più una scelta: l’esistenza del soggetto stesso, che potrebbe conservare questo gusto, è diventata problematica quanto, al polo opposto, il diritto alla libertà di una scelta che non gli è più empiricamente possibile. […] Per chi si trova accerchiato da merci musicali standardizzate, valutare è diventata una finzione"[8]. Per Adorno dietro ogni acquisto di disco e dietro ogni gusto musicale c'è la pressione e la massificazione della cosiddetta industria culturale, di cui la musica leggera fa parte. Il pubblico gode acriticamente della musica, che è totalmente mercificata. Una delle ragioni per cui Nietzsche criticava Wagner era quella di essere istrionico, populista, folcloristico. La stessa cosa potremmo dirla della musica leggera, che è nazionalpopolare. C'è chi dice che la musica leggera sia satanica[9] e che le star siano diseducative per i loro eccessi. A questo proposito Vecchioni in un articolo di giornale, anni fa, scrisse che dovrebbero essere invertite le parti tra insegnanti e rockstar: ai primi grandi ricchezze e onori, ai secondi che vivono di eccessi, per qualche illuminazione interiore e per avere l'ispirazione, degli stipendi come tanti. La critica al sistema di Vecchioni era ironica ma sacrosanta. Le canzoni, insomma, oggi fanno parte del divertimentificio[10] e non devono più far riflettere. Anzi talvolta ho la vaga impressione che più sono banali i ritornelli e più entrano nella testa delle persone. Non solo ma c’è da dire che spesso i fruitori della musica leggera sono ragazzi di età compresa tra i 15 e i 25 anni: ciò spiega molte cose. Oggi il mondo è Spotify[11], almeno per i millenials e la generazione z (i cosiddetti nativi digitali). Forse sono io che appartengo alla generazione x (sono del 1972)[12] e sono rimasto indietro, troppo ancorato ai miei tempi. Oppure più probabilmente tutti noi italiani imitiamo sempre le mode americane con ritardo; in fondo in Italia rapper e trapper[13] sono comparsi dopo anni e anni di ritardo rispetto all’America, così come nel secondo Novecento si diffuse con ritardo da noi la controcultura americana. Noi importiamo continuamente generi musicali, come è successo anche per il reggaeton[14]. Eppure gli autori italiani non hanno niente da invidiare a quelli stranieri. È vero che De André subiva l’influsso di Brassens agli esordi, De Gregori quello di Bob Dylan e Vecchioni musicalmente quello di Bruce Springsteen. Ma nessuno si ricorda che Bob Dylan voleva cantare “Jodi e la scimmietta” di Venditti negli anni settanta e che Vasco Rossi non volle fare il suo show nel 1990 assieme ai Rolling Stone, declinando l’invito. Così come nessuno si ricorda che Alice (Carla Bissi) non volle mai cercare l’avventura americana, nonostante ripetuti solleciti dell’industria discografica. Si ricordano invece tutti soltanto che Lucio Battisti tentò con esito infausto il successo oltreoceano. In America i cantanti italiani che riscuotono più successo sono Laura Pausini, Andrea Bocelli, Eros Ramazzotti, Zucchero, Il Volo, Adriano Celentano, Mina, Al Bano, Toto Cutugno. Senza nulla togliere alla bravura di questi ultimi c’è da osservare che il genere dei cantautori italiani forse è troppo di nicchia per piacere negli Stati Uniti. Inoltre due sono le pecche del nostro cantautorato, nonostante la dignità letteraria dei suoi testi: non avere musiche molto orecchiabili (spesso in un disco di otto canzoni solo tre o quattro sono musicalmente valide) e non avere grande presenza scenica sul palco. A tal proposito spesso ai concerti dei nostri cantautori si respira soprattutto un’atmosfera intimista e di raccoglimento. Ma probabilmente questa è stata una precisa scelta artistica. Basta ricordarsi cosa scriveva Pierangelo Bertoli in “A muso duro”: “Adesso dovrei fare le canzoni/ con i dosaggi esatti degli esperti/ magari poi vestirmi come un fesso/ e fare il deficiente nei concerti”. Oppure sempre a tal proposito basta citare anche Battiato: “Non è colpa mia se esistono spettacoli/ con fumi e raggi laser/ se le pedane sono piene/ di scemi che si muovono/ up patriots to arms, engagez-vous”. Bisogna anche aggiungere che per gli italiani è molto facile farsi ammaliare dai miti americani, mentre per i cantori di una nazione così periferica e poco importante come la nostra è molto difficile esportare le loro cose artistiche. Infine va detto che i nostri cantastorie, i nostri novelli bardi probabilmente non rispecchiano gli stereotipi dell’italiano: abbiamo nella nostra penisola forse un cantautorato troppo elitario e intellettuale. Eppure è pacifico che le creazioni del nostro cantautorato, secondo la critica musicale, non siano intrattenimento, ma vera espressione artistica e talvolta sinonimo di impegno civile e politico. Forse non sono solo canzonette. Devo dire però che i giovani non devono neanche idealizzare troppo i cantanti, che non hanno nessun rapporto privilegiato con la verità.

 

 

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(Nella foto il cantautore livornese Piero Ciampi)

Resta da stabilire se le canzoni di autore siano poesia o meno. Forse sono espressione di poesia popolare, ma questo lo decideranno gli italianisti a venire. Alcune però assomigliano senza ombra di dubbio alla poesia. Per il poeta Milo De Angelis i cantautori scelgono sempre la via più facile, quella più comunicativa. Il grande Mario Luzi invece sosteneva che alcune canzoni di autore fossero poetiche, mentre non sempre tutte le poesie lo erano. Per il poeta Valerio Magrelli la musica avvantaggia e facilita i cantautori rispetto ai poeti. Per il poeta Maurizio Cucchi le canzoni di Guccini non sono assolutamente poesie. Per il poeta Lello Voce spesso i testi delle canzoni, letti senza musica, non reggono da soli e non sono poesie. Per De Gregori i cantautori non sono poeti e non devono avere alcun ruolo educativo. Per Vecchioni le canzoni sono poesie e cita il fatto che anticamente le poesie venivano accompagnate da delle musiche. C’è anche tra gli addetti ai lavori chi pensa che Bob Dylan sia un grande poeta visionario e chi solo un cantante semicolto. C’è chi ritiene che i musicisti siano più avvantaggiati perché il feto sente da subito il battito della madre. C’è chi pensa che sia solo questione di educazione e cultura. Insomma il dibattito è ancora aperto. Oggi i cantanti vengono idolatrati. Il panorama musicale è mutato completamente dagli anni '70, almeno qui in Italia. Erano anni caldi quelli. Le polemiche erano al vetriolo. Chiunque poteva essere messo alla berlina. De Gregori venne "sequestrato" per poco tempo da dei contestatori ad un concerto. Altro che qualche hater sui social![15] Per il cantautore romano fu traumatico. Si rimproverava ai cantautori di arricchirsi facilmente e di essere schiavi del sistema, nonostante fossero compagni. Tra gli stessi cantautori c'erano anche invidie, cattiverie, gelosie[16]. Era una cosa umana. I cantanti, soprattutto i cantautori, negli anni settanta si trovavano tra l'incudine della censura e il martello dei contestatori. Intendiamoci: c'erano le bombe e le p38. Lo stesso Stato era violento. Negli anni di piombo venne minato lo stato di diritto. La polizia sparava alle manifestazioni. Cossiga, allora ministro, dichiarò più volte che faceva mettere una busta di droga pesante nelle giacche di estremisti, ritenuti particolarmente violenti ma incensurati, per farli arrestare. La maggioranza silenziosa non scendeva in piazza. In compenso però andava ai concerti di Claudio Baglioni, figlio e fidanzato modello, eterno cantore dei buoni sentimenti democristiani. La censura era negli anni settanta un modo per difendere la morale comune e controllare accuratamente i messaggi sociali e politici veicolati nelle canzoni. Le canzoni con la rima amore e cuore non erano assolutamente pericolose per l'ordine costituito. La censura era basata su questa grande ipocrisia di fondo. Ci si poteva scannare in piazza tra giovani, ma si doveva salvare l'apparenza, la forma. Niente poteva intaccare il buon gusto in prima serata. Faccio una breve digressione sulla censura in quegli anni.
Innanzitutto per quanto riguarda la musica straniera va ricordato lo scandalo suscitato da "Je t'aime... moi non plus", che era del musicista francese Serge Gainsbourg e dell'attrice britannica Jane Birkin, pubblicata nel 1969. Ma anche la satira non se la passava bene. Non tutti gli sketch comici andavano a buon fine. Dario Fo e Franca Rame vennero oscurati per sedici anni dalla RAI di Ettore Bernabei, allora dirigente organizzativo di Saxa Rubra. I due drammaturghi erano rei in Canzonissima di aver trattato un argomento allora tabù come le morti sul lavoro. Lo stesso premio Nobel ha dichiarato che, nonostante l'apparente morigeratezza e il timore di Dio, Bernabei per lui era un autentico "satanasso". Nel 1959 Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi avevano preso in giro l'allora presidente della Repubblica Gronchi, che era cascato da una sedia vicino a De Gaulle. La trasmissione televisiva, condotta dai due, nonostante la grande popolarità, venne bruscamente interrotta. Per quel che concerne la musica italiana venne censurata "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones" perché criticava l'America e parlava della guerra nel Vietnam. Invece "Dio è morto" cantata dai Nomadi e scritta da Guccini venne censurata dalla RAI, ma trasmessa dalla radio vaticana. La stessa "Bocca di rosa" fu censurata, ma non mi risulta che venne censurata nessuna canzone dell'album "La buona novella", in cui De André si rifaceva ai Vangeli apocrifi e in cui c'era addirittura "Il testamento di Tito" che criticava tutti i comandamenti e che provocò solo accese discussioni tra cattolici e qualche proposta di dibattiti tra teologi. Anche "Albergo ad ore" di Herbert Pagani, "4/3/1943" di Lucio Dalla, "Luci a San Siro" di Vecchioni (un aneddoto curioso riguarda il fatto che "Donna felicità, scritta sempre da Vecchioni e cantata dai Nuovi angeli, non venne censurata dalla RAI ma solo dalla commissione del festival di Sanremo. Probabilmente l'ironia e l'erotismo velato di questa canzone non vennero considerati scurrili e neanche offensivi della morale), "Questo piccolo grande amore" di Baglioni, "Il gigante e la bambina" di Ron, "Io se fossi Dio" di Gaber, "Bella senz'anima" di Cocciante, "Luna" di Loredana Bertè e "Coca Cola" di Vasco Rossi vennero censurate e modificate. Un intero album interpretato da Gaber, intitolato "Sexus e politica" venne interamente oscurato dalla RAI nel 1970. Anche il mitico Enzo Jannacci venne censurato più volte. In particolare va ricordata "Ho visto un re", che denunciava il potere ed esprimeva il dissenso giovanile della contestazione. Il cantautore milanese proprio per questo motivo si allontanò per un certo periodo dalle scene. Non mi risulta però che Jannacci subì censura per "Veronica". Venditti con il brano "A Cristo" si prese una condanna 6 mesi per vilipendio alla religione. Lo stesso De Gregori fu censurato. Non piacquero i versi "Giovanna faceva dei giochetti da impazzire" in "Niente da capire" e "il mendicante arabo ha un cancro nel cappello, ma è convinto che sia un portafortuna" in "Alice", perché all'epoca non si poteva trattare neanche di tumori. La censura era quindi uno spauracchio ed era molto arbitraria[17]. Oggi i cantanti possono cantare qualsiasi cosa o quasi. Niente fa più scandalo.
Ma passiamo ad altro. Veniamo ad oggi.
Oggi la poesia contemporanea non vende. Eppure la poesia, a mio avviso, esprime a livello esistenziale e gnoseologico meglio della canzone il mondo, la vita e l'io (compresi i suoi vuoti e le sue fratture). Oggi i giovani preferiscono i cantanti ai poeti contemporanei, anche perché questi ultimi sono più difficili da comprendere e trattano molto meno di tematiche amorose. Veniamo al primo punto.
Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall'osservazione o dalla trasfigurazione. Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva, ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel Novecento tutto forse diventa più complesso. Basta pensare a Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio . Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del Novecento l'ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l'orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli e analogie. Negli anni sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l'ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anch'essi non erano di facile comprensione. La neoavanguardia ad esempio era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l'egemonia culturale e l'estetica dominante, contro la mercificazione dell'arte. Però spesso spiazzava i lettori per il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi. Infine la poesia degli anni settanta con il neorfismo cambiava di nuovo le carte in tavola perché prendeva le distanze sia dalla neoavanguardia che dal neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico era sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: "La parola innamorata" e "Il pubblico della poesia". Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C'è anche troppa creazione, ma è scarsa la fruizione. È una poesia talvolta autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio spesso non è chiaro. Il gradimento del pubblico è scarso. I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. I libri di poesia nella stragrande maggioranza dei casi finiscono al macero. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori. Comunque oggi i poeti viventi sono sconosciuti al grande pubblico. Come sono cambiati i tempi da quando Vico scriveva che i poeti sono i primi storici delle nazioni! Oggi è innegabile che la poesia di questi anni sia in crisi e alcuni critici, appunto, l'hanno definita minimalista. La lirica di questi tempi è spesso illeggibile e non memorabile. Comunque non bisogna essere ottimisti né apocalittici. Veniamo alla questione della tematica amorosa. Petrarca è diventato anche egli uno dei più noti poeti italiani per le sue opere in latino oppure per quel Canzoniere in volgare in cui trattava dell'amore per Laura? La maggioranza dei grandi poeti deve la propria fama non tanto al proprio impegno civile o alla propria figura intellettuale quanto alla descrizione nelle opere delle loro vicissitudini amorose. Spesso c'è una figura femminile. Nei casi di Dante e Petrarca l'amore non è corrisposto, le donne muoiono e vengono idealizzate. Ma si potrebbero fare esempi in cui le cose vanno diversamente. Lo scrittore von Sacher-Masoch è diventato famoso non certo per essere un intellettuale asburgico, ma soprattutto per il suo amore per la sua moglie Wanda. Salinas non diventò noto per essere un esule spagnolo ai tempi della dittatura franchista oppure per essere un professore universitario, ma per aver scritto soprattutto "La voce a te dovuta". Nessuno sa con certezza se le muse furono all'altezza della fama alla quale arrisero. Ma in fondo non è questo l'importante. La cosa più importante è il sentimento amoroso. Ci sono anche esempi altissimi di poesia d'amore omosessuale: ai nostri tempi Pasolini, Dario Bellezza, Sandro Penna, Auden (i primi che mi vengono in mente): amori che in certe epoche potevano essere considerati diversi e quindi fonte di contrasti. Ma in poesia vengono descritti anche amori per prostitute oppure per le passanti. In letteratura tutto è possibile e niente fa scandalo. La più bella poesia di amore a mio avviso è questa: "Il più bello dei mari/ è quello che non navigammo./ Il più bello dei nostri figli/ non è ancora cresciuto./ I più belli dei nostri giorni/ non li abbiamo ancora vissuti./ E quello/ che vorrei dirti di più bello/ non te l’ho ancora detto." (Nazim Hikmet). Ma mi piace moltissimo anche il verso di Cesare Pavese: "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi". Ma nel secondo Novecento e nei primi anni del duemila pochi poeti hanno trattato in modo memorabile l'amore, a differenza dei cantautori, che descrivono da sempre i loro sentimenti amorosi senza alcun pudore. Mi vengono in mente alcuni versi riusciti di canzoni. Ad esempio De Andrè: "È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati". Oppure mi viene in mente una vecchia canzone di Vecchioni: "Io ho le mie favole e tu una storia tua". Oppure Guccini: "Io non credo davvero che quel tempo ritorni, ma ricordo quei giorni". Discorso a parte per Lolli. La generazione bolognese del '77 è l'ultima in Italia che si è posta collettivamente nei confronti della realtà. Ne va preso atto. E la colonna sonora di quel movimento del '77 era la musica di Claudio Lolli. Ecco perché Lolli, oltre al fatto di essere un poeta prestato alla canzone, è importante da ricordare. Certo era anche malinconico, ma poeta. Fin da giovanissimo scriveva ottimi testi. Ha scritto delle poesie in musica fino alla sua fine. Dispiace che non sia stato compreso e riconosciuto a sufficienza. Era visto come troppo cantautorale, troppo di nicchia. Personalmente mi piace ascoltare la musica che non è intrattenimento ma espressione artistica e Claudio Lolli nel corso di tutta la sua vita ha saputo dimostrare di essere un artista. Le canzoni di Lolli sono soprattutto politiche, ma ce ne sono alcune come "Donna di fiume" oppure "Vorrei farti vedere la mia vita" che sono belle poesie d'amore. Claudio Rocchi era mistico, però sapeva anche scrivere canzoni di amore. Piero Ciampi sapeva descrivere certe zone morte della coscienza, come ha sottolineato Maurizio Cucchi, ma sapeva anche cantare d'amore. A ogni modo molto spesso i testi delle canzoni sono stucchevoli e sdolcinati.

 

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(Nella foto il cantautore bolognese Claudio Lolli)

 

Per fare una panoramica "ampia" sulla musica leggera italiana bisogna trattare anche di Sanremo.

Su Sanremo:
Ci sono canzoni eccellenti che non hanno vinto Sanremo e che a mio avviso avrebbero meritato la vittoria come "Ciao amore, ciao" di Tenco; "Ma che freddo fa" , cantata da Nada; "Le mille bolle blu" , cantata da Mina; "Nata libera" di Leano Morelli; "4/3/1943" e "Piazza Grande" , cantate da Lucio Dalla; "L’uomo che si gioca il cielo a dadi" di Vecchioni; "Montagne verdi" , cantata da Marcella Bella; "Vita spericolata" di Vasco Rossi; "Almeno tu nell'universo" , cantata da Mia Martini; "Gianna" di Rino Gaetano; "Quello che le donne non dicono" , cantata da Fiorella Mannoia; "Il ragazzo della via Gluck" di Celentano; "Un'avventura" di Lucio Battisti; "L’Italiano" di Toto Cutugno; "Ancora" di Eduardo De Crescenzo; "Cosa resterà degli anni 80" di Raf; "Signor tenente" di Giorgio Faletti; "E dimmi che non vuoi morire" , cantata da Patty Pravo; "Timido ubriaco" di Max Gazzè; "Spunta la luna dal monte" di Bertoli e Tazenda; "Maledetta primavera" , cantata da Loretta Goggi. Mi scuso per averle citate alla rinfusa. È pacifico dire che molte di queste canzoni siano state vere e proprie vincitrici morali del festival e successivamente siano diventate dei grandi successi. Naturalmente non bisogna sopravvalutare Sanremo, che è una grande kermesse canora e non certo il “Premio Tenco”: la stragrande maggioranza delle canzoni sono semplici, commerciali e trattano quasi tutte di amore nel modo più strappalacrime possibile. Insomma è una grande gara nazionalpopolare e non bisogna aspettarsi di più. Le canzoni sono fatte soprattutto per “arrivare” subito alla gente e non hanno molto spesso la pretesa di essere poesia e talvolta nemmeno di essere espressione artistica. Il rapporto tra canzone d’autore e poesia comunque è problematico e controverso. In America non vengono fatte distinzioni tra Bob Dylan, Lou Reed, Leonard Cohen, Jim Morrison e i poeti della beat generation. In Francia cantautori come Brassens, Brel e Ferrè sono considerati dei veri poeti. In Italia cantautori come De Andrè, Edoardo De Angelis, Enzo Jannacci, Guccini, Battiato, Dalla, Paolo Conte, Edoardo Bennato, Vecchioni, De Gregori, Piero Ciampi, Claudio Lolli, Alice, Ivano Fossati, Giorgio Gaber, Enrico Ruggeri, Tenco, Ivan Graziani, Mario Castelnuovo, Vinicio Capossela, Ligabue sono riusciti a scrivere testi che hanno una certa dignità letteraria. Però non vengono considerati poeti a tutti gli effetti da parte dei critici letterari. D’altra parte in Italia il pubblico della poesia è inesistente e sono gli italianisti a decidere chi deve finire nelle antologie scolastiche. I cantautori invece godono di un grande seguito e il popolo conosce a memoria le canzoni e non le poesie: come già ho avuto modo di scrivere sono i cantanti i surrogati dei poeti al mondo di oggi. Facendo una considerazione a largo raggio ritengo che oltre alla razionalità tecnologica imperante ci sia anche una sorta di irrazionalismo strisciante, che porta tanti a credere agli oroscopi, ai maghi, alle fake news e naturalmente anche ai cantanti.
Comunque, sempre in Italia, in passato sono state fatte cose interessanti per quel che riguarda il rapporto tra poesia e musica. Baglioni ad esempio ha musicato una poesia di Trilussa ("Ninna nanna" ) e Guccini una poesia di Gozzano ("L’isola non trovata" ). Inoltre la canzone "Le passanti" di De Andrè è un testo di un poeta francese. "Il cantico dei drogati" l’ha scritta assieme al poeta Riccardo Mannerini. Lo stesso cantautore genovese ha scritto "Una storia sbagliata" in memoria di Pasolini. "Le lettere d'amore" di Vecchioni si riferisce al grande poeta portoghese Pessoa. Va ricordata anche la collaborazione tra Roversi e Dalla, durata 7 anni. Personalmente ritengo che la canzone, anche quella d’autore, possa essere considerata al massimo poesia popolare e spesso il testo, letto senza musica, non possa essere considerato a tutti gli effetti poesia. Spesso il testo della canzone non è eufonico. Inoltre quando si fanno dei raffronti tra un poeta e un cantante bisogna sempre paragonare non un singolo testo di canzone e una poesia, ma un album ad esempio di dieci brani e una intera raccolta poetica. In due o tre anni circa infatti un cantautore pubblica un album e nello stesso arco di tempo un poeta pubblica una raccolta. Una singola canzone o una singola lirica sono sempre troppo poco per giudicare. Bisogna invece considerare la totalità delle creazioni di un determinato periodo di tempo. Bisogna considerare non solo il testo ma anche l’unità macrotestuale. Ritorniamo però al festival. La stragrande maggioranza di noi spesso si dimentica chi ha vinto a Sanremo, mentre invece si ricordano di più certi piccoli scandali, verificatesi nell’evento, come ad esempio la vista del seno di P. Kensit e la farfallina di Belen Rodriguez. Sanremo è anche gossip e varietà. Sanremo non è solo cultura pop, ma anche un fatto di costume. I mass media di solito considerano la riuscita o meno di un festival dallo share e in base a questo valutano il conduttore e il direttore artistico, che talvolta sono la stessa persona. Dicevo prima che le canzoni di Sanremo peccano troppo di sentimentalismo. La poesia contemporanea oggi considera invece le questioni amorose come banale autobiografismo e stucchevole diarismo. A mio avviso la verità sta nel mezzo. Non bisognerebbe edulcorare troppo i propri sentimenti come accade nelle canzoni, che sono pensate e scritte per un pubblico adolescente o comunque giovane. Non bisognerebbe però razionalizzare, intellettualizzare troppo la poesia di oggi. La poesia infatti è la più alta forma di intelligenza verbale ma anche emotiva. Anche grandissimi poeti come Saffo, Catullo, Dante, Petrarca, Montale, Neruda e Salinas hanno scritto poesie d’amore. Molto spesso alcuni poeti e alcune poetesse hanno raggiunto la fama imperitura grazie a canzonieri in cui venivano descritte le loro pene e i loro sentimenti amorosi. Nella poesia odierna forse non si trattano più i sentimenti amorosi perché ancora pesa uno stilema neoavanguardista, ovvero quello di “riduzione dell’io”, come se la poesia dovesse essere sempre neo-oggettuale e ogni componimento poetico non dovesse essere la risultante equilibrata di una interazione tra io e mondo. Nella poesia odierna forse non viene trattato il sentimento amoroso perché sempre per la neoavanguardia bisognava evitare ogni intimismo. Nel frattempo la poesia è sempre più un genere marginale e non è certo colpa della neoavanguardia. Cosa fare allora? Quale è il rimedio? Per il poeta Giovanni Raboni bisogna evitare «l’idea della poesia come valore alto se non addirittura supremo, come sinonimo e emblema di nobiltà, di superiorità, d’eccellenza»[18]. Nel Novecento invece la poesia è diventata una signorina algida, fredda, snob e troppo intellettualistica. La poesia per essere tale deve cercare di “toccare il nadir e lo zenith” della sua “significazione”, per dirla alla Luzi, deve cioè descrivere i meandri più oscuri della psiche e nominare il mondo. Ma è anche vero che «niente è così facile come scrivere difficile», come scriveva il filosofo Karl Popper. Chi ha una visione del mondo dovrebbe riuscire sempre a semplificare senza essere semplicistico. Molto spesso invece nella poesia contemporanea vengono complicate persino le cose semplici e rese incomprensibili le cose complesse. I poeti di oggi snobbano Sanremo, ma avrebbero bisogno di piccole dosi omeopatiche di questo festival. Gli farebbe bene ascoltare qualche canzone. Sappiamo che la scrittura a differenza dell’oralità è, per dirla con Vygotskij[19], «un linguaggio per un interlocutore assente» ed è un atto “fonologico”, maggiormente articolato e privo di intonazione. Inoltre la poesia è una forma particolare di scrittura perché già con il Pascoli ad esempio veniva privilegiata la conoscenza alogica e analogica. Insomma i poeti cercavano una strada prerazionale. È altrettanto vero però che molti oggi imitano Zanzotto e Amelia Rosselli, scrivendo più per sé stessi che per gli altri; scrivono infarcendo le loro poesie di citazioni colte; scrivono per una ristrettissima cerchia di eletti. Il loro è un linguaggio per allusioni. È un linguaggio criptico. La lirica invece dovrebbe ricercare la validità universale. Per Nietzsche uno solo ha sempre torto e soltanto con due persone inizia la verità. Sempre per il grande psicologo russo Vygotskij «la verità è un’esperienza socialmente organizzata». Da soli si delira. Bisogna rivolgersi agli altri per avere una presa di coscienza. Le canzonette di Sanremo, a differenza di molte poesie di oggi, forse sono scritte da autori furbastri; però hanno una notevole capacità comunicativa, anche se forse la maggioranza di esse non sono arte. Insomma il mattone non è più un investimento. I soldi non sono più sicuri in banca. I cittadini chiedono più sicurezza. La crisi ha impoverito molti. Un titolo di studio umanista talvolta è un ostacolo per trovare un posto di lavoro. Alle elezioni il primo partito è senza ombra di dubbio quello degli astensionisti e la vittoria è decisa invece da coloro che nei sondaggi si dichiarano indecisi, che solitamente appartengono all’elettorato moderato. I politici, nonostante tutto, continuano a promettere l’impossibile. Milioni di italiani però, nonostante tutti questi problemi, si fermano e si incollano davanti ai televisori per cinque serate per commentare le canzoni. La comunità poetica invece lo snobba totalmente: eppure tutti avremmo bisogno ogni tanto di essere riportati all’essenziale. I poeti in definitiva devono scegliere se mettere un poco di ordine o aggiungere disordine a una letteratura come quella attuale già troppo confusionaria, caotica e dispersiva. Non chiedo certo di dare una definizione esaustiva della poesia o dell’arte, che sarebbe come assiomatizzare l’ineffabile. A tal proposito ho una unica certezza a proposito dell’arte, ovvero ‒ come scrisse Henry Miller ‒ che «non dovrebbe insegnare nulla, tranne il senso della vita»

 


Note
[1] Ecco un articolo divulgativo di uno specialista sulla Musicoterapia:
https://www.psicologo-milano.it/newblog/musicoterapia-peculiarita-e-ambiti-di-applicazione/
[2] Le radio Vintage sono stazioni radio, che trasmettono musica dei decenni passati, di solito dagli anni sessanta agli anni novanta. Per radio Vintage si può anche intendere (ma non è questo il caso) degli apparecchi radio dei decenni passati.
[3] Guardare video di canzoni su YouTube non è reato. Lo diventa se il materiale viene diffuso e commercializzato. Se il materiale su YouTube è protetto da diritto di autore a pubblicarlo sul proprio canale YouTube o a diffonderlo via social si può incorrere come minimo in un reclamo o al massimo in un illecito civile. Non sono assolutamente un esperto. Ho fatto però delle ricerche. Per capire se un video è protetto da copyright ecco un link:
https://www.aranzulla.it/come-capire-se-un-video-e-coperto-da-copyright-1165602.html
Se si vuole convertire il video musicale di YouTube in file mp3 ecco la consulenza di uno studio legale:
https://www.studiocataldi.it/articoli/24102-scaricare-musica-da-youtube.asp
[4]https://it.m.wikipedia.org/wiki/Rimasterizzazione#:
[5] https://www.wireshop.it/magazine/bluetooth-cos-e/
[6] Per major si intendono le principali case discografiche (o etichette discografiche), che promuovono e distribuiscono musica leggera nel mondo. Il mercato mondiale discografico è concentrato in poche mani.
[7] Per musica indie si intende la musica alternativa, indipendente, prodotta dalle case discografiche più piccole. Ecco un elenco di artisti italiani indie:
http://www.musicaindieitaliana.com/lista-incompleta-delle-band-e-cantautori-indie-italiani/
[8] Il saggio breve si intitola "Il carattere di feticcio in musica" in "Dissonanze" di Adorno (Feltrinelli, Milano, 1990)
[9]https://www.losbuffo.com/2018/03/22/canzoni-contrario-satana-droga-illusione/
[10] A proposito di divertimentifici, ho letto che le discoteche erano in crisi, già da prima del Coronavirus. Prima ancora che venissero chiusi per il Coronavirus, i locali notturni erano in crisi in Italia per i problemi/costi legati alla sicurezza e per la tassazione. Ma forse il loro vero problema è che non vanno più di di moda. Sembra che i social network e YouTube abbiano colonizzato gran parte del tempo libero giovanile e secondo gli esperti abbiano mutato radicalmente i concetti di aggregazione e amicizia. Un tempo le discoteche erano l'unico luogo di ritrovo della mia generazione. I giovani sfogavano le frustrazioni della settimana nelle discoteche. Molti giovani nutrivano grandi aspettative per il sabato sera. In quel mondo contavano soprattutto le belle auto, l'aspetto fisico e l'abbigliamento, visto e considerato che qualsiasi forma di dialogo era soffocata dalla musica. Tutti in pista a fare quattro salti per cuccare la bella di turno. Non potevi non andare in discoteca perché altrimenti eri un emarginato. Per gli altri eri uno sfigato. Ti toccava anche fingere di gradire quella musica. Ti dovevi far piacere quel mondo per non passare male.
[11] https://it.m.wikipedia.org/wiki/Spotify
[12] https://www.argoserv.it/generazione-x-y-z-c
[13] I trapper, in parole povere e semplificando, sono rapper che usano un linguaggio più crudo. Per alcuni sono diseducativi. Talvolta trattano tematiche di attualità e nei loro testi talvolta ci sono sprazzi poetici. In ogni modo, come per la musica indie, anche i trapper riescono ad avere una certa genuinità. I più conosciuti trapper italiani sono Sfera Ebbasta, Ghali e la Dark Polo Gang.
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Trap_(genere_musicale)
[14]https://www.agi.it/spettacolo/musica/che_cosa_ilreggaetone_qual_il_segreto_del_suo_successo-2123231/news/2017-09-05/
[15] Per showbiz si intende il mondo dello spettacolo, il mondo del business ma anche il web. C'è un elite di influencer e una gran massa di influenced: questo è il mondo ad esempio dei social media. Sono poche le voci critiche, che vengono sopraffatte dal marasma dei vip, degli hater, dei troll. Non esistono più sfumature di grigio. Si ama o si odia senza riserve senza discernimento. I vip però non dovrebbero lamentarsi troppo degli hater. Grazie allo stesso sistema possono guadagnare grandi cifre su Instagram senza fare niente. Anni fa era peggio. Perfino Tonino Carino fu attenzionato dalle Br. E che dire delle contestazioni ai cantautori negli anni settanta? Oggi va molto meglio ai vip. Gli italiani si sono impoveriti, ma i vip guadagnano belle cifre senza particolari meriti. Oggi essere vip è come essere nobili un tempo: si gode di molti privilegi, che vengono ereditati dai cosiddetti figli d'arte. I figli d'arte ad esempio hanno centinaia di migliaia di follower su Instagram senza aver alcun merito e senza aver fatto alcun sacrificio. Non si lamentino troppo i vip. Non solo ma va detto che talvolta il mondo dello spettacolo etichetta/categorizza come hater persone che fanno critiche negative e ostili senza essere offensive. È vero che su internet non dovrebbe essere garantito l'anonimato. È vero che ci sono anche stalker che perseguitano per anni i vip. È vero che ci sono persone disturbate psicologicamente ossessionate dai cosiddetti vip. Ma è altrettanto vero che anche lo showbiz oltre allo Stato stabilisce il suo ordine del discorso per dirla alla Foucault. Detto in termini semplici, chi critica talvolta i vip viene talvolta considerato un invidioso, un poveretto, un megalomane, un pazzo, un hater oppure un molestatore a prescindere e non è assolutamente detto che lo sia. Chi critica i vip è automaticamente out. Non si guarda alle qualità delle argomentazioni del critico. Lo si attacca subito in modo destabilizzante. Gli si fa causa penale e civile. Ma chi sono i vip? Per Galeazzi i vip sono quelli che stanno nel vippaio. Per lo showbiz i vip sono le vallette e i calciatori. Sono personaggi pubblici coloro che hanno avuto passaggi televisivi. Ma è solo una strategia da parte di chi dirige i mass media per distrarre le persone e non fargli sapere cosa accade nelle stanze dei bottoni. Ci sono persone molto potenti, che sono poco conosciute al grande pubblico. Lo showbiz stabilisce il suo ordine del discorso. Stabilisce cosa è giusto e cosa no, cosa è lecito e cosa no. Lo show business, intriso come è di darwinismo sociale, narra i sacrifici di chi ce l'ha fatta e si dimentica i sacrifici di chi non ce l'ha fatta. Certe showgirl dicono che fare sacrifici sia trasferirsi a Roma o Milano, andare in palestra, tenersi a dieta. Altri personaggi televisivi affermano che non si può criticare negativamente le loro trasmissioni perché in questo modo non si rispetta tutte le persone che vi lavorano dietro le quinte. Seguendo questo principio non si potrebbe criticare neanche Hitler o Stalin, che come si sa davano lavoro a molte persone. Infine la ciliegina sulla torta: viene diffusa l'idea che chi è vip ha qualità straordinarie, quando invece spesso i vip sono tali perché il pubblico si rispecchia nella loro mediocrità. Anche questa è una mistificazione della realtà. Anche questo tipo di narrazione deformata rientra nella istituzione di un ordine del discorso. Lo showbiz pensa per noi. È vietato pensare con la propria testa. Stabilisce i gusti, le mode, gli stili i tormentoni. Personalmente ce l'ho con le idee fisse e contro lo strapotere dei vip, che ancora oggi talvolta si comportano da lestofanti. I vip, ad esempio, spesso non pagano al ristorante ed allo stadio.
[16] Venditti ha dichiarato che talvolta De Gregori e De André andavano ai suoi concerti per criticarlo sommessamente in quanto i suoi testi erano considerati dai due meno letterari e più commerciali. Vecchioni prese in giro De André in “Belle compagnie” (“Chi è il più anarchico del reame?"), anche se poi diventarono amici. E che dire di ciò che cantava in “Via Paolo Fabbri 43” Guccini? In quella canzone prendeva in giro i testi di altri cantautori. Cito testualmente: “La piccola infelice si è incontrata con Alice a un summit per il canto popolare. Marinella non c’era, fa la vita in balera e ha altro per la testa a cui pensare, ma i miei ubriachi non cambiano soltanto ora bevon di più e il frate non certo la smette per fare lo speaker in TV”. Malignità oppure ironia e anche autoironia? Jannacci in fondo criticava l'intera categoria in "I poveri cantautori". Senza ombra di dubbio niente però a che vedere con le cattiverie e l’ostracismo che il mondo dello spettacolo riservò a Mia Martini.
[17] Allo stesso tempo sono sfuggite alla censura canzoni come “Il triangolo” di Renato Zero, “Il Kobra” di Donatella Rettore, “Colpa d’Alfredo” di Vasco Rossi, “Pensiero stupendo” di Patty Pravo, “Comprami” di Viola Valentino, “America” di Gianna Nannini, “Disperato, erotico stomp” di Lucio Dalla. Una canzone reazionaria come “Chi non lavora non fa l’amore”, cantata da Celentano e Claudia Mori, naturalmente vinse Sanremo e suscitò polemiche politiche, ma non venne mai censurata da nessuno.
[18] "La poesia che si fa. Critica e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004" di Giovanni Raboni (Garzanti, Milano, 2005)
[19] "Pensiero e linguaggio" di Lev S. Vygotskij (Giunti, Firenze, 2007)

 

 

 

 

Due parole su amicizia e stima tra letterati e poeti, veri o presunti

mag 202023

 

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Nel mondo letterario si parla tanto di mafia culturale ed è a mio avviso un termine inappropriato perché la vera mafia si spartisce grandi quantità di soldi e tanto potere, mentre la comunità letteraria ad esempio si spartisce solo le briciole e sono tantissimi i galli nel pollaio. Non è quindi tanto la modalità o la tipologia ma lo scarso giro di affari e il mercato di vacche magre a rendere la cultura poco mafiosa. A essere malevoli si può parlare di mafia culturale, intendendo una mafia con la m minuscola (che non uccide le persone ma la vera cultura), quella dei favoritismi, degli abusi di potere, delle ingiustizie, dei privilegi, delle cattedre per nepotismo, clientelismo, etc etc. Insomma la mafia culturale è una mafia non solo da colletti bianchi ma anche da innocui dilettanti, che però dovrebbero dare per primi il buon esempio e invece non lo danno. Non solo ma il circolo virtuoso d'un tempo non esiste più, perché non necessariamente il prestigio culturale dà prestigio sociale e il prestigio sociale dà soldi. C'è chi sostiene che l'amicizia tra poeti o tra letterati, quella vera, non esista, ma esista solo quella interessata (insomma scambi di favori, do ut des, etc etc). I letterati dovrebbero stimarsi e poi diventare amici, mentre accade spesso che prima diventano amici e poi si stimano, ma poi è vera stima? Ancora una volta viene da chiedersi se esiste la stima disinteressata o soltanto nell'Iperuranio. L'importante, realisticamente parlando, non è la stima effettiva ma quella percepita: ricordate l'immanentismo di Berkeley, ovvero l'essere è essere percepito? Anche qui la stima è la stima percepita e così l'amicizia. Che poi si può stimare chi non si dimostra amico veramente? Si può stimare chi non ci stima e nutre un'idiosincrasia nei nostri confronti? Quanto sforzo ci vuole? Ci vorrebbe un'invidiabile obiettività e imperturbabilità d'animo, che pochissimi hanno francamente. Allo stesso tempo ci vuole imperturbabilità d'animo, stoicismo, grande correttezza nello stroncare un amico o dirgli anche solo privatamente che non ci piace il suo libro. Di solito uno non stronca e non esprime giudizi negativi per quieto vivere, per evitare rappresaglie e vendette. Poi ci sono le alleanze non solo tra sodali apparentemente disinteressati, ma anche tra letterati della stessa città, della stessa casa editrice, dello stesso partito, della stessa università. Quanti attestati di stima sono falsi e inautentici? Quanta disistima viene taciuta per interessi di ordine superiore, per cause di forza maggiore? Viene naturale per amor proprio stimare chi dimostra di stimarci, ma è molto difficile, quasi impossibile il contrario. Se qualcuno ci dimostra stima, finiamo per vedere di primo acchito solo i suoi punti di forza e i suoi lati positivi. Allo stesso modo se un genio ti critica finisci per cercare difetti, per trovare il pelo nell'uovo e sminuirlo. Ci vuole molta umiltà, assennatezza, modestia per accettare serenamente delle critiche, anche perché purtroppo anche nel mondo letterario a pensare male si fa peccato ma ci si indovina sempre e dietro a delle critiche o a delle stroncature c'è quasi sempre un motivo personale o ideologico, perché di solito i letterati non cercano guai e hanno un atteggiamento conciliante. Di solito il meccanismo è semplice. Queste sono le tattiche messe in atto dai letterati: se tu mi stimi, io ti stimo; se tu non mi stimi, io non ti stimo; se tu mi attacchi, io ti attacco; se tu non mi pesti i piedi, io non ti pesto i piedi. Di solito viene evitato l'attacco fine a sé stesso, la polemica sterile. Al contempo nessuno fa niente per niente, quasi niente viene fatto gratuitamente, a meno che a uno non gli importi niente di fare carriera letteraria (come me del resto), e chi fa un piccolo favore vuole essere ricompensato prima o poi. Esiste inoltre la polemica a distanza senza fare i nomi (si dice il peccato ma non il peccatore e anche si dice a nuora perché intenda suocera). Come se non bastasse l'amore e il sesso complicano tutto terribilmente. È tutto semplice fino a quando un genio come Giovanni Raboni si mette con un genio come Patrizia Valduga e scrivono poesie immortali, ma come la mettiamo con i compromessi sessuali o anche con le aspiranti poetesse sopravvalutate, proprio perché amate da un grande letterato? Come saggiamente cantano i Baustelle: "Perché l'amore rende ciechi se c'è e non distingui Sylvia Plath da un parassita". Tutte queste cose facevano dire alla Merini che il mondo dei poeti non è poi così male, ma è terribile il sottobosco poetico. Concludendo, sono due le scuole di pensiero a riguardo della mafia culturale: 1) c'è sempre stata, c'è, ci sarà ed è universale 2) è un male, un malcostume prettamente italico.
Nel frattempo la psicologia e la sociologia di poeti, scrittori, letterati italiani è molto semplice, quasi elementare, a tratti pavloviana procede per riflessi condizionati, a tratti risente del condizionamento operante con rinforzi positivi e negativi, e soprattutto è fatta di una buona dose di egocentrismo, vanagloria e meschinità, ma qualcuno obietterà che funziona così in tutti i settori e fa parte della natura umana. Basta lisciare il pelo o infastidire il letterato per vedere reazioni spropositate. L'ego dei poeti infine è ipertrofico, vuoi spesso per disturbo di personalità di base, vuoi per per troppe frustrazioni; basta davvero poco per essere amati oppure odiati, con l'aggiunta di un piccolo particolare da tener presente: se lodi un poeta lo ritiene un atto dovuto e dopo qualche giorno si scorderà di te, se invece lo critichi negativamente ti odierà a vita e se la legherà per sempre al dito (basta togliere un'amicizia o bloccare qualcuno su Facebook per essere odiati a vita per lesa maestà e queste ragioni prettamente personali non hanno niente a che vedere con la poesia né con la letteratura). Che poi niente è certo nel mondo letterario. Chi può davvero stabilire con certezza se tizio o caio è un poeta? Lo stabiliranno solo i posteri. In matematica di un un insieme si può stabilire con certezza se un certo elemento ne fa parte oppure no. In letteratura è men che meno in poesia questa certezza non c'è. Ogni autore, ogni poeta subisce un processo. Ai contemporanei spettano solo le indagini preliminari, ma la vera corte di cassazione sono i posteri, se i posteri ci saranno.

Sull'utilità, sul senso di scrivere, sul contenuto di verità, passando per De Carlo, Tondelli, Orwell, Rilke...

apr 252023

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"Malinconie discrete che non sanno star segrete,

le piccole modeste storie mie,

che non si son mai messe addosso il nome di poesie,

amiche mie di sempre, voi sapete!

Ebbrezze conosciute già forse troppe volte:

di giorno bevo l' acqua e faccio il saggio.

Per questo solo a notte ho quattro soldi di messaggio

da urlare in faccia a chi non lo raccoglie."

("Canzone delle situazioni differenti" di Francesco Guccini)

 

 

 

 

 

 

Ha più senso oggi scrivere? Ha più senso scrivere una silloge poetica, se la leggeranno solo pochi e per di più quasi solo aspiranti e sedicenti poeti? Ha più senso oggi scrivere romanzi o racconti quando pochi vogliono leggere storie e allo stesso tempo si registra uno scadimento generale, perché chiunque ha una storia da raccontare, magari quella della sua vita, e moltissimi si sentono in diritto, quasi in dovere di scriverla, visti e considerati l'aumento della scolarizzazione, la diffusione esponenziale di programmi di videoscrittura e l'università di massa? Probabilmente nella storia dell'umanità di libri ne sono già scritti troppi; i grandi capolavori sono già stati tutti scritti; nessuno uguaglierà o supererà Omero, Dante o Shakespeare. Da giovane un mio ex amico mi disse che trovava molto interessanti gli input di un manuale di psicologia sociale che gli avevo regalato, ma mi chiese anche a cosa servisse leggere i romanzi, ad esempio come quelli di Andrea De Carlo. Io rimasi un poco interdetto e poi mi arrampicai sugli specchi, risposi che De Carlo descriveva bene la Milano degli anni '90, la sua vita frenetica, la carambola degli incontri. Allora lui efficacemente controbattè che i personaggi dei romanzi di De Carlo erano tutti liberi professionisti, artisti, intellettuali, insomma borghesi. Io risposi che comunque era anche quello uno spaccato della realtà, che De Carlo non faceva sconti a nessuno, tanto meno alla sua classe sociale di appartenenza. Risposi che anche i personaggi di Moravia, tranne poche eccezioni come la ciociara, erano altoborghesi, eppure nei suoi libri c'era molta verità, anche se solo della verità dell'umano e della Roma da lui vista e vissuta. Aggiunsi che De Carlo era un bravo scrittore, a volte commerciale, ma comunque spesso criticato per invidia, per partito preso, perché ad alcuni non andava giù che avesse avuto successo. Continuai dicendo che leggendo letteratura o comunque narrativa si migliora il nostro italiano e si arricchisce il nostro vocabolario; gli spiegai cosa volesse dire Tondelli quando scriveva che la letteratura contemporanea serve per "ritestualizzare il mondo". Gli dissi che a volte ci sono scrittori che dicono cose nuove oppure che dicono le stesse cose in modo nuovo, che hanno una sorta di sguardo obliquo sul mondo. Ma lui mi riportò subito alla realtà concreta e non soddisfatto rispose che faceva l'operaio, che per lui certi romanzi erano una perdita di tempo. Insomma con poche parole voleva dirmi che non aggiungevano niente al suo mondo interiore, alle sue conoscenze pratiche, alla decifrazione e alla lettura del mondo circostante. E me lo diceva in modo molto franco e onesto, se vogliamo crudo. Si noti bene: quello di Andrea De Carlo era solo un esempio perché non sono un detrattore né un ammiratore dello scrittore milanese (l'ho rammentato perché molti lo conoscono). Estendendo il discorso, anche le scienze umane quale apporto danno in fondo alle nostre conoscenze, se dimostrano spesso delle ovvietà oppure se scoprono delle cose controintuitive, che a molti risultano opinabili? Non a torto alcuni scettici, disfattisti e nichilisti potrebbero ritenere che la conoscenza che deriva da ogni branca dell'umanesimo sia maieutica e quasi tautologica. Però io a tal riguardo obietto questo: che una cosa sia facile da capire non significa che sia facile da scoprire, che una realtà che hanno sotto gli occhi tutti solo pochi sono in grado di rappresentarla, descriverla e in questo mondo ci vuole anche chi descriva una realtà o racconti o si inventi una storia. In definitiva per me essere semplici o dire cose semplici non significa essere facili o dire cose facili. Fatta questa premessa, risultano sempre più fuori dal mondo e deliranti quei poeti, veri o presunti, aspiranti, sedicenti o effettivi, che pensano che la loro arte sia necessaria, addirittura un dono a un pubblico inesistente, a un popolo bue, che si ostina a non capirli. Può darsi invece che loro non abbiano niente di nuovo da dire sul mondo e al mondo. Può darsi che le loro parole non abbiano più forza eversiva o meglio non abbiano più forza alcuna. Non rallegri a questo proposito il fatto che ci siano molti blog di poesia e che alcuni vengano visitati: molto spesso vengono visitati solo da aspiranti poeti, che a loro volta li visitano solo per proporre i loro versi alle redazioni di quei siti. E poi ad aprire un blog di poesia, che spesso ha vita breve, non servono grandi competenze, grande talento, grandi curriculum, grandi referenze. È ammirevole lo sforzo profuso da molti, ma non andiamo oltre e voliamo basso, rasentando terra, come cantava Bob Dylan. Infine forse non ha alcun senso scrivere, se non si è pagati. Quelli capaci e/o furbi scrivono canzoni, per la televisione o per il cinema. Non ha alcun senso spedire quotidianamente il proprio messaggio nella bottiglia nel mare magnum del web. Gli italiani leggono solo libri di intrattenimento oppure testate giornalistiche online per aggiornarsi gratuitamente. A onor del vero non comprano neanche più quotidiani. E allora c'è poco da autoesaltarsi o da vantarsi per un libro pubblicato a pagamento o comunque presso una piccola casa editrice. Non tutti gli scrittori e non tutti i poeti hanno il coraggio e la capacità di trovare la verità dentro di sé e nel mondo circostante, a volte non la cercano neppure, e pochi lettori hanno la capacità e la voglia di raccoglierla questa verità. Chi vuole scrivere dovrebbe farlo, nonostante tutto, con un minimo di pragmatismo, di umiltà, a capo chino, soprattutto scribacchiando le sue cose nel web, quasi esclusivamente nel web. E non dovrebbe scrivere per vanità, per profitto o per personal branding. Con la letteratura è molto difficile campare. Campare facendo gli scrittori è quasi un'utopia. Non si dovrebbe scrivere per trovare un proprio posto nella società: si finirebbe disillusi, disperati e/o sul lastrico. Consiglio a tutti gli aspiranti o sedicenti scriventi che hanno troppe albagie di leggere o rileggere sempre "Fiorirà l'aspidistra" di Orwell e "Lettere a un giovane poeta" di Rilke. In quest'ultima opera il grande poeta scriveva che per scrivere e per trovare le vere ragioni, le vere motivazioni della nostra scrittura bisogna innanzitutto guardare dentro di noi. Questa è la più grande verità che sia stata scritta per coloro che vogliono fare arte. 

 

Due parole su arte, vita, piccole meschinità...

apr 122023

 

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Scriveva Bukowski che nessun uomo è forte come le sue idee. Ho appena passato mezzo secolo e conosco un minimo la natura umana per sapere quanto avesse ragione. Da giovani molti hanno grandi ideali, che puntualmente tradiscono con azioni riprovevoli. È così facile cadere e/o ricadere. Non parlo moralisticamente di peccati o vizi (non pensiamo solo al sesso, che è poca cosa, un peccato veniale, se non viene fatto male ad altri), ma di errori in senso lato nella vita e di come è facile ricadere nei soliti errori, insomma essere recidivi. Ho conosciuto persone che da giovani volevano condurre una vita irreprensibile e dopo hanno sconfessato totalmente i loro ideali. Vale sempre per tutti il detto: "Soldi e santità, la metà della metà". Ma conosco anche un poco la comunità poetica e a volte mi chiedo quanto sia difficile per un artista non solo non tradire i suoi valori, ma vivere all'altezza delle sue parole. Spesso anche i poeti, i sedicenti e aspiranti tali si rovinano il fegato in piccolezze (meschinità, grettezza d'animo, invidia, gelosia, frustrazione, complessi di superiorità dietro a cui si celano complessi di inferiorità come insegna Adler, vanagloria, presunzione, smania di grandezza, egocentrismo, etc etc). Insomma sembra una cosa banale, però non sempre c'è correttezza nei rapporti umani (dallo scambio di favori, al compromesso sessuale, alla recensione pretesa come atto dovuto, alle alleanze interessate, all'arruffianamento, alla polemica sterile per ottenere visibilità). Che poi non si sa bene dove inizi e dove finisca la comunità poetica, né si sanno con certezza i criteri con cui si stabilisce che uno ne faccia parte o meno! Si ritorna al solito binomio arte e vita, letteratura e vita. Come faceva dire D'Annunzio ad Andrea Sperelli: «Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte». Più recentemente anche il sociologo Bauman ha scritto che bisogna fare della nostra vita un'opera d'arte e lo scriveva senza alcuna traccia di superomismo. Ma spesso in passato si voleva che l'artista desse il buon esempio con la sua condotta di vita, che fosse di specchiata moralità. Se questa regola fosse valida per tutti allora avrebbero ragione quelli del politically correct e anche quelli della cancel culture a rimuovere opere e artisti discutibili. Ma ci sono molti casi limite. Lo stesso D'Annunzio e molti futuristi non erano forse dei guerrafondai? Caravaggio non era forse un assassino? Althusser non strangolò forse la moglie che voleva lasciarlo? Dovremmo cancellarli, rimuoverli? E la lista potrebbe continuare. Senza andare troppo indietro negli anni e limitandosi al mondo dello spettacolo italiano basta ricordare il presunto scandalo di Mina, che era incinta e non sposata. C'è vita nell'arte e arte nella vita. L'arte a onor del vero si dovrebbe occupare della vita. L'arte dovrebbe imitare la vita, riprodurla, tradurla, trasfigurarla, invece del contrario. Il grande Carlo Bo scrisse che la letteratura dovesse essere come la vita. Ma era giovane e non ne poteva più degli intellettuali succubi del fascismo. All'epoca si doveva prendere le distanze da certi compromessi e si doveva indicare una nuova strada maestra. Alcuni decenni più tardi lo stesso Bo scrisse invece: «Il critico deve tenere conto della vita dello scrittore oppure deve limitare la sua indagine soltanto ed esclusivamente all'opera? La questione è antica: per il maestro di tutti, Sainte Beuve, la conoscenza della vita era più che utile, insuperabile. Per altri, a cominciare da Croce e da Proust, se ne poteva fare a meno, anzi era bene stringere lo studio alla valutazione pura dell'opera». La critica biografica purtroppo sopravvaluta la vita e considera poco le opere di un artista. La critica biografica pone troppo l'accento sulla sessualità di un artista e alimenta la pruderie, se non addirittura cerca lo scandalo. Da Freud in poi questo filone della critica spiega le opere in base alla sessualità di uno scrittore, un poeta, un pittore. Ma è davvero necessario? Un poeta dovrebbe essere considerato soprattutto per la sua arte e invece spesso si finisce per ricordarlo solo per i dettagli scabrosi o anche solo piccanti della sua vita. A mio avviso la morale sessuale, a meno che uno non sia uno stupratore o un pedofilo, dovrebbe passare in secondo piano. Certamente si dovrebbe guardare più all'etica e meno alla moralità sessuale in senso stretto. C'è una scuola di pensiero, nata dai poeti maledetti, che basa tutto sulla distinzione tra borghese e artista: all'artista sono concessi certi eccessi, però perde la rispettabilità borghese, a meno che non si penta e ritorni nell'ovile come una pecorella smarrita. Un pregio della comunità poetica è che Pasolini è stato per nostra fortuna uno scandalo vivente e chi veniva dopo ha imparato a non scandalizzarsi mai. Almeno i poeti più avveduti e meno cretini si salvano così dal perbenismo moralistico, tanto presente nella mentalità comune. Vecchioni comunque in una canzone dedicata alla Merini scrive: "Basta un niente per essere felici. Basta vivere come le cose che dici". Ma quanti ci riescono veramente? Quasi nessun poeta, se conosciuto realmente, è all'altezza dei suoi versi, che sono la parte più pura di sé; il critico dovrebbe considerare quanta purezza c'è a suo avviso nella parte più pura di un poeta, ovvero in un'opera. La vita di un artista dovrebbe essere considerata spesso come materiale spurio, grezzo, addirittura in molti casi irrilevante. Invece si è giunti spesso all'eccesso opposto, ovvero a un eccessivo psicologismo, a considerare un'opera come un test proiettivo di personalità. Si ritorna alla celebre frase hegeliana che nessun eroe è tale per il suo cameriere. Oggi più che la vita di un autore interessa il personaggio che riesce a far credere di essere. Oggi uno scrittore deve crearsi un personaggio, diventare riconoscibile, adirittura inconfondibile più con la sua figura che con il suo stile. L'importante a ogni modo è salvare la faccia e le forme, dare un'ottima impressione di sé, fare una bella figura perché anche i poeti, veri o presunti, al mondo d'oggi vivono di apparenza e immagine. E allora avremo il poeta che si vanta delle sue conquiste femminili, dei suoi premi, dei suoi consensi, delle sue pubblicazioni. Avremo poeti che sminuiscono altri poeti per affermare sé stessi, che dicono di essere invidiati da tizio, che dicono che caio è un pazzo o che sempronio è un poveretto. Oppure avremo delle poetesse che scimmiottano le veline perché oggi per essere, per esistere, per essere accettati bisogna fare così e l'apparire diventa non più il mezzo ma il fine. Salvo poi di meschinità in meschinità, di snobismo in snobismo, di presunta selettività in presunta selettività, di pretesa esclusività in pretesa esclusività, di malcelato disprezzo in malcelato disprezzo ritrovarsi a non vendere i propri capolavori e maledire il popolo bue che non sa apprezzare cotanto talento e tanta originalità!

 

Ancora una breve riflessione sulla poesia contemporanea, troppo cerebrale...

apr 012023

 

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Prima arrivano le immagini e la musica, poi le parole scritte. Così forse in una frase si potrebbe riassumere quello che sta accadendo alla poesia contemporanea italiana. Ma è solo questo? Il celebre Vittorio Sgarbi nella sua prima apparizione al Maurizio Costanzo Show dichiarò che la stragrande maggioranza dei pittori non erano intellettuali. Disse che lui di solito spiegava a loro il significato dei quadri. Era come se la pittura trascendesse gli artisti. Era come se fossero ignari di quello che stavano facendo. Non so se sia vero. Lo prendo per buono, vista e considerata la grandissima competenza in materia di Sgarbi. Erano gli anni Ottanta. Forse oggi le cose sono cambiate, dato che ci sono nell'arte contemporanea molti artisti concettuali e molti registi che fanno installazioni. Ma ancora oggi possono esistere pittori naif, pittori per dirla alla buona tutti inconscio. La stessa cosa non può avvenire nella poesia contemporanea, dove ci deve essere una sintesi tra conscio e inconscio e dove talvolta si cerca di rimuovere l'inconscio. Nell'arte contemporanea l'intellettualità è lasciata in modo preponderante ai critici d'arte. Diciamo che un pittore o uno scultore possono conoscere e metabolizzare tutta l'arte passata, tutta la tradizione in modo inconscio, mentre i poeti devono apprendere e rielaborare soprattutto consciamente. La grande poesia del Novecento, ad iniziare da Eliot e Pound per finire con il gruppo 63, è stata tutta intellettuale. Difficile stabilire i motivi per cui la poesia è più mediata dalla ragione, dalla lucidità, dalla coscienza. Oserei affermare che conti di più la poetica della poesia. Forse è solo questione di Kunstvollen, ma è difficile fare il processo alle intenzioni, alla volontà, dato che esiste sempre l'eterogeneità dei fini anche nell'arte. Ho scritto all'inizio che le immagini arrivano prima, forse perché siamo nella cosiddetta civiltà delle immagini e quindi queste acquistano priorità assoluta, forse invece perché la cosiddetta "emozione retinica" di un quadro o di una scultura arrivano prima, colpiscono di più il fruitore. Forse la fruizione di un quadro o di una scultura è più diretta, più immediata, più accessibile a tutti. Anche se un fruitore ignorante di un quadro non può spiegare esattamente quello che prova a vederlo, comunque quell'opera gli suscita una emozione, gli smuove qualcosa dentro. La poesia contemporanea invece non provoca più shock, non disturba i lettori, né li incanta o li suggestiona più. Questo probabilmente perché il pubblico non è educato al gusto, non riesce a cogliere più la poesia autentica, ma solo i suoi surrogati. Oppure forse questo può accadere anche nell'arte contemporanea, dove un pubblicitario come Oliviero Toscani e un artista come Cattelan spesso sembrano scambiarsi i ruoli? Chissà?!? Ai poeti è chiesto di essere prima, durante e dopo l'atto della creazione degli intellettuali lucidi e sorvegliati. Finisce che non si lasciano più andare alle emozioni e così i più non emozionano gli altri. Sembra quasi che ci sia una regola scritta nella poesia contemporanea per cui non bisogna emozionarsi né emozionare. Come sembra un'altra regola non scritta quella di complicare le cose, scrivere in modo difficile e colmo di paroloni per apparire più intelligenti. Disse Picasso che tutti i bambini sono degli artisti nati, il problema è restarlo da grandi. I grandi pittori si sono saputi riscoprire bambini. Ciò non succede a buona parte dei poeti, troppo impostati, troppo assennati. I poeti nel corso del Novecento, parlo di quelli passati alla storia, sono forse troppo cerebrali. Nella lirica contemporanea la maggioranza degli stessi poeti a loro volta vestono i panni anche dei critici o dei saggisti: pontificano, spiegano, giudicano, ma non emozionano più il pubblico. Li ho definiti troppo cerebrali, come un tempo si definivano quei mariti, oggi etichettati come cuckold, che amavano guardare la moglie fare sesso con amanti occasionali. È come se la poesia avesse perso il senso delle cose, la vera dimensione dell'essere. La situazione in cui si vengono a trovare i poeti oggi è innaturale. Hanno perso il contatto con il pubblico o meglio l'unico pubblico che esiste è quello della comunità poetica, in cui tutti scrivono versi, indipendentemente dal fatto che siano aspiranti, sedicenti o poeti riconosciuti. Un altro problema più basilare è che spesso tra contemporanei e connazionali neanche ci si legge. Molti scrivono e pochi leggono. Ancor meno sono quelli che leggono, hanno gli strumenti per valutare e poi giudicano obiettivamente. Tutto ciò è asfittico, mancano spiragli, l'orizzonte è angusto. La poesia non ha pubblico né mercato. Questo significa che c'è assoluta libertà interiore e di azione (i più però non agiscono in libertà perché hanno paura di rovinarsi la reputazione), ma che allo stesso tempo non essendo mercificabile in questa società consumistica non ha alcun valore o quasi. Eppure oggi molte poetesse italiane e molti poeti italiani varrebbe la pena di leggerli e anche di rileggerli. Sicuramente c'è anche del buono, anche se gli italiani sembrano non accorgersene minimamente. 

 

Cose da tener presenti e regole di comportamento per un/a giovane per sopravvivere nella giungla della comunità poetica...

ott 292022

 

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Cose da tener presente e regole di comportamento per un/a giovane per sopravvivere nella giungla  della comunità poetica:


Ai poeti e naturalmente anche alle poetesse, veri/e, aspiranti, sedicenti dai sempre ragione, anche quando hanno torto marcio. Non te li inimicare mai. Possono cercare vendette, possono fartela pagare. Come? In ogni modo. Niente a loro è precluso. Sono pronti a calpestarti in ogni modo senza umanità e senza rispetto per la tua dignità. Al peggio non c'è fine. Se provi a ferirli minimamente nell'orgoglio possono diventare criminali. Una poetessa riconosciuta mi scriveva che alcuni letterati e poeti, che ce l'avevano con lei, la sottoponevano online ad esempio a delle vere e proprie shit storm, termine ormai comprensibile a tutti.


Per le poetesse e i poeti, veri e presunti, esistono solo dei libri importanti, necessari, prioritari: i loro. Oppure quelli dei loro maestri/mentori, ma possono ammettere ciò solo per pura formalità e perché non possono fare altrimenti, dato che i loro mentori sono un elemento imprescindibile della loro biografia.


Loro sono superiori agli altri. Devi naturalmente riconoscere la loro grandezza. È un atto dovuto. Se non lo fai diventi un loro nemico. Oppure sei un mentecatto ignorante e illetterato.


Alcuni poetesse e alcuni poeti, veri o presunti, hanno iniziato da così tanto tempo a scrivere che si sono veramente dimenticati/e la ragione per cui hanno iniziato. E ora non trovano il modo per smettere, anche se molte ragioni plausibili ce le avrebbero, ma loro non ne tengono mai di conto.


Secondo alcune testimonianze femminili il mondo della poesia italiana è un mondo di mani morte senza guardare in faccia nessuna e senza remore. Le ragazze devono stare attente a chi promette loro mari e monti in cambio di sesso. I lestofanti libidinosi sono sempre dietro l'angolo, ma in fondo non c'è niente di male a diventare l'amante ingenua di un poeta riconosciuto, anche se il talento poetico non c'entra nulla.


Ormai il sovrappiù del capitalista non è dato più dalla forza-lavoro dell'operaio ma anche dal marketing, dalla pubblicità, dell'ingegneria gestionale. La speculazione finanziaria in borsa domina sulla produttività industriale. Però molti letterati continuano a dirsi marxisti senza alcuna riserva. Abbracciano senza se e senza ma il determinismo economico marxiano di più di un secolo fa, condividendo totalmente l'analisi economica di una realtà, di un mondo che non c'è più. E se glielo scrivi si arrabbiano in modo furioso e cercano vendetta letteraria.


A meno che tu non sia di bell'aspetto, non sia ricco, non sia un professore universitario o un poeta affermato a scrivere poesie non si cucca. Se vuoi cuccare comprati a rate una bella macchina o passa molte ore del tuo tempo libero a farti il fisico in palestra.

 


Non ti fare spennare dalle case editrici a pagamento.


Capirai col tempo che più si accumulano le frustrazioni e più l'ego si gonfia. Come scriveva Adler dietro ogni complesso di superiorità si cela un complesso di inferiorità.


La poesia devi prenderla come una semplice passione. Non ti può guarire né ti può avvelenare, se hai i piedi ben saldi a terra. Probabilmente non sarà per te neanche un altro lavoro. Se avrai un lavoro al massimo sarà un dopolavoro.


La concezione del mondo di poetesse e poeti, veri o presunti, si basa sulla poesia che è superiore alla prosa, agli articoli, ai saggi brevi. Ti citano Bukowski quando scriveva: "La poesia dice troppo in pochissimo tempo, la prosa dice poco e ne impiega troppo". E naturalmente la loro poesia, vera o presunta, viene prima di tutto o di tutti.


Il mondo va in tutt'altra direzione. Tutto rema contro ai poeti. La cultura di massa sta fagocitando ogni giorno la poesia. Lo si vede anche dai quiz televisivi sempre più visti, dove per domande di cultura generale si intendono domande di sottocultura. Però l'importante per i poeti è crederci e volerlo.


Se sono riconosciuti considerano la comunità letteraria meritocratica e talentocratica. Si sentono in pace con il mondo. Se non sono riconosciuti allora sono dei geni incompresi e parlano di mafia letteraria. Ma nessuno si presenta come non riconosciuto. Questa cosa nessuno la ammette. Tutti si pavoneggiano per la pubblicazione di quel libro a pagamento, per la pubblicazione su quella rivista, per essere stati inseriti in quella antologia. Se leggi le note biografiche di poeti, veri o presunti, sono tutti riconosciuti. Alla vanagloria, al narcisismo non c'è fine, nel senso che non devi assolutamente mettere in dubbio la loro bravura e i loro consensi critici perché rischieresti l'incolumità fisica e la discussione non avrebbe termine.


Le poetesse e i poeti, veri o presunti, sono quasi tutti di sinistra, ma è meglio non dirlo per evitare guai.


Ogni poeta e poetessa se la suona e se la canta. Gli altri fingono di leggere e di capire. In realtà nessuno ascolta nessuno. Tutto è bello e insignificante al tempo stesso. Il tasso di incomunicabilità è elevato e l'ipocrisia, la finzione regnano sovrane.


Sembra talvolta che alcuni/e facciano di tutto per non farsi comprendere. Va bene che la poesia è nominazione pura, ma spesso usano termini desueti e ormai non familiari a nessuno perché così credono di impreziosire le loro poesie. Credono di essere tanto incomprensibili e oscuri quanto poetici. Oppure probabilmente sono solo legati troppo a canoni letteraria troppo antiquati. Oppure forse vogliono solo divertirsi e pensano che quando saranno morti gli italianisti non riusciranno a capire il senso delle loro liriche. In realtà gli italianisti tra un secolo forse non ci saranno più perché l'italiano sarà ormai una lingua morta e non studiata più da nessuno. E poi perché i posteri dovrebbero occuparsi di loro se ai contemporanei di loro non importa niente? Come mai ripongono tutta questa speranza nei posteri?


Devi tener presente che la poesia contemporanea italiana è una piccolissima fabbrica di illusioni per uno sparuto gruppo di persone, se lo si confronta con il resto della popolazione a cui non gliene importa davvero niente. Essere poeti o poetesse è del tutto legittimo, ma al resto del mondo non interessa minimamente e di questo bisogna che chi scrive versi ne prenda atto e coscienza.


Nessuno può parlare male dei poeti, nemmeno i poeti riconosciuti. Chi lo fa è un nemico, un invidioso, un poeta fallito, un disfattista qualunquista oppure tutte queste cose insieme. Di solito l'accusa principale è l'invidia. Siamo tutti invidiosi dei poeti, veri o presunti, che ormai li considerano davvero pochi, mentre il mondo è delle multinazionali, degli sceicchi, delle influencer, degli showman televisivi.


Le poetesse e i poeti, più presunti che veri, hanno spesso qualche disturbo psicologico o psichiatrico, ma non devi minimamente sospettarlo né dirlo. La "follia" è un fenomeno di proiezione, come l'amore del resto. Pazzi sono sempre gli altri. Se io ammetto che ho qualche problema psicologico, ma mi curo e sto molto bene loro mi considerano un individuo altamente problematico, un poveretto. Poi tra molti di loro c'è feeling, intesa, affinità elettiva e tutto ciò è una corrispondenza di amorosi sensi tra persone con problemi psicologici o psichiatrici che non si curano. Si sostengono a vicenda. Ci vuole un minimo di sopportazione e di acquiescenza di fronte a loro, ma non devi necessariamente improvvisarti terapeuta o improvvisarti sodale per risolvere le loro tare psicologiche/psichiatriche perché non la finiresti più. Cerca di assecondarli e di essere comprensivo.


I poeti e le poetesse sono tutti amici e amiche. Poi la realtà effettiva è un'altra. A onor del vero colpi bassi senza alcun complimento, appena uno si assenta.


Visto e considerato che tutte le isole sono state trovate (ricordando Gozzano), visto che è difficile lo straniamento o anche solo rinnovare il linguaggio, i poeti veri o presunti, non approdando a traguardi immaginifici, si trascinano stancamente a scrivere i loro versi. Il fine ultimo è la gloria postuma.


La poesia di ogni poeta in questione è immortale. Devi a ogni costo riconoscere che è memorabile. Magari certi versi te li scordi il giorno stesso averli letti, ma il postulato è che quei versi sono capolavori e se non lo senti o non lo pensi è perché non hai adeguata preparazione culturale, adeguata sensibilità artistica, sufficiente intelligenza, sufficiente gusto estetico.


I poeti, veri o presunti, ti cercano solo quando hanno bisogno o solo quando gli fa comodo.


Molte poetesse e molti poeti, veri o presunti, ti possono accettare solo come loro accolito. Devi andare a bottega da loro. Loro poi possono anche atteggiarsi a maestri di vita. Tu non puoi che essere un discepolo.


Non perdere tempo in lotte di potere tra cricche, scuole di pensiero, fazioni. Il vero potere di un poeta è quello di trasmettere emozioni sotto forma di bellezza letteraria a quante più persone. Molti cantanti sanno comunicare ed esprimere emozioni, ma non sotto forma di bellezza letteraria. Un problema insormontabile è quale sia, cosa sia la bellezza letteraria oggi.


Tutte le alleanze, gli amori, le antipatie, i litigi tra poeti, veri o presunti, non finiranno nella storia della letteratura. Sono praticamente ininfluenti. Non farti cattivo sangue. Nella storia della letteratura ci restano pochissimi.


Il mondo va alla malora e forse scrivere o leggere poesia è un passatempo come un altro. Non si fa del male al mondo e nemmeno lo si salva. Un minimo di realismo non guasterebbe. Meno smania di grandezza e meno manie di protagonismo non guasterebbero.

 


Ne vale veramente la pena di leggere o scrivere poesia? Senza ombra di dubbio. Basta leggere Apollinaire, Ginsberg, Montale, Pasolini, Zanzotto, Merini o la Rosselli. Non costa nulla partecipare e dare il proprio piccolissimo contributo, possibilmente in punta di piedi, con modestia, senza alzare la voce e senza essere molesti.

Sempre su poeti, veri, aspiranti, sedicenti...

ott 252022

 

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Ė la solita schermaglia. Alcuni critici e alcuni poeti "arrivati" dicono e scrivono che i giudizi sono oggettivi, quando i criteri di un tempo, i vecchi canoni come la metrica e l'eufonia sono stati abbandonati. Chi non si afferma poeticamente talvolta grida che è tutto un contendersi tra conventicole, che è tutta una cricca e si dichiara incompreso/a. Ad onor del vero esistono le amicizie, i favoritismi, le idiosincrasie: sarebbe disonesto non ammetterlo. Siamo in Italia insomma. Io non conosco personalmente nessun poeta o critico. Non ho amici o amiche nel settore. Lo scrivo a scanso di equivoci. Conosco poco l'ambiente della poesia. Osservo quello che accade su Internet. Naturalmente sono del tutto legittimi i rapporti di stima reciproci. Talvolta mi chiedo se c'è del marcio nella comunità poetica, ma non ho sufficienti elementi per rispondere. Alcuni letterati arrivati vogliono pontificare, legiferare. Alcuni non arrivati vogliono fare un quarantotto. Ci sono anche persone che vorrebbero affermarsi ancora di più, approdare alla grande editoria e accusano che è tutto un sistema che mistifica, che è ingiusto, che falsa i veri valori. La comunità letteraria sembra essere basata sul discrimine autorità/frustrazione. La domanda da porsi è se il talento o il genio attualmente in poesia siano oggettivamente riconosciuti e riconoscibili. Nutro dei dubbi. Alcuni che sono arrivati vorrebbero imporsi, quasi sopraffare, zittire il resto di quella che per loro è una ciurma. Gli aspiranti e i sedicenti poeti, coloro che non sono affermati si basano molto più sui contentini che gli vengono dati che sulle porte sbattute in faccia. Ma ancora una volta mi chiedo quanta obiettività ci sia nei giudizi critici odierni. L'ottima poetessa Maria Borio in un suo saggio breve parla di valutare un testo poetico in base allo stile, all'implicito e all'autenticità oggi. Ma anche così facendo si resta nell'ambito dell'opinabile.
Mi fanno un poco sorridere quegli autori che pagando una pubblicazione a proprie spese si vantano del giudizio elogiativo dell'editore, che ha tutti gli interessi di abbindolarli, di blandirli per convincerli a pubblicare altri libri a pagamento. Spesso il piccolo editore a pagamento li facilita, li mette sulla buona strada, li aiuta a pubblicare su riviste, li incanala nelle giuste conoscenze/binari poetici. Noto che un libro pubblicato a pagamento viehe più considerato di un ebook pubblicato gratis su una rivista online. È un falso prestigio basato su premesse errate. Innanzitutto spesso l'editoria a pagamento non è affatto selettiva, non distingue il grano dal loglio. Molto spesso anche il più improvvisato degli aspiranti poeti trova da pubblicare. Non nascondiamoci dietro ad un dito: spesso molte piccole case editrici a pagamento non premiano la qualità e sono come delle tipografie. Forse viene considerato di più un libro pubblicato a proprie spese perché si tiene conto dell'onere economico più o meno gravoso a cui ha dovuto far fronte. Forse si chiudono gli occhi e si fa finta di non vedere perché è una prassi troppo diffusa e così fan tutti/e. C'è gente che ha un curriculum poetico fatto da una caterva di pubblicazioni a pagamento. Ma che curriculum artistici sono? Bisognerebbe guardare solo la qualità degli scritti. Io non guardo se un libro è pubblicato con una piccola, media o grande casa editrice. Valuto se mi piace oppure no. C'è del buono, anzi dell'ottimo nell'editoria a pagamento. C'è una editoria a pagamento anche che sa scegliere il buono dal pessimo. Ma è meglio non vantarsi di una pubblicazione cartacea. Non c'è nessuna asticella superata nel pubblicare a proprie spese. Basta avere i soldi, essere disposti a spendere, poi un editore si trova. Spesso sarà un editore che obbligherà all'acquisto di cento copie, non si interesserà alla distribuzione, etc etc. Io considero una persona poeta o poetessa a prescindere delle pubblicazioni, ma solo in base a ciò che scrive. Mi sembra che questo modo di giudicare sia il più onesto intellettualmente, anche se di primo acchito può sembrare presuntuoso. Il mio giudizio però non è assolutamente interessato. Il giudizio di certi piccoli editori a pagamento invece è interessato.

"I poeti, che brutte creature..." (tra il molto serio e il poco faceto)

ott 012022

 

 

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Si può avere dei pessimi gusti letterari ed essere delle brave persone. Si può pensare che l'impoesia sia poesia, che la poesia sia impoesia ed essere delle brave persone. Che tanto poi non esistono più da secoli dei criteri assoluti e oggettivi per stabilire che cosa sia poesia e che cosa non lo sia! Prima del Novecento i poeti dovevano essere aulici e rispettare i santi crismi della metrica. Ai tempi di Dante le terzine dovevano essere incatenate. Anche nell'Ottocento i versi sciolti di una poesia dovevano essere metricamente ineccepibili per sillabe e accenti tonici. Oggi tutto è permesso, tutto è lecito nel bene e nel male (sia inteso). Forse è anche la mancanza di regole a aver fatto perdere rispettabilità e credibilità alla poesia contemporanea (è un'ipotesi da non scartare, tant'è che qualche poetessa come la Valduga è ritornata all'ordine, all'ipermetrismo). Che poi la perfezione non è cosa umana e se c'è qualcosa che si avvicina alla perfezione é solo nel dettaglio, nel piccolo! Lo scrittore Sandro Veronesi, premio Strega, ha dichiarato che il romanzo perfetto non è mai esistito, nemmeno scritto da dei grandi geni, mentre invece esistono ogni tanto dei racconti che si avvicinano alla perfezione. Credetemi: si può avere ottimi amici illetterati e che nemmeno sono lettori forti. Magari si sta meglio in loro compagnia e non ci si avvelena il sangue. Scegliete le persone in base alla loro umanità, onestà, autenticità, lealtà, sincerità, non in base alla loro presunta intellettualità e non avrete mai delusioni cocenti. Di un amico non valutate le lacune culturali ma se manca o meno come persona con voi. Si può essere invece dei grandi letterati ed essere degli autentici farabutti. Che poi il sacrificio, l'abnegazione e la considerazione scarsissima delle persone, gli scarsi guadagni, molto spesso le poche risorse economiche, sommate tutte assieme, spesso rovinano il carattere di qualsiasi anima bella, di qualsiasi poeta. Perciò io li capisco, li comprendo pienamente certi letterati incompresi e fegatosi, come si suol dire a Roma. Spesso non solo non vengono capiti, ma vengono derisi, sbeffeggiati, irrisi o talvolta ancora peggio su di loro cala l'indifferenza. Certi preti per preservare le loro pecorelle dicono che la cultura umanistica allontana dalla fede (scordandosi che anche il cristianesimo è umanesimo antelitteram). Allo stesso modo direi che per non impermalosirsi, per non incattivirsi, per non rovinarsi il fegato è meglio stare ad esempio lontani dalla poesia e dalla scrittura in genere. Primo motivo: non girano i soldi. Secondo motivo: la fama è inconsistente. Terzo motivo: si spende e non si guadagna. Quarto motivo: il pubblico disinteressato non esiste, ma è fatto solo da aspiranti poeti in competizione tra loro. Quinto motivo, ovvero la risultante degli altri motivi: c'è il serio rischio di sviluppare una nevrosi o una psicosi, visto che il contesto poetico è nevrotico/psicotico. Ho la netta sensazione talvolta che il contesto poetico sia la sommatoria di tante psicopatologie, derivate dal disinteresse degli italiani nei confronti di questa materia. Alcuni o forse molti si ammalano o rischiano di ammalarsi e soffrire psicologicamente per quella che a tutti gli effetti dovrebbe essere una passione semplicemente. Molti cercano la riconoscibilità poetica. Non la trovano e da ciò scaturisce l'incomprensione perenne. Alcuni risultano provati dalle porte che la comunità poetica sbatte loro in faccia. In realtà anche in poesia bisogna rispecchiare certi canoni del conformismo culturale per affermarsi: essere integrati socialmente e lavorativamente, essere di buona cultura, essere sodale tra i sodali, essere solidali con i più deboli in forma vaga e indistinta, dimostrare di apparire sufficientemente contro il sistema, dimostrare di essere alternativi e anticonformisti, essere di sinistra (pur riservandosi di criticare la sinistra fino allo sfinimento e fino al disfattismo), presentarsi come anime belle e poi in realtà coalizzarsi con quelli che vengono considerati i nemici per le ragioni più banali e più inconsistenti. Spesso i poeti (veri o presunti) sono figli di buona donna con gli altri poeti perché si sentono in gara o sono amici di alcuni poeti per interesse, calcolo, quieto vivere. Spesso i poeti (veri o presunti) sono figli di buona donna con il resto dell'umanità non poetica perché se gli altri apprezzano le loro poesie i poeti (veri o presunti) li odiano dato che vorrebbero essere ripagati materialmente, sessualmente, socialmente, professionalmente e naturalmente ciò nella stragrande maggioranza dei casi non avviene. Molto spesso i poeti (veri o presunti) odiano il resto dell'umanità che non si cura di loro e delle loro poesie. Le loro parole, le loro moine, le loro formalità vuote non vi traggono in inganno: i poeti sono cattivi, profondamente cattivi e nemmeno amano più la poesia, ma i colpevoli di tutto ciò siamo tutti noi. Siamo noi che li abbiamo dimenticati. Siamo noi che non abbiamo voluto conoscere la loro poesia. Comunque tutti hanno le loro colpe: sia i poeti che i lettori che i non lettori hanno assassinato tutti la poesia. Poi diciamocelo chiaramente: un luogo comune vuole che i poeti siano tutti buoni e da ciò ne consegue che chiunque scriva poesia abbia il dovere di essere buono e comportarsi bene. Da ciò risulta che i poeti, veri o aspiranti, siano sempre sotto osservazione e sempre ricattabili dalle altre persone. Invece questo pregiudizio positivo che finisce per essere una trappola per i poeti crea aspettative troppo grandi e quasi sempre disattese. Un altro luogo comune è che il poeta sia una persona speciale verbalmente, concettualmente, per sensibilità, per cultura, per animo, per intelligenza. La realtà è che il poeta molto spesso è una persona come le altre.  Non ha niente di speciale. Non ha niente di più. I poeti hanno assassinato la poesia con le loro parole. Tutto il resto dell'umanità ha assassinato la poesia con la mancanza di amore e di interesse nei confronti della poesia. Eppure, sembra tanto logico e scontato ma non lo è: ci vuole proprio la poesia di tutti per rendere il mondo più poetico, mentre invece l'assenza di poesia o una cattiva poesia lo rendono ancora più impoetico. L'equilibrio è instabile e precario. Talvolta ho la vaga impressione che ci sia meno poesia nelle poesie contemporanee e più poesia nelle piccole cose della vita quotidiana. Il terreno su cui tutti ci muoviamo è limaccioso, scivoloso. Come ha detto qualcuno molto più importante di me, ovvero Bobin, dovremmo tentare di abitare il mondo poeticamente. E lo stesso Bobin ha scritto che abitare il mondo poeticamente è l'identica cosa che abitare il mondo umanamente. La poesia è umanità. L'umanità è poesia. Naturalmente ci vuole pazienza e dedizione per riuscire a cogliere tutto ciò, per carpire la poesia nell'umanità e l'umanità nella poesia. Allora dobbiamo sopportare la vanagloria, l'opportunismo, l'arrivismo, il narcisismo, la smania di grandezza di alcuni o molti poeti (veri o presunti). La malignità dei poeti deriva dalla loro frustrazione, dal loro senso di sconfitta in una società che ha relegato ai margini la poesia. Naturalmente anche io un tempo scrivevo poesie (o presunte tali). Anche io un tempo facevo ridere. Ma come scriveva un tempo la grande poetessa Szymborska: "Preferisco il ridicolo di scrivere poesie, al ridicolo di non scriverne". Realisticamente parlando però, se non si è grandi poeti in grado di essere ricordati dai posteri, si trae molto giovamento quando si smette di scrivere poesie. Qualcuno che sa rinunciare ci vuole. Si dimostrerà avveduto. Ci guadagnerà in credibilità agli occhi del mondo. Ma questo non vuol dire che debba smettere di amare la poesia. Che tanto l'importante è che ci sia poesia. Non importa se la poesia sia propria o altrui!

Forse restano da scrivere solo note a margine perché tutto è già stato scritto...

set 252022

 

 

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Forse tutto è già stato scritto e quello che non è stato scritto forse non meritava di essere scritto, non era degno di nota, era puro nonsense.

Forse -dicevo- tutto è già stato scritto.

La Neoavanguardia già nel dopoguerra sembrava aver divorato tutte le poetiche. È impresa ardua, quasi improponibile cercare di riformulare dei codici espressivi. Il ‘900 letterario è stato artefice di grandi stravolgimenti. Il panorama nell’ambito della poesia è mutato completamente. Per secoli ha predominato una tradizione aulica, intessuta di preziosismi, latinismi, grecismi. Per secoli il linguaggio poetico è stato vago, raffinato e circoscritto. Le sperimentazioni tutt’al più erano metriche.

Tutto a un tratto nel 1900 ecco una miriade strabiliante di innovazioni sintattiche, morfologiche e lessicali. Ecco affacciarsi l’antilirica, se si paragona la poesia moderna a quella dei secoli addietro. Un’antilirica, che sempre più si disinteressa della metrica e pone tutto il suo interesse nelle poetiche e nell’ampliamento del lessico. Non esiste più la poesia come entità autonoma di conoscenza e produzione, di corrispondenza prelogica e preconscia tra l’essenza delle cose e l’essenza dell’animo umano. Avviene il dominio del contenuto sulla forma, della poesia del fare poesia sulla poesia, dell’arte dell’arte sull’arte.

Alcuni critici riprendono il concetto hegeliano di “morte dell’arte”, ma piuttosto si tratta di serie di radicali trasformazioni, della dissoluzione di canoni preesistenti ormai sclerotizzati. Non esiste una “morte dell’arte”, ma il prevalere della poetica sulla poesia e ciò comporta una maggiore consapevolezza del proprio fare artistico e talvolta un eccessivo smontaggio analitico delle opere creative. Ogni aspetto del reale può ispirare, anche ciò che un tempo poteva essere considerato impoetico per eccellenza. Ogni termine di qualsiasi campo semantico può diventare poetico. Si pensi ai tecnicismi di Zanzotto recentemente, ma a dire il vero avevano iniziato Pascoli e Montale, profondi conoscitori della botanica. Ecco comparire all’improvviso l’inconscio con il surrealismo e il paroliberismo dei futuristi: i sintagmi sono in libertà, non c’è alcuna struttura interna.

Nella poesia sembra essere ammesso quello che ordinariamente non è ammesso altrove. Per seguire i flussi di coscienza l’artista spesso procede per associazioni, frammenti, immagini-frase.

Nel’900 è vietato ogni presupposto assolutistico. I poeti sono politeisti dell’arte. Ci si può perdere di primo acchito in questo caleidoscopio, in questa confusione di linguaggi che ha come comune denominatore il relativismo e il prospettivismo (la realtà viene indagata da più angolazioni).

Niente sembra più stabile e il cultore di poesia non sa più di chi e cosa fidarsi in questo apparente disordine, in questa molteplicità stilistica. Dopo lo schizoformismo di Giuliani, la prosa poetica di Nanni Balestrini, l’asintattismo di Elio Pagliarani, la Palus Putredinis di Sanguineti, il ritmo di Amelia Rosselli, il tono colloquiale e privato di Dario Bellezza, “Il disperso” di Maurizio Cucchi, le folgorazioni di Milo De Angelis è difficile non essere banali. È fuori luogo poi essere loro manieristi. Altra era la temperie culturale vissuta da questi grandi autori, altro era il contesto sociale del ‘900 e le problematiche annesse e connesse (boom economico, unificazione linguistica, comparsa della televisione, scomparsa della civiltà contadina, migrazioni interne dal Sud al Nord, contestazione studentesca, anni di piombo, il ruolo e lo status del letterato nell’era industriale, netta divisione tra cultura di massa e cultura alta).

Molte poi sono le scuole (l’idealismo, il crocianesimo, lo storicismo gramsciano, la critica formalista, lo strutturalismo, la semiologia), gli ismi letterari (il simbolismo, il crepuscolarismo, il surrealismo, l’ermetismo, il futurismo, il neorealismo, il neosperimentalismo, la neoavanguardia, il neo-orfismo), i maestri di pensiero (i più recenti ad esempio: Lacan e l’inconscio come linguaggio, Wittgenstein e i suoi giochi linguistici, Lyotard e il postmoderno, Heidegger e la sua ontologia della poesia, Gadamer e la sua ermeneutica, Foucalt ed il suo concetto di potere, Derrida ed il suo decostruzionismo e ancora… R. Barthes, Levi-Strauss, Chomsky, Marcuse, etc, etc) a cui un autore può fare riferimento. Molte sono le strade percorribili. Svariate sono le problematiche stilistiche: scegliere tra suggerire e nominare, tra prosaico e lirico, tra tradizione e innovazione, tra metafora e analogia, tra un linguaggio puro e astorico e uno ricco di contaminazioni.

Difficile oggi poi fare una mappatura esaustiva della poesia italiana, difficile definire attualmente che cosa sia in quest’epoca di “tradizione del nuovo”, di autori neo e post la vera poesia.

Simposi, convegni, corsi di creative writing, articoli, saggi hanno cercato e cercano di pontificare a riguardo.

Due parole di numero sul recensire...

set 062022

 

 

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Ho un modo di recensire particolare, nel senso che trasgredisco la regola d’oro del recensore, formulata sia da Giovanni Raboni in “La poesia che si fa” che da Massimo Onofri in “Recensire. Istruzioni per l’uso”.
Tengo a sottolineare che sono due libri molto importanti per iniziare a recensire, ma secondo questi due grandi letterati ad artista non di deve aggiungere artista (secondo un adagio degli antichi latini), ovvero un recensore deve essere sottotono, deve mantenere un profilo basso e nel testo deve vigere l’understatement.
Io ritengo piuttosto che una recensione debba spiegare tutto, essere esaustiva o quantomeno cercare di essere esauriente.
Forse così si rischia di strabordare. Nel primo caso invece si rischia di fare un compitino striminzito.
E poi a mio modesto avviso per capire cosa voleva dire un poeta bisogna un poco immedesimarsi nel poeta in questione ed essere di volta in volta un poco artisti anche noi miseri recensori. Ma è solo questione di opinioni. So benissimo che Onofri e Raboni sono delle autorità in materia e io sono un bastian contrario. Ma passiamo ad altro. Alcune volte mi arrivano dei documenti pdf da recensire via mail oppure dei libri a casa.
Sgombro il campo da ogni equivoco: non esiste assolutamente l’obbligo di recensire nessuno. Alcuni ritengono che tutto sia loro dovuto. Anche se mi arriva un ottimo libro non è mio dovere recensirlo: sia ben chiaro. Io non sono pagato a cottimo. È una bella pretesa! Alcuni sono anche molto sbrigativi e si scordano le belle maniere, ma questo fa parte della personalità egoriferita di alcuni autori.
Personalmente io non cerco lo scambio di favori. Non scrivo più poesie o presunte tali dal 2018. Quindi nessun do ut des! Non cerco recensioni incrociate. Tutto questo mi consente una maggiore obiettività e indipendenza, non scrivendo più poesie.
Alcuni potrebbero criticarmi per il fatto che scrivo recensioni in cui esprimo un giudizio positivo sul libro. Ma è solo una parte della verità. Diciamo piuttosto che io non voglio stroncare nessuno e quindi non pubblico mai stroncature.

 

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Perché non stronco? Semplicemente perché onestamente non mi va. Inoltre ritengo che si debba avere una certa autorità per farla e io ne sono sprovvisto. Non solo ma esiste una regola non scritta secondo cui si stronca solo i big. So bene anche che ogni autore si sente padre della sua opera. Penso che una stroncatura sia più che un atto di lesa maestà (di cui mi importa poco) un vero colpo al cuore, una piccola ferita. Diciamocelo francamente: non voglio far rimanere male nessuno. Di conseguenza alcuni pensano che io sia facile di gusti o che tratti tutti i libri con bonaria indulgenza. Nella maggioranza dei casi io recensisco invece libri di qualità, ma questa è solo la parte emersa dell’iceberg: nessuno sa i libri e i documenti via mail che mi hanno inviato e che non ho recensito. Al momento mi sono anche imposto di recensire solo libri pubblicati e non autopubblicati, libri cartacei e non ebook (altrimenti non ce la farei a recensire tutto). Preferisco quindi non recensire che recensire negativamente. Non solo ma Giovanna Rosadini, direttrice di Atelier poesia, fa una scrematura di opere prima di inviarmi le cose da recensire.
È comunque vero che preferisco evidenziare i punti di forza di un’opera invece che i punti deboli. Ritengo in questo modo di spronare, di incoraggiare l’autore. Ma recensire è un diritto e non un dovere. Inoltre rivendico l’orgoglio di recensire. Tutti vogliono diventare scrittori o poeti, vogliono la fama, la gloria postuma. Il recensore invece è relegato ai margini della vita letteraria, eppure i libri vanno obbligatoriamente recensiti, altrimenti li leggerebbero in molti meno e non ci sarebbe alcun passaparola tra i lettori. Anzi forse è il caso di dire che al mondo d’oggi ci sono troppi poeti effettivi, aspiranti, sedicenti e davvero pochi recensori. Sempre a mio modesto avviso un recensore non deve essere obbligatoriamente un critico letterario e aver letto migliaia di libri come vorrebbe Valerio Magrelli. Un recensore deve solo avere un minimo di sensibilità, un minimo di comprensione del testo e sapere un minimo la lingua italiana. Questi sono i prerequisiti fondamentali. Aggiungo anche che se ogni lettore diventasse un recensore nel suo blog personale o sui profili social ne guadagnerebbe il lettore suddetto che eserciterebbe il suo senso critico e ne guadagnerebbe la letteratura che diventerebbe un grande oggetto di attenzione, un argomento di tendenza, di dibattito e non più un fenomeno marginale. Se ci fossero più lettori-recensori certo ci sarebbe qualcuno di essi che rientrerebbe nella categoria degli odiatori, ma la letteratura sarebbe più rizomatica, meno stagnante, insomma più viva. Infine va detto che anche se a nessun recensore spetta la gloria postuma a differenza dei poeti qualcosa possono guadagnare se lo vogliono.  Qualche agenzia letteraria i recensori li può pagare; ci sono autori disposti a pagare recensori. Infine recensire libri può essere un primo passo per fare il saggista, il giornalista culturale o il web content editor (coloro che a pagamento riempiono di contenuti i siti web). Non solo ma c’è anche chi si inventa un’attività redditizia recensendo libri su Instagram, anche se ci riescono solo i giovani e non i letterati attempati. Nel peggiore dei casi arrivano gratis dei libri a casa, anche se le ore passate a leggere il libro e a recensire non vengono pagate. 

 

Brevi annotazioni su fatti, parole, poesia, posteri...

ago 042022

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 Nietzsche e il relativismo dei fatti:

E’ facile fraintendere la dottrina di Nietzsche perché la sua filosofia non è sistematica; è una filosofia delle contraddizioni e delle illuminazioni grazie all’utilizzo dell’aforisma.

Lukacs ha sempre considerato Nietzsche un distruttore della ragione, ma forse il filosofo tedesco dovrebbe essere considerato soprattutto un potenziale distruttore della metafisica platonico-cristiana. Per il filosofo tedesco nel cristianesimo è insito il nichilismo passivo; il cristianesimo è mortificazione del corpo, religione e morale dei vinti e dei deboli, risentimento dello schiavo nei confronti del signore, proiezione verso un altrove che riscatta la miserie del mondo terreno. Questo naturalmente è il suo punto di vista.

Nietzsche sceglie l’eterno ritorno per non cadere in un regresso all’infinito. Altrimenti dietro un velo ci sarebbe sempre un altro velo, dietro un fondo un altro fondo, dietro una maschera un’altra maschera.

Per il filosofo tedesco il tempo è circolare. Il divenire non è una linea retta, che prosegue all’infinito. I quanta d’energia per quanto illimitati per la mente umana, non sono infiniti. Di conseguenza ogni evento è destinato a ripetersi, a ripresentarsi. Ecco l’eterno ritorno.

La sua filosofia oltrepassa ciò che comunemente viene considerato nichilismo con l’amor fati e la volontà di potenza.

Il superuomo è colui che ha capito e accettato la dottrina dell’eterno ritorno. La genealogia della morale non è altro che la scoperta del meccanismo colpa-pena-punizione, meccanismo con cui la morale controlla totalmente le coscienze umane.

Nietzsche è un nichilista attivo, distrugge perché qualcuno in futuro ricrei. Nietzsche inizia dall’analisi e dal pessimismo di Schopenhauer, ma laddove quest’ultimo sceglie come rimedio l’ascetismo, Nietzsche opta invece per la volontà di potenza.

Le considerazioni di Nietzsche sono inattuali perché si volgono alla Grecia antica e denunciano la superficialità e il vuoto dei disvalori della sua epoca. La Grecia antica riusciva a trasfigurare la realtà con l’arte, che comprendeva la catarsi, l’elemento dionisiaco e l’elemento apollineo.

Il filosofo nella sua dottrina riesce a dire sì alla vita, pur essendo cosciente delle avversità, delle contrarietà e del dolore.

Nietzsche va letto più di una volta, facendo uso della parte più razionale di noi stessi, perchè di primo acchito e a una lettura superficiale la sua filosofia può condurre all’autoesaltazione fine a se stessa e all’odio nei confronti della religione e delle persone religiose. Ma veniamo ora al relativismo propugnato dal filosofo tedesco.

Nietzsche scrive nei Frammenti postumi che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Per fatto si intende un avvenimento, un evento, un dato oggettivo, una prova. Ma nessuno dovrebbe più dire che esistono dati di fatto incontestabili e incontrovertibili a riguardo di una cosa. Non si dovrebbe più dire che qualcuno nega l’evidenza dei fatti. Nessuno dovrebbe usare espressioni come “constatazione di fatto”, “attenersi ai fatti” o “alla prova dei fatti”. Qualsiasi fatto e qualsiasi riscontro sono insostenibili. Non si può più neanche dire che esiste una interpretazione univoca per un certo fatto secondo la logica. Non ci può essere corrispondenza univoca tra un fatto e una interpretazione. Il filosofo scrive che i fatti non esistono e che possono esistere infinite interpretazioni. Questo relativismo ermeneutico è totale e sconfina nel nichilismo. Diventa nichilismo, ovvero totale perdita dei valori, perché quel che consideravamo fatti sono diventati nulla. Naturalmente agli uomini resta ancora la condivisione apparente delle percezioni. Ma anche le sensazioni sono soggettive. Variano da individuo a individuo. Nietzsche sempre nei Frammenti postumi scrive che ogni costruzione del mondo è un antropomorfismo. La conoscenza è illusione. Il relativismo di Nietzsche è prima di tutto gnoseologico. Il filosofo tedesco si pone contro la fiducia smisurata dei fenomeni e della scienza da parte dei positivisti, che vedevano nell’ascesa della borghesia e nel dominio della tecnica un enorme progresso. Nel Novecento il relativismo conoscitivo si estenderà ancora grazie al paradosso di Kripkenstein sul linguaggio privato e sul seguire le regole in ambito cognitivo. Questo paradosso scaturisce da una riflessione di Wittgenstein in “Lezioni e conversazioni”. Ma ritorniamo al filosofo della volontà di potenza. C’è chi come il filosofo Maurizio Ferraris ha ironizzato sulla questione, affermando “Non esistono gatti, ma solo interpretazioni”. Però il problema rimane. Per Nietzsche inoltre non vale più nessuna metafisica e nessuna religione. Possiamo perciò affermare che anticipa Lyotard secondo cui sono finite le metanarrazioni. Ogni ismo quindi è morto. Ogni grande racconto non ha più modo di esistere. È sempre più difficile distinguere il bene dal male e il vero dal falso. Nietzsche si conferma uno dei peggiori nemici del cristianesimo non tanto perché secondo lui era la morale dei vinti e dei deboli quanto per il relativismo di cui il grande pensatore è portatore. Non a caso i suoi libri vennero messi all’indice dalla Chiesa. Non a caso molti lo considerarono il filosofo del nazismo e non considerarono invece lo stravolgimento assoluto e la mistificazione della sua opera da parte della sua folle sorella. Allo stesso modo a ben vedere si può dire addio anche a ogni senso comune, che viene polverizzato dal filosofo tedesco. Ormai la maschera è stata tolta: dietro ogni verità c’è una convenzione, un compromesso, una realtà condivisa. Niente altro che questo. Qualsiasi interpretazione del mondo equivale a un’altra interpretazione. Una visione del mondo vale come infinite altre visioni. Sempre secondo Nietzsche sono i nostri bisogni che creano una interpretazione e non certo la nostra logica. Dietro ad ogni interpretazione ci sono così i nostri istinti e non la nostra razionalità. Dietro ogni interpretazione c’è un soggetto: un interprete, che ha un suo particolare punto di vista e una sua prospettiva. Il fatto in sé dei positivisti non esiste. Tutto è soggettivo. Ognuno si fida delle sue idee. Non resta altro che questo. Ognuno si tiene i suoi convincimenti più o meno radicati. Ognuno è creatore di senso. Il neopositivismo o positivismo logico potrà fare ben poco nel Novecento: solo proporre il criterio di verificazione e cercare di rendere inutile la metafisica. Popper successivamente rivaluterà la metafisica perché la considererà una risorsa di idee e di ipotesi plausibili per la scienza. Ma il neopositivismo e Popper non condizioneranno la filosofia e neanche la mentalità della popolazione quanto Nietzsche. Il relativismo etico finisce quindi per essere l’unico dogma, l’unica certezza, l’unica verità. Nessuno ora può scagliarsi contro il relativismo senza essere tacciato di essere antidemocratico, retrogrado o moralista. Il relativismo viene sempre più ritenuto una filosofia di vita, un modo di intendere e di approcciare la realtà. Chi è contro di esso viene considerato sostanzialmente un passatista. Questo ismo non nasce certo nell’Ottocento. Era già il perno della filosofia dei sofisti e degli scettici. Ma attualmente come ha dichiarato il Papa Ratzinger è avvenuta la dittatura del relativismo, che può assumere diverse forme e può essere etico, culturale, gnoseologico, antropologico. Eppure a rigor di logica si potrebbe criticare sostenendo che se tutto è illusorio anche lo stesso relativismo è illusorio e vano. Viene però da chiedersi alla fine chi vince in questa realtà occidentale dominata dal relativo? Vince l’interpretazione del più potente e/o del più ricco, che ha più forza e più mezzi per affermarla. Il logocentrismo non esiste più. Il Logos non esiste più nella parola. L’irrazionalità e l’assurdità regnano sovrane. Questa è la civiltà dell’immagine e dei messaggi subliminali. L’interpretazione dei più potenti diventa verità perché ripetuta all’infinito dai mass media. Il relativismo quindi si è diffuso a macchia d’olio e è al servizio completo del potere; ma era forse meglio il moralismo di un tempo? Oppure è più tollerabile questo nuovo tipo di edonismo scaturito dalla mancanza di morale? Di certo una filosofia di vita in cui tutto è relativo può indurre al consumismo e può essere facilmente al servizio di multinazionali e lobby. Il relativo è il più importante credo laico odierno e avrà molti limiti intrinseci, ma come ha affermato Giulio Giorello bisogna stare attenti perché il contrario del relativismo è l’assolutismo. Infine questo atteggiamento è una premessa indispensabile per il pluralismo di una società aperta. I filosofi oggi discutono perciò su come arrivare ad un relativismo ragionevole e non totalmente pervasivo.

 

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Parole e fatti:
Le parole talvolta anzi spesso sono ambigue. Ma anche i fatti raramente sono chiari e inequivocabili. I fatti raramente sono incontestabili e incontrovertibili. I fatti raramente sono a interpretazione univoca. I fatti difficilmente sono fatti in sé. C’è anche chi dice che il fatto in sé non esiste. Ci vogliono parole per interpretare fatti. Ci vogliono parole per fare l’amore e poi raccontarlo. Ci vogliono parole per lavorare e per fare affari, per fare da mangiare e salvare vite umane. Ci vogliono parole per viaggiare. Ci vogliono parole per soddisfare bisogni primari. Ci vogliono parole per fare la guerra, ma altre parole ci vogliono per fare la pace. C’è chi dice che i fatti sono molto più eloquenti di molte parole e per affermare ciò usa parole e per giunta perentorie, si comporta come se con le sue parole fosse depositario della verità. Non si può far godere una donna con le parole. Però alcuni per fare fatti continuamente usano le parole con negligenza, trascuratezza, estrema disinvoltura, inconsapevolezza. E se fanno male con le parole che importa? Sono gli altri che sono permalosi, troppo sensibili e loro non l’hanno fatto apposta. Per alcuni le parole sono inutili, ma quando pensano ai fatti loro lo fanno con categorie verbali. Non si può negare l’evidenza dei fatti, ma neanche quella delle parole. Anche le parole sono fatti ed è per questo chei sto lontano da alcuni, che significa stare lontano dalla loro metafisica dei fatti e dalle intenzioni cattive delle loro parole. Voi pretendete di giudicare una vita dai fatti ma quali fatti selezionare e giudicare? Come giudicare in modo equanime i fatti di una vita? Le parole esattamente come i fatti fanno soffrire ma anche godere. La vita si vive con i fatti e con le parole. Alle parole devono seguire i fatti, a cui seguono altre parole e così via fino alla fine di ogni vita. Fatti si susseguono a parole che si susseguono ai fatti in un circolo infinito. Senza parole non ci sarebbero fatti. Abbiamo bisogno di fatti ma anche di parole. Fatti e parole continuamente si richiamano e intrecciano tra loro. Ai bambini si insegna prima a parlare per capire e dire i fatti. Le parole perciò vengono prima dei fatti. Quando uno muore vanno al capezzale a raccogliere le ultime volontà, le ultime parole. Le parole, neanche quelle di cordoglio o conforto,  possono niente di fronte alla morte.

 

 

 

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Sulla poesia:
La poesia non vende principalmente perché gli italiani non comprano libri, perché i libri di poesia costano 15 euro e si leggono in fretta, perché c’è insufficiente considerazione dei mass media per la poesia, perché le stesse case editrici non investono nella poesia, perché anche le grandi casi editrici guardano più ai follower di un aspirante autore che alla qualità, perché molti scrivono e pochi leggono, perché alcuni intellettuali vogliono che la poesia resti una nicchia, perché la comunità poetica è suddivisa in cricche, perchè altre cose contano oggi e non la poesia, perché l’editoria a pagamento pubblica tutti, perché a scuola la poesia viene insegnata in modo soporifero, perché nel mondo dominano il consumismo e la razionalità tecnologica, perché la cultura è in declino, perché la società è allo sbando, perché regna incontrastato il nichilismo, perché la lettura di un libro di poesia richiede impegno, perché la neoavanguardia ha intrapreso una strada difficile e impopolare, perché le persone credono che solo i cantautori facciano poesia, perché la gente non vuole pensare e ha altri problemi per la testa. Ma talvolta anche i poeti hanno le loro colpe perché non trattano dei problemi del mondo e della gente, trattano di sé soltanto in modo oscuro, difficile. I poeti non vanno incontro alle persone. Le persone non vanno incontro ai poeti. Io non so se la poesia è veramente distante dalle persone o se sono le persone a essere distanti dalla poesia. Forse entrambe le cose. Ma sta di fatto che la poesia in Italia non vende.

 

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Su poesia, fatti, posteri:
Per Austin le parole sono atti linguistici, ovvero azioni, fatti. Le frasi hanno anche degli effetti. Agiscono. Sono anche atti perlocutori. Inoltre l’interlocutore come il lettore molto spesso, al di là dell’effetto, sa capire anche le intenzioni, gli atti illocutori; sa capire il retropensiero. Cosa è un fatto? Un fatto è ciò che accade nel nostro mondo, parafrasando e modificando un poco Wittgenstein. Anche le parole accadono; anche le conversazioni che restano nell’aria calda di quest’estate per qualche secondo. Le parole inoltre producono effetti. Fanno bene o male. Hai scritto un libro e pensi che sia un fatto? È un fatto di sole parole. I giudizi critici lo stesso. Ma alcuni vanno fieri di ciò e li chiamano fatti, li considerano fatti inoppugnabili. Sono totalmente sicuri di aver fatto una cosa importante. Invece è quasi impossibile distinguere tra fatti e parole in poesia. Invece spesso sono solo parole. Il problema è se la poesia incide nella realtà qui in Italia oppure no. La risposta è approssimativamente no, quasi per niente, in modo infinitesimale. Nella maggioranza dei casi la poesia non cambia la realtà, è impotente di fronte a essa. La poesia in buona parte dei casi fa più bene a chi la scrive che a chi la legge. Ormai è qualcosa di inessenziale. Un tempo ognuno sarebbe diventato famoso per quindici minuti secondo Warhol. Oggi secondo Roberto D’Agostino si può diventare tutti famosi nella stragrande maggioranza dei casi solo per pochi amici, ammesso e non concesso che si abbia degli amici. Molti sono famosi nella loro bolla. E tutt’al più sono conosciuti marginalmente anche in qualche altra bolla. Ma è molto difficile assurgere alla vera notorietà, uscire fuori bolla. Si tratta perlopiù sempre di bolle, ovvero di minuscole porzioni della realtà. Inutile bearsi del niente. E poi si è davvero sicuri del gradimento effettivo? In fondo si può mettere un like a un post perché l’autore fa pena e non metterlo perché sta antipatico, indipendentemente dalla valutazione della qualità di quel post. Ci sono autori con alcuni ammiratori ma anche con alcuni hater e constato che è meglio non avere ammiratori né hater perché gli odiatori lasciano in fondo parecchia negatività e strascichi nell’animo di ognuno. Ci sono stati casi di personaggi pubblici che hanno momentaneamente chiuso i profili social per critiche al vetriolo e insulti di pochi odiatori, pur avendo un grande seguito. Alcuni in poesia si convincono di aver raggiunto la fama con quella pubblicazione a pagamento, con quel premio di un paesino sperduto, con quella pubblicazione in un’antologia che compreranno solo gli antologizzati. La realtà è un’altra. La realtà è che nel 99,9% dei casi molti finiranno nell’anonimato, nel dimenticatoio. Di me non resterà niente e mi piace anche questa prospettiva di cadere nell’oblio. In fondo ci sono sempre stato nell’oblio, nel dimenticatoio. Non avrò alcun peso, alcuna responsabilità, alcun onere della fama. Ci sono abituato ormai e mi va bene così. Ma di chi avrà la cosiddetta posterità cosa resterà? Resteranno forse dei guadagni per gli eredi? Nel 99,9% dei casi assolutamente no. Resterà una via di periferia e nessuno saprà a chi era dedicata? Una pagina alla fine di un manuale di letteratura che nessuno consulterà e che nessun professore farà studiare agli allievi? Una conferenza in cui pochissimi amici faranno in sua memoria per un pubblico di pochissime persone? Una cena tra parenti che ricorderanno che grande poeta fosse il loro defunto? Oppure resterà una pagina Wikipedia scritta da un sodale, che quasi nessuno leggerà in un anno? Oppure un sito Internet con pochissimi visitatori, più intenti a curiosare che ad apprezzare o ad ammirare? La poesia contemporanea italiana non è di moda, non fa tendenza, non è popolare. La poesia è moribonda e perciò viva la poesia! Sono altre le persone incisive. Sono le persone pratiche, pragmatiche. È loro la realtà. Loro hanno compiti e funzioni precise. Loro hanno lavori e guadagni importanti. La gente li considera, li rispetta, li stima, li ammira. Loro fanno qualcosa agli altri per gli altri. La poesia di fatto non riesce a sortire alcun effetto. Tanti scrivono poesie ed è come se non le scrivesse nessuno. Bisognerebbe ricordarsi come sostiene Federico Fiumani che si può anche vivere poeticamente senza obbligatoriamente scrivere versi. Inoltre non si può essere elitari e rifugiarsi in una torre eburnea in nome di un’aristocrazia di pensiero, che non c’è più. Un tempo ci voleva kunstwollen, ovvero volontà d’arte per scrivere poesie. Oggi sono necessarie molta convinzione di sentirsi artisti e un minimo di consenso, poco importa se in grandissima parte amicale e autoreferenziale. Beckett tratta del fallimento umano, di riprovare ancora e di fallire di nuovo. Ebbene la condizione umana dell’uomo contemporaneo è la stessa di molti poeti, che però vivono di illusioni e non sanno riconoscere il proprio fallimento umano e artistico. La poesia oggi perlopiù è amorfa, cade nell’indistinto, non produce effetti benefici né malefici. Non è benedizione né maledizione. Non fa niente. Nella gran parte la poesia non è perlocutoria, è semplicemente inoffensiva, improduttiva, sciatta. A meno che non si tratti di voci inconfondibili, di ottimi poeti e poetesse. Ma io non sto parlando delle eccellenze che ci sono. Sto parlando soprattutto del gran marasma generale, del grande caos, che tutto appiattisce, tutto livella, quasi tutto annulla. È quasi come se non ci fosse la poesia oggi. Le altre parole hanno un uso comune. Le parole poetiche sembrano perdere di senso. La colpa non è dei poeti ma di questa cultura, di questa società allo sbando. Le poesie sono atti linguistici quasi inutili, per pochissimi eletti. Ma non si può nasconderci purtroppo dietro alla retorica del “meglio pochi ma buoni”. Bisogna ambire a molto di più. Certi poeti però hanno un minimo di responsabilità: la società occidentale dà loro già addosso e loro tanto per gradire finiscono per fare gratuiti atti autolesionistici, allontanando sempre di più le persone, il pubblico già sospettoso e lontano. Certi poeti infatti fanno terribilmente sul serio. Si prendono terribilmente sul serio. E questo va a loro discapito. Si rinchiudono nella loro cricca. Non cercano di andare incontro alle persone. Le cose sono due almeno: dovrebbero riversare la loro ironia nella pagina o sulla loro persona, nel loro atteggiamento esistenziale, nel modo di relazionarsi agli altri, se non addirittura a fare tutte queste cose insieme. Invece la postura è sempre la solita. Alcuni non scendono dal piedistallo e hanno come modelli dei monumenti. Come se non bastasse alcuni sono rimasti a una condizione della poesia tipica del Pascoli. Se poi la poesia non ha pubblico non lamentiamoci. Forse chiedo troppo chiedendo autoironia, ma certi poeti dovrebbero abbracciare la semplicità, l’umiltà. La strada è tutta in salita. Montarsi la testa per piccoli insignificanti traguardi oltre a essere così poca cosa è controproducente alla causa della poesia. Infine i poeti dovrebbero sapersi gestire. No ai falsi miti, all’autodistruzione, al trascurare disturbi psichici e non curarli in nome di un presunto genio creativo, tutto da dimostrare. Un’altra cosa utile alla poesia sarebbe parlare chiaro, dire pane al pane e vino al vino, non perdersi in inutili intellettualismi. Questa è l’amara realtà di cui bisogna prendere coscienza: questi sono i fatti inoppugnabili.

Sulla mancanza di gossip poetico e altre amenità letterarie...

giu 232022

 

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La prova tangibile che i poeti non se li fila nessuno è l’inesistenza del gossip poetico. Se non c’è gossip poetico è perché non interessa nessuno. Cosa volete che importi alle gossippare di professione sotto l’ombrellone o in portineria di poeti e letterati? Se qualche circolo letterario o qualche piccola casa editrice cercasse di ravvivare il mondo poetico con del gossip poetico non alimenterebbe niente, non produrrebbe niente di positivo. Nel migliore dei casi il gossip poetico finirebbe per scimmiottare maldestramente il gossip dello spettacolo. Qualcuno potrebbe sostenere, neanche troppo paradossalmente, che il vero gossip poetico dai tempi di Freud in avanti è la critica psicoanalitica o biografica, che dir si voglia (per intendersi quella che parla delle emorroidi e non degli epistemi, come annotava Montale). Certo a vantaggio di certo psicologismo va detto che il biografismo spesso determina la postura autoriale, lo stile, parte dell’opera, ma non andiamo oltre: il pessimismo cosmico di Leopardi non scaturisce totalmente dal fatto che fosse gobbo, anche se in certa parte ci può influire. Ritornando alla contemporaneità, questo disinteresse totale nei confronti della poesia va avanti da decenni; uno dei segni inequivocabili è che la poesia, almeno quella italiana, sia totalmente fuori dallo show business. La realtà è che la poesia non rientra nel mondo dello spettacolo. Tutti sono artisti nel mondo dello spettacolo, ma per un poeta o una poetessa non c’è mai posto. Nessun poeta di belle speranze ha un agente, un manager. Nessuno caga i poeti. Come distinguere poi il buono dal mediocre? Un tempo l’unico posto concesso dalla televisione generalista, parlo di anni fa, era alla Corrida: qualche spazio veniva lasciato a certi dilettanti allo sbaraglio, che si esponevano al pubblico ludibrio. Ma la stessa televisione generalista ha spesso dileggiato il mondo dell’arte. Vi ricordate quando anni fa Ezio Greggio faceva vedere un quadro e poi sentenziava scherzosamente “tavanata galattica”. La cultura, l’arte, vere o presunte, dovevano sempre subire la presa in giro in nome di una presunta superiorità goliardica. Ogni pretesto, ironico o no, era un modo per dare addosso all’arte. C’era comunque un altro modo di ammazzare l’arte ed era quello di trattarla in modo noioso e soporifero, come accadeva spesso in RAI anni fa. Talvolta oggi si ha l’impressione che qualche poeta cerchi a tutti i costi l’occasione buona per rientrare nel mondo dello spettacolo, cercando di tirare per la giacchetta alcuni cosiddetti vip. Affari loro! Si accontentino pure delle briciole di visibilità che il mondo delle cosiddette “star” danno loro! Eppure un poeta autentico non dovrebbe ambire alla fama a tutti i costi. È vero che per ogni autore esiste il diritto/dovere di essere conosciuto. Ma ciò richiederebbe un minimo di etica, di dignità, di coerenza! Capisco che vivere una vita in perfetto anonimato e con scarsissima riconoscibilità può rovinare il carattere o addirittura la psiche. È altrettanto vero che bisognerebbe avere un minimo di saggezza per godersi pienamente l’anonimato, che – diciamocelo onestamente – la poesia dà. Alcuni/e invece non si accorgono di questi benefici. In definitiva minore è il rumore del mondo circostante e più facile è raccogliersi in meditazione o ammirare le bellezze della natura. Non a tutti capita di essere citati dalla Isoardi per lasciare Salvini come accadde a Gio Evan, che a onor del vero poeta non è e infatti la critica letteraria non lo considera minimamente, nonostante la notorietà (ma tante persone si accontentano beatamente dei surrogati della poesia). Comunque è meglio così. I poeti non avranno gruppi di ammiratrici né bagni di folla, ma possono fare anche giri in centro senza essere disturbati. È vero che un poeta qualsiasi non gode di alcun privilegio, però non ha neanche hater e stalker. Alla stragrande maggioranza dei poeti e delle poetesse non tocca il benessere materiale, a meno che non abbiano una famiglia agiata alle spalle. Pubblicare, andare alle conferenze, incontrarsi con altri letterati, comprarsi libri per rimanere aggiornati sono cose che hanno un costo. È rarissimo che uno con la poesia faccia pari. Di solito ci rimette. E allora vi chiederete voi chi lo fa fare ai poeti? Semplicemente la passione, l’abnegazione, l’amore per la poesia. In fondo oggi tutti sono poeti e nessuno è poeta. Una volta un cantautore diceva molto snobisticamente che oggi scrive poesie anche la casalinga di Voghera. In quel che diceva in un modo molto sbagliato forse un fondo di verità c’era. Di sicuro oggi il tasso di scolarizzazione è aumentato rispetto a qualche decennio fa. La produzione poetica è cresciuta di pari passo. Ci sono talmente tanti premi inutili e talmente tante case editrici non selettive che le cosiddette persone comuni non sanno distinguere chi ci marcia su e chi vale. Per non sbagliare si affidano ai mass media. Così acquista credibilità solo chi viene visto in televisione. Ma i poeti non vengono invitati in televisione di solito; se va di lusso al poeta o alla poetessa viene dato lo spazio di un minuto su RAI3 in tarda serata o di notte. La verità è che la poesia non fa ascolti. Molto probabilmente decenni fa davano spazio a Montale, Ungaretti, Pasolini perché non c’era l’audience e poi i tempi sono cambiati, per alcune cose in peggio e per altre in meglio. Parliamoci chiaro: è mortificante per una poetessa avere studiato, letto, scritto per una vita e non essere considerata dai mass media, mentre la showgirl svampita, dopo qualche passaggio televisivo, ha notorietà e soldi che lei non ha mai avuto in tutta la sua esistenza. È il mercato, purtroppo. Quando Rino Gaetano cantava “allestite anche le unioni dalle dite di canzoni” erano gli anni ’70. Da anni calciatori e showgirl sono sulle prime pagine dei rotocalchi. Vengono celebrati i loro amorazzi, che talvolta sfociano in un matrimonio. Loro hanno la centralità del gossip. Loro hanno l’esclusiva. Ma vuoi mettere starsene in disparte? Ma vuoi mettere essere sconosciuti ai più? Anche perché essere conosciuti ai più come poeti o poetesse non necessariamente è una bella nomina. Molti concepiscono il poeta come persona astrusa che rincorre le farfalle ed è completamente fuori dal mondo. Per molti romani dell’epoca Amelia Rosselli era solo una che scriveva poesie e intendevano ciò in modo canzonatorio, addirittura spregiativo.

 

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Joyce in “Ritratto dell’artista da giovane” scriveva: “Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questo la casa, la patria o la Chiesa: e tenterò di esprimere me stesso in un qualunque modo di vita o di arte quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio e l’astuzia”. Queste parole sono completamente estranee a certi poeti e poetesse, presenzialisti/e, sempre pronti/e a declamare i loro versi in questo o quel festival. Alcuni/e sono come la gramigna. Sono ossessivamente presenti. Non possono fare a meno di farsi conoscere nei circoletti. Il massimo della soddisfazione e del narcisismo è quando qualcuno chiede loro degli autografi. Hanno coronato il sogno della vita. Tutto sembra basarsi sulla riconoscibilità immediata. Alcuni/e cercano il riscontro del pubblico. Invece sarebbe meglio dosare le forze, centellinare le presenze, essere più preziosi, farsi desiderare di più. Il rischio, a forza di darsi a tutti, è quello di venire a noia. Il mondo quotidiano però è avaro di gratificazioni e di successo per i poeti. Quando si incontrano i poeti talvolta diventa una piccola gara a chi ce l’ha più lungo o a chi è più bella: io ho pubblicato più copie, io ho pubblicato con una casa editrice importante, io ho pubblicato su più riviste letterarie, io ho vinto più premi, io sono in più antologie scolastiche. La cosa paradossale è che se pubblicamente dichiarano la rimozione dell’io lirico in poesia, nei fatti, nei social, nei loro siti internet, nella vita privata cercano l’affermazione del loro io a tutti i costi.

 

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(Nella foto il festival di Catelporziano)

 

Mai scoperchiare questo vaso di Pandora perché chi descrive pubblicamente questo stato di cose viene criticato, zittito, biasimato in tutte le forme. Gli anni passano per tutti, ma l’importante per certi poeti è avere qualcosa di cui vantarsi nell’angusto mondo delle patrie lettere. Chi denuncia pubblicamente la situazione comatosa in cui versa la poesia italiana è un frustrato, un deluso, un fallito, un aspirante poeta mai riconosciuto. Alcuni dicono che sono cose vere, però non vanno dette. Personalmente a casa mia meno per meno fa più. Personalmente non mi diverto a constatare questo stato di cose, ma lo faccio per spirito di servizio. Ritengo anche che sia questione di avere un minimo di onestà intellettuale e di dire come vanno le cose. Certo ci sono ripicche, invidie, gelosie, compromessi, conflitti, antipatie, simpatie, favoritismi, ostracismi. Anche i poeti sono esseri umani. Allo stesso tempo come canta De Gregori quando tra “buoni poeti ne trovi uno vero è come andare lontano, viaggiare davvero”. Eppure di poeti e poetesse buoni/e e anche ottimi/e ci sono, esistono. Allo stesso tempo non hanno visibilità né dalla critica né dai mass media. Un tempo i poeti che valevano avevano molta più importanza nella cultura. Oggi invece sono relegati a un ruolo marginale, vengono messi in un angolo nascosto. Non c’e da stupirsi se il cosiddetto popolo non considera i poeti, visto che gli stessi letterati, studiosi e appassionati non ne hanno a cuore. Ci sono troppi addetti ai lavori che si occupano di poesia e non l’amano, anzi l’hanno in odio. Eppure ci sono poeti e poetesse brave che meriterebbero successo, denaro, amore. Il sistema invece li respinge, li ricaccia indietro. E loro si estraniano, non partecipano più. La loro funzione sociale sarebbe quella di combattere il sistema dall’interno.

 

 

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Tutto ciò viene continuamente disatteso e cosa resta in fondo? Un atteggiarsi anticonformista, una posa composta di dolore talvolta mai provato, un piangersi addosso tra sodali, un’elemosinare goffo di consensi. Comunque talvolta per questo scompenso, per questa scarsa considerazione perenne alcuni, non potendo gridare al mondo quanto valgono, finiscono per immalinconirsi, incattivirsi, imbastardirsi, in taluni casi giungono alla smania di grandezza, alla megalomania, al delirio di onnipotenza. Fondamentale è passare sopra queste debolezze umane, queste piccole inezie e prendere il buono: dai poeti e dalle poetesse non bisogna prendere assolutamente le loro tare psicologiche, invece bisogna esclusivamente amare i loro versi. Forse bisognerebbe ricordarsi più spesso ciò che scriveva Rilke: “l’arte è solo una maniera di vivere, e ci si può preparare a essa vivendo”. Spesso ho constatato che poeti più o meno riconosciuti non avendo l’amore dal pubblico e non avendo talvolta pubblico vivono tra rabbia e rassegnazione, in uno stato caratterizzato da grandi delusioni e piccole illusioni. In fondo qualcuno dirà che la poesia stessa è un’illusione, ma anche la vita e il vivere quotidiano che cosa è basato se non sull’illusione costante che tutto domani possa andare meglio? Siamo costretti a vivere di piccole illusioni. Tutti quanti, poeti e no.

 

Sulle polemiche, la comunità poetica e la scomparsa di Patrizia Cavalli...

giu 222022

 

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Mentre nel mondo si è discusso in questi ultimi mesi dei problemi con i traduttori europei della poetessa americana Amanda Gorman, in Italia si discute per molto meno e per cose di minore importanza in ambito poetico senza nessuna cassa di risonanza mediatica. "Polemica" deriva da polemos, che anticamente era il demone della guerra: nomen omen. Ultimamente i social si sono scatenati contro la modella Giorgia Soleri, fidanzata di Damiano dei Maneskin, che ha pubblicato un libro di versi. Alcuni l'hanno definita una "raccomandata", senza scordarsi che molti vip colgono l'occasione di pubblicare con grandi case editrici, sfruttando la notorietà. Qualcuno a riguardo ha scritto che il problema non sono i fenomeni da circo ma il circo stesso. Indipendentemente dal valore dei versi della Soleri bisogna ricordare l'ingenuità di una ventenne. Una poetessa riconosciuta come Maria Grazia Calandrone vi ha trovato dell'originalità, del buono. Poi c'è stata la polemica indegna e ingiusta sul vitalizio ad Aldo Nove. Anche qui alcuni sui social non hanno risparmiato delle critiche, senza considerare i meriti letterari di Aldo Nove. Ci sono state tempo fa polemiche poetiche sulla paternità dello Slam Poetry, che sarebbe del poeta Lello Voce, qui in Italia. Sempre tempo fa ci sono state polemiche sulla validità letteraria effettiva degli Slam Poetry, considerati dal poeta Matteo Fantuzzi una forma di intrattenimento. Più che polemiche sono stati leggeri disappunti quelli della comunità poetica sulla pubblicazione di un'antologia di poesie curata da Jovanotti, (anche se insieme all'editore Nicola Crocetti) oppure sulla grande notorietà di Franco Arminio, Gio Evan, Guido Catalano. In questi casi nessuno si scanna, facendo duelli all'ultimo sangue su Jovanotti, Arminio, Evan, Catalano. I toni si mantengono nei casi suddetti più leggeri. I social e i blog comunque sono talvolta le sagre delle polemiche al vetriolo, polemiche non fatte per niente ad arte. Anche su litblog importanti come Nazione indiana talvolta le discussioni degeneravano. Alcuni leoni da tastiera si facevano forti dell'anonimato e allora giù battute di dubbio gusto, che rasentavano l'insulto. C'era e c'è ancora chi si firma Pippo, Paperino, Nonna Papera. A volte a forza di fare polemiche letterarie si può addirittura rischiare di essere minacciati di morte. Ma di fatto poi non succede niente. Nessuno picchia nessuno. Nessuno ammazza nessuno. Fortunatamente non finisce come con i rapper americani, dato che qualcuno lì negli States è morto assassinato. C'è comunque chi non la prende affatto bene ed esce dal seminato. Ci sono a ogni modo commentatori di blog professionisti, che passano delle ore a leggere, commentare, controbattere, argomentare. È il gusto primigenio della discussione, intesa come momento di crescita culturale. Talvolta il thread ha esiti imprevedibili. C'è chi va fuori tema oppure chi si fissa su una cosa secondaria. La questione si può fare personale, ci possono essere attacchi privati. Ma sono rimasti pochi i commentatori compulsivi. Di solito le persone oggi manifestano il loro gradimento con un like o un cuoricino. Di solito se scrivono per l'appunto sono laconici e scrivono due righe. Forse è il segno che i blog sono morti o che sono dei moribondi e che oggi non è più di moda commentare su di essi. Di certo non è per mancanza di dialettica. È solo che la maggioranza delle persone non vuole polemiche. Le ritiene inutili. Non dico che sia bene o male, giusto o sbagliato, ma penso che la mia sia un'interpretazione corretta. Nei social divampano di più discussioni, che talvolta sfociano in liti. Ci possono essere discussioni costruttive come quelle sull'autoreferenzialità della poesia italiana, sul fatto che i poeti sono troppi, sull'assenza di pubblico, sulla linea di demarcazione tra poesia e non poesia, sulla fine del postmoderno, sul fatto che si possa parlare o meno di neo-neoavanguardia. Però anche in questi casi la discussione può avere risvolti molto negativi. Succede così che le discussioni poetiche diventano spesso dialoghi socratici incompiuti, in cui c'è solo la pars destruens ma manca la pars costruens. Non si risolve mai il problema. Il rischio è quello di perdersi in questioni di lana caprina e di azzuffarsi per niente. Forse sui social si respira un'aria familiare, ci si sente più a casa, si ha la percezione errata che tutto quello che postiamo non sia pubblico e non sia letto dal prossimo. Forse sui social ci sono più reazioni perché consentono una maggiore reattività. La maggioranza dei poeti, veri o presunti, si chiama però spesso fuori dalle polemiche. Anche se qualcuno li istiga, li aizza non rispondono. Hanno tutto o poco da perdere, ma qualcosa da perdere ce l'hanno. Non vogliono rischiare crisi reputazionali. I poeti cercano nella maggioranza dei casi di non farsi nemici. Ecco allora che cercano di stringere alleanze, che cercano sodalizi, collaborazioni. Nascono simpatie, addirittura amori. Dove non c'è l'amore o la stima viene stipulato di solito il patto di non belligeranza. La comunità poetica è a sua volta suddivisa in diverse fazioni. Ci sono i neolirici, i poeti di ricerca, i performer, etc etc. Si affacciano sulla scena anche gli istantpoets. Ci sarebbero poi i poeti di strada. Di solito cercano di sopportarsi a vicenda, nonostante le insofferenze di qualcuno. L'odio quando viene covato rimane un fiume carsico per questione di desiderabilità sociale, di convenienza, di scaltro opportunismo.

 

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Riguardo ai poeti è vero ancora oggi in parte quel che cantava Roberto Vecchioni:

"I poeti son liberi servi di re e cardinali
Che van ripetendo "Noi siam tutti uguali"
E si tingono di rosso vivo
Ciascuno pensando "Il giorno del Nobel farò l'antidivo"...

...I poeti son giovani stanchi che servon lo Stato
Sputandogli in faccia perché sia dannato
E sbandierano cieli e fontane, messaggi e colombe
A noi le campane, ai ricchi le trombe."

 

 

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Ma è a mio avviso sempre attuale anche il ritratto che ne fece Francesco De Gregori:

"Vanno a due a due i poeti
Verso chissà che luna
Amano molte cose, forse nessuna
Alcuni sono ipocriti, gelosi come gatti
Scrivono versi apocrifi, faticosi e sciatti
Sognano di vittorie e premi letterari
Pugnalano alle spalle gli amici più cari
Quando ne trovano uno ubriaco in un fosso
Per salvargli la vita gli tirano addosso
Però quando si impegnano lo fanno veramente
Convinti come sono di servire alla gente
Firmano grandi appelli per la guerra e la fame
Vecchi mosconi ipocriti, vecchie puttane. "

 


Naturalmente un'altra discussione ancora aperta e interminabile è se la canzone d'autore possa essere considerata poesia o meno.
Ma potremmo citare a questo proposito il già classico Dino Campana, che scriveva: "Vo alla latrina e vomito (verità). / Letteratura nazionale / Industria del cadavere. / Si Salvi Chi Può".
Ritornando alla questione delle polemiche, le liti tra letterati, poeti, amanti della poesia sono rare ma accadono. Non sono all'ordine del giorno. Non sono la normalità, ma accadono. Uno si arrabbia, perde le staffe, ci può rimettere a lungo termine in salute. Gli attacchi personali così come le diatribe possono generare ansia ma anche rabbia incontrollata. Croce scriveva: "la polemica mi rinfresca il sangue". In realtà a molti di solito lo può avvelenare il sangue. Oppure uno può fregarsene quasi totalmente o addirittura accettare a malincuore e con rassegnazione questo stato di cose. Ci sono inoltre le shit storm. Viene presa di mira una persona, viene accerchiata virtualmente, fioccano una serie inenarrabili di critiche di bassa lega, di commenti negativi e faziosi, se non di insulti. La diffusione di responsabilità sembra legittimare tutto ciò. Alcuni non percepiscono il discrimine tra un sano diritto di critica e la diffamazione aggravata online. Un tempo esistevano i troll che non lesinavano punzecchiature, toni scherzosi, deridendo chi prendevano di mira. Oggi ho la netta sensazione che la situazione sia degenerata. Ci sono polemiche che generano attriti, antipatie tra appartenenti alla comunità poetica oppure ci sono anche attriti, antipatie preesistenti che generano nuove polemiche. Comunque dovendo rinunciare alle risse dei talk show non avendo tale possibilità mediatica i poeti, veri o presunti, si devono accontentare di quello che passa il web. Se uno assurge a un minimo di notorietà si presentano gli ammiratori acritici e gli hater. Poi non è solamente questione di talento, di pubbliche relazioni, di fortuna critica. Come scriveva Alberto Arbasino: “In Italia c'è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l'età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro.” Ma la comunità poetica va detto che è un grande calderone. Chi può a pieno diritto dire di appartenervi? Tutti e nessuno, ovvero poeti e letterati effettivi, aspiranti, sedicenti. È tanto opinabile quanto arbitrario stabilire chi è un poeta. Basta aver pubblicato un libro, seppur a pagamento o esserselo autopubblicato? Bisogna aver vinto un premio purchessia, anche quello della propria parrocchia o del circolo letterario a cui si è iscritti? Bisogna avere pubblicato solo su litblog, riviste letterarie? Oppure possono fregiarsi del titolo di poeti e poetesse solo coloro che pubblicano con grandi case editrici? È vero che il web è la fossa del leone e i nuovi leoni ora sono i social. La critica è quasi inerme, sta sulla difensiva, arroccata nella qualità. Perfino gli editori però controllano la popolarità sui social, il numero di follower degli aspiranti poeti, che ormai devono essere webpoet. Dopo tanto odio ecco che arriva il giusto riconoscimento dopo una sudata carriera letteraria; ecco un profluvio, una massa di necrologi, di attestati di stima, di elogi sperticati al momento della dipartita: una vera e propria celebrazione in pompa magna che durerà pochissimo e non lascerà alcuna traccia perché ormai niente lascia più traccia sui social, come scriveva oggi il poeta Luca Alvino. E allora cosa è che resta se resta? Resta la grande poesia e restano i grandi poeti. Come scrisse Alfonso Berardinelli: "Io non credo nella poesia. Credo soltanto in quelle poesie che mi fanno credere in loro. Se convince il lettore, la poesia non ha bisogno di essere difesa".

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È morta una grande poetessa come Patrizia Cavalli il 21 giugno. Non ho scritto nessuna riga su Facebook. Non ne aveva bisogno. Quando era in vita ho acquistato alcuni suoi libri. Quello che potevo fare l'ho fatto. Era il minimo indispensabile, ma non la conoscevo ed ero impossibilitato a fare di più. Adesso non piango lacrime di coccodrillo né fingo che fosse una persona amica. Restano dentro me alcuni suoi versi e forse non è poco. Scusate se non sono falso e scrivo a ciglio asciutto. Spetta ad altri più titolati di me o anche più vicini a lei scriverne e parlarne. Una mia commemorazione fatta, lodandola come poetessa sarebbe inopportuna e fuori luogo. I coccodrilli li scriva chi di mestiere. E scrivo ciò senza voglia di fare polemica; ci mancherebbe.

Considerazione sulla poesia ai tempi del Covid....

giu 192022

Questi pensieri disincantati e disillusi  sono stati scritti nel bel mezzo della pandemia. Sono molto pessimisti perché risentivano del fatto che allora non vedevo assolutamente una via di uscita (se c'è una via di uscita o meno non lo sa però nessuno con certezza). Ne riporto fedelmente i contenuti senza modifiche. Tenete però presente il mio stato d'animo di allora. 

 

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La poesia contemporanea italiana è in crisi da decenni. Mi manca comunque il raffronto con le altre nazioni che non conosco. È difficile ad ogni modo giudicare e valutare i poeti. Il grado di oggettività è minimo nella valutazione perché la poesia è anche “parola” (e non solo “langue”), è anche connotazione. Esiste poi la cosiddetta polisemia nella lirica. Inoltre come scrisse Sereni la poesia è “custode non di anni ma di attimi”. È qualcosa di impalpabile. Nessuno può comunque avere pretesa di esaustività nel definire la comunità poetica. Personalmente sono pessimista sulla poesia contemporanea italiana. Forse sono io che chiedo troppo alla poesia. Chiedo che non sia uno sfogatoio e che non abbia carattere privatistico, ma che abbia universalità. Chiedo che non sia pretestuosa né intellettualistica. Chiedo che non crei mondi fittizi, ma che sia in presa diretta con la realtà. Chiedo che non sia finzione e che le sue parole non siano evanescenti. Chiedo che critichi le istituzioni senza cadere in un vuoto ribellismo. Chiedo che sia una forma di arricchimento della personalità. Chiedo che mostri il lato irrazionale in una società basata sul razionalismo. Chiedo una poesia che almeno abbia sullo sfondo le patologie sociali, le sopraffazioni, le ingiustizie. Chiedo che cerchi di dare un senso alla vita. Forse è troppo. E poi cosa è mai questa poesia contemporanea? Ha forse un volto riconoscibile? Cosa c’è dietro un apparente fermento? È difficile offrire una panoramica vasta. Il fenomeno è complesso. Attualmente sono mutate molte cose (c’è stata una pandemia con milioni di morti nel mondo e più di centomila in Italia, c’è una gravissima crisi economica, c’è il debito pubblico alle stelle, eccetera eccetera). Intendiamoci bene: c’è chi fa cose più mostruose o inique di scrivere versi. Al mondo c’è chi ammazza, chi è pedofilo, chi fa il trafficante d’armi. Come può però una poesia, a tratti elitaria e illeggibile come quella contemporanea italiana dire qualcosa ai cittadini? Si possono dire le cose in modo più semplice? Un poeta farebbe sempre meglio a chiedersi: che sto a dire? Come lo sto a dire? Per quanto riguarda la comprensibilità dei testi la Dickinson scriveva che si doveva dire la verità in modo criptico, mentre K. Popper sosteneva che niente è così facile che scrivere in modo difficile e che tutti coloro che scrivono devono porsi come dovere la chiarezza espositiva (però era un filosofo). La realtà in poesia è che i componimenti dovrebbero in teoria cercare sempre di raggiungere i vertici della significazione. Però i poeti spesso cercano termini ricercati, talvolta antiquati, perché li considerano più consoni. I poeti tra gambo e stelo scelgono sempre il secondo vocabolo, anche se non sarebbe necessario. Anche i poeti in fondo hanno il loro gergo. I più dicono di farlo per la eufonia, la musicalità. Io ho i miei dubbi. Mi sembra che Pasolini avesse dichiarato a riguardo che esistesse in poesia un codice classista del linguaggio. Disse che nella sua prima poesia da bambino aveva utilizzato i termini “usignolo” “verzura”, anche se li conosceva vagamente. Comunque è vero che la realtà è complessa e per dirla alla Gadda "la vita è barocca ". L'esistenza è ciò che pensiamo e sentiamo in base a quello che ci accade. Ma stare a raccontare i nostri fatti inessenziali è oggetto di prosa. Esprimere pensieri ed emozioni, costruire simboli, metafore e analogie significa sapersi innalzare dalle cose della vita e fare poesia. La letteratura e con essa la poesia è una forma di conoscenza intuitiva e provvisoria. Non a caso Antonio Pizzuto riassume tutto in questi termini: "A è A, se A è A, finché A è A".  Nella poesia il cuore comunque è nella parola ma anche nell'immagine. Spesso fare poesia significa mettere la testa sopra la melma.

La poesia italiana comunque  versava già da tempo in gravi condizioni. Che cosa può dire un poeta o una poetessa a persone in difficoltà? Che cosa può dire un poeta o una poetessa a un malato di Covid o a un familiare di una vittima del maledetto virus? Oppure di fronte a un familiare di una vittima sul lavoro? Oppure di fronte alla fame nel mondo? Come verbalizzare e rendere credibile la verbalizzazione del nostro vissuto e delle nostre vicissitudini di fronte ai traumi così devastanti di chi non ha un euro o ha un familiare morto di Covid? Può un poeta trattare delle tragedie altrui, del Covid altrui senza incorrere nella retorica e nella inautenticità? I poeti attualmente non rischiano di scrivere in una lingua morta? La poesia può davvero essere testimonianza di quello che sta accadendo? Questi argomenti non sono assolutamente triti e ritriti. Nessuno ne dibatte oggi. Invece dovrebbero essere studiati attentamente. Prima di difendere strenuamente i poeti, dire che la poesia migliora la vita e salvaguardare la poesia bisogna riflettere a livello ontologico, etico ed epistemologico sulla scrittura in versi. Bisogna come minimo portare avanti dei ragionamenti e vedere quali sono gli ostacoli. Ognuno deve fare i conti con sé stesso, a costo di mettere in crisi certezze ed identità. Non è questione di indicare un approccio rivoluzionario. Nessuno sa quale è la strada migliore da seguire, ma non fare ciò significa mancare di nuovo a un appuntamento fondamentale, quello della storia. Oggi scrivere versi, guardando al proprio ombelico, non è più possibile a mio modesto avviso. C'è il rischio della fine del mondo. Pochi riflettono veramente sulla grave crisi in cui versa il mondo nel cosiddetto Antropocene. Inoltre i poeti dovrebbero chiedersi se davvero ne vale la pena, visto che non ci guadagnano e che la gloria nella maggioranza dei casi si fa attendere. Dovrebbero farsi un esame di coscienza, che è allo stesso tempo sia un atto di onestà intellettuale che un atto di umiltà. Ciò nonostante molti non si pongono queste domande essenziali. In molti predomina il narcisismo e il compiacimento. La visibilità è scarsissima, risibile in questa arte. Alcuni sono frustrati e soffrono di smanie di grandezza. Per un meccanismo di compensazione si autoingannano, mentendo a sé stessi. La poesia ha una scarsa condizione in questa società capitalistica e tecnologica. Che fare allora? Fare la rivoluzione? Diventare uomini in rivolta? Essere tecnofobi? Rifiutare tutti i paradigmi scientifici e le conquiste della scienza? Ritornare allo stato di natura? Un poeta o una poetessa dovrebbe chiedersi se è degno di nota come poetica e come stile, se è valido veramente sia da un punto di vista contenutistico che formalistico. Qualcuno potrebbe obiettare ciò che scrivo e sostenere che ognuno deve fare la sua parte. Ma i poeti possono reggere l’onda d’urto del Covid per  esempio?

 

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Il rischio infine è che la poesia in Italia diventi ancora più marginale di quello che è già. Una domanda sorge allora spontanea: cosa può fare di fronte alla pandemia e alla conseguente crisi economica la poesia italiana, già precedentemente poverissima ancella della società attuale? Questi sono gli interrogativi cruciali. Sicuramente la poesia italiana sopravviverà. Non lo metto in dubbio. La poesia morirà con l’ultimo uomo. Non voglio disquisire se la poesia salvi l’uomo oppure no. A proposito del fatto che la poesia non vende e delle classifiche dei libri fatte solo in base alle vendite ricordo cosa dichiarò Arbasino in una intervista, ovvero che non si può considerare McDonald’s il miglior ristorante del mondo perché la maggioranza lo frequenta. Ritorniamo al binomio pandemia/poesia. Non si può fare finta di niente e mettersi delle fette di prosciutto sugli occhi. Cito testualmente Adorno: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la consapevolezza stessa del perché è divenuto impossibile oggi scrivere poesia.” (Theodor Adorno, “Critica della cultura e società”). Valgono anche oggi le parole di Adorno? È meglio a mio modesto avviso per molti “poeti”, per dirla alla Freud, abbandonare il principio di piacere e abbracciare il principio di realtà. Ognuno prima di scrivere si autovaluti con la coscienziosità del buon padre di famiglia e l’onestà intellettuale di un critico disincantato, smaliziato. Nessuno ora può esimersi dall’esame di realtà. Questa situazione, la crisi del mondo attuale, da qualsiasi punto di vista la si guardi, è tragica. È una situazione che nientifica, nullifica la fruizione di ogni esperienza estetica. Questo è il problema principale, che va affrontato seriamente. Non ci sono scappatoie né vie di uscita. Non si può eludere. Non si può girare intorno, a meno che uno non viva in un mondo tutto suo e che si accontenti di tanto in tanto di un trafiletto in cronaca locale o di vincere un premio ininfluente di un paesino sperduto. Siamo franchi; non sono più i poeti a suggestionare ma la TV, gli influencer e i guru della crescita personale, della programmazione neurolinguistica, del neuromarketing. Oggi al massimo i poeti si autosuggestionano. Non tutte le parole scritte diventano poesia, come non tutte le pietre lanciate rimbalzano sull'acqua. La stragrande maggioranza delle parole si inabissano subito. In ogni caso tutti i pensieri scritti finiscono in una serie di cerchi concentrici, scaturiti dal sasso che finisce nello stagno. Ogni poeta è come un sasso che alza il livello dello stagno, dando il suo apporto culturale. I poeti degni di nota sono sassi che sono rimbalzati sullo specchio d'acqua. Ma sono eccezioni. Probabilmente tutto è vanità (come è scritto nell'Ecclesiaste) e tutto è inutile (come scriveva Guido Morselli nel suo diario). C’è chi per soddisfare il suo bisogno di immortalità fa figli e chi per trascendere la sua morte scrive versi. Io non farò nessuna delle due cose. Un tempo scrivevo versi. Ma ora non più. Cosa significa poi pubblicare poesie sul web? Sono forse messaggi in bottiglie nell’oceano in un tempo in cui tutti lasciano messaggi nelle bottiglie? Viene da chiedersi se da questa passione si può trarre giovamento e se con essa si possa raggiungere il famoso benessere psicologico. È soggettivo. Ci sono anche qui le contrarietà e non solo le soddisfazioni. È questione di fare una analisi costi/benefici. C’è anche chi si accontenta di qualche contentino, di pochissimo, quasi di nulla. Ma forse è soprattutto questione di buonsenso. Bisognerebbe forse raccogliere l'esortazione del grande Fortini: "Non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi". Però non c’è solo il benessere psicologico di chi scrive ma anche di chi legge e ciò non è un fattore secondario, anzi dovrebbe avere la priorità assoluta. La poesia infine può contribuire alla felicità come una bella passeggiata, qualche carezza al cane, una cena tra amici. Sono molteplici le occasioni che ci possono rendere felici. Personalmente guarderò in disparte. Leggere poesia e osservare la comunità poetica è una singolare e strana avventura.

Davide Morelli – 6/7 gennaio 2021

Non sparate sul recensore!!! Una considerazione su recensioni e memoria (tra il pubblico e il privato, tra il serio e il faceto)

giu 182022

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(Nella foto Davide Morelli con l'amico di infanzia Emanuele Morelli in un selfie a Marina di Cecina. Il brufolo sulla fronte ora  non c'è più. Ah ah ah!!!)

 

Alla voce "recensione " sulla "Treccani" si trova scritto: "1. (filol.) [fase del lavoro di edizione critica consistente nella scelta della lezione ritenuta migliore tra le varianti messe in luce dalla collazione: r. chiusa, aperta] ≈ recensio. 2. (estens.) [esame critico, in forma di articolo, di un'opera di recente pubblicazione e, anche, articolo che commenta spettacoli, film, mostre e sim.: fare, scrivere una r. favorevole, severa] ≈ ‖ articolo, commento, critica, giudizio, presentazione, scheda.". Una recensione quindi è una critica, un commento, un giudizio critico. Ma chi può scriverla? Tutti o solo gli addetti ai lavori? Tutti o solo chi se ne intende? E chi se ne intende?
Il poeta e professore Valerio Magrelli (a scanso di equivoci molto bravo come poeta) in una intervista a Fabio Fazio sosteneva (si spera in modo provocatorio) riguardo a chi poteva commentare un libro: "Ecco, io proporrei il sistema delle ore di lettura, come i piloti d’aereo. Quando si può pilotare un jumbo? Quando, per ricorrere a un’iperbole, si sono fatte 8000 ore di volo. Quando puoi scrivere il tuo parere su un libro? Quando hai letto 8000 libri di teoria, di narrativa, di poesia; altrimenti non puoi parlare. Io non voglio sapere i pareri dei lettori, non mi interessano: deve essere vietato al lettore di parlare. Ma parto dalla grande idea di Borges per cui io vado molto più fiero del mio lavoro di lettore che di quello di scrittore. Essere lettori è una cosa importantissima". Ma forse ci sono anche persone che sanno pilotare un aereo senza aver fatto 8000 ore di volo. Le capacità critiche sono date solamente dal numero di libri letti? Non è questa di Magrelli un'idea classista della letteratura? Non è un modo di fare e di dire respingente o evitante? Giustamente a mio modesto o immodesto avviso il professore e poeta Dante Maffia, candidato più volte al Nobel della letteratura, scrive sul sito letterario La presenza di Érato: "Evidentemente lui può, e anche Fazio può, perché gli ottomila volumi li hanno letti. Mi domando: li hanno digeriti? Perché i libri non basta leggerli, bisogna capirli e questo può avvenire se si riesce a stabilire con loro una certa complicità, se si riesce a entrare nelle pagine senza pregiudizi e senza spocchia, ascoltando gli autori senza sovrapporsi, senza pretendere di farli passare per la cruna del proprio ago per renderli un’appendice di se stessi. E poi… se uno di libri ne ha letto settemila e ottocento? Ma che razza di ragionamenti sono questi? Magrelli mi pare che abbia visitato in Russia la biblioteca di Boris Pasternak che raccoglie poche centinaia di volumi, quelli amati, letti (e digeriti). Un’altra delle biblioteche che ha dato cibo a Singer è di circa trecento volumi, tanto che, quando gli fu assegnato il Premio Nobel, i giornalisti, andati a intervistarlo, gli domandarono più volte dove fosse il resto dei suoi libri". Aggiungo io che la biblioteca di Petrarca ad Arquà fosse di circa 500 volumi e quella di Montaigne nella sua torre di 1000. Io di libri ne ho letti solo 3000-3500. Nella mia biblioteca attuale ce ne sono circa 1200-1300. 900 libri li ho buttati via per il trasloco. Erano troppo malandati. La biblioteca comunale non voleva i libri sottolineati. Altri 150 li ho donati alla biblioteca comunale. Molti libri letti li ho presi a prestito dalla biblioteca comunale. Non li ho comprati. Io perciò secondo Magrelli non avrei voce in capitolo. Ma "esisto anche io, malgrado le apparenze" scriveva il cantautore e poeta livornese Piero Ciampi! 

 

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(Nella foto Il poeta Valerio Magrelli. Da Wikipedia)

 

Veniamo a me. Ho recensito diversi libri in questi ultimi anni. Ho recensito libri di grandi autori, di autori affermati e di emergenti. A volte mi chiedo: ma se qualcuno mi facesse il terzo grado su tutte le mie recensioni cosa saprei dire? In questo caso non si tratta di problemi di apprendimento, ma di mantenere intatte le nozioni. Potrei trovarmi in difficoltà. Qualcuno potrebbe obiettare: caro Davide, scusa non richiesta accusa manifesta e poi chiedermi perché metto le mani avanti. Sarebbe impossibile per me a ogni modo ricordarmi con dovizia di particolare tutti i libri recensiti. Forse è un'impresa impossibile per ogni recensore che si rispetti. Comunque chiedo venia. Io scrivo una recensione e poi vado oltre, passo oltre. Parlando in generale, la memoria a breve termine ha i suoi limiti. Come dimostrò lo psicologo Miller nel 1956 con il suo saggio breve "Il magico numero sette, più o meno due" tutti riusciamo a memorizzare dai 5 ai 9 (di solito 7) elementi (che in psicologia si chiamano item). L'ippocampo è la parte del nostro cervello, a forma di cavalluccio marino, adibita al passaggio dei dati dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Le persone possono avere problemi di apprendimento quando l'ippocampo è danneggiato per un trauma cranico dopo un incidente stradale per esempio o se hanno lesioni microcorticali ad esso a causa di anni di grave alcolismo o perché sono tossicodipendenti. Si parla in questi casi di amnesia anterograda oppure di psicosi di Korsakoff. Uno dei problemi maggiori per tutti è l'oblio, se non si ripassa continuamente i libri letti. Un altro difetto della memoria è l'interferenza, ovvero non sempre le nozioni vengono interiorizzate, integrate tra di loro e quindi si disturbano. Inoltre libro scaccia libro talvolta, ovvero per acquisire nuove nozioni si dimenticano quelle precedenti. E allora per evitare ciò bisognerebbe rimanere forse alle quattro cose basilari delle scuole elementari? Evidentemente no perché non ci sarebbe progresso. Comunque non preoccupatevi nessuno finisce "out of memory" perché, se è vero che la memoria a breve termine ha dei limiti per tutti, quella a lungo termine è un pozzo senza fondo. E poi viene da chiedersi se sia meglio acquisire nuove conoscenze o approfondire le conoscenze già fatte nostre. Nel dubbio spesso finiamo per fossilizzarci sulle poche cose che sappiamo. A ogni modo talvolta le tracce mnestiche scompaiono. Ma non tutto è perduto! Talvolta basta riprendere da dove avevamo lasciato. Cosa sarei in grado di ricordare e di rispondere se qualcuno mi domandasse delle mie recensioni? Di poche mi ricordo i particolarial 100%. . Ho in mente vagamente il senso del libro. Dovrei rileggere la recensione che ho scritto e poi sarei in grado di spiegare cosa intendevo dire. Non recensisco tutti i libri che leggo. Sarebbe un'impresa impossibile. Recensire? Di solito rispondo come Bartleby: "I would prefer not to". Di solito preferisco fare considerazioni di carattere generale magari citando in qua e in là alcuni libri letti. Bisognerebbe sapere di cosa si scrive. Bisognerebbe scrivere di ciò che sappiamo. In realtà le nostre conoscenze non sono stabili; la nostra mente è un flusso inarrestabile. I nostri pensieri cambiano. Il nostro sapere lo stesso. La nostra in(cultura) vera o fasulla è dinamica. A volte mi immagino che esistano gli avvocati del diavolo del buon recensore o presunto tale. Mi immagino una mia vecchia insegnante di italiano che mi "inchioda" perennemente ai primi due temi del primo quadrimestre del primo anno in cui mi dava 4 e mezzo. Immagino che sia la mia inquisitrice e che mi dica che la mia scrittura è tempo perso. Immagino che mi dica che sono un incapace, un inconcludente e quello che non ho fatto nella vita è l'ennesimo risultato di come andavo male alle superiori, senza considerare la mia svogliatezza e la mia crisi interiore di quegli anni. Immagino che mi dica; tutte scuse Morelli! Immagino che mi dica: tu per me sarai sempre quel quattordicenne che mi guardava e a stento tratteneva il pianto per quelle gravi insufficienze a causa di quei temi così puerili. Non si può allora migliorare? Comunque non vorrei fare lo psicodramma di Moreno. E ad ogni modo perché dovrebbe esserci tanto accanimento nei confronti di un recensore tra i tanti? Mica si parla di beatificazione! Io recensisco talvolta libri hic et nunc. Questo é quanto. È chiaro che in quel momento conosco ciò di cui sto scrivendo. Cerco di farlo nel migliore dei modi, non tralasciando niente al caso. Poi leggo molto e diverse cose me le dimentico. Nessuno, arrivato a 50 anni, ha una memoria di ferro. Quindi potrei avere delle difficoltà se qualcuno valutasse ciò che so in questo momento di tutte le mie recensioni. Abbiate pietà: sono un semplice essere umano e non un automa perfetto. Poi non prendiamoci in giro: gli insegnanti delle superiori o i professori universitari ripassano la lezione e studiano il giorno prima di spiegare in classe o in aula. Nessuno, come si suol dire in Toscana, ha la scienza infusa, in questo caso la letteratura infusa. Se i professori venissero interrogati a tradimento, di sorpresa, potrebbero essere messi in difficoltà anche loro. Non solo ma per una recensione per la rivista letteraria Atelier mi ci vuole diverse ore a scriverla. Di solito scrivo 100, 150, 200 parole di getto. Quindi spengo il tablet e mi metto a pensare cosa dovrei ancora scrivere. Penso, aspetto un'altra idea. Quando finisco mi metto a limare. Pensavo di essere un deficiente a metterci così tanto tempo. Invece poi ho sentito un'intervista alla RAI del critico letterario Walter Pedullà, in cui diceva che ogni recensione gli costava ore di lavoro e fatica. Ritornando alla questione della memoria, perché comunque una nozione resti nella mente, per giungere al passaggio dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine, bisogna reiterarla, ovvero ripeterla mentalmente. Ci sono persone che studiano a voce alta, cioè ogni giorno dopo aver letto attentamente, provano a richiamare dalla memoria i nuovi input culturali. Altri invece studiano insieme a un compagno/a per ripassare e si fanno le domande a vicenda per sapere cosa si ricordano. Ma tutto questo può essere fatica sprecata se uno studente non sa su cosa vertono le domande degli insegnanti. Deve quindi conoscere cosa vuole sapere l'insegnante. La memoria può fare brutti tiri a chiunque, a meno che uno non abbia una memoria fotografica (ma si contano sulle dita di una mano). Decenni fa dicevano di questi individui così portati a ricordare che avevano una memoria eidetica. Va ricordato che per Husserl l'intuizione eidetica permette agli uomini di percepire una melodia e non solo delle singole note. Comunque decenni fa tutto era eidetico perché Husserl era di moda! Certo i trucchi per risolvere gli inconvenienti della memoria ci sono. Esiste la mnemotecnica. Molto semplicemente Pietro Citati, normalista e grande critico letterario, dichiarò che ogni volta che doveva dare un'intervista si preparava sempre ripassando il suo saggio su cui gli avrebbero fatto domande. Si preparava quindi come fosse un esame. A volte parlando in pubblico può sopraggiungere il timor panico e allora l'ansia può obnubilare la mente. In questi casi uno, sopraffatto dall'ansia, può richiamare nozioni alla rinfusa oppure può interrompersi il collegamento tra memoria e linguaggio, finendo per essere preda di un blackout quasi totale, ovvero la classica scena muta. Al contrario ci sono anche memorie prodigiose. Ma spesso un'ottima memoria è frutto di esercizio continuo, a meno che uno non soffra di amnesia. La verità è che certe cose le sapevo quando ho scritto la recensione. La questione di fondo è se la recensione è copiata o meno. Ci sono programmi informatici ad hoc per verificare se è stata copiata. Dire o scrivere che tizio ha copiato è diffamatorio, se non si mostra dove ha copiato, portando le prove oggettive. Importante è che la recensione sia originale. Intendiamoci comunque: recensire non mi pesa, però non date tutto per scontato perché è un impegno. Potrei anche non farlo. Quindi non diamo niente per scontato. Una recensione non è altro che una serie articolata di piccole opinioni. Non si può ricordare tutto. L'importante è essere onesti intellettualmente. Non bisogna mentire. Io per esempio scrivo solo di libri che mi sono piaciuti. Evito sempre le stroncature. Inoltre quali sono i pericoli da evitare? Per la studiosa e poetessa Carmen Gallo un recensore non deve essere un "autore mascherato". Per altri è necessario evitare di recensirsi a vicenda, ovvero fare le recensioni incrociate: quello che la professoressa e poetessa Gilda Policastro chiama ironicamente un 69 critico. Ritornando a me, non posso ricordarmi per filo e per segno tutte le mie recensioni. In definitiva ogni tanto recensisco qualche libro e cerco di farlo con cognizione di causa. Non mi risulta che per recensire bisogna essere professori universitari di letteratura. È sufficiente essere dei lettori forti o quantomeno attento. Ben vengano i recensori dilettanti. Magari sono improvvisati, però sono più sinceri. A volte i critici letterari evitano guai, hanno delle limitazioni. Insomma sono sicuramente meno liberi dei recensori qualsiasi di cui il web è una fucina inesauribile. Ciò non va preso in modo negativo: significa che i libri destano ancora interesse, che possono fare tendenza. Una delle cose da evitare naturalmente è il "recensionismo compulsivo", termine nato da un video su Youtube di Roberto Mercadini, riguardante il delirio delle recensioni su Amazon Libri Perciò potrei affermare di non sparare sul recensore! E poi perché un recensore senza infamia e senza lode, senza arte né parte deve rendere a tutti i costi conto a voi? Non è un recensore qualsiasi la causa dei vostri problemi!

 

N.B: tra i miei libri letti ci sono circa 60/70 classici Bompiani e Meridiani Mondadori, acquistati e in buona parte presi a prestito. In ogni opera omnia ci sono decine di opere. Quindi il numero esatto dei libri letti a onor del vero sarebbe maggiore. La mia è solo una stima per difetto. 

 

 

"Il poeta sei tu che leggi"...

giu 172022

 

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(Nella foto Davide Morelli a Marina di Cecina)

"Il poeta sei tu che leggi” si trova scritto dappertutto ormai. È scritto anche sul Lungotevere Vaticano. Lo scrivono in tanti sul web. Sembra che la paternità sia da attribuirsi al poeta di strada Ivan Tresoldi, certamente un personaggio creativo. Il vero autore sarebbe quindi il lettore. Sarebbe lui il maggior costruttore di significato, il vero responsabile del senso ultimo del testo. Di fronte all'ambiguità semantica è proprio il lettore che decide cosa significhi questa o quell'opera. Una parola, una frase, un intero testo possono avere significati diversi a seconda del contesto (inteso in senso lato) e della sensibilità individuale. Ogni testo in un certo qual modo è polisemico. La stessa connotazione, quella che Umberto Eco definiva come la coloritura emotiva di ogni parola, di ogni frase varia da persona a persona. La denotazione non è oggettiva (nel senso che non è oggettuale come le cose nella scienza), ma è certa perché convenzionale. La denotazione è decisa dalla comunità linguistica. La connotazione è incerta perché soggettiva. Ogni testo quindi dipende anche, forse soprattutto, dallo stato mentale, dall'umore, dallo stato d'animo del lettore in quel particolare frangente. Era questo il punto debole dello strutturalismo,  prima ancora che Chomsky parlasse di psicolinguistica. Possiamo perciò anche essere d'accordo. Gli artisti inoltre non esistono senza pubblico. I poeti non esistono senza lettori. Adam Smith ne "La ricchezza delle nazioni" considerava gli artisti degli assistiti. In quell'epoca la maggioranza erano cortigiani oppure secoli prima per esempio pittori e scultori venivano finanziati da dei mecenati o avevano come committente la Chiesa. Oggi gli artisti sono assistiti dai loro ammiratori, estimatori, seguaci. Aveva capito tutto il cantautore Claudio Rocchi quando gli chiedevano l'autografo, lui chiedeva le generalità del richiedente e poi firmava con il nome e cognome del suo fan. Senza il pubblico l'artista non ha modo di esistere. Oggi è poeta chi legge. Al bando quindi il copyright, i diritti di autore, l'autorialità. In questo modo nessuno è più autore e tutti sono autori. Ma io mi domando: se uno non legge cosa è? Molto probabilmente molti non vogliono leggere perché non vogliono essere poeti. Di solito comunque leggono poesia soprattutto gli aspiranti poeti, coloro che vogliono diventare poeti. Come esistono le preghiere interessate anche queste sono letture interessate in un certo modo. Tuttavia "il poeta sei tu che leggi" significa senza ombra di dubbio che non si può essere poeti senza essere lettori forti. Ma la situazione è a ogni modo desolante in Italia.  Certamente i giornali non aiutano. La cosiddetta terza pagina viene sempre messa in ennesima pagina. Sono anche scomparsi e non più sostituiti grandi maestri dell'elzeviro. Non scrivono più ormai Luca Goldoni, Alberto Arbasino, Pier Francesco Listri, Luigi Maria Personè. Mi ricordo che anni fa mi incuriosivano molto gli aneddoti letterari di quest'ultimo, morto centenario, grande letterato, che aveva conosciuto tutti i più grandi letterati del Novecento italiano e non. Poi le terze pagine dei quotidiani trattano di società, mondo dello spettacolo, tendenze. Trattano spesso di cose futili, leggere, tanto per intrattenere più che per acculturare, se va bene per informare più che per formare. Ma i direttori dei giornali sono messi alle strette e loro, se interpellati a riguardo, direbbero prontamente: i quotidiani vendono sempre meno copie e bisogna dare ai lettori ciò che vogliono. Il potere in questo modo si deresponsabilizza tramite la presunzione di ignoranza del popolo. Così facendo il popolo non si accultura. Inoltre come ho sempre avuto modo di dire: oggi tutto è cultura tranne la cultura. C'è spazio per tutti in televisione tranne che per la letteratura, la poesia, la scrittura. Eppure la fruizione culturale è aumentata notevolmente in questi anni. Ma la cultura è noiosa, soporifera. La scuola non aiuta. I programmi ministeriali sono quelli che sono. Poi con la vecchia retorica che non bisogna dare la pappa pronta diversi critici letterari si sono dimostrati criptici, oscuri, allontanando di fatto le persone dalla cultura. Diversi letterati non vogliono correre il rischio della banalizzazione, della volgarizzazione, neanche quando di tratta di un'utile semplificazione. Anche in letteratura bisognerebbe utilizzare il rasoio di Occam, ovvero non moltiplicare gli enti inutili. Invece sembra che diversi letterati abbiano a cuore il loro gergo specialistico e allora usano grecismi, latinismi, inglesismi, francesismi. La cultura diventa talvolta perciò un fardello pesante. Ci sono ancora oggi diversi letterati, che pur essendo politicamente progressisti, hanno una concezione elitaria e snobistica della letteratura, nutrendo talvolta dei pregiudizi nei confronti della cosiddetta gente. Insomma secondo costoro la letteratura deve essere difficile, non alla portata di tutti. Un tempo il preside della facoltà di ingegneria di Pisa,  Piero Villaggio, amava dire "ingegneria deve essere difficile" agli studenti che si lamentavano della severità dei docenti. Ogni ingegnere ha delle responsabilità civili, sociali, etiche, umane. Deve saper fare bene i calcoli per non far crollare i ponti o se è un ingegnere gestionale deve saper fare i conti per non far fallire un'impresa. Ma un letterato ha soprattutto il dovere di farsi capire ai più. Così scriveva Claudio Chieffo: "Dicevano gli antichi che non c'è nulla di peggio di un popolo che dimentica i suoi poeti; e invece c'è di peggio: un poeta che dimentica il suo popolo". In un certo qual modo diversi letterati complicano le cose; sono esoterici, nel senso più deteriore del termine. Ma a questo proposito secondo una scuola di pensiero nessun uomo è depositario di grandi verità. Le cose della vita sono sempre quelle trite e ritrite. I letterati sono uomini come gli altri. Invece secondo un'altra scuola di pensiero non si può spolpare la letteratura perché poi alla fine ci resta un torsolo di mela. Secondo questi pensatori aveva ragione Cioran quando scriveva che se togliessimo il belletto alla letteratura non resterebbe niente. La domanda da un milione di dollari è la seguente: si può rappresentare la vita anche in modo comprensibile ai più oppure bisogna riprodurla fedelmente nella sua complessità? E ancora i letterati devono abbassarsi al livello del pubblico o devono cercare di elevarlo? Meglio arrivare a tutti o invece essere per pochi eletti? Nel frattempo la poesia è di nicchia. Di solito le espressioni  "nicchia di mercato" o "mercato di nicchia" possono avere anche molti risvolti positivi. Si sente dire che nel mondo economico c'è parecchia crisi, ma tizio e caio hanno trovato una bella nicchia di mercato e si sono arricchiti. Non fatevi illusioni: la poesia è una nicchia di mercato che non vende, non arricchisce, se non interiormente. Eppure le facoltà umanistiche sono sovraffollate. Mai tarpare le ali. Mai uccidere i sogni. Ci penserà poi la realtà a disilludere, a deludere, a disincantare. Un altro problema è che oggi tutti sono poeti tranne i poeti. Sono poeti i cuochi, i cantanti, gli influencer, i lestofanti, i piacioni, gli addetti alle pubbliche relazioni, i latin lover e gli arrivisti vari. La poesia sembra essere di tutti, tranne che dei poeti. E i veri poeti? Non pervenuti. Lasciano poche tracce di sé. Disseminano i loro versi in angoli remoti del web. Pubblicano libricini che vendono poco o addirittura pochissimo. La poesia d'altronde è di tutti o di nessuno. Parafrasando un celebre detto, la poesia è quella cosa che tutti pensano di sapere che cosa sia. In tutta onestà penso che valga la regola opposta e inversa: nessuno può sapere con certezza che cosa sia la poesia. Quindi, concludendo, è vero: il poeta sei tu che leggi, a patto che tu legga e legga roba buona.

Cosa ci vuole per essere scrittore o poeta?

giu 152022

 

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(Nella foto Salinger)

Cosa ci vuole per essere uno scrittore o un poeta? Quali sono i requisiti indispensabili? È difficile dirlo. Visto che non ci sono due scrittori uguali a questo mondo è quasi impossibile fare una ricetta con tutti gli ingredienti. Uno scrittore deve avere una discreta conoscenza della lingua, essere un minimo acculturato,  sapersi districare tra i concetti. Uno scrittore deve essere intelligente? Secondo le più recenti scoperte psicologiche il quoziente di intelligenza non è più considerato un tratto stabile della personalità di un soggetto. Può variare in base all'ambiente, agli stimoli culturali ricevuti, può essere abbassato provvisoriamente da periodi di depressione. Inoltre ci sono problemi epistemologici riguardo al Q.I.
I test sono una misura indiretta soggettiva, ovvero risentono della definizione operativa che gli ideatori del test danno (la distinzione tra misura diretta e misura indiretta è la prima cosa che si trova nei libri di fisica. Riguarda proprio il primo capitolo di molti manuali). I test sono una misura grossolana del pensiero convergente, ovvero misurano in modo approssimativo la logica deduttiva comune. Sono fallibili e perfettibili. Ma esiste anche il pensiero divergente un poco più correlato alla creatività. Inoltre i test di intelligenza non sono "culture free", come gli psicologi vorrebbero far credere. Dipendono anche dalla cultura degli ideatori. Non si può quindi valutare l'intelligenza di un soggetto a prescindere dalla sua cultura. Infine ogni concezione di intelligenza è relativa all'appartenenza di una certa cultura, di una certa società. Poi ci sono persone creative, autistiche o altro che hanno un'intelligenza particolare, che non si presta a essere misurata con i test. È quindi importante il Q.I per uno scrittore? Salinger aveva solo un Q.I di 104 punti (solo 4 punti superiore alla media, ovvero nella media). Lucio Dalla che era un geniale cantautore da piccolo era risultato un ritardato mentale secondo i test di intelligenza. È importante allora come si utilizza il proprio Q.I? Senz'altro, ma il Q.I non appartiene a una scienza esatta. Importante è valutare le opere di uno scrittore, di un poeta. Bisogna quindi valutare unicamente Salinger per i "Nove racconti" e per "Il giovane Holden". Bisogna valutare la bravura di Lucio Dalla per le sue canzoni. Tutto il resto è pettegolezzo, ignoranza, disinformazione. Per alcuni bisognerebbe sfruttare non solo la propria intelligenza ma anche quella degli amici o degli altri letterati. In questo caso il dialogo, il confronto sarebbe utile. Per Aldo Busi bisognerebbe sfruttare anche la stupidità propria e dei conoscenti. A ogni modo la scrittura è ritenuta da alcuni una intelligenza, nel senso di una particolare forma di intelligenza. Se il Q.I (condizione limitata dell'intelligenza umana) è poligenico, cioè dipende grossomodo da poco più di un migliaio di geni, il talento artistico è ancora più complesso, per nulla misurabile, in parte sfuggente. Concludendo un poeta o uno scrittore non necessariamente devono essere persone straordinarie, avere chissà quale capacità incredibili. Basta che non siano persone dalle potenzialità quasi totalmente inespresse. Basta che usino un poco il loro intelletto. Non c'è bisogno di essere veggenti, come volevano certi poeti maledetti. Non c'è neanche bisogno di saper parlare 50 lingue, come faceva Rimbaud. Un altro piccolo appunto: un conto è essere persone "medie" (anche se essere medi è un'astrazione generica e poco attendibile) e un altro è l'artista che ha una scrittura basata tutta sulla medietà, ovvero su un linguaggio semplice e comprensibile. Ci vuole anche talento e sforzo per essere chiari. Ma come scriveva in una sua poesia Luciano Erba, tanto per ironizzare un poco:


In medio stat vitium

"Sei di quelli che ai test
danno segni contraddittori
ma di certo
né genio né idiota
e allora?
Un pover'uomo
perseguitato dai geni e dagli idioti."

 

Cosa ci vuole per diventare uno scrittore allora? Il famigerato pezzo di carta? Può aiutare, ma anche questo non è indispensabile. Montale, Quasimodo, Deledda, Dario Fo, etc etc erano autodidatti. È vero che un laureato in lettere o un dottore di ricerca in italianistica hanno delle conoscenze più organiche. Ma la scuola italiana è pur sempre umanistica e la fruizione della cultura oggi ha raggiunto livelli insperati rispetto a qualche decennio fa.
Ci vuole un poco di sana pazzia allora? Può aiutare, ma non è anch'essa indispensabile. A onor del vero c'è una correlazione significativa tra depressione, ciclotimia, disturbo bipolare e creatività artistica. Ma non tutti gli artisti soffrono di disturbi di umore. Disturbi mentali più gravi invece toglierebbero alla creatività, porterebbero all'inattività in quei periodi di scarsa lucidità, soffocherebbero per quei periodi di crisi la creatività sul nascere. Comunque se la scrittura può essere una buona autoanalisi non deve sostituire psicofarmaci e sedute psicoterapiche in caso di bisogno. È molto difficile superare un trauma con la sola scrittura. Quasi impossibile. Non ci si può affidare unicamente alla propria scrittura, a sé stessi. Significa chiedere troppo a sé stessi.
Ci vogliono dei maestri allora? Senza una piccola dose di talento in partenza nessuno fa niente. Il talento però deve essere anche coltivato soprattutto con letture e talvolta con frequentazioni. Talvolta ci possono però non solo momenti di crescita ma anche motivi di attrito, dispersione di energie, manifestazione di idiosincrasie, etc etc. Gli incontri possono rivelarsi improduttivi o controproducenti. È vero che un maestro può aiutare nella carriera letteraria e che da ogni incontro di persona si possono ricevere degli input culturali. Ma leggere assiduamente può essere più formativo.
Ci vogliono le frequentazioni con altri letterati o aspiranti artisti? Può darsi. A patto che non siano conoscenze nocive o dispersive. Fare cricca può servire a fare carriera letteraria. Ma ciò non è richiesto per crescere umanamente, spiritualmente e per avere una maggiore consapevolezza esistenziale.
Ci vuole la partecipazione di scuole di scrittura? Se si hanno soldi da spendere possono servire, possono aiutare a migliorare. Ma bisogna avere capacità di discernimento e sapere valutare le scuole farlocche e quelle serie. Saper distinguere il buono dal cattivo non è affatto scontato. A ogni modo nemmeno le peggiori scuole di scrittura rovinano il carattere delle persone. Qualche insegnamento utile si può sempre trarre.
Ci vuole una grande oratoria, una bella parlantina per essere scrittore? Può aiutare molto perché tutti o quasi valutano le persone in base alla sottocultura televisiva, in cui conta molto parlare velocemente anche senza dire niente di interessante. Ma per scrivere bene un autore deve soltanto scrivere bene. Sembrerà tautologico, ma è così senza ombra di dubbio. Calvino e De André non erano grandi oratori. E che cosa importa in fin dei conti? Non guardiamo in base alle apparenze, alle prime impressioni. Uno scrittore deve fare lo scrittore e non l'avvocato penalista. Ancora una volta cerchiamo di giudicare in base alle opere.
Uno scrittore deve aver letto migliaia di libri? In un certo qual modo non può essere naif. Anche se non è un grande intellettuale, un buon livello di acculturazione e di intellettualità deve averlo. Deve sapere un minimo le regole del gioco, i canoni, la storia della letteratura, la conoscenza della tradizione almeno a grandi linee.
Uno scrittore o un poeta deve forse aderire a un ismo, a una corrente artistica? Fondamentale è che abbia una visione del mondo e di conseguenza una poetica, da cui scaturisca uno stile.
Cosa ci vuole per essere scrittore o poeta? Per usare una formula stantia però sempre valida: tradizione+innovazione. Non bisogna essere epigoni, manieristi. Ma nemmeno bisogna ricercare a tutti i costi l'originalità, finendo solamente nell'eccentricità.
Di cosa ha bisogno uno scrittore o un poeta? Di conoscere un poco sé stesso, gli altri, il mondo. Ha bisogno di trovare delle idee. Bisogna che stia in ascolto di sé stesso, degli altri, del mondo. Deve saper cogliere i segnali che le cose della vita e del mondo gli inviano, deve saperle recepire.
Di cosa ha bisogno uno scrittore? Per dirla alla Montale delle "occasioni". Ci sono luoghi, persone, situazioni e istanti che ispirano la scrittura. Ci sono vite più interessanti e più ricche di occasioni, di opportunità poetiche e altre meno. Ma c'è bisogno allora di una vita inimitabile dannunziana? Può essere molto rischioso e portare all'autodistruzione. È vero che prima bisogna vivere, quindi filosofare e scrivere. Ma bisogna anche dimostrare un minimo di accortezza nella vita di tutti i giorni. In pratica la sregolatezza dei sensi porta di sicuro all'imbruttimento spirituale oltre che a un possibile arricchimento esperienziale. Meglio sapersi controllare, darsi delle regole. Cosa deve cercare un poeta o uno scrittore? Rimbaud cercò per tutta la sua vita sia una formula appropriata per l'esistenza che un luogo idoneo per vivere. Andiamo oltre. Come scrive in un suo post su Facebook il poeta Luca Alvino ogni scrittore o poeta è come un commerciante, che ogni giorno deve andare in negozio a vedere se vende qualcosa. Anche Moravia sosteneva che non bisognasse aspettare l'ispirazione, ma che ogni giorno bisognasse obbligarsi a scrivere per qualche ora. Bisogna costringersi, vincere il terrore della pagina bianca.
Di cosa ha bisogno un poeta o uno scrittore? Di essere riconosciuto come tale dalla critica o almeno dalla comunità letteraria. Il talento però, come ho scritto più volte, non sempre è riconosciuto e riconoscibile. Ma si può anche scrivere senza che il mondo si accorga di noi. Pessoa, Pascal, Tomasi di Lampedusa, Guido Morselli non pubblicarono i loro capolavori in vita. Socrate non lasciò niente di scritto. Non è necessario pubblicare a ogni costo secondo una scuola di pensiero. Secondo un'altra scuola c'è il diritto/dovere di un autore di farsi conoscere. È chiaro che ci vorrebbe un pubblico, ma siamo in Italia: pochi leggono e per i miracoli nessuno è ancora attrezzato. Come scrive magistralmente Massimiliano Parente: "Cogito ergo sum, ergo scrivo, ergo mi autopubblico, ergo mi autoleggo e chi s'è visto s'è visto. Stringi stringi: che bisogno c'è dell'editore? Mi pubblico io. Che bisogno c'è del lettore? Mi leggo io".
Di cosa ha bisogno uno scrittore o un poeta? Della libertà interiore, sociale, politica, umana per scrivere. Per scrivere liberamente bisogna vivere in una democrazia e non tutti in questo mondo vivono in una democrazia. Non scordiamocelo mai quando ci lamentiamo delle nostre difficoltà, vere o presunte.

 

Sull'editoria a pagamento e sulla poesia italiana...

giu 142022

 

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È necessario pubblicare? Non basta accontentarsi di pubblicare qualcosa sul web o su qualche rivista letteraria? È davvero necessaria la pubblicazione cartacea? E se la risposta è affermativa allora è meglio il self publishing o l'eap (ovvero editoria a pagamento? Nel primo caso le spese sono più contenute. Nel secondo talvolta si tratta di vanity press, come dicono gli inglesi, ovvero della pubblicazione basata su lusinghe e vanità. In ogni caso si è autori a proprie spese, come li definiva Umberto Eco. Quando però qualcuno sborsa tremila euro per pubblicare un libro di poesia di solito la casa editrice gli garantisce una maggiore legittimazione culturale, che spesso porta all'autore una maggiore visibilità, almeno online. Un blog letterario o una rivista online sono molto più propensi a recensire positivamente un libro di poesia pubblicato a pagamento rispetto a un autore inedito, che invia loro tramite email in allegato la sua raccolta poetica. Dietro a tutto questo c'è in piccola parte egocentrismo e ipocrisia, ma dall'altro lato è un modo per difendere il business delle piccole o medie case editrici che pubblicano a pagamento chiunque si rivolga loro oppure solo gli esordienti. Insomma non sputiamo a priori o per partito preso su questa seppur minuscola parte di prodotto interno lordo. Onestamente, pubblicare a pagamento non significa spesso aver passato una selezione. Si può notare dalla grande velocità con cui molte di queste case editrici rispondono agli aspiranti poeti, elogiandoli. Non c'è niente di illegale però nell'editoria a pagamento. La legge, rimasta agli anni Quaranta, recita che la casa editrice si accolla le spese, salvo accordi diversi. Nonostante tutto l'Associazione Italiana Editori recentemente si è proposta di "rimuovere gli ostacoli allo sviluppo di un moderno mercato editoriale". C'è anche chi sbandiera la sua diversità, sostenendo che è una casa editrice no eap, mentre poi tramite inganno chiede contributo. Nel mondo dell'editoria a pagamento c'è anche molta improvvisazione: si va da chi non distribuisce il libro a chi addirittura talvolta non fa il deposito legale, cosa di cui dovrebbe occuparsene esclusivamente la casa editrice. C'è chi comunque condanna l'eap a spada tratta, come se fosse il maggior male del mondo, come se fosse una truffa. Si tratta invece di un accordo perfettamente legale. È vero che spesso è basato su premesse false, ovvero che per pubblicare bisogna sempre pagare, che la pubblicazione diventerà il trampolino di lancio, che garantirà una grande carriera letteraria. Ma oltre ai critici, ai detrattori ci sono coloro che la vedono un male minore, che dicono che molti autori affermati hanno tirato fuori di tasca i soldi per pubblicare, citando grandi nomi della letteratura alla rinfusa. È anche vero che se un aspirante poeta aspetta che lo pubblichino l'Einaudi, la Crocetti, la Garzanti, lo Specchio Mondadori, Feltrinelli, Donzelli potrebbe morire inedito, vista la selezione/scrematura di queste case editrici. E allora che deve fare un autore? Qualsiasi scelta è rispettabile. L'importante è non illudersi. Pubblicare, pagando 100 copie a 12 euro l'una presso una casa editrice piccola, indipendente, di buona qualità può essere un costo tutto sommato contenuto oltre che un buon modo di farsi conoscere. Ma mai riporre troppe illusioni. Pensare a torto che ciò garantirebbe di entrare in una ristretta cerchia escludeva di letterati è fuori luogo. Personalmente sono realista: sono un lettore forte e so che ci sono molti autori bravi che pubblicano a pagamento in un'epoca in cui le grandi case editrici ormai corteggiano senza pudore influencer e vip di ogni tipo. La poesia non vende o comunque il mercato è di nicchia. Writer’s Dream, una comunità virtuale, che aiutava a far crescere "la cultura editoriale" degli italiani ha chiuso i battenti. Oggi rimane un archivio online con tutte le case editrici totalmente a pagamento e quelle a doppio binario, che pubblicano gratis i nomi già affermati, mentre fanno pagare gli esordienti. Forse è stata chiusa l'attività di questa comunità perché troppo scomoda, perché faceva troppi nomi, perché c'era il rischio di cause legali. Anche Scrittori in causa, fondato dalla scrittrice Caterina Cutolo, che forniva assistenza legale agli scrittori, ha chiuso per mancanza di mezzi economici. Queste cose la dicono lunga sulla triste condizione in cui versa il mondo della scrittura italiana. Ma poi in fondo che c'è di male nel pubblicare a pagamento? Non è mica un delitto? Uno potrà vantarsene con gli amici, magari fare qualche conquista amorosa, avrà la soddisfazione di avere in uno scaffale della libreria del suo paese il suo libro, magari dopo averne donate qualche copia al commerciante suddetto! La cosiddetta gente comune di solito non sa niente di questa pratica dell'editoria a pagamento: pensa addirittura che un poeta o uno scrittore sconosciuto vi guadagni! Realisticamente parlando a ogni modo gli editori devono far quadrare i conti. Quindi sono legittimati a vendere con quasi ogni escamotage commerciale. Devono tirare avanti l'azienda. Poco importa purtroppo che il cosiddetto scouting risenta della qualità. Ma dopo essersi accaparrati un influencer o un vip gli editori possono farlo crescere. Tutti abbiamo dei margini di miglioramento, dovuti all'universale neuroplasticità umana. Ci sono persone con lesioni cerebrali (con la compromissione di buona parte di un emisfero), che riescono a recuperare le loro abilità intellettive. Figuriamoci se una persona qualsiasi senza lesioni o deficit cognitivi non può migliorarsi e crescere culturalmente grazie all'esercizio, allo studio continuo! Cosa importante per le case editrici in questo caso è la fama pregressa, ovvero il brand. Per il resto a un vip si può sempre affiancare editor (tutti he hanno bisogno), ghost writer, mentori, guide spirituali e chi più ne ha più ne metta per migliorare il suo talento. Se sei un poeta anonimo che non ha seguito nessuno comprerà il tuo libro. Sempre più case editrici guardano la popolarità sui social che ha un potenziale autore per ragionare sul possibile riscontro di vendite che può avere. Ma la cosa che maggiormente mi chiedo è quando uno scritto smette di essere uno sfogo con un valore umano e sociologico e inizia a essere letteratura? Oppure come distinguere la letteratura vera da un intellettualismo astruso? Non è affatto facile e a onor del vero siamo nell'ambito dell'opinabile. Con questo non voglio intendere che non esistono criteri, ma ricordiamoci che anche la medicina è una scienza, pur tuttavia non sempre i medici sono concordi nella diagnosi e nella cura. Di certo gli aspiranti poeti per pubblicare devono disporre di un gruzzoletto, di qualche risparmio nella maggioranza dei casi. A volte certi curriculum poetici sono fatti di autopubblicazioni o di pubblicazioni a pagamento. Allora non era più saggio forse rivolgersi a una tipografia, come facevano un tempo e poi distribuire spontaneamente ai pochi cari e ai conoscenti i versi? Come dicono i fondatori di Writer's Dream oggi le nuove generazioni si muovono nel mondo del direct publishing, sui social per esempio. Sarebbe bello se il crowdfunding funzionasse in Italia. Sarebbe bello se questa "forma di microfinanziamento dal basso", così definita da Wikipedia, funzionasse anche per la poesia italiana. Il fatto compiuto è che molti aspirano a diventare poeti, ignorando che i veri poeti spesso fanno una vita osteggiata talvolta dai propri cari, sbeffeggiata dai conoscenti: una vita di sacrifici, povertà, scarsa fama, caratterizzata da tante incomprensioni. Solo poeti e aspiranti poeti possono leggere i versi di uno anonimo, che non arriverà mai alla cosiddetta gente comune, dato che gli italiani non amano la poesia contemporanea e non si fidano assolutamente degli aspiranti o sedicenti poeti. Se un cantautore famoso e riconosciuto come Guccini definisce la sua fama "una gloria da stronzi" che cosa è allora il quasi-anonimato in cui vengono rilegati poeti spesso di grande qualità, ma spesso sconosciuti al grande pubblico? È legittimo aspirare alla povertà, a tutte queste rinunce per un sogno adolescenziale o giovanile? Il gioco vale forse la candela? Nella stragrande maggioranza dei casi carneadi si nasce, naturalmente si muore e si resta carneadi anche da morti. A onor del vero di solito ci sono solo due modi per farsi pagare come poeti ed è scrivere canzoni oppure non andare più a capo, come dichiarò Aldo Nove a Maria Grazia Calandrone, e scrivere romanzi. Questa è un'epoca che premia i falsi poeti e quelli veri nella migliore delle ipotesi sono costretti a scendere a compromessi, a scendere a patti con questa realtà, snaturandosi. Ecco perché diversi poeti e diverse poetesse soffrono il soffribile perché sentono minacciate la loro natura e il loro modo di essere. Ma salvaguardarli è quasi impossibile. Fare corsi di autodifesa per poeti non è possibile. A questo mondo i poeti devono imparare a difendersi da soli con le loro forze. Editoria a pagamento oppure no. Illusioni o ambizioni sbagliate oppure no.

Su Reno Bromuro, Vittorio Baccelli e la necessità della memoria...

giu 142022

 

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Reno Bromuro (Paduli, 2 luglio 1932 – Roma, 12 giugno 2009) è stato un poeta, scrittore, attore e regista teatrale italiano. Nel 1957 ha fondato a Napoli il "Centro Sperimentale di Ricerca per un Teatro Neorealista". Nel 1970, ha fondato a Roma la Compagnia di Prosa "I Corinti". Ha lavorato in teatro con i giovanissimi della Scuola Media Statale San Giorgio di Fregene. È stato anche giornalista e critico letterario. Ha pubblicato numerose raccolte poetiche. Ha vinto numerosi primi premi per la Poesia, per la Narrativa, la Saggistica e il Giornalismo. Non l'ho mai conosciuto personalmente. Non ho mai interagito con lui. Leggevo però nel 2001, 2002, 2003 le sue riflessioni e il suo almanacco del giorno su una mailing list che ora non esiste più, ovvero Nonsolopoesia. Bromuro spiccava per la sua cultura, il suo talento, ma anche per il fatto di essere un operatore culturale instancabile, sia nella vita reale che su Internet. Il web allora era agli albori. La maggioranza dei siti che trattavano di poesia erano amatoriali, gestiti dagli studenti o da semplici appassionati. Molte case editrici, molti scrittori, molti intellettuali snobbavano Internet. Allora io avevo un sito di poesia su Geocities, ma c'era anche chi lo faceva su Digiland, su Lycos, su Blogspot, insomma sui vari portali che offrivano hosting gratis. Bastava conoscere i rudimenti di Html e smanettare un poco. Mi colpì la competenza di Bromuro. Lessi attentamente il suo saggio intitolato "Il racket nell'arte e il valore umano della poesia". Leggendolo, avevo la conferma di una cosa, che avevo solo grossolanamente e vagamente intuito. Esisteva la cosiddetta mafia nel mondo della poesia. Era una mafia che non uccideva le persone ma ignorava il talento, lo mortificava giorno dopo giorno, infine lo uccideva e con esso assassinava la poesia. Non bastava la mancanza di talento degli aspiranti poeti (aspirazione legittima quella di essere poeti) che erano soprattutto poeti della domenica che infestavano il web. No. Erano anche i letterati e gli addetti ai lavori a giocare sporco. Qualcuno poteva giustificare tutto ciò col fatto che dovesse compiersi una selezione artistica, che la poesia non era per tutti, che l'arte non era esclusiva o inclusiva ma solo meritocratica. Eppure bastava leggere Bukowski per capire che la tendenza a fare cricca era un fenomeno non dico universale ma tipicamente occidentale. A cosa era dovuto tutto ciò? Forse a quella che Bromuro definiva "mercificazione dell'inutile"? Nel frattempo leggevo le poesie e gli scritti di Bromuro. Era un artista a tutto tondo oltre che un intellettuale senza fronzoli, che parlava chiaro e non si perdeva in intellettualismi. Aveva incorporato, interiorizzato la lezione di Popper sulla chiarezza espositiva non come qualità rara ma come dovere di tutti gli scriventi. Nei suoi saggi, nelle sue prefazioni, nelle sue recensioni riusciva a essere concettuale senza mai semplificare e ridurre alla banalità, ma anche senza essere troppo concettoso e difficile. Bromuro era un letterato che sapeva rivolgersi a tutti e farsi comprendere da tutti o perlomeno dai più. Eppure a distanza di 13 anni dalla morte ci restano testimonianza del suo ottimo ingegno alcuni siti a cui collaborava (compreso Letteratour) e alcuni suoi libri. Per il resto il mondo letterario ha ripagato con l'indifferenza e l'oblio questo artista, forse perché troppo scomodo e capace di denunciare cose che non si potevano dire né scrivere. Qualche potente delle patrie lettere avrà tirato un sospiro di sollievo alla sua dipartita ("A pensare male si fa peccato ma ci si indovina sempre" sosteneva Andreotti). Ma non è prettamente una questione artistica o totalmente artistica oppure riguardante la politica culturale. È prima di tutto una questione di coscienza e Bromuro era in pace con la sua. A volte mi sembra che i poeti contemporanei siano come dei polli che si azzuffano per poco becchime che elargisce loro il potere. Di poesia non si campa e allora molti si impiegano in professioni intellettuali, talvolta scendendo a dei compromessi. Contano le pubbliche relazioni anche nel mondo poetico. I poeti cercano sodalizi, appoggi da critici, cardinali, giornalisti. Bromuro non cercava conoscenze altolocate, ma si sapeva mettere a disposizione di tutti, ritenendo irrinunciabili l'onestà intellettuale e la sua dignità umana. Alle moine, gli arrufianamenti, i favoritismi lui opponeva le sue argomentazioni lucide. Una cosa che mi ha colpito è che in lui non c'era traccia di pressapochismo o di sfoggio di cultura. Sapeva ciò che scriveva. Non faceva l'erudito. Ma era colto e su questo personalmente non avevo dubbi. La sua cultura era pervasa al contempo da rigore e umanità. So che incoraggiava anche tutti gli artisti. Si prendeva a cuore della poesia degli altri, non solo della sua. Non vedeva come alcuni la poesia come una gara, una competizione a chi pubblica più libri o a chi vince più premi, anche se poi la poesia italiana era ed è soprattutto una PREMIOPOLI! Come mi disse lo scrittore lucchese Vittorio Baccelli in diversi casi i giurati dei premi con le tasse di iscrizione al concorso pagavano le cene al ristorante con la "ganza", ovvero con l'amante. Insomma nel migliore dei casi per quanto riguarda i premi c'era un poco di malafede, un piccolo abuso di credulità popolare oltre che un modo ignobile di speculare su chi vuole sentirsi artista. Nel peggiore dei casi può essere come per il premio Grinzane Cavour e lo scandalo che ne è conseguito. Fu la guardia di finanza, nel corso dell’inchiesta sulle vessazioni al domestico del patron Soria, a interessarsi dei conti del premio letterario e a certificare malversazioni dei contributi che gli enti pubblici fornivano al premio letterario: denaro che Soria usava anche per sé. Poi ci sono altri importanti premi che scompaiono per la morte della fondatrice o per delle incomprensioni, come nel caso del premio Montale, presieduto dalla poetessa Maria Luisa Spaziani. Ma veniamo a cose più importanti.

 

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 (Nella foto Vittorio Baccelli)

Occupiamoci di un altro artista. Vittorio Baccelli (Lucca, 12 ottobre 1941 – Lucca, 23 ottobre 2011) è stato uno scrittore italiano di letteratura fantastica. Anche lui è un artista ormai dimenticato. Ma perché un poeta viene dimenticato? In vita un poeta può essere stato oggetto di ostracismo artistico. Può essere soggetto da morto di damnatio memoriae. Ma spesso molti poeti finiscono nella dimenticanza per disinteresse generale. I poeti viventi spesso non guardano indietro, non sono riconoscenti a chi li ha preceduti. Si tratta talvolta di mancanza di sensibilità culturale e di ingratitudine. Ma tutto ciò ritorna al mittente perché siamo tutti mortali Oppure forse i letterari viventi non sono malvagi. Semplicemente sono in tutte altre faccende affaccendati. Sono occupati nella stragrande maggioranza del tempo a promuovere sé stessi e non hanno spazio né tempo per gli altri. Forse c'è questo alla base del racket dell'arte. Forse alla base di tutto c'è una mancata predisposizione all'ascolto delle voci altrui. Qualcuno sostiene che quando un poeta muore aumenta la sua quotazione o che addirittura un poeta morto è una iattura infinita perché ruba la scena a quelli ancora in vita. Ma sono prese di posizione e polemiche forse un poco ingenerose se non talvolta pretestuose. A ogni modo come scrisse la poetessa Vivian Lamarque, tanto per tagliare la testa al toro: "PS.: Siamo poeti/ vogliateci bene da vivi di più/ da morti di meno/ che tanto non lo sapremo". Vi consiglio, come per Reno Bromuro, di fare ricerche su Google anche su Vittorio Baccelli. Troverete anche il suo sito su Interfree. Ebbi modo di intervistarlo nel 2005. Rimasi anche in questo caso favorevolmente colpito. Era un vulcano di idee. Anche in questo caso, come per Bromuro, Baccelli era entusiasta del web. Aveva fiducia in questo nuovo mondo virtuale. Lo vedeva come una grande opportunità, un nuovo modo di farsi conoscere. Accettò di buon grado di farsi intervistare da me. Pubblicai l'intervista sul mio sito, ma nel 2009 Geocities chiuse, il mio PC fu attaccato da un virus. Insomma per farla breve persi integralmente tutti i contenuti di quel dialogo fitto. La cosa mi dispiacere perché Baccelli non era stato laconico, non mi aveva snobbato. Piuttosto aveva risposto a tutte le domande in modo molto esauriente. Baccelli era un artista e intellettuale di talento, ma forse è stato dimenticato anche perché non allineato politicamente: da giovane era stato di destra, nella maturità era un radicale. Inoltre era uno che non le mandava a dire. Aveva il coraggio delle sue idee. Come ebbe modo di scrivere Bartolomeo Di Monaco non aveva peli sulla lingua. Consiglio a tutti di leggere i suoi racconti brevi. Sono scritti in modo magistrale. Essenziali, mai sciatti; una prosa ideata e orchestrata da una mano sapiente. Baccelli aveva conseguito una laurea in lettere a Pisa e una in scienze umane a Urbino. Giocava con i riferimenti letterari. C'erano dei cenni autobiografici nei suoi racconti, ma oltre alla testimonianza di vita la sua scrittura si caratterizzava per uno sperimentalismo di alto livello, in cui la speculazione intellettuale non era mai fine a sé stessa. Era un maestro impareggiabile della narrativa. Non ebbe mai la tentazione di scrivere un romanzo, ma raccolte di racconti come "Storie di fine millennio" sono la prova inconfutabile della sua bravura. Scrisse inoltre un libro sul grande scienziato Nicola Tesla. Baccelli era stato anche un protagonista della Mail Art o arte postale. Riporto fedelmente la definizione della Treccani a figuardo: "Movimento artistico che si realizza nell'invio per posta di materiali come francobolli, cartoline, buste, lettere, pacchi e simili rielaborati artisticamente e indirizzati a uno o più destinatari. ♦ Due lettere identiche, una datata Parigi e una Torino, firmate dalla stessa Gina Pane e contenenti un identico messaggio: «Qui tutto somiglia a lì». Un terzo telegramma, con cui Bernard Auriard invita: «Immaginate neon rosa pallido preoccupazione temporanea». Sono tutte opere d'arte, e rappresentano l'ultimissima scemenza: la «mail art» o arte postale. Convinti che l'arte sia ormai antiarte, e l'opera assenza d'opera, certi artisti giocosi ne avevano già fatte di tutti i colori: Vittor Pisani aveva esposto in galleria soltanto se stesso; Kounellìs aveva esposto alcuni cavalli (molto indisciplinati e sudicioni) , esibito in una mostra unicamente il proprio pappagallo (più mite, ma sboccatissimo) e alla fine radunato dieci ragazzini suonatori di flauto incaricandoli di eseguire, ad una certa ora, un concerto di una sola nota. Al confronto, assicura il critico francese Jean Clair, l'arte postale è molto più impegnativa: «Ormai nessuno si dedica alla corrispondenza, la lettera è divenuta lettera morta», spiega. «Nel momento in cui la gente abbandona il mezzo postale, gli artisti se ne impadroniscono. (Lietta Tornabuoni, Stampa sera, 29 marzo 1972, p. 3, Aggiornatissimo)". Baccelli fu anche la risposta encomiabile ai molti che sottovalutavano la fantascienza italiana. Come ebbe a riportare in un suo libro lo stesso Baccelli: "A Lucca Comics (allora si chiamava “Salone dei comics”), alla fine degli anni ’70 nel corso di un’intervista nella quale gli si chiedeva perché non pubblicasse mai autori italiani e perché le storie di fantascienza non erano mai ambientate in Italia, Carlo Fruttero che all’epoca assieme a Lucentini era curatore di Urania, per esprimere efficacemente il concetto che la fantascienza italiana mai avrebbe avuto la possibilità di competere con quella americana e, per proclamare una sorta d’incapacità congenita da parte degli scrittori italiani ad essere buoni autori di fantascienza, dichiarò pubblicamente che un disco volante avrebbe plausibilmente potuto atterrare a New York, a Londra, a Pechino, a Mosca, ma a Lucca mai!". E Baccelli nel corso della sua vita fece il possibile per smentire questo luogo comune, che era anche una concezione limitata e limitante di un intero genere letterario. In questo caso Baccelli si dimostrò un pioniere lungimirante. Non aveva paura ad andare contro gli stilemi letterari imposti dall'alto. Baccelli come Bromuro erano perfettamente consapevoli dei canoni e delle mode letterarie imperanti, ma incuranti di tutto scrivevano come si sentivano, erano alieni da ogni conformismo. Entrambi inoltre cercavano con la loro arte di aderire alla vita. Anche Baccelli come Bromuro cercava di divulgare il sapere, di diffondere le idee, tant'è che negli anni Settanta aveva collaborato a diverse riviste cartacee e nei primi anni Duemila era diventato una presenza assidua di molti siti letterari. Mi chiedo talvolta perché mi sono imbattuto in questi due autori, degni di ogni rispetto e stima. Forse tutto ha un senso. Forse il mio piccolo compito era constatare il loro valore e scriverne qui in questa sede. Tra tanti presunti o sedicenti poeti che avanzavano pretese Baccelli e Bromuro volevano che fossero riconosciuti legittimamente i loro meriti e le loro capacità. Nel magazzino della memoria di chi si occupa di poesia italiana di questi ultimi anni ci dovrebbe essere un posto per tutti e due. Non è assolutamente giusto che cali definitivamente il sipario, che venga premuto il tasto delete su questi due artisti. Che si sappia almeno che sono esistiti! Che di sappia qualcosa di loro! Che il loro lavoro non sia stato inutile! E se è vero che non c'è memoria senza oblio è anche vero che ricordarli entrambi sarebbe almeno utile per chi non ne sa niente di loro. Ci sono ancora diversi angoli del web in cui trovare i loro scritti gratuitamente. Che almeno le loro vite non siano state vane! Concludendo, Paduli e Lucca dovrebbero avere la sensibilità di onorare la memoria di Bromuro e Baccelli. Almeno questi sarebbero due atti dovuti, anche se tardivi.

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