Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Sulle due culture, anzi sulla cultura sempre più divisa e divisiva...

mag 012023

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(Nella foto il poeta Leonardo Sinisgalli)

 


Nel 1959 lo scrittore e scienziato Snow pubblica "Le due culture", in cui tratta delle incomprensioni, delle divergenze, addirittura dell'incomunicabilità tra umanisti e scienziati. Scriveva che gli umanisti sapevano pochissimo di scienza, che gli scienziati sapevano pochissimo di arte e che quando si ritrovavano non avevano argomenti di conversazione.  Insomma non parlavano più la stessa lingua. Le cose a mio avviso sono peggiorate in questi ultimi anni. Oggi c'è ormai una sola cultura, quella tecnologica-scientifica. Io affermerei che non esiste più la cultura umanistica in un mondo in cui tutto è cultura, in cui qualsiasi cazzata viene riconosciuta come elemento culturale. Oggi a onor del vero non è cultura ciò che un tempo era cultura, ma viene ritenuto cultura tutto ciò che è e porta business. Sono finiti i tempi in cui per diventare ragionieri o periti bisognava sapere abbastanza Pascoli e Montale. È finita l'epoca del latinorum! Purtroppo e per fortuna allo stesso tempo! Oggi basta qualche nozione umanistica raffazzonata, approssimativa ed en passant anche nei licei per andare avanti. Oggi c'è più tecnologia e i giovani sono più informatizzati, ma qualcosa abbiamo perso per strada, per esempio le giovani leve hanno perso senso critico e competenze linguistiche (prendendo con beneficio di inventario la tanto citata ricerca di Tullio De Mauro sul numero di parole conosciute dai ginnasiali). Sono finiti anche i medici di un tempo, che avevano una buona formazione umanistica, non solo perché magari avevano fatto il Classico ma perché leggevano molti romanzi, molti libri di poesie, molti saggi e andavano a vedere le mostre, etc etc. Oggi i professionisti e le persone di cultura versate in un campo specifico non sono curiose e onnivore come un tempo, perché pensano, a torto o a ragione, di togliere parte del loro tempo allo studio e all'aggiornamento della loro disciplina. Oggi la vita scorre frenetica, non c'è più tempo e poi in fondo decenni fa, nel secolo scorso, per una persona di buona cultura era un imperativo informarsi e rimanere aggiornata su tutto. Oggi nessuno lo esige più. Oggi ci sono anche laureati in discipline umanistiche disoccupati, precari o sottoccupati, mentre ci sono tecnici che non hanno studiato affatto e che guadagnano molto bene, addirittura sono così richiesti che non si trovano mai, spesso si dimostrano tronfi e maleducati (al limite della nostra capacità di sopportazione spesso). Qualcuno dirà che è la legge della domanda e dell'offerta. C'è inoltre nella mentalità comune l'affermarsi della supremazia degli ingegneri sugli umanisti. È la solita tiritera: ingegneria è necessaria, diventare ingegneri è più difficile. Sono gli stessi che considerano gli umanisti dei cretini per aver scelto quel corso di studi e li rispettano raramente, ovvero solo se si affermano culturalmente, anzi spesso solo economicamente. È vero che le facoltà umanistiche sono più facili di quelle scientifiche (a Pisa ad esempio il preside di ingegneria Villaggio aveva lasciato un cartello sulla sua porta dove era scritto "ingegneria deve essere difficile" e in quella facoltà i professori agli studenti impreparati tiravano il libretto universitario fuori dalla finestra). È vero che ci sono nelle facoltà umanistiche alcuni (non tutti) professori sessantottini, che dispensano buoni voti a molti. Ma è disonesto intellettualmente oltre che falso far passare il messaggio che tutti o quasi riuscirebbero, se si iscrivessero, a laurearsi in una disciplina umanistica, perché anche in queste facoltà esistono a onor del vero i ritiri. Che poi le nostre facoltà umanistiche sono più facili anche perché tutte le nostre scuole elementari, medie, superiori sono più umanistiche che scientifiche e Leopardi viene già fatto alle elementari, mentre le derivate e gli integrali vengono fatti in modo decente solo nell'ultimo anno del liceo scientifico! Che poi un conto è laurearsi in lettere e un conto è diventare letterati perché per fare la prima cosa bisogna studiare un centinaio o poco più di libri di testo, mentre per fare i letterati bisogna leggerne qualche migliaio! Che poi a ben vedere ci sono ingegneri e matematici tedeschi, inglesi, americani, cinesi, giapponesi, indiani che sono più preparati dei nostri italiani, mentre gli umanisti italiani sono rispettati e stimati in ogni parte del mondo, pur avendo lo svantaggio di scrivere in italiano, così poco diffuso nel mondo! Insomma bisognerebbe stare a vedere e considerare saggiamente in cosa consista veramente l'eccellenza. A onor del vero a ogni modo secondo la mentalità comune vale il detto "conta l'articolo quinto, ovvero chi ha i soldi ha vinto". Importante è fare soldi e non pensarci più, come cantava Angela Baraldi negli anni '90. Inoltre qualcuno dirà che ci sono troppi laureati in Italia (quando i dati dimostrano l'esatto contrario) o che comunque ci sono troppi laureati nelle discipline umanistiche, mentre invece le facoltà universitarie non formano tecnici. Obiezione fondamentale a questo tipo di discorso: l'Italia non eccelle nel mondo per gli ingegneri, i matematici o gli scienziati (ci sono nazioni che ci surclassano, come ho precisato prima), ma per la grande presenza di artisti, poeti, scrittori, per le bellezze naturali e artistiche, che non sappiamo valorizzare ancora. Ci sono nazioni con molte meno bellezze e molti meno capolavori che ci passano di gran lunga avanti nel turismo e soprattutto nel turismo culturale. Vengono chiamate città d'arte Firenze e Venezia, mentre molte più città italiane dovrebbero essere considerate città d'arte. Se borghi e città italiani venissero fatti veramente conoscere agli stranieri quanti alberghi, bed and breakfast, guide turistiche, bar, ristoranti, etc etc ci sarebbero in più rispetto a oggi? L'Italia potrebbe vivere quasi di rendita grazie al turismo culturale internazionale, senza inquinare e senza bisogno di industrializzarsi di più. Invece ogni governo spreca molte risorse economiche in spese militari e investe poco nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio artistico, del paesaggio, dell'ambiente. Invece vogliamo seguire l'onda. Vogliamo essere conformisti, seguire a tutti i costi gli altri Paesi più ricchi, senza renderci conto che non stiamo sfruttando adeguatamente le nostre risorse e specificità. Ma le controversie, le rivalità, gli antagonismi con il conseguente senso di superiorità, vero o presunto, non sono solo tra umanisti e persone con formazione scientifica. Che dire dei medici di condotta che non considerano i dentisti, dei medici che prendono in giro i veterinari, dei pedagoghi e dei sociologi che ce l'hanno con gli psicologi, degli psichiatri che non considerano minimamente gli psicologi, dei poeti che considerano incomprensibili e stupidi certi artisti concettuali, dei poeti che snobbano i cantautori, di certi pittori che considerano poco o niente i poeti contemporanei, dei normalisti della classe di scienze che si considerano superiori a quelli della classe di lettere e filosofia? Il rispetto reciproco spesso manca. Essendo assente il rispetto, spesso viene covato reciprocamente nell'animo di molti l'odio. Oggi la cultura è divisa più che mai e sempre più divisiva.
E dire che un tempo c'era il sapere unitario; c'erano nel Medioevo persone con una cultura enciclopedica come Dante. Nell'Umanesimo e nel Rinascimento c'erano artisti e scienziati come Leonardo da Vinci. E come non dimenticare Galileo che era un grande scienziato e secondo Calvino (lo scrive in "Lezioni americane") uno dei più grandi scrittori italiani di tutti i tempi? Nel 1600 in Toscana va ricordato anche Francesco Redi che fu medico e letterato. Bisogna ricordare che sempre nel corso del 1900 si poteva essere scientifici e umanisti allo stesso tempo; ci sono stati Primo Levi, Gadda (si veda su tutti "Meditazione milanese"), Sinisgalli (si veda il "Furor Mathematicus"). Oggi su tutto e su tutti prevale la specializzazione, anche se qualche voce inascoltata e fuori dal coro talvolta parla di interdisciplinarietà. Gli studiosi non vogliono essere tuttologi. Scelgono un ramo. Rinunciano alla globalità per eccellere in un campo. Non c'è niente di peggio al mondo d'oggi che invadere il campo di competenza altrui ed essere tacciato di essere un dilettante o un autodidatta ignorante! Ma oggi è anche molto difficile, quasi impossibile sapere tutto. In qualche ramo dello scibile si finisce sempre per essere analfabeti. Oggi è impossibile essere enciclopedici. Chi dice di sapere tutto è un illuso, un delirante o un impostore. Spesso è già difficile sapere tutto molto genericamente nel proprio ambito. Anzi mi correggo: spesso è già difficile avere un'infarinatura generale nel proprio ambito di competenza. Le persone che conoscevano, che sapevano tutto di tutto sono morte da tempo. Ci sono mille rami dello scibile; vengono pubblicati ogni anno tantissimi libri per ogni ramo del sapere. Neanche i critici letterari italiani riescono a stare dietro a tutte le novità poetiche ogni anno. È già molto difficile se non impossibile rimanere aggiornati nel proprio ambito di competenza. Figuriamoci sapere tutto!

Due parole sulla crisi dell'umanesimo, anche qui in Italia...

giu 292022

 

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Cercherò di essere semplice e breve perché essere sintetici significa fare meno errori e inoltre come scrivevano ne "I quaderni piacentini": "poche parole=poche mistificazioni". Ma veniamo subito al nocciolo. La cultura umanistica è in crisi in Italia. È chiaro che l'umanesimo è in crisi in quasi tutto il mondo perché la razionalità scientifica ha avuto la meglio, come sostengono Husserl, Heidegger, Spengler, Junger, Emanuele Severino e molti altri ancora. Secondo queste filosofie il trionfo della tecnica è dovuto al diffondersi a macchia d'olio del nichilismo nella società occidentale. Certo anche gli umanisti possono avere le loro colpe. Possono essere stati snob, elitari, incomprensibili, oscuri, criptici, noiosi, impopolari, troppo ideologici, mentalmente disturbati, addirittura guerrafondai. Si potrebbe stare a criticare per ore l'umanesimo classico, gli umanisti e non la finiremo più! Ortega y Gasset a proposito delle avanguardie scrisse anche della "disumanizzazione dell'arte", ovvero neanche il nuovo che avanzava si salvava perché anche le avanguardie tracciavano in nome di una presunta oggettività ancora un solco tra letterati e popolo. Ma nessuno era ed è esente da colpe. Però l'Italia un tempo era Magna Grecia, antica Roma, Rinascimento. Era la culla della civiltà e dell'umanesimo. E allora perché si è per così dire imbarbarita? Una parvenza di umanesimo, comunque ancora oggi rimane. Rimane come zoccolo duro nelle scuole elementari, nelle scuole medie inferiori e superiori. Si fa leggere Leopardi già alle elementari. Alle medie si fa già "I promessi sposi". Ai miei tempi nei licei scientifici le ore delle materie umanistiche superavano di gran lunga le ore di quelle scientifiche. Oggi le cose non sono sostanzialmente cambiate. Ma era un umanesimo datato, un poco retrogrado, comunque non aggiornato (se si considera che anche la psicologia, la sociologia, la pedagogia sono umanesimo oltre che scienze appunto umane). Oggi in Italia siamo ancora alle "due culture" di Snow, ovvero scienza e umanesimo sono nettamente separati, difficilmente vengono fatti dei collegamenti, ancora più raramente vengono integrati. Non dimentichiamoci invece che la relazione tra i due saperi può essere proficua. Calvino vedeva in Galileo Galilei il più grande scrittore italiano. Ma anche la fantascienza ha fornito ipotesi e idee agli scienziati.

 

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Un tempo c'era il boom delle iscrizioni nelle università. Anni fa anche le facoltà di lettere e filosofia erano sovraffollate. È vero che allora molto genitori "parcheggiavano" i figli all'università, sognando che conseguissero il famigerato pezzo di carta. Oggi per trovare subito lavoro bisogna essere medici, ingegneri, informatici. Dopo la pandemia c'è stato un grande calo delle iscrizioni. Un tempo anche alcuni datori di lavoro pensavano che gli "umanisti" avessero la mente più aperta, potessero impostare meglio i problemi, riuscissero a mettere meglio le cose in prospettiva, potessero avere un'opinione su tutto, fossero anch'essi in grado di apprendere il nuovo e affrontare la complessità crescenti, riuscissero a mettere in relazione le cose più disparate, avessero insomma quella che Mills definiva come "immaginazione sociologica". Oggi questa visione del mondo viene considerata superata. In un mondo tecnologico i laureati nelle facoltà scientifiche sono visti e presi, sono considerati più preparati perché hanno studiato discipline necessarie e hanno superato una selezione scolastica più dura. Gli umanisti hanno meno opportunità non solo perché ci sono meno posti di lavoro per loro ma anche perché un datore di lavoro preferisce assumere come operaio o impiegato un perito o un ragioniere a un laureato in lettere e filosofia con maturità scientifica o classica. Esiste così la cosiddetta disoccupazione "intellettuale" e anche la sottoccupazione "intellettuale". Esistono anche i casi di alcune persone che dopo aver conseguito il diploma di ragioneria con il massimo dei voti hanno rifiutato il posto in banca, a loro subito offerto, si sono laureate in una facoltà umanistica e al momento dell'ingresso del lavoro hanno trovato serie difficoltà, ovvero hanno trovato tante porte chiuse in faccia. Un laureato "umanista" può dire al datore di lavoro: "mi dia un'opportunità. Imparo in fretta". Altrettanto prontamente quest'ultimo può rispondere: "Cerco persone con esperienza e competenze. Non ho tempo di insegnare e non posso aspettare che tu impari il mestiere". Per gli economisti è questione di mismatch, ovvero domanda e offerta non si incontrano. Dicono che le università non formano le figure professionali e non danno le competenze che servirebbero nel mercato del lavoro. È anche vero però che l'istruzione, anche quella universitaria, dovrebbe formare per imparare a imparare, visto che non si può spesso prevedere ciò che sarà richiesto nel mercato del lavoro in futuro. È anche vero che molte aziende italiane investono poco per la formazione del personale così come investono poco per il settore ricerca e sviluppo. D'altronde il mondo economico italiano è fatto di piccole imprese e queste nella stragrande maggioranza dei casi non hanno le risorse e qualche volta, pur avendole, non hanno la lungimiranza di investire. Ma sul laureato "umanista" oltre a un certo discredito c'è anche il sospetto che sia uno non pratico, uno troppo teorico. Esistono diversi pregiudizi nei confronti degli "umanisti" tra cui quelli di essere troppo critici del sistema. In fondo per dirla alla Said l'umanesimo è anche critica del sistema, della sua scientificità, della sua industrializzazione, della sua managerialità. L'umanista è visto quindi oltre a uno che non è abituato a faticare anche come un sovversivo potenziale. Non solo ma a tutto ciò si aggiunga il fatto che molti piccoli imprenditori si sentono dei self made men, nutrono una sorta di complesso di superiorità nei confronti del laureato umanista, salvo poi commuoversi se il loro figlio si laurea in una disciplina anch'essa umanistica e andarne fieri per tutta la vita. Ma nessuno naturalmente è esente da contraddizioni.

 

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La crisi dell'umanesimo in Italia è data anche dal fatto che molte librerie di paese o di periferia nella città stanno chiudendo. Quelle rimaste lavorano soprattutto con i libri scolastici. Probabilmente a rendere critica la situazione sono stati gli ebook, gli acquisti online di libri, il fatto che oggi si legge di meno. Sembrava una commedia al di fuori della realtà "C'è posta per te" nel 1998, ambientata a New York, dove un grande imprenditore di una catena di librerie metteva in crisi una piccola libreria. Il web ha condannato oggi le piccole librerie italiane. Le anime belle sostengono che quelle librerie dovevano sopravvivere grazie a dei finanziamenti statali perché erano l'anima del quartiere, il cuore di una piccola comunità, però magari loro stesse hanno fatto sempre pochissimi acquisti prima, decretandone l'insuccesso. È indubbio che ci siano dei vantaggi ad acquistare online: è più comodo, si può fare tutte le ricerche online e trovare tutti i libri da soli senza l'aiuto di nessuno. Trent'anni fa uno andava in libreria anche per vedere quello che passava il convento, i libri che erano lì in bella mostra, sempre se non ordinava dei libri e doveva aspettare di solito due settimane per ritirarli.

 

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Alle presentazioni dei libri ci vanno sempre poche persone, a meno che non siano influencer o personaggi televisivi che pubblicano un libro.
C'è chi dice che il teatro non è in crisi, che bisogna intendere cosa significa crisi, insomma spacca il capello in quattro, fa sottili distinguo per negare l'evidenza dei fatti. In realtà la stragrande maggioranza degli italiani non va a teatro e non ha mai assistito a uno spettacolo teatrale. Secondo le statistiche ISTAT nel 2018 7 italiani su 10 non andavano nei musei. Poi le cose si sono aggravate col Covid.
I caffè letterari sono in crisi, poco frequentati come sono, e spesso i giovani ci vanno per bere, rifocillarsi, incontrarsi ma non per fare letteratura. Dove si fa letteratura oggi? Soprattutto online, anche su blog, siti letterari, social. La piazza non esiste più. Sono tutti più social e anche più asociali rispetto a un tempo. A riprova di questo fatto il nel 2018 il Tribunale di Firenze ha dichiarato il fallimento della società che gestisce il caffè Le giubbe rosse. Eppure questo storico locale aveva fatto la storia della letteratura del '900. Era un luogo di ritrovo abituale per Montale, Luzi, Alfonso Gatto, Parronchi, Bigongiari, etc etc. Cosa sarebbe stato l'ermetismo senza questo locale? Eppure ha chiuso i battenti prima della pandemia. Naturalmente riaprirà prossimamente, ma la chiusura temporanea ha rivelato il segno dei tempi. A cosa è dovuta questa crisi delle librerie e dei caffè letterari? Potremmo affermare che il globale sembra aver preso il sopravvento sul locale.  Non sembra esserci competizione. Le multinazionali come Amazon mangiano sempre le piccole realtà periferiche. Eppure l'Italia potrebbe vivere di rendita, pardon, di turismo culturale, se valorizzasse il proprio patrimonio e formasse culturalmente i giovani. Hanno un bel dire ad affermare che in Italia c'è accoglienza se non ci sono strutture e persone idonee ad accogliere i turisti che vogliono apprendere, sapere, vedere l'arte e la cultura. Secondo report statistico fornito dalla World Tour Organization (UNTWO) l'Italia è terzo per turismo in Europa, superato da Spagna e Francia. Bisognerebbe incominciare a capire, noi italiani, di sfruttare al meglio il nostro patrimonio culturale perché siamo molto di più di pizza, mandolino spaghetti, Capri (che vanno già bene). Non dimentichiamoci che il turismo culturale è sottovalutato oggi. Ma ha una grande tradizione alle spalle. Si ricordi i viaggi in Italia di Goethe e Stendhal. Si pensi che la cosiddetta sindrome di Stendhal prende il nome dal fatto che lo scrittore ebbe un malessere visitando la basilica di Santa Croce a Firenze.

 

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