Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Due parole sulla solitudine, Danilo Dolci, introversione, psicologia e mistica...

nov 182022

 

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"Vivo nella fraternità / delle stelle // È soltanto ai solitari / che l’universo /spalanca le sue porte” (versi della poetessa lussemburghese Anise Koltz)

 

 

 

Il gruppo svolge funzioni psicologiche fondamentali per l'equilibrio dell'individuo come il mantenimento dell'autostima, il sostegno morale, la comprensione dei problemi. Almeno questo è vero per la psicologia. Durante il quarto congresso internazionale di psicoterapia di gruppo, svoltosi a Vienna nel 1968, il gruppo venne concepito come "difesa contro l'ansietà che ci viene dal pensiero dei miliardi di individui che vivono sul nostro pianeta". È argomento controverso stabilire quali possono essere i fattori che sono cause di emarginazione di una persona dal gruppo. Il motivo più facilmente rintracciabile è la diversità dell'individuo emarginato rispetto alla comunità. Una rassegna di studi ha rilevato infatti la contiguità tra somiglianza, credenze simili e amicizia. La diversità dell'emarginato può essere volontaria o involontaria. Nel primo caso il soggetto è spesso un deviante che non si conforma alle regole, alle idee, ai principi, ai valori del gruppo. Nella nostra società occidentale sono fondamentali i gruppi informali, che forniscono sostegno, solidarietà, rimozione dell'ansietà individuale grazie alla coesione di più persone. Il grande poeta e sociologo Danilo Dolci, famoso per i suoi libri-inchiesta, per la sua lotta alla mafia, per le sue marce, per i suoi digiuni, per la sua non violenza scriveva: "Così la vita di gruppo, la vita comunitaria, è pure un indispensabile strumento di verifica e di costruzione personale e collettiva. La vicinanza fisica con gente autentica può generare chiarezza morale"; ma non scordiamoci che lo stesso autore scriveva anche: "Dove c'è un vivo, lì, palese o no, nasce una comunità". La stragrande maggioranza di noi hanno bisogno di essere in coppia; molti non riescono a concepire sé stessi da soli. Il primo motivo è che non riescono a stare bene da soli. Il secondo motivo è che hanno bisogno di trovare un'altra persona per essere soddisfatti sessualmente, per non soffrire di carenze affettive, per trovare un dialogo continuo, una compagnia. Esiste anche la pressione sociale che spinge le persone a cercare la dolce metà. Molti cercano una persona che li completi perché da soli non si bastano. Abbiamo bisogno per natura o per cultura di altra pelle oltre la nostra, di un altro corpo oltre il nostro, di altre parole, di altro udito, di un altro sguardo, di altra umanità oltre la nostra. O almeno così ci sembra di primo acchito. Forse è proprio perché la società ci impone la rottura della solitudine che questa ci sembra così innaturale e ci sembra infelice chi non sa o non può amare o stare in mezzo agli altri. Da giovani chi non ha un partner sessuale si sente irrimediabilmente solo perché il bombardamento pornografico impone l'estroversione sessuale a ogni costo e a ogni modo. Poco più che ventenne ho lavorato per un anno in un collegio di salesiani e in un ambiente più casto mi sono accorto che alcuni miei impulsi sessuali erano socialmente indotti.
La verità comunaue è che la stragrande maggioranza di noi cercano un human touch (un tocco umano) per dirla alla Bruce Springsteen. Quello che mi sono sempre chiesto è se il voler rompere la solitudine sia dovuto alla natura o alla cultura. Mi sono sempre chiesto quanto la socialità sia socialmente costruita e quanto sia fisiologica. Ma io mi chiedo, dopo essere cresciuti socialmente, culturalmente, umanamente quanto abbiamo bisogno sempre socialmente, culturalmente, umanamente degli altri, se non si è malati e si è autosufficienti? Per Rousseau e per Freud gli uomini hanno creato una civiltà, barattando buona parte della loro libertà per la loro sicurezza.

 

Ogni test di personalità che si rispetti prevede la misurazione del grado di socievolezza del soggetto. Il MMPI prevede una scala che quantifica l'introversione sociale, che viene considerata negativamente, ovvero come difficoltà o meno a rapportarsi con gli altri. Il Big Five prevede la misurazione di due tratti di personalità a tal riguardo: l'estroversione e l'amicalità. Dietro a tutti questi costrutti psicologici c'è il retropensiero diffuso tra gli studiosi, che diventa molto spesso un postulato dato per certo, ovvero che l'uomo è un animale sociale. Sarà pure vero. Ma in me sorge spontanea una domanda: l'uomo può fare a meno degli altri, dopo che è stato istruito, educato e quindi gli altri li ha interiorizzati? Secondo la mistica cristiana e non solo l'uomo per cercare, pregare, trovare Dio sta meglio da solo e gli altri sarebbero una distrazione, addirittura un disturbo. Basta ricordarsi dei Padri del deserto oppure in epoca medievale degli stiliti. Talvolta ci si ritira dalla solitudine per fuggire dagli altri...


Così Petrarca scrive:

"Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co·llui."

 

Anche in letteratura e nell'arte ci sono tanti esempi di persone che hanno scelto l'introspezione, la ricerca interiore, considerandole quasi come una necessità dell'animo, per creare. Si pensi solo a Proust che per scrivere il suo capolavoro si isolò per anni in una stanza con pareti ricoperte di sughero e dalle finestre sbarrate. Alcuni psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, a torto o a ragione, ritengono che il bisogno di solitudine sia correlato significativamente con il livello di introversione dell'individuo. Ma alcuni artisti e religiosi si impongono la solitudine e il raccoglimento interiore per i loro scopi, mentre per altri la cosa è molto più spontanea e naturale. La realtà è che si potrebbe considerare patologico chi non sa stare da solo, ma, siccome il mondo va avanti grazie a chi fa figli (oggi il problema è casomai che stanno facendo troppi figli e la sovrappopolazione è un grave problema), viene molto spesso considerato patologico l'asociale, cioè colui che decide di non stare tra gli altri o colui che non sa stare tra gli altri.

Sul libero arbitrio e il determinismo...

giu 252022

 

 

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Epitteto nel "Manuale" scrive: "Tra le cose che esistono, le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi. Dipendono da noi: giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola, tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi: il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche e, in una parola, tutti quelli che non sono propriamente fatti nostri."
Il teologo protestante Niebuhr nella sua "Preghiera della serenità": "Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscerne la differenza".
Noi esseri umani rispetto agli animali abbiamo un maggiore margine di libertà. Noi abbiamo dei riflessi che fisiologicamente sono degli automatismi dei muscoli o dei nervi a degli stimoli esterni. Si pensi al medico che ci controlla i riflessi per vedere il nostro stato di salute. Ma molto probabilmente non abbiamo degli istinti come gli animali. Sembra infatti che non ci siano più schemi innati nella nostra specie. Anche il sesso sarebbe appreso. Oggi si ritiene che gli uomini abbiano delle pulsioni, freudianamente intese. Al massimo bisognerebbe distinguere tra pulsione e bisogno. La fame, la sete e il sonno sono dei bisogni. Il sesso e l'aggressività sono delle pulsioni. Il bisogno è sempre impellente. La pulsione non è una necessità. Uno può avere anche voglia di fare sesso ma rimandare oppure non fare sesso. La vera coazione a ripetere è il bisogno. Quindi sembra che le pulsioni ci offrano una maggiore scelta. Comunque non c'è da rallegrarsi troppo. Sembra infatti secondo la scienza che siamo molto più determinati di quello che si credeva un tempo quando si credeva molto di più nel libero arbitrio. Siamo determinati biologicamente, storicamente, economicamente, socialmente e culturalmente. Siamo determinati quindi anche dall'ambiente. Un tempo tutto ciò si chiamava destino. È l'antica disputa tra determinismo e libero arbitrio. In psicologia le persone che hanno un locus of control interno pensano di essere artefici del loro destino. Coloro che hanno il locus of control esterno invece sono fatalisti. Secondo recenti studi coloro che hanno il locus of control interno reagiscono meglio alle malattie, agli eventi traumatici, alle situazioni avverse. Nel caso fosse un'illusione pensare di poter avere il controllo per alcuni è un'illusione necessaria. Ma il libero arbitrio, se esiste, ha un certo range. La libertà ha un suo margine. Nessuno riesce a riconoscere con esattezza la linea di demarcazione tra cose che dipendono da noi e altre che non dipendono da noi. Ci sono cose più grandi di noi: questo è accertato. Il libero arbitrio, sempre se esiste, non è circoscrivibile; è indefinito.

 

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Quando facevo l’università e studiavo gli esami di Fondamenti anatomo-fisiologici e Psicologia Fisiologica mi toccava studiare un tomo, che si intitolava “Principi di neuroscienze” di Kandel e dei suoi collaboratori. A volte mi chiedevo dove fosse localizzato il pensiero umano, da dove nascesse. Si sapeva già allora che l’area del piacere era costituita dal nucleo accumbens e dall’area tegmentale ventrale, che esisteva una corteccia visiva, che esisteva una corteccia motoria, che l’ippocampo fosse fondamentale per memorizzare. Ma mi chiedevo dove nascesse il pensiero e non trovavo risposte. Secondo i cognitivisti la mente era come un computer, un elaboratore di informazioni, e io mi chiedevo chi l’avesse programmata. L’ipotesi più plausibile è che il pensiero non sia localizzabile ma sia generato dall’intera mente. Ho letto recentemente un articolo scientifico della prof. Maria Pia Viggiano, secondo cui le attività cerebrali, i processi chimico-fisici del cervello determinano ogni “presa di decisione”, ogni nostra intenzione. Tutto ciò è scientificamente provato. Non a caso la prof. Viggiano cita gli studi di Benjamin Libet. Gli esperimenti di Benjamin Libet ci lasciano perplessi e allibiti. Da essi scopriamo che gli esseri umani agiscono in base a dei processi che li portano a decidere 500 millesimi di secondo più tardi dell’attivazione neurale che predispone alla decisione stessa. Secondo le parole della dott.ssa Irene Sanità Gigante: "Il cervello, con un’onda che corrisponde alla “preparazione dell’azione”, anticipa di 500 millisecondi la “sensazione di consapevolezza dell’azione”. Quindi il cervello prepara l’azione prima che l’individuo senta la necessità di compierla". Però allo stesso tempo Libet ha scoperto che noi stessi possiamo inibire l’azione. Questo lascia spazio a molti dubbi interpretativi. Qualcun altro studioso ci ricorda naturalmente che i pensieri a loro volta causano altre reazioni chimiche nel cervello. Cosa è che precede il pensiero? La coscienza o l’inconscio? I ricercatori toscani Massimo Cincotta e Fabio Giovannelli scrivono in un articolo scientifico che “il nostro agire è frutto dei processi inconsci”. Mi viene in mente la volontà di Schopenhauer, ovvero quella forza cieca e irrazionale, che domina il cosmo. Forse è quella che governa la nostra mente. Secondo alcuni studiosi il pensiero nasce da stimoli esterni. Anche se siamo al buio e in silenzio a fare meditazione in una stanza i pensieri scaturirebbero allora da uno stato di deprivazione sensoriale momentanea. Insomma il pensiero non nasce dal nulla. È il classico circuito… sensazione, percezione, pensiero. Ma in fondo percezione, pianificazione, esecuzione sono dovute all’intera attività del nostro cervello. Il pensiero può nascere dalla esperienza oppure dalla riflessione.

 

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Molti pensieri sono frammentari, raggiungono appena la soglia di coscienza, sono effimeri, sfuggono irreprensibili dopo qualche istante, vengono subito dimenticati: fa parte della natura umana. Spesso i nostri pensieri sono già stati pensati da altri. Vygotskij trattò del nostro linguaggio interiore, dimostrando che quel monologo ininterrotto, quel discorrere tra sé e sé sarebbe risultato incomprensibile agli altri. Così scriveva in “Pensiero e linguaggio” (1990:363; 365): «La prima e la più importante caratteristica del discorso interno è la sua particolarissima sintassi. […] questa particolarità si manifesta nella frammentarietà apparente, nella discontinuità, nell’abbreviazione del discorso interno rispetto a quello esterno. [C’è] una tendenza assolutamente originale all’abbreviazione della frase e della proposizione, nel senso che conserva il predicato e le parti della proposizione che gli sono legate a spese dell’omissione del soggetto e delle parole che gli sono legate.” È molto difficile avere dei pensieri originali. Forse esiste il mondo delle idee platoniche che è lo stesso per tutti gli uomini e non possiamo che “pescare” in quel mare magnum. Poi ci sono diversi pensieri che scaturiscono da ruminazione oppure da schemi prefissati. Non tutti i pensieri sono validi. Ci sono anche le ossessioni, le idee fisse, che sono disfunzionali per ognuno. A ogni modo la nostra mente di solito vaga, va di palo in frasca. Virginia Woolf, Faulkner, Joyce ci hanno mostrato come vaga la mente di ognuno col flusso di coscienza. Il grande poeta Auden ha descritto in modo magistrale sia la condizione esistenziale che lo stato mentale ricorrente dell’uomo contemporaneo, condensando tutto in poche parole: “I suoi pensieri vagavano giù e su dal sesso a Dio senza punteggiatura”. Ma siamo così sicuri che sia la mente a generare i pensieri oppure Qualcosa o Qualcuno più grande? Per Aristotele Dio era “pensiero di pensiero”. Oppure riusciremo a pensare quando ci accordiamo con “l’anima del mondo” descritta da Platone. E se i nostri pensieri fossero governati più dal Caso che da una causalità con il mondo esterno? Tom Wolfe in “La bestia umana” sostiene: “Dato che la coscienza e il pensiero sono prodotti interamente fisici del tuo cervello e del sistema nervoso, e dato che il tuo cervello arriva alla nascita con un imprinting completo, che cosa ti fa pensare di avere un libero arbitrio? Da dove dovrebbe venire? Quale “fantasma”, quale “mente”, quale “io”, quale “anima”, quale qualsiasi cosa che non si faccia immediatamente catturare da quelle sprezzanti virgolette dovrebbe traboccare spumeggiante dal calice del cervello per offrirtelo?”. Forse il libero arbitrio è solo una illusione, forse è tutto predeterminato. Mi ricorda Cioran che in “Sillogismi dell’amarezza” scrive che un matto gli aveva detto: “Quando mi faccio la barba, chi mi impedisce di tagliarmi la gola, se non Dio?”. A quei tempi i rasoi erano molto affilati e perciò pericolosi. Vasco Rossi, lettore di testi filosofici, riprende pari pari questo interrogativo di Cioran e in una canzone scrive: “Tra farmi la barba e uccidermi che differenza c’è?”. Quelli che Freud definiva Eros e Thanatos non sono anch'essi, se esistono, delle idee che generano altre idee? Ma l’impulso vitale o il desiderio di morte, che siano istinti o meno, da cosa derivano? Mi dico a volte che anche il nostro ambiente non dipende da noi e probabilmente siamo ben poca cosa perché niente dipende da noi. Forse il libero arbitrio è necessario perché è necessaria l’illusione del controllo. Forse la circolarità è infinita. Forse è tutto un regresso all’infinito delle cause e non si riesce a rintracciare, identificare la causa prima. Forse i nostri pensieri dipendono dal trauma della nascita, così come ogni nostra nevrosi, come descritto da Otto Rank. Forse è in quel caos di luce e rumore che nascono i primi pensieri del neonato. E se tutto fosse causato da eventi precedenti la nostra vita fetale? Dopo anni di riflessione e letture sono punto e a capo, in una situazione di stallo. Questa grande problematica dell’origine del pensiero non trova risposte certe. Questa è la domanda delle domande per un razionalista e ha come conseguenza la presa di coscienza di una certa irrazionalità della vita umana e del mondo. La nostra razionalità è molto limitata, addirittura è probabile che sia una falsa certezza. Ma ciò non ci deve far aggiungere irrazionalismi gratuiti a già tanta irrazionalità. Non ci sono certezze assolute ma solo ipotesi più o meno plausibili. Il pensiero umano ha molte implicazioni filosofiche e psicologiche. Forse non si possono studiare i cervelli umani con il cervello e i pensieri umani con i nostri stessi pensieri: forse ci imbattiamo di fronte ad un eterno Uroboro. Forse brancoliamo nel buio e per comodità postuliamo la libertà e di conseguenza la responsabilità delle nostre azioni. Se il futuro fosse già scritto, se tutto dipendesse dal destino allora che senso avrebbe la giustizia umana? Forse è fuori luogo fare dei parallelismi con il mondo della microfisica e ritenere che l’uomo è indeterminato come una particella subatomica. Forse le particelle subatomiche sono indeterminate per i limiti intrinseci degli strumenti fisici attuali e lo sono solo adesso, allo stato attuale delle conoscenze. Forse tutto dipende dal caos o da Dio, anche se io fatico spesso a vedere una intelligenza superiore in tante atrocità umane e fatico spesso a intuire armonie prestabilite.

 

 

"Uno, nessuno, centomila" di Pirandello

giu 212022

 

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La questione principale di questo romanzo di Pirandello è come possa esistere una parte del proprio self inconoscibile ai propri occhi. La topica del naso, l’ombra di Genge, le sopracciglia circonflesse portano il Moscarda a uno slittamento della propria coscienza. Il protagonista vorrebbe porsi fuori di sé per osservarsi e riappropriarsi delle immagini che gli altri hanno di lui, per ricomporre definitivamente con questa serie di frammenti il proprio io. Moscarda scopre che gli altri vedono una parte di sé stesso che lui non può vedere e nel procedere in questa analisi si accorge che gli altri non percepiscono soltanto delle semplici immagini, a seconda delle angolazioni e delle prospettive da cui lo osservano, ma anche la sua maschera sociale, la “Persona”, che indossa. La tematica centrale di questo romanzo riguarda la scoperta da parte dell’io del protagonista che altre identità con le loro percezioni possono scoprire i suoi punti deboli, i suoi difetti, i suoi lati oscuri di cui lui può addirittura ignorare l’esistenza. Ma gli interrogativi che suscitano questo romanzo allora sono: ma gli altri possono davvero - come ritiene Pirandello – conoscere più del soggetto? La conoscenza degli altri riguardo ad un individuo (in questo caso Moscarda) supera quindi l’autoconoscenza, l’autoconsapevolezza e l’autocoscienza dell’individuo stesso? La telecamera può essere considerata lo specchio moderno di Moscarda. Meglio ancora, è come se fosse un enorme specchio circolare, che può rimandare immagini di tutte le parti del corpo, di tutte le movenze e di tutte le posture dell’individuo. Rivedersi in un filmato di una telecamera, può allora essere un’esperienza non dico traumatica, ma spesso deludente: ci si accorge che la propria voce può essere più baritonale di quello che credevamo, che di profilo il nostro naso risulta più pronunciato di quello che pensavamo, che ripresi di spalle siamo più curvi di quello che credevamo, etc etc. La telecamera è come un grande occhio esterno che ci può analizzare e registrare da tutte le possibili angolazioni.

 

 

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Anche gli altri che scrutano Moscarda sono occhi esterni, che hanno la stessa possibilità della telecamera di vedere e registrare da tutte le prospettive. Ma viene da chiedersi: la loro registrazione è altrettanto fedele e oggettiva? Inoltre le riprese della telecamera possono indicarci se siamo o meno telegenici, ma la telecamera non ricompone tutte le immagini di noi stessi e non si fa un’opinione globale, come fanno gli altri. La telecamera è un punto di partenza per l’autoconoscenza della propria corporeità, non della nostra identità psichica, sociale, culturale, come invece sono gli altri per noi. E’ stato il fondatore della psicologia americana William James a dare un contributo notevole a riguardo. Il Sé di ogni persona possiede fondamentalmente due dimensioni: l’io (ovvero tutte le capacità di autoconoscenza: il conoscitore del Sé) e il Me (ovvero tutti quegli attributi e quei tratti di personalità che l’Io riesce a conoscere dell’individuo: il conosciuto del Sé). James fa un’ulteriore distinzione per quel che riguarda il conosciuto del Sé: esiste un Me materiale (tutto ciò che l’individuo conosce del proprio corpo, dei propri oggetti, della propria casa, degli ambienti in cui vive), un Me sociale (tutte le rappresentazioni sociali che gli altri hanno dell’individuo), un Me spirituale (tutto ciò che l’individuo conosce della propria personalità, della propria interiorità e della propria identità psichica). Considerando queste distinzioni di William James ci accorgiamo allora che nel romanzo di Pirandello il protagonista inizia il proprio percorso di autoconoscenza dal Me materiale, continua con l’esplorare il Me sociale, per approdare infine al Me spirituale. L’originalità e la genialità dell’opera di Pirandello è aver posto l’accento su questo fatto: l’io (il conoscitore) non riuscirà mai a sapere tutto del Sé perché questo avrà sempre zone inesplorate ed inesplorabili, che non potranno mai far parte dei vari Me (ossia del conosciuto). Esisteranno sempre regioni della psiche in cui dominano incontrastati ciò che è rimosso, ciò che è represso e quello che è semplicemente non conoscibile dal soggetto.

 

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Ma oltre a aver affrontato questo problema il romanzo di Pirandello fa scaturire anche una domanda fondamentale: gli altri, avendo possibilità di osservare da prospettive sconosciute all’individuo e dall’esterno un individuo, possono potenzialmente conoscere più di quello che una persona conosce di sé stessa, essendo questa più continua e dettagliata nell’osservazione e nello studio di se stessa? In definitiva: è maggiore fonte di conoscenza riguardo alla propria individualità l’esterno o l’interno? La moderna psicologia a riguardo ci fa sapere che c’è una continua interazione tra interno ed esterno: un incessante interscambio tra intrapsichico ed interpsichico. Addirittura secondo la teoria dell’immagine l’idea che ci facciamo di noi stessi dipende in modo determinante dalla considerazione e dalla stima che gli altri hanno di noi. Secondo questa teoria sviluppata da Beach e Mitchell anche le decisioni che prendiamo nel corso della vita non sono basate tanto su un’analisi dei costi e dei benefici, quanto piuttosto dall’insieme di valori, norme, credenze, aspettative: insomma dalla concezione che noi abbiamo di noi stessi. Però allo stesso tempo gli psicologi sociali ci indicano che, quando noi stessi giudichiamo gli altri o quando gli altri giudicano noi, il giudizio spesso è errato, semplicistico, perché esistono nella mente umana scorciatoie cognitive errate, tratti impliciti di personalità, correlazioni illusorie, stereotipi infondati che possono portare a pareri erronei sulla persona o sulle persone osservate. Siamo cattivi giudici degli altri e gli altri sono cattivi giudici di noi stessi. Ma Pirandello è anche un anticipatore dei tempi odierni: è riuscito a intuire la frammentarietà dell’Io, problema reale dell’epoca moderna, se si pensa alla pericolosa sindrome che ne è scaturita, ovverosia la personalità multipla. Nonostante questa continua interazione o interdipendenza tra intrapsichico ed interpersonale l’assurdo inteso alla Camus dell’opera di Pirandello rimane però inalterato. L’uomo continuerà ancora a cercare di estrapolare dalle relazioni dal mondo esterno per assurgere a un principio chiarificatore, a una sintesi che possa cogliere e abbracciare la totalità della propria essenza. Nonostante ciò “l’assurdo” (che si verifica quando l’intelligenza dell’uomo si accorge di essere alle prese con la realtà che la supera) rimarrà una categoria astorica dell’umanità, perché il mondo esterno neanche in futuro sarà completamente raffigurabile e l’interno rimarrà per certi versi ancora inafferrabile, indicibile, inconoscibile.

"Doppio sogno" di Schnitzler

giu 152022

 

 

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Questo piccolo capolavoro narra del rapporto complesso tra un medico e sua moglie. Sono una coppia giovane e felice, però lui rimarrà turbato, dopo che si raccontano l’un l’altra fantasie e segreti, che prima di allora avevano tenuto per sé. All’inizio viene descritta una scena, simbolo di un'atmosfera borghese e rassicurante: la loro figlia piccola, a cui viene letta una fiaba dai genitori, viene poi messa a letto dalla governante. Ma il giovane medico Fridolin deve uscire quella sera per recarsi da un paziente, che versa in gravi condizioni. Una volta giunto a destinazione trova l’uomo già morto e viene sedotto dalla figlia del defunto davanti alla salma. Dovrebbe tornare a casa, ma finisce per vagare tutta la notte. Si fa sedurre da una passeggiatrice, che lo porta nella sua casa, ma con cui non conclude niente. Entra in un caffè notturno e qui incontra un suo vecchio compagno di università, che ora fa il pianista. Quest’ultimo gli racconta che quella stessa notte dovrà suonare a una festa da ballo con gli occhi bendati, anzi riesce a guardare “nello specchio attraverso il fazzoletto di seta nera che copre gli occhi”. Non conosce i partecipanti della festa mascherata, né il proprietario. Fridolin rimane affascinato dalla strana storia ed esprime il desiderio di voler entrare nella villa dei misteri. Il pianista gli risponde che deve procurarsi un saio scuro e una mascherina nera. Il medico allora si reca dal mascheraio, dove ha modo di imbattersi nella piccola Pierette, forse una pazza, che viene sorpresa con due signori nel negozio.
Fridolin riesce ad entrare nella villa, ma viene smascherato. Sapeva la parola d’ingresso, ma non la parola d’ordine della casa. L’attende una punizione estremamente severa, forse dovrà pagare con la vita stessa, ma una donna lo riscatta e si dichiara di tutti. Successivamente scopre che la donna, che si è sacrificata per lui, ha pagato con la vita. Nonostante il medico viva queste esperienze al limite da solo, va detto che nelle donne, che incontra, ricerca sempre ossessivamente la moglie.
Questo romanzo breve è stato reso famoso dalla trasposizione cinematografica di Kubrick dal titolo “Eyes wide shut”. Il film però non è totalmente fedele al libro. Kubrick infatti ambienta la vicenda nella New York dei nostri giorni, mentre invece nell’opera originale ci imbattiamo nella Vienna di fine secolo. L’alta società di Vienna in quel periodo si dedicava all’edonismo sfrenato con frequenti feste di ballo forse perché non voleva affrontare direttamente i grandi cambiamenti culturali, sociali e politici di quell’epoca di transizione. Schnitzler prende spunto da questo atteggiamento mentale, assai diffuso al tempo, per indagare sulla natura umana e sui meandri della psiche, riuscendo ad esplorare zone d’ombra che nessun altro scrittore era mai riuscito a cogliere pienamente.
L’interrogativo di fondo è se sia opportuno dirsi tutto tra coniugi, rivelarsi anche le fantasie più inconfessabili o se sia meglio far prevalere il non detto. La scelta cruciale è tra l’incomunicabilità all’interno della coppia e quella che lo psicologo Bergler definiva “la delusione rispetto all’ideale dell’io”. Quest’ultima espressione significa che una persona può subire una ferita nell’animo, constatando lo scarto significativo tra l’idealizzazione del partner e l’effettivo modo di essere della persona amata. Come se non bastasse la rivelazione di fantasie sessuali può far scaturire la gelosia da parte di entrambi. Nell’opera di Schnitzler il protagonista Fridolin, dopo aver ascoltato le fantasie e i sogni della compagna, subisce uno smacco notevole, sia perché capisce la complessità delle dinamiche del desiderio femminile, sia perché implicitamente ritiene scontato un monopolio sessuale nei confronti della moglie, ritiene di avere un diritto di proprietà su di essa. Lo stesso sentimento di gelosia che prova è difficile da decifrare: è un impasto, una commistione tra desiderio di possesso esclusivo e angoscia per una possibile separazione dal proprio oggetto di amore. Ma quando una coppia inizia un percorso di conoscenza e di autoanalisi così intimo il rischio è che uno dei due scambi le fantasie dell'altra metà per tradimenti effettivamente avvenuti e mascherati sotto forma di desideri mai messi in pratica. Schnitzler è geniale ad evidenziare le contraddizioni insanabili all'interno della coppia.
Questa opera di Schnitzler potrebbe essere interpretata secondo certi criteri freudiani. Ma è altrettanto vero che Schnitzler non fu mai debitore di Freud. Entrambi giunsero alle solite conclusioni, però tramite mezzi diversi: Freud con l’analisi, l’artista con “l’autopercezione”.
Freud nei “Tre saggi sulla teoria sessuale” sostiene che “l’occhio è come il corrispondente di una zona erogena”. Il piacere di guardare non è altro che una pulsione parziale secondo Freud, che può avere come antagonista solo la vergogna ed il pudore. Il protagonista di "Doppio sogno" è preso dal piacere di guardare tutte le donne nude alla festa mascherata, però questo voyeurismo sconfina e si sublima nell’epistemofilia (nel desiderio di conoscere e di indagare la realtà). Il medico Fridolin infatti vuole conoscere le fantasie erotiche della moglie e vuole sapere chi sono le persone che hanno partecipato alla festa. Non a caso l’ultima parte del libro tratta proprio dell’investigazione privata del medico per smascherare i responsabili di quell’orgia.
Da notare inoltre il conflitto intrapsichico del protagonista maschile tra erotismo e pulsione di morte: da una parte questa forza primaria che dovrebbe unire e legare e dall’altra una tempesta che dissolve le relazioni e distrugge i legami.
Infine un’ultima considerazione: Schnitzler con questo libro sembra volerci dire che fare un’analisi dei desideri all’interno di una coppia non è detto che sia un requisito indispensabile per due sposi, anzi talvolta può rivelarsi controproducente ed inquietante.
Lo stesso Adler, fondatore della Società di psicologia individuale, riteneva che la cooperazione fosse un presupposto fondamentale per il benessere della coppia piuttosto che il soddisfacimento della pulsione sessuale o lo scandagliare i desideri repressi dell'altra metà. Ognuno dei due partner, secondo lo psicologo, deve sentirsi parte di un tutto, deve imparare a fare le cose in due, nonostante che la società educhi al lavoro individuale e raramente al lavoro di gruppo, ma mai al lavoro di coppia. I matrimoni infelici nascono quando uno dei due vuole sempre ricevere qualcosa, senza dare niente in cambio. Per Adler quindi il matrimonio è un compito comune. Emblematica a questo riguardo la singolare tradizione in una regione della Germania, che ci narra Adler. Per testare se dei fidanzati possono realizzare un matrimonio felice devono tagliare insieme un tronco d’albero con una sega con due manici. Per realizzare efficacemente questo lavoro ci vogliono coesione ed affiatamento; infatti se i due non si agiscono in modo sincronico e complementare non concludono niente.
Per Adler quindi è fondamentale la cooperazione, piuttosto che il sesso ed i desideri sessuali. E non è assolutamente detto che ricercare la cooperazione sia più difficile che trovare la fiducia reciproca per svelare le proprie fantasie.

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