MARISA FASANELLA MADRi
ott 272025[…] Ho storie dentro di me che nascono e restano a rimuginare; ho un sacco di storie, tanto più le racconto, più diventano vere.
C’è gente che chiede dove le vado a prendere, rispondo che stanno dentro a ognuno di noi”
Vera Lúcia de Oliveira
La grande prosa ha come vero argomento la poesia. La poesia ascolta e, prima di creare, fa affiorare dal silenzio la parola, per meglio dire, la parola aurorale, primigenia. In piena libertà, poiché non conosce chiusure né confini, offre i suoi simboli a tutti, poiché a tutti appartiene il fondo di quell’abisso, indagato sempre, mai del tutto esplorato dove riposa il senso nascosto di ogni cosa. La prosa, come la poesia, è capace di affermare l’indicibile, di dichiarare tutto ciò che è nel cuore e che altrimenti rimarrebbe inabissato nel silenzio.
Marisa Fasanella, in quanto le ha messe al mondo, in modo intenzionale o rappresentativo, è lei stessa madre silenziosa e paziente delle “Madri” della sua opera, undici racconti dispiegati nell’orrido universo della violenza.
Storie di tormento, si affacciano, dolorose epifanie, a dirci che Magda, Rosetta, Ester, Lucia, Lena e le altre Madri, o forse meglio Donne, sono dentro ad una letteratura di cose, dichiarata fino alla più nuda, scorticata realtà. Sono però anche dentro ad una letteratura di parole, aghi pungenti nel nostro vivere in lontananza da loro. Ne avvertiamo non la forma ma il ritmo, le cadenze, la valenza fonica e musicale. Dunque, il valore poetico. È a questo ritmo che obbediamo per essere ammessi, privilegio non scontato, alla bellezza di una prosa che si fa poesia nei racconti della Fasanella.
Quello della nostra autrice è un viaggio che è calvario di fatica intima e interiore, fino a quando si mostra, la parola, nella sua intangibile sovranità, nel suo andamento “genetico-ritmico” prima che nel suo significato. Il nostro inconscio collettivo, direbbe Jung, è pronto a riceverla, adagiandosi sul potere del linguaggio interiore.
Non si tratta solo di dare vita ad un’esperienza artistica o estetica, o semplicemente culturale, è qualcosa di più misterioso, è contattare l’essere nella sua forma più pura, per coglierne “la meraviglia” nonostante la nostra condanna al vivere per morire, ciò che il filosofo tedesco Jaspers chiama “naufragio”. Questo cammino finale, questo incontro con l’essere è appunto la grande tentazione della letteratura, è la sua finalità fin dagli albori del linguaggio. É l’obiettivo di “dire l’essere”, che la poesia continua a perseguire da sempre, “fallendo ogni volta e ogni volta ricominciando, come Adamo che dà il nome alle cose”. È così che Marisa Fasanella dà nome alle sue creature.
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A leggere Virginia Woolf, scopriamo che in uno dei suoi più acclamati capolavori, “Gita al faro”, la signora Ramsey, ama “stare in silenzio”, ama sostare, in una potenziale possibilità di espressione. È nel silenzio che comunica - “Non siamo più espressivi così, quando in silenzio accogliamo l’altro dentro di noi?” Ma la madre è in più, phonè, voce, e bisogna non lasciarsi sfuggire quella voce che il figlio trattiene in sé, originaria possibilità che, insieme alla vita, ha ricevuto in dono dalla madre stessa. Per questo può, il figlio, dire in parola il dolore e l’assenza, la violenza e il precipizio. È il logos che porta il figlio, maschio o femmina, alla “ferita che non rimargina”.
Come dolorose epifanie, dal silenzio, o meglio, dall’abisso del silenzio, le madri generano le proprie storie. Sono dunque le madri che le hanno partorite e le hanno affidate al mondo. Con assuefatto dolore, con ripetuto strazio. Sono anche le figlie che con la madre o contro la madre tessono i fili della reciproca infelicità. Sono soprattutto donne che si sono piegate all’ invincibile predominio di una storia altra e nemica. Ciascuna di loro si fa evento, si genera come racconto.
Per questo, Lena- Virginia, Rosetta, e le altre Donne, madri o figlie, si rifugiano come ultima occasione di sopravvivenza, nella follia, di fronte al totale silenzio imposto dal loro stesso naufragio. La follia le restituisce alla parola, alla narrazione di sé. Lena sa, Lena conosce ogni storia e ogni storia riporta al vecchio che l’ha attesa per tanto, troppo tempo. Dalla Casa delle Magare “in quel luogo di donne tristi e di stanze tutte uguali, dove sono rinchiuse, solo il cielo si affaccia dalle finestre ingabbiate e non c’è notte e non c’è giorno e non c’è silenzio “.
È “l’intensità del sentimento” di chi scrive e non la struttura, l’architettura a volte complicata di ciò che è stato scritto, a garantire ad ogni singolo racconto della Fasanella l’esatto funzionamento della macchina narrativa che procede sapendo di misurarsi non con un romanzo e neanche, come taluni recensori affermano, con “racconti che si leggono come un romanzo” come se tale osservazione dovesse scongiurare ciò che non sfugge a nessuno e cioè che la vitalità del romanzo soverchia quella del racconto.
Eppure Boccaccio, Joyce, Kafka, Katherine Mansfield, Anna Maria Ortese, Virginia Woolf e tanti altri devono la loro riconosciuta grandezza anche ai racconti. Il bello di un racconto, si legge nel recente articolo di un settimanale, è “che lascia molto spazio intorno, come i versi di una poesia” e Tabucchi era solito affermare che “il romanzo resta ad aspettarti […] il racconto no, il racconto è legato all’ispirazione transitoria”. E Goffredo Parise si fermò alla lettera S quando volle scrivere racconti sui sentimenti partendo dalla lettera A. La poesia lo aveva abbandonato, fu lui stesso a confessarlo.
Dunque, ancora la Poesia! O meglio, il sentimento poetico che si sente vivo e pulsante nel narrare della nostra autrice.
A Carpi (Modena), si svolge ogni anno la Festa del Racconto. Una delle sezioni della Festa di quest’anno, si legge sul programma, porta il titolo” Psiche era una donna. Cura e controllo della mente femminile”. La mente della donna, dunque. Le storie nella mente della donna. E allora torniamo alle Madri- Donne di Marisa Fasanella.
Dare conto di ciascuna di loro sottrarrebbe ai nuovi lettori gran parte dell’attesa che si fa sempre più viva man mano che una vicissitudine lascia spazio ad un’altra.
“Le mani di quegli uomini mi hanno spinto…Le stelle hanno cercato rifugio oltre la piana e sono annegate”
[…] “I fratelli interrogano il mio sonno […] Hanno buttato giù una ragazza dalla rupe[...] il suo nome è Rosetta” […]
Vicolo storto è uno dei racconti più intensi, Rosetta ne è la protagonista inseguita dalla mala sorte della sua stessa paternità.
Non riusciamo ad evitare di venirne emotivamente coinvolti, tale è la profonda immersione che la Fasanella induce nel cuore del personaggio, né è lecito interrogarsi su quell’ossimoro doloroso che è la coralità di personaggi pensati o ricordati, più che realisticamente presenti sulla scena, intorno alla solitudine di Rosetta, alla sua morte insieme a quella della creatura che porta in grembo.
Rosetta parla alla madre, la invoca contro la spietata logica della vendetta. È sua l’invocazione più struggente e più poeticamente detta tra le tante che leggiamo nei racconti-
“Addolcisci il cuore dei fratelli, madre, quando torneranno. Indossa il vestito buono e accoglili tra le gambe larghe […] Parlagli dell’uccello che veniva ad appollaiarsi sul davanzale della finestra per insegnarmi a volare e che tu non hai visto. Versagli il vino nei bicchieri e impasta quei dolci profumati di cannella che lasciavi ai morti insieme all’acqua per tenerli lontano dalla casa. Ridi, madre, ridi “[…]
Nell’andamento inevitabile del destino, la memoria irrompe, involontaria ma necessaria a suturare almeno un punto nella rovina totale dell’anima di Rosetta
[…] I fratelli tornavano a Natale, si scaldavano al fuoco […] schiacciavano le noci e me le porgevano. Sulla tavola tornava il vino rosso delle nostre viti […] com’era bella quell’età ancora non contaminata dalla vita, con i sogni intatti […] Mi vestiranno i miei fratelli, nella stessa bara riposeremo. Uno scialle bianco mi coprirà la testa” […]
Vi è in questo racconto- capolavoro l’infinita gamma dei sentimenti umani, vi è, osiamo dirlo, la presenza di un soprannaturale (la gatta, l’uccello) che persiste nella nostra memoria antica a portare presagi, ad addensare ombre. La gatta è oggetto transizionale, è stato detto. La gatta che ride o sembra che rida, che si struscia alle gambe delle Madri, è costante presenza di inquietudine, proiezione forse di quanto rimane sotteso e mai completamente svelato.
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Molto altro potremmo dire, sugli altri racconti. La presenza impassibile e siderale di una natura che non consola-
“Un cielo terroso si affaccia nella stanza”
[…] Squarci di azzurro e montagne arrotondate, paesi aggrappolati come vigneti su terreni scoscesi […] “( Clelia)
Potremmo anche rinvenire una pausa nel concitato muoversi degli eventi in una natura, questa volta sì, a portata di cuore, quello di Salvatore e di Lucia-
[…] Da quassù il cielo è più vicino e la terra la vedi larga e libera come l’aria […] Il sole diventava un cerchio di fuoco […] e già spuntava la pallida vestale […]
Potremmo dire del precipitare nell’abisso della follia-
[…] Raggiunsi il Santuario della Madonna delle Nevi […] il campanile svettava nel cielo […] guardai le case, le vie animate come i sogni. Scavalcai la ringhiera […] Qualcuno urlò […] (Magda)
Senonchè a trattenerci è il bisogno di far compiere, dentro di noi, quel miracolo di accrescimento della coscienza che solo un confronto intimo e silenzioso con l’opera può generare.
È per questo accrescimento che è anche rinascita del nostro essere che amiamo sostare nei vicoli storti e nei “budelli ritorti” che nascondono e, nello stesso tempo svelano. Noi, a noi stesse.
Anna Stella Scerbo- 2025 Maggio-