Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Due parole su Marinetti, la maturità e la vecchiaia...

lug 172022

 

 

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“Quando avremo quarant’anni altri uomini e più validi di noi ci gettino pure nel cestino come manoscritti inutili” (Filippo Tommaso Marinetti)


Molto probabilmente Marinetti, fondatore del futurismo, quando scrisse questa frase voleva solo provocare. Oppure forse ci credeva davvero. Oppure era un modo per opporsi al passatismo e alla tradizione. Cosa è che ha dettato queste parole? Il calcolo oppure l'incoscienza giovanile? O forse entrambi in una miscela esplosiva? Per rendere più popolare il suo movimento d’avanguardia scrisse molti manifesti dissacranti. Per far parlare di sé e del proprio movimento non disdegnò polemiche al vetriolo e vere e proprie risse. Propose il culto della macchina e della velocità, la teoria delle parole in libertà, “l’immaginazione senza fili”. Si scagliò contro i professori passatisti e la tradizione, invitò ad “uccidere il chiaro di luna”. I futuristi come scrisse Boccioni inseguirono “l’estasi del moderno e il delirio innovatore della loro epoca”. Ecco il motivo per cui volevano distruggere i musei e le biblioteche e odiavano chi imitava e ammirava il passato. In letteratura furono veramente degli innovatori tramite la distruzione della sintassi, l’abolizione degli avverbi e degli aggettivi, la distruzione dell’io. Politicamente - nonostante il loro antiparlamentarismo - lo furono un po’ meno, dato che furono nazionalisti e considerarono la guerra “sola igiene del mondo”: furono fascisti della prima ora. Per la maggioranza dei letterati della loro epoca furono visti come esaltati, ignoranti, militaristi e violenti, creatori di stramberie e goliardismi. A distanza di decenni dalla loro comparsa va senz’altro riconosciuto che il futurismo - nonostante mille difetti - ebbe il merito di essere il primo vero movimento di avanguardia. Marinetti scrisse forse questa frase per scagliarsi contro l’immobilismo sociale e culturale, in cui versava l’Italia di allora. Però nella nostra epoca sembra che molti imprenditori e dirigenti di azienda abbiano messo in pratica la provocazione di Marinetti. Il giovanilismo imperante induce al prepensionamento e al licenziamento di chi abbia superato gli anta. Non solo, ma una volta licenziato da un’azienda un cinquantenne ha molte più difficoltà di reinserirsi a livello lavorativo perché le aziende gli preferiscono persone più giovani. Un tempo si considerava la vecchiaia come possibile fonte di saggezza. Oggi perfino la maturità è vista come un periodo di declino inarrestabile. Erroneamente molti selezionatori del personale ritengono che chi ha superato gli anta non è provvisto di capacità di apprendimento. Molto probabilmente quando prendono sbrigativamente le loro decisioni non tengono conto della ponderatezza di chi ha più di quaranta anni. Eppure la stessa vecchiaia non è una stagione della vita, in cui si debba per forza consegnarci al silenzio. Per quel che mi riguarda penso di sfruttare al meglio le mie facoltà intellettuali oggi rispetto a quando avevo 20 anni. Mi ritengo anche più equilibrato interiormente.

 

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A 20 anni volevo tutto e mi accontentavo solo con molto. Oggi voglio poco e mi accontento di pochissimo. A 20 anni si può vivere delle crisi interiori spaventose. A 50 ormai sono un'esistenzialista positivo: nell'antichità c'era chi vedeva Dio come "pensiero di pensiero", io oggi vedo il trascendente come il filosofo Abbagnano, ovvero come "possibilità di possibilità", come scelta di scelta; la sola possibilità di poter scegliere, anche senza fare niente di speciale, nella vita, mi infonde speranza e ottimismo. Andare al bar piuttosto che rimanere a casa mi inebria di libertà. Oggi ho una consapevolezza esistenziale che prima non avevo. Forse non so niente di più o di nuovo, ma quello che sapevo un tempo viene confermato, rafforzato, corroborato da letture e riflessioni odierne. Mi basta stare bene di salute e tirare a campare. Non chiedo l'impossibile. Questo già mi basta. Per quanto riguarda la sessualità con il Cialis e il Viagra le persone anziane hanno risolto molti problemi. Non vivono più i drammi descritti da Brancati ne "Il bell'Antonio" e non esiste più il gallismo e la concezione dell'onore di un tempo. Inoltre sono molti gli anziani attivi intellettualmente, che leggono libri e periodici. Non dimentichiamoci che la morte colse Moliere mentre stava recitando. Più recentemente non dimentichiamoci dell’attività intellettuale di Norberto Bobbio, Carlo Bo, Karl Popper, Mario Luzi, quando erano ormai ottuagenari. Solo la malattia mentale e la morte prematura annichiliscono la mente e l’intelletto. Non dimentichiamoci infine che l'invecchiamento cerebrale inizia da ventenni, ma che abbiamo a disposizione miliardi di neuroni ed esiste anche la neuroplasticità.

 

Considerazioni personali sul paradosso di Goodman

lug 082022

 

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Riporto testualmente dal sito www.platon.it: “Paradosso di Goodman (o degli “smeraldi blerdi”): data una certa proprietà contraddistinta da una variazione dopo una certa data (l’essere blerde, ossia verde fino a una certa data, quindi blu), per quante osservazioni io faccia relative a oggetti che sembrano godere della stessa proprietà senza variazione (p.e. smeraldi verdi), non posso mai escludere che questi stessi oggetti godano della proprietà con variazione (siano smeraldi blerdi); in particolare, aumentando i casi confermativi, aumenterebbero sempre nello stesso modo sia la probabilità di registrare la proprietà senza variazione (smeraldi verdi), sia la probabilità di registrare la proprietà con variazione (smeraldi blerdi)”.

N. B: la stessa cosa si può dire del vlu.

 

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E ora ecco le mie considerazioni:

Secondo il paradosso di Goodman dobbiamo considerare un nuovo predicato: il vlu. Mettiamo di applicare questo predicato a uno smeraldo. Uno smeraldo vlu è uno smeraldo, che fino al tempo t è verde e dopo il tempo t diviene blu. Mettiamo che alcuni individui credano che gli smeraldi dopo il 2030 diventeranno blu. Mettiamo che io non creda a questa loro affermazione. Allora io posso formulare due ipotesi opposte per ciò che accadrà dopo il 2030: “tutti gli smeraldi restano verdi” oppure “tutti gli smeraldi sono vlu”. Tutte e due le ipotesi sono possibili, quindi nessuna è meglio dell’altra. Da un certo punto di vista potremmo affermare che si equivalgano. Il problema che ne consegue è che se le due ipotesi si equivalgono anche il verde e il vlu si equivalgono. Quindi io potrei adoprare il vlu ogni volta che voglio. Il linguaggio finirebbe per diventare vlu. Voi vi chiederete: perché mai gli smeraldi, che sono tutti verdi e che sono sempre stati verdi, dovrebbero cambiare colore? Mettiamo per assurdo che dopo il 2030 cambi la struttura del mondo fisico, oppure cambi il nostro sistema nervoso (e quindi anche le nostre percezioni e i nostri stati mentali) oppure che lo smeraldo per qualsiasi motivo emetta un’altra lunghezza d’onda. Comunque sia…. noi - secondo il filosofo Goodman - possiamo fare due previsioni. Come mai noi consideriamo più probabile (più “proiettabile”) l’ipotesi che tutti gli smeraldi siano verdi piuttosto che l’ipotesi che tutti gli smeraldi siano vlu? Ora io farò delle semplici osservazioni da uomo comune e non da filosofo (perché naturalmente non sono filosofo). Io so che per gli smeraldi l’essere verde è una proprietà, che considero permanente di quell’oggetto. Se uno smeraldo cambia colore - potrei anche affermare - che non posso più considerarlo uno smeraldo, piuttosto un nuovo oggetto. Un nuovo oggetto, che avrà bisogno di un altro nome. In modo molto semplice: Goodman dà un nuovo nome al colore in base ai cambiamenti nel tempo, mentre si dovrebbe dare solo un nuovo nome all’oggetto. Poniamo il seguente principio: quando la proprietà (ritenuta prima permanente e inalterabile) di un oggetto viene modificata non bisogna etichettare in modo nuovo il predicato che descrive la proprietà di quell’oggetto in base ai possibili cambiamenti nel tempo, ma bisogna considerare che quell’oggetto sia un nuovo oggetto e necessiti di un nuovo nome. Il paradosso di Goodman, se seguissimo questo principio, esisterebbe ancora? Resterebbe comunque una domanda: perché dobbiamo utilizzare per forza questo principio? Ma veniamo di restare nella realtà e di non fare astrazioni campate per aria. L’acqua a 0 gradi oppure al di sotto diventa ghiaccio, mentre invece in condizioni normali (alla pressione di 1 atmosfera) vaporizza alla temperatura di 100 gradi. Sappiamo che ciò dipende dallo stato fisico della materia. Sappiamo quindi che lo stato fisico della materia (e quindi anche dell’acqua) può cambiare. Nella realtà io non utilizzo predicati come acqua-ghiaccio o come acqua-vapore per indicare l’acqua che è diventata ghiaccio o per indicare l’acqua che è diventata vapore. Non utilizzo aggettivi- definiamoli- “deciduali”. Altrimenti sarei costretto ogni volta per l’acqua ad utilizzare un aggettivo (predicato) come acqua-ghiaccio-vapore perché c’è la possibilità che l’acqua a certe condizioni possa diventare ghiaccio e ad altre condizioni possa diventare vapore. Noi invece sappiamo che lo stato fisico dell’acqua cambia, ma non utilizziamo un linguaggio “deciduale” (come le foglie. Mi riferisco all’esempio di Piattelli Palmarini) per definire lo stato fisico dell’acqua. Semplicemente cambiamo nome all’oggetto quando la proprietà di quell’oggetto non è permanente, costante. Facciamo un altro esempio. Consideriamo l’animale dal colore più mutevole (e diciamo più “deciduale”) del mondo: il camaleonte. Che cosa caratterizza il camaleonte? Potremmo dire: gli occhi grandi, la lingua che si può ritirare in qualsiasi momento, il fatto di cambiare colore in base all’ambiente. Queste sono le caratteristiche ritenute costanti di quest’animale. Per le nostre menti le proprietà permanenti di un oggetto o di un soggetto sono le proprietà, che caratterizzano quell’oggetto. Qualcuno potrebbe chiedere il perché. Non lo so. Io so solo che quelle proprietà ritenute costanti lo distinguono dagli altri oggetti. Ma il problema è che se io mi imbattessi in un animale, che ha tutte le caratteristiche fisiche di un camaleonte e non cambia più il colore in base al colore dell’ambiente, non potrei più considerarlo un camaleonte. Semplicemente: sarebbe un altro animale. Se la proprietà ritenuta permanente di un oggetto cambia allora cambia anche l’oggetto (o il soggetto) e perciò cambia anche la definizione di quell’oggetto. Se quell’oggetto è diventato un altro oggetto è chiaro che ha bisogno di un nuovo nome, di nuovi predicati, di una nuova definizione. Se facciamo in questo modo (e nella realtà facciamo in questo modo) il paradosso di Goodman diventa più semplice. Ci sono sempre due ipotesi: 1) quell’oggetto (lo smeraldo) subirà una trasformazione (oppure la realtà oppure il soggetto conoscente) e diventerà (oppure verrà considerato dal soggetto) un altro oggetto. 2) quell’oggetto (lo smeraldo) non subirà trasformazioni e resterà lo stesso. E’ un problema di semplice convenzionalismo linguistico? Quello che Goodman chiama “trinceramento” è soprattutto un fatto derivante dalle convenzioni linguistiche? Il problema che si pone è: perché non possiamo utilizzare predicati “deciduali” e un linguaggio “deciduale”? Perché il verde va sempre preferito al vlu? Se io ammetto il vlu, cioè ammetto un aggettivo “deciduale” allora ammetto che qualsiasi predicato possa essere “deciduale”. Permetto quindi che tutto il linguaggio possa essere “deciduale”. Ma un linguaggio “deciduale” non è una semplice foglia, che cade per terra. E’ l’intera conoscenza umana, che cade nel nulla. Alcuni sostengono che il paradosso di Goodman sia una riformulazione più elaborata del vecchio problema di Hume sull’induzione. Secondo Hume gli uomini facevano delle inferenze in virtù di “uso e abitudine”. Potremmo oggi parlare di innatismo e di intersoggettività. Ma è lo stesso. Detto in parole povere: data una mole di osservazioni io ho bisogno di individuare delle proprietà costanti dagli oggetti per poi successivamente classificarli e definirli. I problemi sembrerebbero quindi due: come io giungo all’inferenza e come passo dall’inferenza alla classificazione. In questo senso in filosofia dal “tacchino induttivista” di Russell oggi sono passati al “tacchino anti-induttivista” di Goodman. Ma non c’è solo questo. Il tacchino di Goodman è anche un tacchino anti-classificatorio. Io ragiono come l’uomo della strada, anzi sono l’uomo della strada. Allora mi chiedo molto semplicemente una cosa. Se io ammetto il vlu posso anche dare un nome a ogni singolo oggetto? Se io ammetto il vlu tutto è possibile nel linguaggio. Il linguaggio diventa eracliteo. Ogni elemento del linguaggio potrà variare in base al fattore tempo o in base a qualsiasi altro fattore. Alcuni studiosi hanno pensato che il paradosso di Goodman dipendesse esclusivamente dal tempo, ma a mio avviso non è così. Il fattore tempo è solo un pretesto. Comunque se accettassimo tutti universalmente il concetto di vlu non ci sarebbero più limiti. Finiremo quindi per dare un nome anche ad ogni singola sedia o ogni nostro stato mentale. Sorge spontanea una domanda: perché io ogni sedia la chiamo sedia e non scelgo un nome specifico per ogni singola sedia? Ora mi posso chiedere: perché classifico gli oggetti? Probabilmente ho bisogno di classificare gli oggetti per i limiti della memoria umana, per economia di tempo e di risorse cognitive, per non avere rappresentazioni mentali offuscate, per vivere la vita e non per passare tutta la vita a nominare oggetti. Se io ammettessi che qualsiasi proprietà di un oggetto ( o soggetto) possa essere definita in base ai cambiamenti passati, attuali futuri (o possibili) francamente passerei tutta la vita immobile nel letto soltanto a definire sempre tutti i miei umori e i miei stati mentali. Non ci può essere una corrispondenza totale tra linguaggio e realtà. Per motivi di tempo e di risparmio di energia abbiamo sempre bisogno di etichettare, catalogare, generalizzare. Ma perché ho parlato di tacchino anti-classificatorio di Goodman? Prendiamo ad esempio il noto paradosso del mentitore. Epimenide di Creta sostiene che “tutti i cretesi sono bugiardi”. Essendo cretese Epimenide è bugiardo e sta dicendo il falso. Oppure Epimenide sta dicendo il vero, ma essendo anch’egli cretese l’affermazione è falsa perché allora non tutti i cretesi sono bugiardi. Nel celebre paradosso del mentitore il soggetto contraddice se stesso o il predicato. Ma perché? Perché in fondo predica se stesso. Nel paradosso di Goodman non è il soggetto a “mentire” (diciamo così). E’ piuttosto il predicato a mentire. Ci sono infatti due alternative: 1) se una proprietà costante degli smeraldi è di essere verde non potranno mai essere blu. Quindi in questo caso è il concetto di vlu che si autocontraddice. 2) se lo smeraldo, che viene definito come tale in base alla proprietà costante dell’essere verde, diventa blu non è uno smeraldo. Quindi in questo caso il predicato sembra contraddire il soggetto della proposizione. Il predicato quindi annulla la proprietà interna del soggetto.

 

 

 

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Fino ad oggi il colore dello smeraldo ha sempre denotato lo smeraldo e lo smeraldo è sempre stato definito anche in base al colore. Ma cosa posso fare se gli smeraldi diventano blu dopo il 2030? Posso ridefinire il soggetto della proposizione successivamente e dare un nuovo nome al nuovo tipo di smeraldo. La domanda allora è: posso considerare un nuovo tipo di smeraldo (che non è più verde) e considerarlo un altro oggetto e dargli un altro nome. Sì. Io posso. L’umanità può. Può incessantemente costruire logicamente e verbalmente in modo nuovo la realtà. Perché quindi devo preferire il “vlu” (che porta all’anarchia linguistica) quando posso costruire in modo logico e verbale nuovi oggetti mentali? E poi posso considerare sempre in modo probabilistico le proprietà ritenute costanti degli oggetti o dei soggetti. Se l’umanità accettasse (e quindi estendesse) il vlu a tutte le proprietà e a tutti gli oggetti non ci sarebbe più alcuna classe. Non ci sarebbero nemmeno più gli insiemi in matematica. Russell definiva gli stessi numeri delle “proprietà di classi”. Alcuni studiosi sostengono che ci sia una certa parentela tra il paradosso di Goodman e il paradosso del corvo di Hempel. Secondo quest’ultimo paradosso le cose non nere confermano il fatto che tutti i corvi siano neri. E’ esclusivamente un problema di induzione. In fin dei conti questo paradosso filosofico ci insegna a chiederci: perché facciamo inferenze soltanto sui corvi e non sulle cose che non sono corvi? Alcuni filosofi hanno ragionevolmente pensato che sia dovuto al fatto che l’insieme dei corvi è molto inferiore rispetto all’insieme dei non-corvi. Inoltre mi chiedo molto semplicemente a proposito di questo paradosso: perché le cose non nere devono per forza confermare il fatto che tutti i corvi sono neri? Quello che voglio dire è che alla fin fine non dovremmo chiederci solo perché facciamo inferenze nel dominio di quell’oggetto di indagine, ma anche perché ogni volta che facciamo un’inferenza non cambiamo oggetto di indagine. E’ una domanda scontata. Ma a mio avviso è una domanda scontata anche chiederci perché osserviamo solo corvi quando vogliamo confermare l’ipotesi “tutti i corvi sono neri”. Vlu in fin dei conti significa semplicemente “prima verde e dopo un periodo stabilito blu”. Potrei sostenere semplicemente che il paradosso di Goodman porta a una situazione indecidibile perché gli aggettivi in qualsiasi lingua umana non sono caratterizzati da un istante t (che determina il cambiamento di questo o quello oggetto). Si può però dire che un oggetto è mutevole. L’aggettivo “mutevole” indica genericamente che quell’oggetto può subire dei cambiamenti o delle trasformazioni nel tempo. Mutevole però indica una qualità dell’oggetto. Ci dice che genericamente quell’oggetto cambia sempre. Il vlu invece ci dice che quell’oggetto dopo un certo istante t da verde diventerà blu. Ci dà due informazioni precise. Nessuna lingua umana contempla un aggettivo, che sia predittivo ed esatto. Inoltre un unico aggettivo ci dà due informazioni: quell’oggetto fino ad un certo istante t sarà verde e poi diventerà blu. Pensiamo per un attimo a quanti concetti e a quante relazioni ci vogliono per definire il vlu. Ci vuole il concetto di cambiamento, il concetto di colore, la definizione di verde, la definizione di blu, il concetto di tempo, l’avverbio di tempo “prima”, l’avverbio di tempo “dopo”, la conoscenza dell’istante t, la relazione tra il colore verde e l’avverbio di tempo “prima”, la relazione tra il colore blu e l’avverbio di tempo “dopo”. L’aggettivo “mutevole” invece richiede solo due concetti: il cambiamento e la forma. Potremmo quindi ritenere che nell’aggettivo vlu ci sia un eccesso di senso, un surplus di informazioni. Gli aggettivi qualificativi di solito sono più vaghi. Almeno nella lingua italiana ci forniscono la qualità di un oggetto o di un soggetto. Niente altro. Se si vuole fare una frase di senso compiuto comprendendo anche il tempo - è banale dirlo - utilizziamo gli avverbi di tempo e non gli aggettivi. Il vlu è un concentrato di concetti. Nasce da un paradosso linguistico perché almeno nella lingua italiana è un aggettivo (il vlu), che comprende anche due avverbi di tempo e altre cose. Allora bisogna chiedersi perché utilizziamo gli avverbi di tempo e non il vlu? Facciamo così, parliamo così. Probabilmente per economizzare le nostre risorse cognitive. Probabilmente se dovessimo estendere il vlu a ogni qualità e a ogni colore e a ogni trasformazione la nostra memoria a breve termine andrebbe a fottersi. E’ così in italiano, ma è così anche in tutte le altre lingue. Non solo ma se io ammetto il vlu ammetto anche il ble. Infatti dopo che quell’istante t l’oggetto che prima era verde ora è blu, ma io devo anche presupporre che in futuro possa ridiventare verde e quindi devo ammettere anche il ble (il blu che dopo un istante t diventerà verde). Se io accetto il ble accetto anche il giasso (il giallo che prima era giallo e dopo un certo istante è diventato rosso). E così all’infinito. Ma per economia delle risorse cognitive umane nessuno si sogna di utilizzare aggettivi, che tengano conto di tutti i cambiamenti della realtà e di tutti gli istanti esatti in cui avvengono questi mutamenti. Il problema di Goodman è quindi solo di natura semantica? Assolutamente no. Se io accetto il vlu accetto non solo le proposizioni scaturite dal paradosso del mentitore (del tipo: “questa frase non è vera”), ma sono costretto ad accettare anche proposizioni come “questa proposizione è vera-falsa” oppure proposizioni come “questa proposizione è vera-falsa-priva di significato” oppure come “questa proposizione è bella-brutta”. Perché restino in piedi le classi e le classi delle classi bisogna estromettere dalle classi delle proposizioni quelle derivanti da concetti come quello di vlu. Alcuni studiosi potrebbero parlare di gerarchie linguistiche tra predicato e soggetto, altri di metalinguaggio. Russell sosteneva che paradossi come la sua antinomia e il paradosso del mentitore fossero determinati da quella che definiva una circolarità viziosa. Può darsi che anche il paradosso di Goodman dipenda da una circolarità viziosa. Non lo so con certezza. Per i filosofi medievali non esistevano questi paradossi e non esistevano quindi tutte le implicazioni annesse e connesse. Loro le consideravano senza significato. Comunque sia nel paradosso di Goodman è presente il fattore tempo (quell’istante t in cui avviene il mutamento della qualità dell’oggetto). Ma potremmo anche cambiare e considerare il fattore spazio: ad esempio un oggetto che in casa mia è verde e fuori dalla mia casa è blu. Anche in questo caso abbiamo il famigerato vlu. Anche in questo caso compaiono due ipotesi: il verde e il vlu. Ecco perché sostengo che il fattore tempo è solo un pretesto. Nell’induzione le osservazioni possono dipendere dal tempo, ma anche dallo spazio. Visto che possiamo ipotizzare e fare qualsiasi cosa nel mondo filosofico di Goodman allora possiamo pensare che le osservazioni (e l’induzione) possono dipendere da infiniti elementi. L’importante è che ci sia il cambiamento della proprietà dell’oggetto di indagine. Ci vuole questo per fare il paradosso di Goodman e per farne altre varianti. Il paradosso di Goodman si basa sull’ipotesi riguardo alla proprietà (ritenuta costante) di un oggetto. E non riguarda solo il fatto in sé (l’osservazione), ma riguarda anche come siamo fatti noi esseri umani (come percepiamo, interpretiamo e nominiamo il mondo là fuori). Il paradosso di Goodman ci dice che prima della formulazione di quell’ipotesi abbiamo osservato la realtà, abbiamo fatto delle inferenze, abbiamo individuato delle proprietà costanti di un oggetto, abbiamo fatto una classificazione successiva, abbiamo nominato e definito l’oggetto. Dopo aver fatto queste cose ora possiamo fare un’ipotesi. Dopo l’istante t se gli smeraldi saranno vlu noi faremo le nostre osservazioni, faremmo delle nuove inferenza (osserveremo mille smeraldi vlu e concluderemo che tutti gli smeraldi sono vlu), individueremo delle proprietà costanti di un oggetto, faremo una nuova classificazione (in cui per forza di cosa gli smeraldi saranno tali se sono blu). Comunque da che cosa è composto dal punto di vista epistemologico il paradosso di Goodman? Da due ipotesi. Da un lato abbiamo un’ipotesi (quella del verde), che è dovuta all’induzione e alla verificazione (e anche alla convenzione linguistica, alla credenza, alla probabilità, alla rappresentazione mentale, alla classificazione, al concetto di tipo). Dall’altro abbiamo l’ipotesi del vlu che a primo acchito sembrerebbe dipendere dalla falsificazione. Dal punto di vista epistemologico la falsificazione va preferita alla verificazione, perché sappiamo che esiste quella che viene chiamata un’asimmetria logica tra verificazione e falsificazione. Il problema però è che il vlu del paradosso di Goodman non rischia di falsificare solo il verde e il blu, ma anche le nostre invarianze linguistiche. Uno scienziato potrebbe formulare qualsiasi tipo di ipotesi, anche quelle più improbabili e addirittura quelle ritenute impossibili. Potrebbe ipotizzare che nel 2030 il verde diventerà blu, nel 2040 il blu diventerà rosso, nel 2050 il giallo diventerà viola, nel 2060 il bianco diventerà nero. Potrebbe anche ipotizzare che il verde tra due minuti diventerà blu e dopo due minuti diventerà grigio e dopo ancora due minuti diventerà rosso e dopo due minuti ancora sarà nero. La stessa cosa non vale solo per le ipotesi formulate in base al fattore tempo, ma in base ad altri fattori (ad esempio il fattore spazio). Per dirla in modo generico - se noi non accettiamo delle invarianze nell’induzione, delle invarianze nella categorizzazione e delle invarianze linguistiche - finiamo per essere sommersi da infiniti vlu e da infiniti ble (il blu che dopo un istante t diventerà verde. E se accettiamo il vlu dobbiamo accettare il suo complementare ble). Nella realtà noi cerchiamo di fare economia anche nel campo delle ipotesi. Consideriamo solo le ipotesi ritenute più probabili e non tutte quelle possibili (altrimenti ci sarebbe un proliferare di ipotesi). Ma riflettiamo sulla frase “tutti gli smeraldi sono verdi”. Dire che “uno smeraldo è verde” almeno in questo mondo fino a oggi è una tautologia in fin dei conti. Si può considerare come tale. Prima chiamo l’oggetto A (lo smeraldo) quell’oggetto che ha come proprietà B (l’essere verde) e poi dico che quell’oggetto A ha come proprietà B. Quando dico uno smeraldo è verde dico questo. Qual è il problema? Il problema è che l’ipotesi del vlu può falsificare quella tautologia. Dopo quell’istante t se l’ipotesi che si verificherà sarà quella del vlu allora potremmo dire che uno smeraldo non è più uno smeraldo. Ora io posso fare tre cose per risolvere questo problema: posso ridefinire tutti gli smeraldi in base al fatto che siano tutti blu, posso dare un nuovo nome agli smeraldi (e considerarli dei nuovi oggetti) oppure posso definire gli smeraldi in base ad altre proprietà (ritenute) costanti, non considerando più quindi il colore degli smeraldi. Posso quindi chiamarli ancora smeraldi e non nominare più il loro colore perché potrebbe cambiare da un momento all’altro. Posso chiamarli ancora smeraldi e dire che un tempo erano verdi e ora sono blu senza utilizzare il vlu. Sono possibili tutte le soluzioni. Sono le soluzioni più efficaci e più economiche. Perché dovrei utilizzare il vlu? Visto e considerato che sono a conoscenza che questi cambiamenti non avvengono che raramente (lo so dall’esperienza) posso anche cambiare il nome allo smeraldo e chiamarlo in altro modo. Posso fare in diversi modi senza utilizzare il vlu. Inoltre prima ho scritto che il vlu sembrerebbe falsificare il verde. Ma se analizziamo bene la questione dal punto di vista linguistico potrebbe essere così, ma non dal punto di vista metodologico. Dopo il 2030 gli smeraldi potrebbero diventare verdi o vlu. Io però dopo il 2030 ho bisogno dell’induzione (come prima del 2030) per constatare se gli smeraldi siano verdi o vlu. Posso trovare che molti smeraldi siano vlu, ma mi basta un solo smeraldo verde per constatare che nessuna delle due ipotesi è valida (smeraldi tutti verdi e smeraldi tutti vlu). Posso anche trovare che molti smeraldi siano verdi, ma mi basta un solo smeraldo vlu per constatare che nessuna delle due ipotesi è valida. Ho bisogno dell’induzione quindi anche dopo il 2030. Inoltre il principio di falsificazione di Popper può smentire tutte e due le ipotesi. Tutti gli smeraldi potrebbero essere vlu tranne uno che è rimasto verde oppure tranne uno che è diventato verde (tranne uno che è ble). Tutti gli smeraldi potrebbero restare verdi tranne uno che è sempre stato blu (e non ce ne siamo accorti) oppure tranne uno che è diventato blu e che prima era anch’esso verde (quindi vlu). Io non sarò mai certo che tutti gli smeraldi siano verdi o vlu dopo il 2030. Il vlu quindi dal punto di vista epistemologico non è migliore del verde. Visto e considerato che gli esseri umani hanno delle convinzioni radicate e hanno anche una certa resistenza al cambiamento perché adottare il vlu anche a livello linguistico e logico (se il vlu a livello metodologico non è migliore di come noi nominiamo i colori in questo mondo fino ad oggi?). Possiamo anche cambiare regole, ma le nuove regole non migliorano assolutamente niente.

 

 

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Piattelli Palmarini ci ricorda che il filosofo Donald Davinson ha complicato ulteriormente le cose, immaginandosi degli smerazi. Gli smerazi vengono definiti come degli smeraldi che dopo un certo istante t diventeranno topazi. Piattelli Palmarini scrive di immaginarsi le implicazioni di affermazioni come “tutti gli smerazi sono vlu”. Il fatto qui si complica anche perché i topazi possono avere molte colorazioni. In questo caso può cambiare sia il soggetto che il predicato della proposizione. Ci sono molte ipotesi concorrenti dell’ipotesi “tutti gli smerazi sono vlu”. Tutte ugualmente valide dal punto di vista logico. C’è l’ipotesi “tutti gli smeraldi sono verdi”, “tutti gli smeraldi sono vlu”, etc etc. Ci sono anche le ipotesi che gli smerazi saranno di molte altre colorazioni, ma non vlu. La stessa frase “tutti gli smerazi sono vlu” a sua volta è composta dall’ipotesi (o informazione) “tutti gli smeraldi dopo l’anno 2030 diventeranno topazi” e “tutti i topazi dopo il 2030 diventeranno vlu”. Prima del 2030 potremmo considerare gli smeraldi dei semplici smeraldi oppure degli smerazi. “Tutti gli smerazi sono blu” significa che queste gemme prima erano smeraldi verdi e dopo il 2030 sono diventati topazi blu. Potremmo anche affermare che “tutti gli “smerazianti sono vlugi”. Per smerazianti posso intendere gli smeraldi che dopo il 2030 diventano topazi e dopo il 2040 diventano diamanti. Per vlugi posso intendere che il verde dopo il 2030 diventerà blu e dopo il 2040 diventerà grigio. E potrei continuare all’infinito. Ma la memoria a breve termine degli individui ha dei limiti ben noti. Apparentemente queste sono frasi semplici, ma rischiano di racchiudere troppe informazioni e/o troppe ipotesi per la nostra mente. Perché quindi non utilizzare il vlu invece del verde? Semplicemente per i limiti della mente umana. Continuando a complicare le cose potrei anche formare un unico predicato che contiene tutte le trasformazioni da un oggetto all’altro e potrei anche formare un aggettivo che contiene tutte i cambiamenti possibili e impossibili di una proprietà del predicato. La frase sarebbe assolutamente semplice dal punto di vista sintattico, ma il soggetto sarebbe costituito da migliaia di mezze parole e così anche il predicato. La domanda che si pone è: perché non utilizziamo una frase con un soggetto lunghissimo e un predicato lunghissimo per fare delle ipotesi o per trasmetterci delle informazioni? Perché invece quando facciamo ipotesi utilizziamo un linguaggio fatto di parole corte? La nostra mente procede in questo modo, perché la nostra memoria ha dei limiti. Ho fatto una ricerca singolare. Ho guardato quale era la parola più lunga del vocabolario italiano. E’ una parola impronunciabile e ha 29 lettere. Per me non è pronunciabile e penso anche per molti altri. Più dell’80% delle parole italiane sono formate da un minimo di tre lettere a un massimo di venti lettere. Qualcuno potrebbe farmi l’esempio dell’inui (la lingua parlata dagli eschimesi). Ma anche in questa lingua ci sono parole molto lunghe rispetto all’italiano, ma non sono composte da centinaia di sillabe. E invece se accettivamo il vlu non esisterebbero più limiti di lunghezza delle parole. Immaginiamoci ora parole formate da migliaia di lettere composte da sillabe di altre parole. Diventerebbe insostenibile la situazione. Non solo perché dovremmo ricordarci parole lunghissime, ma perché dovremmo utilizzare due vocabolari. In fondo noi (esseri umani del 2021) per definire il vlu abbiamo bisogno sia della parola verde che della parole blu. Avremmo quindi bisogno di una lingua madre con cui creare successivamente il vlu, il ble, etc etc. La domanda che mi chiedo è: il vlu presuppone sempre l’esistenza di una lingua preesistente? Se così fosse perché io devo utilizzare una seconda lingua che mi dà più problemi quando posso utilizzare una lingua da me ritenuta più semplice o più adeguata? Il vlu, lo smerazio, lo smeranziante sono parole composte, che mi ricordano di tutti i cambiamenti e di tutte le trasformazioni del soggetto e del predicato. Noi esseri umani abbiamo bisogno di queste parole composte se vogliamo utilizzare il vlu, lo smerazio, lo smeraziante. Un uomo che parla il vluese non esiste. Nella sua vita ha trovato oggetti che erano verdi e lui gli ha dato un nome a quel colore. Nella sua vita ha trovato oggetti che erano blu e gli ha dato un nome. Può forse definire un colore in base ai cambiamenti che questo colore ha nel tempo? Dare un nome a un colore significa porre un’invarianza linguistica. Nessuno può esimersi da questo. Il vlu quindi presuppone due invarianze linguistiche (il blu e il verde). Il colore vlu può esistere solo se esiste un linguaggio con il blu e il verde. Qualcuno potrebbe sostenere che gli uomini che parlano la lingua del vlu non hanno bisogno di parole composte. Ma non è così. Chiamiamo X la proprietà di un oggetto, che subisce dei cambiamenti. Chiamiamo Y un soggetto, che subisce delle trasformazioni. Potrei formulare l’ipotesi “tutti gli X sono Y” e tutto ciò sembrerebbe molto semplice a livello linguistico. Ma dovrei ricordarmi mentalmente tutti i cambiamenti di X e tutti i cambiamenti di Y. La memoria sarebbe sempre sovraccarica e ingolfata. In ogni caso non si va da nessuna parte con parole composte da migliaia di mezze parole e non si va da nessuna parte con una proposizione sintatticamente semplice, che contiene implicitamente centinaia di informazioni o ipotesi. In ogni caso dobbiamo ricordarci che la nostra memoria a breve termine ha dei limiti. Perché dovremmo preferire il verde al vlu? Anche per il semplice motivo che dovremmo cercare di stabilire sempre una corrispondenza tra percezione e linguaggio. Alcuni esperimenti in psicologia hanno dimostrato che alcune tinte di colori sono innominabili per qualsiasi essere umano. Quindi una corrispondenza totale non può esserci. Ma una certa corrispondenza c’è. Per la psicologia la percezione è il modo con cui organizziamo le sensazioni, gli stimoli esterni del mondo. Quando noi cerchiamo di individuare a livello percettivo la forma degli oggetti per esempio lo facciamo anche tramite delle inferenze inconsce. La percezione è data da questa interazione continua tra organismo ed ambiente. La nostra mente alcune volte convalida, altre corregge. Secondo la psicologia l’uomo ha bisogno delle costanze percettive, anche perché sono necessarie per adattarsi in qualsiasi ambiente. Faccio un esempio banale. Una tribù di indigeni sa che nei campi ci sono due tipi di serpenti perfettamente uguali nella forma, ma che hanno colore diverso. I serpenti verdi sono velenosissimi. I serpenti marroni sono innocui. Salvarsi o non salvarsi la vita dipende quindi dalla percezione del colore ed è scontato dirlo (ma è bene dirlo) dalla costanza percettiva del colore. Il verde è una invarianza linguistica, determinata da una costanza percettiva. Possiamo dire che il verde è in corrispondenza con il nostro modo di percepire i colori. Per adattarsi all’ambiente l’essere umano ha bisogno di costanze percettive e di conseguenza anche di costanze linguistiche. Che senso avrebbe avere il linguaggio sfasato rispetto alla percezione? Mettiamo che un indigeno ipotizzi che un serpente velenosissimo possa essere vlu invece che verde. A questo punto ammette qualsiasi possibilità. Ammette anche che possa essere vlugio (cioè essere verde fino all’istante X, quindi diventare blu e dopo l’istante Y diventare grigio). E così via. Diventerebbe una sorta di serpente-camaleonte nella sua testa e ciò genererebbe un eccesso di ansia e di apprensione, che lo condurrebbe all’immobilismo. Mettiamo che gli indigeni per sopravvivere debbano andare a caccia e ci rendiamo conto che questo modo di concepire la realtà sarebbe inconcepibile!!! Goodman sostenne che non si poteva risolvere il suo paradosso utilizzando la nozione di adattamento. Da un certo punto di vista è vero: quali sono le cose che mi permettono di creare queste costanze percettive se non la pratica e l’esperienza? Però bisogna anche ammettere che queste costanze percettive a loro volta ci permettono di adattarci al mondo a differenza del modo di percepire-nominare la realtà in vlu o in vlugio. Goodman ci insegna che esistono l’io e il mondo e che non sapremo mai dove finisca l’io ed inizi il mondo e dove finisca il mondo e inizi l’io. Il paradosso di Goodman ci insegna che c’è una base di partenza di noi esseri umani e che noi agiamo partendo sempre da lì. Non possiamo fare altrimenti. Ma la nozione di adattamento ci aiuta a capire come le nostre basi di partenza si accordano o meno al mondo. Se al posto degli smeraldi utilizziamo i serpenti velenosi ci accorgiamo che non solo noi preferiamo il verde piuttosto che il vlu in base alle nostre basi di partenza innate, ma anche in base alla nostra interazione continua con il mondo. Ma non c’è solo questo. Se io ammetto il vlu - serpenti o non serpenti, smeraldi o non smerald i- ammetto anche qualsiasi tipo di ipotesi possibile e impossibile. Noi scegliamo quindi le ipotesi più probabili? Se le intendiamo come ipotesi più probabili dal punto di vista soggettivo, allora senza ombra di dubbio. Sappiamo però che se accettiamo il vlu rischiamo di passare tutta la vita a formulare ipotesi. Una selezione delle ipotesi quindi ci vuole. Buona o cattiva che sia. Se tutta l’umanità fosse in preda all’immobilismo si estinguerebbe la razza umana. Che cosa ci permette di creare costanze percettive? Hanno ragione gli innatisti o gli empiristi? In questo caso non ci interessa. Molto probabilmente individuare delle costanze percettive dipende prima di tutto dalla nostra struttura cerebrale. Ma la cosa più importante è che le costanze percettive abbiano una funzione adattiva dell’essere umano all’ambiente. Di solito esiste una “discreta” corrispondenza tra percezione e linguaggio. Non deve esserci una corrispondenza totale tra percezione e linguaggio, ma non deve esserci nemmeno nessuna corrispondenza. Perché? Perché siamo fatti così. Tra percezione e linguaggio c’è una corrispondenza non totale e non può essere altrimenti per noi esseri umani. Allora perché adoprare il vlu quando non risponderebbe a queste esigenze primarie di sopravvivenza? Perché dovremmo avere un linguaggio sfasato rispetto alla percezione? Il paradosso di Goodman sembrerebbe farci capire che fare in un modo o fare in un altro è uguale. Ma se cerchiamo di estendere il concetto di vlu a ogni possibile ipotesi (trasformazione o cambiamento) ci accorgiamo che la mente umana preferisce il verde al vlu a causa dei limiti della propria memoria a breve termine. Per noi esseri umani il verde e il vlu possono essere ipotesi ugualmente valide dal punto di vista logico, ma non possiamo considerarle ugualmente valide da un punto di vista linguistico. Abbiamo i nostri limiti. Questo naturalmente non vuol dire che l’evoluzione della specie umana non continui e non ci siano in futuro altri uomini che preferiranno il vlu. Questo naturalmente non vuol dire che nell’universo non ci siano extraterrestri più evoluti rispetto a noi, che utilizzino il linguaggio del vlu. Con queste mie osservazioni non penso assolutamente di aver risolto il paradosso di Goodman. Sono abbastanza fesso, ma non fino a questo punto. Con queste mie osservazioni ho voluto solo precisare alcune cose. Per esempio alcuni formulano il paradosso di Goodman prendendo come esempio una tribù di indigeni, che parla il vluese. A mio avviso nessun essere umano fino ad oggi ha parlato e può parlare il vluese a causa di certi limiti mentali di noi esseri umani. Dovrebbero piuttosto parlare di esseri superiori alieni, che parlano il vluese. E ora vorrei fare alcune considerazioni di carattere generale. L’epistemologia in Inghilterra e in America viene intesa come lo studio della conoscenza umana, mentre in Italia viene considerata come metodologia della ricerca scientifica. Il paradosso di Goodman ci dimostra che per una seria analisi della metodologia della ricerca scientifica gli scienziati e i filosofi della scienza devono occuparsi seriamente anche dell’analisi del linguaggio. E’ questo che il paradosso di Goodman ci invita a fare. Su questo paradosso, che riguarda la scienza e anche il linguaggio, sono stati versati fiumi di inchiostro. Nessuno lo ha risolto e non è detto che qualcuno in futuro possa risolverlo (e sono passati decine di anni). Con questo suo paradosso Goodman sferrò un attacco decisivo al neopositivismo logico del circolo di Vienna. La metodologia scientifica sembrava basarsi fino ad allora sul principio di causalità, sull’induzione, sul principio di verificazione. A distruggere il determinismo e il causalismo filosofico (secondo cui ogni cosa era allo stesso tempo causa ed effetto di qualche altra cosa) ci pensò Heisenberg. Quello che ci interessa sapere a riguardo è che con il suo principio di indeterminazione dimostrò che non si poteva stabilire contemporaneamente la posizione e la quantità di moto di una particella. Ma non c’era solo questo. Le scoperte di Heisenberg avevano anche altre implicazioni. Per esempio si poteva dedurre che un osservatore (uno strumento scientifico oppure uno studioso di scienze umane) interagiva con l’oggetto di indagine e quindi in un certo qual modo interferiva. Dopo il principio di indeterminazione di Heisenberg crollò la certezza di stabilire con esattezza delle relazioni lineari di dipendenza tra due eventi. I filosofi invece che criticarono in modo serrato l’induzione e il principio di verificazione furono soprattutto Popper e Goodman. Quest’ultimo molto probabilmente ideò questo celebre paradosso per attaccare l’induzione ed invece finì per mettere in crisi l’intera epistemologia. Il paradosso di Goodman è una sorta di violazione del principio di non contraddizione della proposizione. Se io ritengo che possa esistere una cosa che allo stesso tempo è e non è allora violo il principio di non contraddizione. Goodman scatena un putiferio con un solo aggettivo: il vlu. Il vlu è ciò che è verde e dopo un certo periodo di tempo potrebbe diventare blu. Ecco allora che gli smeraldi fino ad allora considerati da noi tutti verdi finiscono per essere e non essere. Il verde è una qualità costante dello smeraldo. Ma se il verde diventa vlu gli smeraldi per il linguaggio umano sono e non sono allo stesso tempo, almeno fino a quando non ci decidiamo di cambiare nome agli smeraldi oppure fino a quando non decidiamo di definirli in base ad altre qualità. Visto e considerato che trattare questo paradosso è molto complesso fino ad ora ho cercato di essere più chiaro possibile. Potremmo essere più filosofici e affermare che il vlu è un elemento metalinguistico della proposizione “tutti gli smeraldi sono vlu”. E se ci pensiamo questo potrebbe anche essere un modo per approcciare il problema. “Tutti gli smeraldi sono vlu” significa che “tutti gli smeraldi sono verdi fino al 2030, ma dopo il 2030 saranno tutti verdi”. E poi avete notato una cosa? Il verbo. Quando utilizziamo il vlu condensiamo due ipotesi e mettiamo il verbo “sono”. In realtà gli smeraldi sono blu e dopo il 2030 saranno verdi se è vera questa ipotesi. In realtà gli smeraldi vlu sono e saranno allo stesso tempo. Il vlu implica che gli smeraldi “sono e saranno”. Potrei quindi sostenere che in ogni lingua umana esiste almeno un passato, un presente e un futuro. Noi esseri umani abbiamo bisogno in ambito linguistico di distinguere tra passato, presente e futuro. Siamo fatti così. Se io ammetto il vlu ammetto anche la confusione temporale. Noi esseri umani non possiamo permettercelo. Potremmo anche pensare che quel vlu non sia che metalinguaggio condensato.

 

 

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E ora una riflessione di carattere più generale. Kuhn aveva parlato già di “sfondo fornito dai paradigmi” quando descriveva la “scienza normale”, che cercava di risolvere i rompicapi. Popper aveva controbattuto sostenendo che si doveva disfarsi del “mito dello sfondo” e che lo sfondo poteva venire superato di volta in volta. Goodman con il suo celebre paradosso è riuscito a mettere in crisi non solo lo sfondo determinato dai paradigmi. E’ riuscito a mettere in crisi anche lo sfondo fornito dal linguaggio comune (qualsiasi tipo di linguaggio), dagli schemi mentali umani, dalle credenze e dalle costanze umane: lo sfondo fornito dal nostro modo di esperire e concepire la realtà. Molto probabilmente ci vorrebbe un essere di un altro pianeta per superare questo paradosso: un altro essere con un altro sfondo che riesca a vincere questo nichilismo degli sfondi. Il paradosso di Goodman non mette in crisi una “nicchia” culturale o scientifica. Mette in crisi tutto lo sfondo della conoscenza umana. Ci fa capire che gli esseri umani non possono uscire dai limiti e dalle possibilità del loro linguaggio. Forse l’unico tentativo per arrestare provvisoriamente questo paradosso è attaccarsi al caro vecchio nominalismo. Prendere per buono il fatto che possiamo individuare delle proprietà degli oggetti e ritenerle costanti. Qualcuno potrebbe chiedermi: come fanno gli esseri umani a rilevare queste proprietà? Oppure potrebbe chiedermi: ma per una tribù di indigeni il vlu non potrebbe essere considerato una proprietà costante di un oggetto? Allora io risponderei: non mi importa come gli esseri umani rilevano le proprietà e se una proprietà è più o meno semplice da rilevare di un’altra. E aggiungerei: mi importa il fatto che gli uomini individuino delle proprietà, che ritengono costanti. A questo punto sorge una domanda: su quali basi gli uomini ritengono costanti delle proprietà? E’ questo che in fondo ci domanda il paradosso di Goodman. Molto probabilmente lo fanno tramite l’induzione. Ma per tentare di arrestare provvisoriamente il paradosso di Goodman mi può bastare anche dimostrare che tutti gli esseri umani hanno bisogno dell’induzione, delle costanze linguistiche, di classificare oggetti in base a delle proprietà ritenute costanti. A mio avviso nessun uomo può parlare il vluese per tutta la vita e instaurare una corrispondenza tra linguaggio e realtà parlando il vluese. Non può farlo perché il vlu non definisce la proprietà (ritenuta) costante di un oggetto. Almeno per gli uomini di quest’epoca. Tra migliaia di anni non lo so. E ora concludo…..perché quindi non dobbiamo accettare il vlu? Perché sarebbe il nichilismo del linguaggio (è quello che più mi interessa) almeno per noi esseri umani del 2021. Ma è possibile combattere il nichilismo del linguaggio soltanto tramite il linguaggio? Molto probabilmente è impossibile. Goodman che era uno dei più grandi filosofi del ‘900 creò questo paradosso, ma è morto senza risolverlo. Fino ad oggi nessuno lo ha risolto.

 

Due parole su mode culturali, ideologia, politica

giu 242022

 

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Negli anni Settanta andava di moda Marx. Molti facevano corsi accelerati di marxismo, studiavano i riassunti dei riassunti senza leggere i libri di Marx e ciò nonostante si dichiaravano ferventi marxisti. Alcuni erano marxisti-leninisti. Altri erano maoisti. C’era chi leggeva Tronti, Panzieri, Toni Negri: i filosofi e politici dell’operaismo italiano. C’era chi si dichiarava gramsciano perché voleva l’egemonia culturale della sinistra.  A sinistra tutti volevano fare gli intellettuali organici, anche persone improvvisate. Per i riformisti era d’obbligo sapere la teoria keynesiana. Ancora oggi ci sono molti keynesiani tra i progressisti. Insomma ci voleva l’intervento pubblico per far ripartire l’economia. A destra andava di moda leggere Nietzsche e Heidegger. Il superomismo di Nietzsche poteva portare all’autoesaltazione. Nietzsche non può però considerarsi responsabile del nazismo se non in modo molto indiretto, come del resto Marx per i regimi comunisti. Il pensiero di Nietzsche fu deformato dalla sua sorella e da Hitler. L’antisemitismo di Nietzsche inoltre non era dispregiativo e violento, ma basato sulla paura indotta dalla superiorità culturale ebraica. Molto probabilmente Hitler odiava gli ebrei per questioni personali e perché aveva letto il falso documento dei protocolli dei savi di Sion, non per colpa di Nietzsche. Heidegger era compromesso con il nazismo, ma non era nazista per quello che sosteneva, piuttosto per quello che non scriveva, per quello che ometteva. Per capire cosa è stato il nazismo bisogna leggere la Arendt e non Heidegger, ciò che la filosofa definisce banalità del male e ciò che scrive a riguardo del totalitarismo, anche se la sua concezione dello stato totalitario non è a mio avviso universale ma ancorata a quell’epoca e a quel contesto storico, sociale, politico. Heidegger quindi può essere letto da tutti. Non c’è bisogno di condannarlo a priori né a posteriori. Naturalmente Heidegger è un grandissimo filosofo, scrive cose molto profonde sul nichilismo, sull’esistenza, sull’arte, sul declino della società occidentale, che nessuno aveva detto prima di lui. Inoltre in Italia il miglior interprete e intenditore del filosofo tedesco è stato Emanuele Severino, uno studioso attento e molto equilibrato, che non ha mai travisato il pensiero di Heidegger. Sono state tuttavia mode culturali. Certo ci può essere stato qualche facinoroso che tirava per la giacchetta il pensiero di questo o quel filosofo. Questo deve essere messo in conto. Per molti si trattava di mode. Solo pochi padroneggiavano la disciplina e gli argomenti.

 

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Solo pochi studiavano severamente la materia ed erano veramente versati. Per molti si trattava di rimasticature, echi lontani, deboli influssi, vagheggiamenti. Acculturarsi di filosofia politica, di economia politica era comunque una imposizione dall’alto, i partiti lo esigevano e naturalmente erano disposti a fare scuola agli iscritti. Sempre negli anni Settanta andava di moda a destra leggere Tolkien oltre ad Evola, Guénon, Spengler, Jünger. Era quasi un imperativo categorico. Per i liberali italiani era un dovere culturale leggere Croce e Gobetti. Negli anni Novanta per i liberali era quasi d’obbligo leggere Popper. I primi ad occuparsene nel nostro Paese del filosofo austriaco furono Dario Antiseri e Marcello Pera. Sempre negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila i liberali necessariamente dovevano guardare alle teorie dell’economista von Hayek, che non voleva l’intervento statale a differenza di Keynes. Negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila tutti i riformisti italiani leggevano o citavano Rawl e la sua teoria della giustizia. Per chi era di sinistra era un obbligo dover sapere qualcosa della teoria del potere di Foucault, del suo concetto di biopolitica, della decostruzione e del logocentrismo di Derrida, così come bisognava aver letto i libri di Chomsky, che criticava l’imperialismo americano. Qualche decennio fa erano di moda anche la psicanalisi, lo strutturalismo, la semiologia. Poi sono finite le mode culturali o comunque non hanno la grande presa di un tempo sulle persone. Sono finite le ideologie e quindi le grandi mode culturali a esse strettamente connesse. Un tempo chi si occupava e si interessava di politica leggeva decine di libri ogni anno, leggeva ogni giorno più quotidiani. Era una minoranza, una cerchia di persone non dico intellettuali ma di buone letture. Ogni ideologia aveva sempre bisogno di pensatori, libri, teorie che continuassero a giustificarla. Una ideologia non era qualcosa data per sempre. Perché aderisse efficacemente alla realtà c’era sempre bisogno di correttivi e aggiornamenti. Inoltre per ogni ideologia spuntavano come funghi dei critici e di conseguenza gli intellettuali di parte dovevano prendere le contromisure a quelle critiche. Insomma era il gioco delle parti, le solite schermaglie culturali. Ogni ideologia aveva bisogno di nuovi ideologi che la reinterpretassero e la rinnovassero continuamente.

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D’altronde noi esseri umani siamo degli esseri incompiuti. Per trovare compiutezza abbiamo bisogno di cultura: alcuni studiosi chiamano ciò antropopoiesi. L’ideologia un tempo doveva essere appresa, capita, interiorizzata, ma anche creduta. Il marxismo come il fascismo erano anche degli atti di fede che duravano tutta la vita. Un tempo si giurava fedeltà per tutta la vita a una ideologia. Un tempo credevano alle ideologie, erano innamorati delle idee, credevano alcuni di avere la verità in tasca. Poi per alcuni era breve il passo dalla ideologia alla ubriacatura ideologica o al delirio ideologico, ma in questi casi era questione più che altro del lato Freud, di personalità di base. Certamente c’era chi usava l’ideologia in modo strumentale per violenza e sopraffazione. Oggi buona parte dell’elettorato è incerto, indeciso, si astiene dal voto. Un tempo mia nonna si vestiva in modo impeccabile per andare a votare. Era un giorno memorabile quello delle elezioni. Le persone si vestivano bene, non perdevano un capello. Adesso la politica italiana è molto più pragmatica. I politici non parlano più di convergenze parallele. Sono più diretti e non c’è bisogno che la base si acculturi. Si fanno comprendere da tutti. I politici di tutti gli schieramenti oggi sono molto social. Utilizzano il web per fare diffondere le loro idee. Usano post brevi di Facebook, commentano i fatti del giorno con un tweet. Insomma ecco l’elogio della comprensibilità e della brevità. E se fosse questa non dico la democrazia dal basso ma una nuova forma di democrazia rappresentativa? Dell’ideologia è rimasto ben poco: il minimo indispensabile per dare una identità ai partiti e ai loro iscritti, per creare delle contrapposizioni tra di essi. La falce e il martello sono stati deposti in soffitta, a torto o a ragione. Sono finiti il senso di appartenenza, la fedeltà, la coerenza. Sono finiti simboli, pratiche, riti. Bisogna farsene una ragione. Se ne facciano una ragione anche coloro che hanno scannato e si sono scannati per l’ideologia. Nel frattempo le multinazionali hanno conquistato i mercati e hanno avuto la meglio su tutte le nazioni. Ma in fondo di cosa avevano bisogno l’Italia e gli italiani? Di stabilità politica, di sobrietà, di competenza, di lungimiranza, di oculatezza. Ideologia o non ideologia, tutto questo nella prima repubblica non c’è mai stato. Vedremo in futuro, se avremo futuro.

 

Sulle stagioni, i disastri, la natura...

giu 242022


Molte piante negli ultimi anni hanno raggiunto la fioritura a fine inverno. Si è parlato infatti di primavere anticipate. La natura è sempre più imprevedibile. Gli agricoltori rischiano molto a livello economico perché anche in caso di gelate tardive tutto va alla malora. Si pensi alla fioritura anticipata della frutta come ciliegie, susine, mele e pesche. Si consideri soltanto a come in alcuni anni è fiorita prima la mimosa. Recentemente si sono registrati notevoli sbalzi termici. Si pensi negli ultimi anni anche alle grandinate e ai danni del maltempo, sempre poco prevedibili. Un tempo non esistevano più le mezze stagioni secondo un noto luogo comune. Adesso non esistono quasi più le stagioni, forse a causa dell’inquinamento e del surriscaldamento del pianeta. La natura sembra impazzita. L’agricoltura può risentirne in caso di fioriture anticipate o tardive. Basta ricordarsi di quanto può compromettere la produzione di olio la fioritura anticipata dell’ulivo. Guardiamo i vigneti. Ma queste sono solo piccole beffe della natura nei confronti dell’uomo. Pensate all’invasione di cavallette in Africa, che ha costretto a fare la fame a 20 milioni di persone.

 

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Nel nostro piccolo in Italia abbiamo avuto la diffusione esponenziale delle nutrie, che erano utilizzate per la pellicceria. Alcune fuggirono dagli allevamenti e altre vennero liberate in modo incosciente. Ma tutto ciò non ha compromesso niente fortunatamente. La situazione almeno per ora è sotto controllo. Pensate al riscaldamento climatico in Antartide, che ha causato lo scioglimento dei ghiacciai. Pensate più recentemente all’enorme invasione di topi in Australia. Pensate ad un fenomeno come quello dello spiaggiamento delle balene.

 

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La natura può essere molto crudele. Può essere matrigna come pensavano Leopardi e Voltaire (dopo il terremoto di Lisbona). Altri pensatori hanno considerato positivamente la natura come San Francesco nel “Cantico delle creature ” e come Spinoza con il suo “Deus sive natura”. C’è chi vede nella natura una nemica e chi l’immagine di Dio. In definitiva la natura può far male all’uomo con cataclismi e siccità, ma anche l’uomo con l’industrializzazione ha fatto molto male alla natura. Dalla rivoluzione industriale a oggi l’uomo ha rovinato il pianeta. Probabilmente oggi siamo alla fine dell’Antropocene. Pensate solo all’inquinamento. Osservate solo tutta la plastica che c’è nel mare. L’umanità deve prendere provvedimenti tempestivi. Bisogna pensare anche a un futuro remoto. L’uomo contemporaneo vuole dominare e manipolare a suo piacimento la natura. Vuole solo servirsene senza rispettare fauna e flora.

 

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Ma non rispettando l’ecosistema, non rispetta nemmeno sé stesso. Non possiamo uccidere la balena perché viviamo per ora nel suo ventre. Per ora non c’è stata nessuna intercessione divina che ha fatto in modo che la balena ci vomitasse su una serena spiaggia, come Giona. Ricordando Moby Dick di Melville non bisogna comportarsi come Capitan Achab perché non si salva, mentre si salva invece Ismaele. Dobbiamo accettare il lato terribile della natura. Dobbiamo rispettare la natura perché è il nostro habitat naturale. È al momento il solo mondo di cui disponiamo, ma gli interessi di alcuni potenti e di alcune nazioni ricche sembrano avere il sopravvento su tutto e su tutti. Il futuro del pianeta è lo stesso futuro dell’umanità. Jonas non a caso parla di etica della responsabilità, di pensare anche alla vita di coloro che verranno, di avere uno sguardo lungimirante ed a lungo termine. Staremo a vedere. Per dirla alla Popper “il futuro è ancora aperto”.

Divagazioni sulla scienza, la fantascienza, la cosiddetta normalità, il genere post-apocalittico...

giu 222022

 

 

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La fantascienza, nonostante i capolavori di Asimov e P. Dick, è stata per molto tempo considerata un genere minore. Eppure descrive le nostre paure, le nostre angosce, anticipa i tempi, ci proietta nel futuro. Non tratta solo delle invasioni degli alieni o di macchine del tempo. Talvolta alcuni racconti sono incentrati sullo straniamento, inteso come rovesciamento di prospettiva: si veda ad esempio il celebre racconto breve di F. Brown “La sentinella”. La fantascienza talvolta è il futuribile e stimola la fantasia, che è fondamentale per la conoscenza umana. Anche la letteratura combinatoria di Perec, Queneau, Calvino può stimolare l’immaginazione. E che dire dei celebri racconti di Borges o di Augusto Monterroso? Anche questa letteratura come la fantascienza si volge agli infiniti possibili, descrive universi paralleli. Per Popper la scienza è fatta di congetture e confutazioni. Gli scienziati devono usare la fantasia per formulare ipotesi. Lo stesso Einstein sosteneva che “la logica porta da a a b, mentre l’immaginazione porta ovunque”. La scienza per noi uomini comuni procede dall’ignoto al noto, ma per i ricercatori procede dal certo (i dati) al probabile (le scoperte, le nuove teorie). La fantascienza ci mostra “Le meraviglie del possibile” (dal titolo di una celebre antologia di racconti). Possiamo esercitare la nostra fantasia, ma oggi non sappiamo come nascono certe intuizioni. È difficile essere individui veramente completi o come si suol dire saper utilizzare entrambi gli emisferi. Alcune persone giungono all’insight, riescono a ristrutturare cognitivamente un problema e a risolverlo, ma non sappiamo il motivo. Possiamo per ogni scoperta scientifica descrivere l’intuizione che ha portato alla soluzione, ma non possiamo definire in modo esaustivo e calzante l’intuizione: ogni definizione generica per ora è astrusa. Forse potremmo dire che l’intuizione è una illuminazione, un salto intellettivo fondamentale per il problem solving. Niente di più. Possiamo solo affermare che noi esseri umani siamo fortunati perché i nostri stati mentali corrispondono con la realtà. Possiamo anche affermare che non sappiamo se il progresso sia infinito perché non sappiamo se la conoscenza umana sia infinita. Realisticamente potremmo dire che se non sappiamo risolvere certi rompicapo per un meccanismo di compensazione vorrà dire che ne sapremo risolvere altri. Un’altra cosa da tenere presente è che bisogna sempre usare il rasoio di Occam: non si deve moltiplicare gli enti. Lo stesso Einstein era dell’idea che si doveva togliere, levare. Infatti affermò che bisogna rendere le cose nel modo più semplice possibile ma senza semplificarle. Gianni Rodari ha scritto una grammatica della fantasia, analizzando tutti gli usi della parola e tanti modi per inventarsi storie. In ambito scientifico e nella psicologia del pensiero sono state scritte migliaia di guide alla creatività, ma questa rimane allo stato attuale delle conoscenze un mistero. Per Enrico Fermi la creatività scientifica poteva essere stimolata cercando di fare stime approssimative e insolite come ad esempio cercare di calcolare quanti accordatori di pianoforti c’erano in un paese di un certo numero di abitanti o come calcolare quante bevande di una certa marca vendesse in una settimana un negozio di alimentari in una certa città. Molto spesso i suoi studenti rimanevano spiazzati dalle sue domande. Solo pochi dimostravano una certa capacità analitica. L’analisi di un problema può essere nota. Sappiamo quali sono le regole della logica deduttiva e induttiva. La questione controversa è come giungere alla sintesi e non all’analisi. Secondo Piaget per risolvere i rompicapo scientifici bisogna avvalersi del pensiero ipotetico-deduttivo, si deve cioè pensare a ogni possibile combinazione e a ogni possibile aspetto del problema. In una parola sola bisognerebbe vagliare tutte le ipotesi. Secondo alcuni psicologi la creatività può essere stimolata con il brainstorming, la meditazione, il training autogeno, delle lunghe camminate, il bere caffè, stare a contatto con la natura. Talvolta si tratta di riformulare il problema, altre volte si deve cercare nuove associazioni idee. Molto spesso bisogna chiedersi cosa succederebbe se si facesse in un altro modo, ma ciò che è difficile è trovare il modo giusto. Talvolta si ha la sensazione che alcuni scienziati si inventino col senno del poi nuove teorie della conoscenza scientifica. La stessa epistemologia può essere illuminante come filosofia della scienza, ma può lasciare a desiderare come metodologia della ricerca scientifica. Si pensi solo a Lakatos che teorizza l’anarchia metodologica. Insomma si brancola ancora nel buio o quantomeno si procede a tentoni in un terreno accidentato. C’è anche chi ritiene che la creatività non esista o che sia una terra di nessuno e che non si debba fare una mitologia del lampo di genio. Per queste persone sarebbe solo questione di fortuna e come pensava Pasteur “la fortuna aiuta le menti preparate”. Sicuramente gli scienziati procedono per prove ed errori. In fondo i comportamentisti scoprirono che anche questa era una forma di apprendimento efficace.

 

 

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Dopo aver accennato molto sinteticamente alla relazione tra scienza e fantascienza, vorrei trattare del genere distopico, in particolare del genere post-apocalittico, anche se non sono un cultore della materia. Alcune volte certe distopie si sono avverate, ma vorrei ora parlare di alcuni dubbi che ho su certi romanzi e certi film. Ci siamo evoluti culturalmente ma non cerebralmente rispetto a migliaia di anni fa. Per creare utensili tipici degli uomini primitivi ci vogliono oggi pazienza certosina e ore di lavoro. Hanno fatto degli esperimenti con degli studenti universitari. Si pensi che non è affatto semplice accendere il fuoco senza fiammiferi, senza accendino o senza gas. Siamo come si suol dire dei nani sulle spalle dei giganti. Tutte le conquiste della nostra civiltà occidentale, ovvero tutti gli artefatti della tecnologia li diamo per scontati, eppure senza di essi non avremmo mai avuto la nostra zona di comfort, la nostra qualità della vita e la nostra aspettativa di vita.  Essere umani significa vivere in società e avvalersi delle competenze altrui. Tutto questo mi ricorda un racconto breve di Calvino in cui il protagonista non sa allacciarsi le scarpe e ha bisogno di qualcuno per questo. Nessuno di noi è veramente autosufficiente. Bisognerebbe ricordarselo più spesso. Queste cose mi sembrano in genere sottovalutate o addirittura non prese in esame dagli scrittori che si immaginano scenari post-apocalittici. Gli stessi scrittori molto spesso non ci forniscono motivi plausibili per cui uno o pochissimi sono sopravvissuti e invece il resto dell’umanità no. Mi sembrano a mio modesto avviso ipotesi illogiche, poco realistiche e oserei definirle impossibili. Qualcuno potrebbe chiamarle controfattuali. Insomma per scenario post-apocalittico si intende la fine dell’umanità meno uno o meno pochissimi: un controsenso se pensiamo a rigor di logica. Così come nei libri di questo genere gli autori non si soffermano mai sulle conseguenze psicologiche che avrebbe la deprivazione sociale del protagonista o dei protagonisti. Uno scenario post-apocalittico potrebbe avere dei risvolti positivi dal punto di vista ecologico, ma nutro dei seri dubbi che potrebbe averli dal punto di vista antropologico. Però è solo questione di punti di vista. Siamo nell’ambito dell’opinabile. Nessuno sa con certezza cosa accadrebbe e come reagirebbero i sopravvissuti. Queste sono le critiche che faccio io. Naturalmente siamo nel genere fantascientifico che non è solo science fiction ma in cui si può conciliare l’inconciliabile, immaginare l’inimmaginabile; un genere che è contrassegnato anche dal gusto del paradosso. Comunque io nutrirò sempre delle perplessità riguardo a questo genere. Spesso viene trattato uno scampolo di umanità sopravvissuta a una catastrofe superficialmente dal punto di vista umano. Non è questione in questi casi di immaginare per assurdo, attività più che lecita. Anche quando si vuole descrivere un universo parallelo lo si deve però fare in modo completo e senza tralasciare elementi essenziali. Spesso nella fattispecie vengono omesse alcune qualità e caratteristiche fondamentali, imprescindibili dell’essere umano. Ammettiamo pure che tutto sia possibile (anche l’impossibile) nel futuribile, ma l’essere umano dovrebbe essere considerato ancora umano. Come scrisse Terenzio: “sono uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me”. A mio modesto avviso i libri di questo genere non contemplano a sufficienza l’interdipendenza degli esseri umani, solo per fare un esempio. Purtroppo gli ingegneri hanno bisogno di medici, i medici hanno bisogno di ingegneri, ma anche i barbieri hanno bisogno di altri barbieri, i medici hanno bisogno di altri medici, i preti hanno bisogno di altri preti, gli psichiatri di altri psichiatri supervisori, eccetera eccetera. Qualsiasi comunità si basa sulla divisione del lavoro, che significa anche suddivisione delle competenze. Senza uno straccio di comunità il singolo individuo vivrebbe pochissimo. La cosiddetta “sospensione di incredulità” a mio avviso deve essere supportata da conoscenze scientifiche e da una ricostruzione attendibile dal punto di vista psicologico, sociologico, antropologico. Questa formula “sospensione di incredulità” può significare anche credere all’incredibile, esattamente come una religione (solo che la fantascienza fino ad ora non ha mai fatto miracoli). Qui forse non si tratta più di ragionare, criticare costruttivamente. Il vero discrimine forse è quello di credere o non credere. Più esattamente lo scrittore in questi casi immagina per assurdo e il lettore crede per assurdo. Tutti i cultori della fantascienza hanno il diritto di ragionare per assurdo. E gli altri? I miscredenti non possono ragionare in modo non dico razionale ma ragionevole? È forse da stolti per esempio cercare l’intellegibile in questo mondo assurdo? Calvino inoltre sosteneva che la creatività fosse costituita da una fetta di pane con la marmellata: mi dispiace ma spesso trovo questo genere troppo melenso e senza adeguate infrastrutture. È vero che in caso di scenario post-apocalittico le strutture economiche e le sovrastrutture ideologiche verrebbero meno ma le infrastrutture psichiche ad esempio rimarrebbero. Bisogna considerare ciò. Altrimenti la rappresentazione è distorta e falsa. Altrimenti “l’esperimento mentale” e l’esercizio di immaginazione servono a poco. Molto probabilmente siamo tutti o quasi “polli di allevamento” come cantava Gaber. Non resisteremmo che qualche giorno in uno scenario del genere. Molto probabilmente non sapremmo far fronte alle emergenze e ai pericoli della natura. Fanno corsi di sopravvivenza per manager, reality televisivi in cui i partecipanti vivono per qualche giorno in situazioni estreme. Però ci sono sempre tutor oppure delle troupe che li supportano. Se questi soggetti fossero lasciati soli a sé stessi avrebbero vita molto breve. Se si pensa invece al genere post-apocalittico come critica all’antropocentrismo e alla società attuale a mio modesto avviso ciò può essere più utile. Ritengo anche che questo genere potrebbe far scaturire degli interrogativi di fondo interessanti: che ne sarebbe in condizioni così estreme di tutte le mutazioni antropologiche e dell’uomo postumano? Cosa succederebbe all’uomo non più inserito in una società fondata sulla creazione di falsi bisogni come scriveva Marx? Cosa sarebbe veramente necessario? Ma mi chiedo anche se abbiamo veramente bisogno di essere stimolati dalla fantascienza per porsi questi interrogativi. In fondo per riflettere sul destino del nostro pianeta basta leggere una intervista di un astronauta, che in orbita ha provato dolore per questo mondo e ha sentito un vero legame con la Terra. Abbiamo veramente bisogno del genere post-apocalittico per meditare su una umanità veramente autentica e su una esistenza veramente autentica? Nello scenario post-apocalittico che cosa resta dell’uomo? Non c’è più ricambio cellulare e non rimarrà più niente della pelle morta nel corpo del pianeta. A mio avviso non vengono prese in esame tutte le caratteristiche umane in modo veritiero. Vengono per così dire falsate. Per analizzare e descrivere la natura umana e le dinamiche sociali, anche quelle di poche persone, a mio avviso non bisogna pensare l’homo homini lupus e neanche l’homo homini deus ma semplicemente l’homo homini homo. Mi sembra che alcune problematiche dell’essere umano vengano tralasciate in certi romanzi e in certi film. Forse lo fanno per questione di sintesi, forse rispettare i canoni della letterarietà. La casistica della vita allo stato brado non è infinita ma quasi. Forse lo fanno per esigenze di spazio o per non essere particolarmente crudi. Forse certi dettagli non interesserebbero che pochi lettori e preferiscono sorvolare. Ci sono ancora oggi popoli che vivono in tribù allo stato quasi primitivo. Forse è più educativo leggere qualcosa sui loro usi e costumi che leggere una distopia. Però naturalmente è una mia opinione, senza nulla togliere alle visioni e alle intuizioni degli scrittori di fantascienza. Infine vorrei sottolineare che di solito gli scrittori di fantascienza talvolta sono degli scienziati ma di solito hanno scarse conoscenze sociologiche, psicologiche, antropologiche. Infine faccio una considerazione molto amara. Per  quel che mi riguarda sono dell’idea che la cosiddetta normalità ci sta conducendo all’estinzione della specie. I cosiddetti folli al massimo commettono qualche omicidio o suicidio: roba da niente al confronto! Per non parlare poi della cosiddetta demopatia strettamente connessa all’oligarchia patologica (ed entrambe ampiamente tollerate)! La normalità tanto sbandierata non esiste di fatto. Questo è un mondo folle e di folli. Quando c’erano i manicomi qualcuno diceva e scriveva che i pazzi erano fuori. Siamo così sicuri che i normali siano veramente normali e i folli veramente follii? Per il momento sono solo apocalittico e non ancora post-apocalittico.

 

Intellettuali, impegno, violenza...

giu 212022

 "Sulla violenza? Non si può rispondere a un mondo assurdo con un gesto assurdo" (Davide Morelli alla terza birra in un bar imprecisato)

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Per Dario Fo intellettuale è colui che ha un rapporto dialettico con la realtà. Bisogna notare che molti si credono intellettuali perché intrattengono soltanto un apparente rapporto dialettico con altri intellettuali.  Invece il rapporto dialettico deve essere innanzitutto con la realtà. Mi sembra appropriata e calzante come definizione, quella di Dario Fo. Premetto che di carne da mettere al fuoco ce ne sarebbe tanta. Cercherò di essere il più sintetico possibile. Ma il problema principale non è tanto dare una definizione di intellettuale o di cultura quanto quello del ruolo dell'intellettuale, ovvero se deve essere impegnato o disimpegnato. Può arrivare per esempio a uccidere per cambiare la società? Il filosofo Popper sembra risolvere la questione, quando ne "La società aperta e i suoi nemici" scrive che l'omicidio è legittimo se la vittima è un dittatore.

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(Nella foto Popper)

 

Parafrasando Pavese, secondo cui ognuno ha una ragione valida per uccidersi, oserei dire che, seguendo Popper, ognuno potrebbe avere una valida ragione per uccidere. Perché non uccidere degli oligarchi sanguinari o dei governanti democratici ma lestofanti e corrotti? In fondo ogni intellettuale potrebbe dichiararsi rivoluzionario e decidere di uccidere. Però viene da chiedersi anche se un artista può essere ritenuto tale se ha commesso un'azione riprovevole. Caravaggio fu un assassino. D'Annunzio e i futuristi ebbero delle responsabilità per l'entrata in guerra dell'Italia. Croce in "Etica e politica" faceva una netta distinzione tra arte e vita. Quasimodo invece pensava che chi avesse fatto la spia per i fascisti in guerra non potesse scrivere poesie. Prendiamo il caso del celebre Marco Paolini. Ha tamponato una macchina, uccidendo una donna. È risultato negativo all'alcol test e non era al cellulare. Tutto è accaduto involontariamente. Dovremmo forse condannarlo ed ergerci a giudici? Non l'ha fatto apposta. Paghi pure in sede civile e penale (i giudici ci sono per questo), ma eticamente potremmo forse condannarlo? La risposta certa è no. Comunque ritorniamo all'omicidio volontario. Ognuno avrebbe una ragione valida per uccidere. Ognuno potrebbe avere una giusta causa. Secondo la celebre opera teatrale di Sartre per fare la rivoluzione d'altronde bisogna "sporcarsi le mani". E che dire di coloro che subiscono un'ingiustizia o degli intellettuali che potrebbero diventare giustizieri? Non avrebbero i familiari delle vittime, per esempio, tutto il diritto di passare alle vie di fatto? E che dire dell'atto gratuito di "Delitto e castigo" o del Lafcadio di Gide? Qualcuno potrebbe giustificare anche chi spara a caso sulla folla. In fondo forse ogni incontro non è un numero random e il mondo non è forse un generatore di numeri casuali? Però dovremmo ricordarci come disse Sanguineti che sparare sulla folla non può essere considerato un gesto d'avanguardia.  Potremmo pensare alla teoria di Ivan Karamazov secondo cui "se Dio non c'è tutto è permesso". Però non sempre è così perché i nichilisti russi non furono mai sanguinari, anche se come Bazarov non credevano nei vecchi valori, credevano nella scienza e disprezzavano l'umanesimo. Non è poi assolutamente detto che tutti gli artisti innovatori siano automaticamente dei rivoluzionari: non tutta l'avanguardia è calda come si suol dire, cioè legata alla contestazione e alla rivolta. Per i cristiani non si dovrebbe agire "occhio per occhio" e ogni omicidio dovrebbe essere considerato un deicidio. La società occidentale teoricamente ha come principio la sacralità della vita. Specifichiamo meglio: ha a cuore la vita dei propri cittadini, mentre se ne strafotte dei cittadini del terzo mondo (penso di poterlo scrivere senza essere accusato di terzomondismo). Gli intellettuali non possono arrogarsi il diritto di uccidere in nome di nobili principi, sostituendosi a Dio o giustificandosi dicendo che è un sacrificio necessario. Devono essere biofili e non necrofili, anche se c'è stato in passato chi seguendo Marx ha ucciso per trasformare la realtà o chi ha ucciso seguendo Nietzsche per una trasmutazione dei valori. Diciamocelo francamente, le ideologie covavano della violenza. La volontà di potenza era insita in ogni ideologia, anche in quella marxista. La violenza esiste anche nel liberalismo, quando esporta a ogni costo la democrazia o quando i governanti non attuano un valido welfare. La violenza è in ogni sistema di pensiero perché anche se esso non è violento sono in un certo qual modo violenti gli uomini che lo mettono in pratica. Questo sistema però può anche essere combattuto civilmente dall'interno e a questo proposito essere militanti non significa essere capziosi e neanche faziosi, bollando gli altri come piccolo-borghesi, romantici o reazionari. La realtà non si suddivide in falchi e colombe e non sempre la vita è un gioco a somma zero. E allora un intellettuale deve abbracciare l'engagement? Deve essere così impegnato politicamente da prendere le armi?

 

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(Nella foto Camus)

La risposta a tutto ciò è l'introduzione de "L'uomo in rivolta" in cui Camus scrive che bisogna opporsi al "delitto logico", quello dovuto all'azione dell'ideologia. Sempre Camus scrive che "al tempo della negazione bisognava trattare del suicidio. Nell'epoca dell'ideologia bisogna discutere di omicidio". Il grande scrittore afferma anche che in quegli anni "il delitto è legge". La formula di Camus è la seguente: "mi rivolto, dunque siamo". Per Camus la rivolta deve essere metafisica, artistica: l'uomo non deve esercitare violenza nei confronti dei suoi simili. Secondo  Camus gli uomini devono affratellarsi dopo aver compreso l'assurdità del mondo e della vita.

 

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(Nella foto Sartre)

Dopo la pubblicazione de "L'uomo in rivolta", scaturirà una polemica, assai complessa e articolata, all'ultimo sangue tra Camus, Sartre e altri intellettuali francesi. Sartre e Camus non saranno più amici per divergenza di vedute. Alla base di tutto c'è una netta contrapposizione tra chi è filosovietico come Sartre e chi no come Camus. Solo con la morte prematura di quest'ultimo si placheranno gli animi. Comunque tutti dovremmo rileggere continuamente il saggio di Moravia "L'uomo come fine". C'è scritto tutto lì. È un libro smilzo, profondo, chiaro e comprensibile. Purtroppo l'uomo è un mezzo e il consumismo, l'utile, la tecnica, il progresso, l'affermazione sugli altri sono i soli fini.

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