Mar 152023
Auguste de Rivarol è un soldato francese al seguito delle truppe napoleoniche del generale Manhès, si ferma in Calabria dal 1809 al 1812, é autore di una “Nota storica sulla Calabria”; nel De Rivarol la narrativa non trasfigura gli oggetti e le storie, non offre una rappresentazione dei fatti ma i fatti stessi con tutto quello che posseggono di affascinante o di brutale. E al termine il lettore ha la precisa cognizione dello sguardo interessato e attento con cui l’autore ha viaggiato e ha narrato. L’esperienza del viaggio era frequente presso gli intellettuali dell’Illuminismo e rispondeva alla sollecitazione tipica di quel periodo: comparare, attraverso la conoscenza acquisita sui luoghi, i caratteri e i costumi dei popoli. La Calabria del Rivarol è raccontata in quattro capitoli e al lettore potrebbero apparire impietosi se non vi riconoscesse l’attenzione dello studioso e se le affermazioni più crude non fossero mitigate dalla coscienza del passato mitico e raffinato della Magna Grecia. L’orizzonte fisico della Calabria ma ancor più quello antropico appaiono chiusi entro categorie negative.
«I Calabresi sono molto interessati. Questo difetto guasta ogni franchezza e ogni elevatezza di spirito. Sono sottili e diffidenti per natura, sono per ciò stesso falsi e adulatori. Come tutte le popolazioni poco civilizzate […] essi portano all’eccesso la perseveranza nelle passioni; amici fidati, ma nemici crudeli, l’odio in essi è incancellabile, il tempo lo esaspera e lo rinfocola […] ; poco curati nella persona, la loro indecenza è esagerata. È molto comune vedere animali e padroni in promiscuità sotto lo stesso tetto».
Anche le donne calabresi non sfuggono all’analisi del viaggiatore che ne coglie aspetti che nel nostro mondo di donne evolute conosciamo appartenere ancora a donne di altre culture e religioni:
<<Escluse dalla società e incaricate dei lavori domestici, le donne contraggono una goffaggine e una mancanza di maniere che persiste a dispetto della civilizzazione. Il matrimonio, piuttosto che aprirle al mondo, le allontana per sempre da esso e le incatena alla volontà tirannica di un padrone che in loro vede un utile acquisto».
De Rivarol è a suo modo un narratore storico: la visione razionale che ha degli eventi lo legittima nei giudizi che dà dei fatti accaduti durante la Repubblica Napoletana del 1799. Durante tale fase, egli afferma, i calabresi abbracciarono la causa del re, difendendola con ostinazione. Acuta è l’attenzione al fenomeno del brigantaggio e alla sua repressione –
«Proliferarono (i briganti), sotto il governo di Giuseppe la cui noncuranza e le amnistie concesse gli insegnarono a disprezzarne l’autorità […] Protetti dalle loro relazioni e dalle conoscenze dei luoghi, erano inafferrabili dalle colonne mobili[…] Giueppe introdusse tanti piani operativi dove non ne occorreva che uno soltanto, serio e attuato da una mente unica[..] In tal modo estendeva le radici di un male che bisognava invece colpire al cuore».
De Rivarol distingue le bande armate in difesa del loro re dai briganti, veri e propri criminali. Favoriti da una natura impervia, a volte inaccessibile, contro di essi si dispiegò il valore del generale Manhès. Non scorgiamo un’analisi storica che colga il fenomeno alle radici: responsabile certo è, per il De Rivarol, Giuseppe Bonaparte reo di una “vergognosa generosità” per aver concesso troppe amnistie al punto che il brigantaggio era divenuto una specie di mestiere. Dunque l’autore, usa nei confronti della Calabria dell’epoca, un atteggiamento disincantato. Da figlio dell’Illuminismo, il suo sguardo genera visioni lontane da qualsivoglia partecipazione emotiva. Racconta, in forme brevi, di Alarico, la cui salma fu scoperta chiusa tra due scudi nel fango del fiume Crati o di Neocastrum costruita sulle rovine dell’antica Hipponium. Descrive con minuziosità quasi scientifica -
«In Calabria abbondano le paludi e i terreni incolti […] che causano epidemie improvvise e mortali […]. Le cause di queste febbri endemiche è l’esalazione continua di acido carbonico dai vegetali in putrefazione che contornano i laghi e i luoghi umidi>>.
Giudica con decisione il Governo Napoletano, responsabile di non aver prestato la dovuta attenzione agli obiettivi delle Calabrie che se fossero stati perseguiti-
«L’ industria vi avrebbe preso uno slancio più vivo e queste province farebbero oggi la prosperità del regno».
E ancora da Illuminista che il nostro viaggiatore scrive le parole che prendiamo a conclusione di questo scritto -
«Certuni hanno parlato dei Calabresi con troppa leggerezza […] Il fatto è che essi hanno guardato queste contrade dal punto di vista dei loro interessi particolari, facendosene un buon concetto quando gli aggradava e cadendo nell’eccesso opposto quando non gli non conveniva».
Dec 282021
Chista è a storia do Re Niliu
chi ppe amure e na cotrara
allu sule si squagghiau cumu la cira
A regina ppe a cotrara nun vulia.
Ma Niliu, nnamuratu, ull'ascultau
e a mamma mbelenata u smalediu.
Smaledittu mu si, si iddra ti pigghi
cumu a cira mu ti squagghi
quandu u sule ti cogghe.
E Niliu nummu u sule l'adducia
a na cambera scura si stapia
alla marina a cotrara sinde jiu
e ddra nu picciuliddu partoriu. […]
Niliu, era un gran bel ragazzo, soprattutto era figlio di re. Soprattutto non poteva, proprio non poteva, innamorarsi di fanciulla che non fosse del suo rango. E invece, come capita, e non solo nelle leggende, il bel rampollo si perse d’amore per una giovane popolana. Per lei sfidò le ire della famiglia e, cosa terribile, sfidò la maledizione della mamma: “Ti scioglierai come cera sotto i raggi del sole”.
***
Ancora una leggenda della nostra terra. E questa volta, un filo tenace con il mito. Siamo nella terra del popolo dei Feaci, fascia centrale della Calabria, compresa tra i golfi di Squillace e di S. Eufemia. Capitale di questa terra è Tiriolo. Qui vissero, nel loro palazzo delle meraviglie, re Alcinoo e sua moglie Arete. Qui Ulisse fu loro ospite e qui Demodoco, cantore della corte, cieco per volere divino, si immagina abbia cantato di Niliu all’ospite perché ne fosse rallegrata la serata, una delle tante che l’Odisseo trascorse a Tiriolo.
Di leggenda però si tratta e pensate, che nonostante le determinazioni del professore Armon Wolf, dell’Università di Francoforte, ancora oggi, Tiriolo e Marcellinara si contendono la verità, quella storica naturalmente, e pare addirittura che la capitale dei Feaci, non sia stata né più in alto, né più in basso delle sedi animate dal contenzioso.
***
Torniamo al nostro Niliu. Dunque, il giovane principe, innamorato e infelice, incontrava la sua amata, in un cunicolo dentro al monte Tiriolo che era una via naturale e nascosta per arrivare al mare, nei pressi della fonte del Corace. Era il canto del gallo ad avvertire Niliu del sole nascente. Il principe tornava alla corte prima che potesse correre il rischio di sciogliersi ai raggi dell’astro. La storia d’amore continua, nasce un bambino. Qualche maligna divinità fa tacere il gallo in una mattina di morte. Niliu esce dal cunicolo. Le sue membra si indeboliscono, si deformano in masse molli e gelatinose. Ha appena il tempo, disperato e col fiato stanco a dire al suo servo di voler lasciare le sue ricchezze al diavolo che del giovane possente e bello resta una larga chiazza molle sul terreno.
***
Grande verdeggia in questo e d’ampie foglie
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe
La temuta Cariddi il negro mare.
Tre fiate il rigetta, e tre nel giorno
L’assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi
Non t’accostar mentre il mar negro inghiotte;
Ché mal saprìa dalla ruina estrema
Nettuno stesso dilivrarti.
Questo è scritto nel XII canto dell’Odissea. La traduzione è di Ippolito Pindemonte. Ad Ulisse non mancavano certo le emozioni forti e una la visse quando fu costretto a salvarsi, sulla punta dello stretto di Messina, da Cariddi.
Creatura mostruosa, figlia della terra e di Poseidone, voracissima al punto da divorare le mandrie di Gerone quando il malcapitato si trovò a passare da lì. Zeus, che in quanto a fulmini non si faceva pregare, ne scagliò uno a Cariddi per punirla. La voracità non le passò, ma, una volta trasformata in mostro, tre volte al giorno ingurgitava enormi masse d’ acqua con tutto quello che sull’ acqua si trovava, navi e marinai compresi. Ulisse, che già una volta era scampato al pericolo, si aggrappò ad un albero di fico, maestoso e forte all’ ingresso della spelonca del mostro, ed ebbe salva la vita.
***
Dall’altra parte havvi due scogli: l’uno
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge
Né su l’acuto vertice, l’estate
Corra o l’autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi non potrebbe altri, o calarne,
Venti mani movesse e venti piedi:
Sì liscio è il sasso e la costa superba.
Nel mezzo, volta all’occidente e all’orco,
S’apre oscura caverna[…]
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par che un guaiolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino ad un dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici ha piedi, anterïori tutti,
Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara in ogni dente.
Con la metà di sé nell’incavato
Speco profondo ella s’attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que’ mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.
Scilla viveva in Sicilia, e in quel clima dorato di sole, fare il bagno sulla spiaggia di Zancle, era per lei, diletto grande. Erano i tempi in cui dalle onde era facile che apparisse un qualche dio dalle fattezze strane. E così fu.
Una sera, mentre la ninfa era sulla spiaggia, vide apparire dalle onde, Glauco, figlio di Poseidone, dio marino metà uomo e metà pesce. Scilla, ne rimase terrorizzata e si rifugiò sulla vetta di un monte appena dietro alla spiaggia. Il dio, invece, rimase infatuato da Scilla. La implorò, le urlò il suo amore ma niente, la ninfa continuò a fuggire, lasciando il povero Glauco piangente. Piangente ma non rassegnato anzi, deciso ad averla vinta sul testardo rifiuto di Scilla.
Si recò all'isola di Eea, presso la maga Circe e volle da lei un filtro d'amore. Circe, (cosa non messa in conto dal dio) era innamorata persa proprio di lui. - “ Prendi il mio amore, Scilla non ti merita”- è lei che voglio, non te”- Non si è mai saputo di una donna, maga o non maga, che se ne sia stata buona dopo avere incassato un rifiuto d’amore. Circe preparò una pozione per vendicarsi dell’affronto s e si recò alla chetichella, presso la spiaggia di Zancle, versò il filtro in mare e ritornò alla sua dimora.
Scilla, ignara, entrò nell’ acqua. Mostruose teste di cani sorsero intorno a lei, fuggì al largo, i cani la seguirono. Quale orripilata meraviglia essere ancora ninfa fino al bacino ma al posto delle gambe, attaccati al resto del corpo con un collo serpentino, vedere spuntare sei musi feroci di cani.
Scilla andò a vivere nella cavità di uno scoglio che da lei prese il nome. Questa è la versione che va per la maggiore. Secondo altri, a volere infierire su Scilla era stata Anfitrite che rifiutata da Poseidone, innamorato invece di Scilla, aveva chiesto a Circe la pozione malefica, causa dell’orrenda trasformazione della ninfa. Sempre di vendette d’amore si tratta. E Scilla
Con la metà di sé nell’incavato
Speco profondo ella s’attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que’ mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.
Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poiché quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola.
***
L’intreccio tra leggenda e mito è fuori discussione. Per quanto possano essere netti i confini tra di essi, per quanto la definizione di ognuno di essi abbia caratteri propri e incontrovertibili, a noi piace pensare che a tenerli insieme siano la narrazione, il rimandare e il tramandare il senso profondo di ciò che è stato raccontato.
Aug 022021
Ed a Ligea, là spinta, ov'è Terina,
Sepoltura darà nautica gente
Nella spiaggia all'Ocinaro vicina,
Che impetuoso inonderà sovente
Il sepolcro di lei
L'Ares vi lava, con le sue acque purificatrici,
la tomba della giovinetta dai piedi d'uccello,
la Sirena Ligea.
Così si trova scritto nella Cassandra del tragico poeta calcidese Licofrone (IV-III secolo a.C.)
***
Se questo scritto, fosse un’ immersione in un mondo lontano, anzi, lontanissimo dal nostro? Il nostro mondo, così preoccupato, confuso, agitato, così avvilito per il futuro incerto e insidioso, così mortificato nelle coscienze straniate e fragili; il nostro mondo, lasciamolo un po’ da parte.
***
Ligea era bella, aveva capelli di seta e occhi grandi. Era una sirena e lo sappiamo di cosa fossero capaci le sirene se il povero Odisseo dovette essere legato saldamente dai suoi compagni all’albero della nave perché non soccombesse al richiamo ammaliatore e funesto del loro canto.
Non è detto però che fossero tutte così mortifere per gli infelici che non resistevano alla loro magia. Taluni affermano che, invece, sapessero consolare gli uomini se a loro era consegnato un destino ingiusto e che nel momento della loro morte dessero il più dolce dei viatici (parliamo del loro canto armonioso, naturalmente).
Dunque, Ligea era la più piccola delle sirene. Anche lei, forse, figlia di Forci e di Ceto. Anche lei, come le consorelle, per non aver salvato la figlia di Demetra dal rapimento di Plutone, punita a diventare sirena. Busto di fanciulla, braccia nude, corpo di uccello, canto ammaliatore. Pare che tutte gradissero, come sede, le nostre coste e che non fossero più di tre o quattro. Travolta da un destino di morte, Ligea, piccola sirena, piccola fanciulla, si affidò alle onde vorticose del mare e il suo corpo fu trovato alle foci dell’Ocinaro, nel Golfo di Sant’ Eufemia e qui marinai pietosi la seppellirono.
L’Ocinaro, con tutta probabilità era il fiume Bagni e Terina, posta tra Sant’Eufemia ed Aiello, fu distrutta dai Saraceni intorno al 950. Il monumento sepolcrale di Ligea non è stato mai trovato. D’altra parte, che leggenda è se non conserva quel tanto di mistero che la rende ancora più attraente?
***
Cupi a notte i canti suonano
Da Cosenza sul Busento
Cupo il fiume gli rimormora
Dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pel fiume passano
e ripassano ombre lente
Alarico, i Goti piangono
Il gran morto di lor gente
Altra leggenda, altro mistero. Questa volta nessuna sirena prematuramente morta a suscitare pietà. Alarico, di lui parliamo, re dei Visigoti della dinastia dei Balti, in Mesia, provincia romana del Basso Danubio e magister militum, titolo al quale teneva in modo particolare, fu funesto quanto mai al destino di Roma saccheggiata orrendamente per tre giorni nell’ Agosto del 410.
Non meno funesto alle terre del Mezzogiorno che attraversò col suo esercito diretto in Sicilia e intenzionato a trascorrere l’inverno nel Bruzio per poi combinarne di belle anche nella vicina Africa. Capua e Nola furono occupate e saccheggiate.
A dare fede a Paolo Diacono si conosce che-
«Quindi menando clamore e strage per la Campania, la Lucania e il Bruzio, pervennero a Reggio, desiderosi di attraversare, in Sicilia, lo stretto di mare. In quel luogo, volendo salpare, salirono sulle navi: colpiti da un naufragio perdettero parecchi dei loro[…]. Alarico mentre fra queste cose deliberava ciò che si dovesse fare, perì presso Cosenza di morte improvvisa. I Goti deviando con il lavoro dei prigionieri il fiume Basento dal suo alveo, seppelliscono Alarico nel suo letto: e restituendo il fiume al suo proprio corso, uccidono i prigionieri, che erano stati incaricati di scavare, affinché nessuno potesse conoscere il luogo».
Dello stesso evento scrive anche Giordane, storico latino di origine gota o alanica, che ebbe modo di leggere la vera “ Historia gothica” di Cassiodoro di Squillace, ministro e primo consigliere dei re goti da Teodorico a Vitige. E allora si tratta di leggende o di storia?
Sono leggende (cose che devono essere lette) legate da un filo abbastanza tenace alla storia dalla quale attingono la materia reale, che in seguito viene consegnata alla fantasia dei popoli e arricchita da particolari immaginifici.
De Rivarol, ad esempio, viaggiatore in Calabria nel ‘700, affermò che nel secolo XV, dentro alla fanghiglia del fiume Crati, si scoprì il corpo di Alarico, «chiuso in due scudi ben saldati». Egli ignorava o volle farlo, la testimonianza dello storico bizantino Olimpiodoro, nativo di Tebe d’Egitto, che nella sua Storia, dal 407 al 425, dedicata all’imperatore Teodosio II, fece tramontare la leggenda del tesoro di Alarico, tesoro che fu portato in Francia, a Narbonne. Lo stesso descrisse infatti, con precisione impressionante, il matrimonio di Ataulfo, re dei Visigoti, succeduto al cognato Alarico, con Galla Placidia, nel gennaio del 415, proprio a Narbonne. Lo sposo visigoto, vestito da romano, offrì alla sposa i preziosi sottratti da Alarico a Roma.

Olimpiodoro è di sicuro affidabile, sia perché coevo ai fatti, sia perché gli storici, gli archeologi e i letterati che finora hanno cercato il tesoro, partendo dalle fonti latine ma trascurando quelle bizantine, hanno fatto, è il caso di dire, un buco nell’ acqua sia del fiume Busento che di quello del Basento.
Oct 142020 
<< Il linguaggio è la casa dell’Essere, nella sua dimora abita l’uomo, i poeti e i pensatori sono i custodi di questa dimora >>
Martin Heidegger
*
All’ interno di una cattedrale, bellissima, misteriosa e complessa nella sua architettura, - coni d’ombra ed epifanie di luce, guglie affilate e archi morbidi, voci sommesse ed echi di grida taglienti – così ci sentiamo percorrendo le pagine, più di mille, di Oga Magoga, opera mondo, definizione molto usata, così come ripetuta è l’attenzione dei critici, poco numerosi ma tutti autorevoli, al lunghissimo tratto di vita che l’autore, Giuseppe Occhiato di Mileto, ha impegnato nelle varie stesure dell’opera. Cinquanta anni di sudatissime carte, di conoscimenti e ancor più di disconoscimenti- è autore della Calabria, letteratura marginale, terragna, non degna di stare al fianco di quella nazionale, men che meno di quella internazionale- una prima stesura in versi che evolve in altre in prosa, quindi l’edizione in tre volumi nel 2000- silenzio assordante, a parte il premio Corrado Alvaro del 2003, un convegno nel 2011 a un anno dalla morte, per ricordare o per svelare la grandezza dell’autore, saggi memorabili, ciascuno nel nome e per conto di una parte selezionata all’interno della magmatica e complessa materia narrativa, non solo di Oga Magoga ma dell’intero percorso , dall’esordio con “Carasace” del 1989, a “Lo Sdiregno” del 2006 a “L’ ultima erranza” del 2007-Infine, nel 2019, la nuova edizione, per Gangemi, a cura di Emilio Giordano. Il tempo dirà se qualcosa è mutato nel modo di considerare la letteratura meridionale.
*
<< E a un certo momento, alle note flautate dell’uccello notturno, si sovrappose […]una voce scardina e alloppiante che pareva arrivasse da remote distanze […]intrisa di misteriose promesse aurorali[…].Quella voce, quell’esile voce bagnata di luna, pioveva balsamo, pareva sgorgare da una fonte che era la fonte stessa della vita e della morte, si discioglieva e si fondeva con gli abissi del tempo; era la limpidezza, la tenerezza stessa della luce iniziale dell’universo, del mondo appena formato >>
Aprirsi alla bellezza, all’incanto di Oga Magoga, significa restituirle la sua più autentica dimensione, quella poetica. Cercarne e rinvenirne la Poesia, categoria dello Spirito prima che caratteristica di Letteratura è il compito che ci siamo dati, per affetto verso tutto ciò che è canto dell’umana esistenza, narrazione di sfere sotterranee o celesti che nelle loro circonferenze trascinano uomini e cose.
Ogni assertività, ogni tentazione dichiarativa si eclissa, nel linguaggio dell’opera, per lasciare spazio e tempo alla “poiesis”, che è, nel suo significato originario, portare alla luce ciò che è nascosto e che aspetta dall’origine del suo farsi, proprio di essere portato alla luce in un canto epifanico che tocca l’origine del mondo, il cuore stesso dell’Essere. Il linguaggio, lo crediamo per vero, è la casa dell’Essere. Essenziale all’uomo, è dare voce a ciò che accade e si manifesta, come a ciò di cui si ha memoria, che sia guerra o strazio, attrazione di ‟amorosìa” o richiami di stelle. Ugualmente è dare presenza a forze sotterrannee, orrifiche e maligne che chiamano alla morte e allo ‟scenufregio”. C’è un cammino ineludibile che da sempre, ci porta a dipanare e a spiegare ciò che nel linguaggio è sommerso, a oggettivare quanto si presta a necessità di chiarezza, e nello stesso modo, a velare, a chiudere ogni accesso a quanto rimane a noi, di mistero e di oscurità.
Non è questa l’essenza della Poesia, non è questa la sua natura, la ragione stessa del suo esserci? Poiché la Poesia è chiamata a nominare, essa nominando le cose le chiama nella loro essenza, le fa vivere, le anima e le cambia.
Per queste ragioni, il linguaggio di Oga Magoga è linguaggio poetico. Il suo procedere circolare rende possibile ritrovare, nello scorrere delle lunghissime pagine, personaggi ed eventi ogni volta nuovi, ancora con le loro storie da vivere o da rivivere. Lento procedere che, esige un lettore ‟paziente e intelligente” e che ci pone di fronte a un parlare liberato e salvato nelle sue forme di originario o ricostruito dialetto.
Liberato da fin troppo usati nodi formali e dalle incrostazioni che ne trattenevano la voce e salvato dal pericolo di restare sommerso in una dimensione di smemoratezza e di lontananza.
Il dialetto, mosaico di più parlate, nelle strutture macro - interazionali, così come in quelle micro - interazionali, frase dopo frase, parola dopo parola, è suono e senso che rivela, mai del tutto, i moti dell’animo di ciascun personaggio che è percepito prima e interiorizzato dopo dal lettore per come il narratore lo ha voluto e per quanto ha saputo depositare, all’interno del suo spirito, di commozione, di incanto, di dolore -
<< Si sentì di colpo come svuotato e assonò tutta la pezzentia sua, avvertì acuta la propria solitudine, nudo e mortigno sotto le stelle che lo salutavano, stelle lustruose e puntute come zaffiri […]si riconosceva sotto il proprio cielo […]ma nonostante ciò si sentiva solizzo e lontano, disperatamente lontano come quello stellato che ruotava con l’invisibile cielo, intorno alla terra, perdutamente >>
L’autore non soltanto parla il linguaggio, ma parla del linguaggio, mostrandocene il profilo, la trama, gli elementi che si formano tra i parlanti e il loro stesso parlare, tra quello che viene “liberato” nella parola e quello che nella parola, resta inespresso -
<< Non riusciva a rassegnarsi di fronte a quel corpo nudo, abbandonato dalla gioia della vita, spogliato per sempre dalla capacità di amare, di soffrire. E nudo, spogliato come quel corpo si sentiva ora anche lui, svuotato di ogni desiderio di vivere con un deserto di lontananza e di desolazione nel cuore >>
Nella lunghissima narrazione di Oga Magoga, si riversa il carico di memorie in cui la ‟multeplicitè distincte”, tempo storico conseguenziale, e la ‟ multeplicitè confuse”, tempo della coscienza individuale, care a Proust, sono ugualmente presenti. L’autore ricorda e rivive, dimentica, per poi, sospinto dall’ intelligenza poetica, tornare a ricordare e a immaginare.
La coralità di sentimenti, traviamenti, terrori di forze sotterranee e aeree, abita agevolmente con la singolare, netta presenza di personaggi che valgono non in quanto parte di una comunità, ma in quanto individualmente e singolarmente chiamati a rispondere di sé stessi, a mostrarsi e dichiararsi sullo scenario ora magico, ora realistico negli eventi narrati -
<<Qua di passaggio ne vengono tanti, ma lei li seleziona […]E li trattiene, li intrattiene, li infascia con le sua carezze […]li allazza con le sue parole, con la sua voce cantalora […]li sana se sono malati, li alliscia, li pasce, gli dà i tesori delle carni sue […]
*
<< Quella saracina che si nascondeva chissà dove nelle fuliggini della notte[…], per quanto lontana che fosse, per invisibile che fosse, aveva una sua presenza assoluta […]era portatrice d’un mistero inscrutabile, disponeva di un mistero fatale [… ] >>
*
<< Dianora si sentì un pochicello rassicurata e si accostò a Rizieri, stringendogli il braccio in segno di fidanza, di amorosìa. La notte sorrise a quella nocentella e intanto che andava a poco a poco preparandosi all’alba, le infuse nelle tele della pettorina una dolce calma […]>>
Sono Fara, Orì e Dianora, le tre stelle che infasciano il cuore del ‘volantino’ Rizieri.
La quarta stella, Vavara, è lontana, a lui, irrimediabilmente negata.
Oltre, una voce di reale portata tragica -
<< Figlicello mio patito, figlicello mio perduto, mormoriava e la voce le usciva dal petto […]come spirasse anche lei […]figlicello mio spogliato, chi fu che ti portò a questo calvario? Chi ti volle flagellato, trafitto? […]Ah, figlio tribolato, chi ti passò le carni gentili ?>>
Nel pianto straziato di donna Zarafina che ha fatto da mamma a Rizieri, e ora lo piange, ‟lazzariato” nazareno, come non avvertire, l’eco del pianto della Madonna di Jacopone?
Dare conto di ciascuna delle presenze femminili in Oga Magoga ci darebbe conferma della nostra convinzione dell’essenza poetica del romanzo così come inoltrarci nelle ”affatanti” immagini della natura, presenza dai tratti umani capace di farsi dolente spettatrice degli ‟scenufregi” terreni -
<< Si levò […]un’albasia tenerella, lasciò il suo giaciglio di rose e di gigli […]spiegando la lunga capellatura […]. I capelli splendevano tersi, parevano matassine d’oro […]ma vide la scena del mondo […]le sue dita si levarono a coprire gli occhi già offuscati di lacrime […]Come posso levarmi, come posso aprire le porte della luce?>>
L’ineffabile messaggio di un’opera dalle innumerevoli implicazioni, dai tanti rimandi di letteratura, resi noti dallo stesso autore, è che scavare nel fondo enigmatico della storia e della vita è necessario. Alla fine, però, dopo aver chiamato presso di sé le cose dalla lontananza e averle nominate nella loro essenza e averle inscritte in un ambito di cielo e di terra, di creature reali o immaginate, presenti o nascoste e temibili, il mistero stesso della storia e della vita resta irrimediabilmente chiuso e lontano –
*
<<Faremo un giorno una carta poetica del Sud; e non importa se toccherà la Magna Grecia ancora, il suo cielo sopra immagini imperturbabili d'innocenza e di sensi accecanti. Là forse, sta nascendo ‟la permanenza” della poesia.>>
Salvatore Quasimodo

Mar 192020
ADELINA
“Quindici anni, magrolina, capelli scuri e sguardo vispo, Adelina tornava a casa dopo essere stata tutto il pomeriggio a cucire dalla sarta”.
Esiste in letteratura una memoria involontaria, punto nodale del pensiero che narra e che impone il confronto con il proprio sé di ieri.
In tal modo la verità letteraria si piega armonicamente al flusso del ricordo ed attua, in quello che è processo aristotelico di anagnorisis, un riconoscimento che si fa coincidenza perfetta e fortunata tra pensiero e ricordo.
Per queste ragioni la protagonista del romanzo è affidata alla tenerezza del ricordo non meno che all’ adesione ai canoni della narrazione di realtà che è sguardo attento sul mondo, osservazione senza veli e senza intenzione alcuna di modificarne la forma o di cambiare la sostanza in qualcos'altro.
Non vi è alcuna forzatura nel guardare in faccia la realtà, nel dire sentimenti e accadimenti ma interesse, cura, affetto. Si avverte in ogni pagina l’esigenza di partecipare alla storia di ciascuno evento, ciascuna persona, di ciascuno oggetto.
Vibrante di aspettative il rito di passaggio all’età adulta che la madre sollecita quasi spinta dall’ urgenza di introdurre la figlia in un ambito più definito, voluto dai canoni della piccola società a cui appartengono e che reclama donne di fatica, adulte e votate, tra matrimoni e lavoro, al sacrificio perenne di sé –
“Adelì, […] tra due settimane sarà il tuo compleanno, il giorno in cui compirai sedici anni e il giorno in cui ti vestirai da pacchiana[…] Tutti i giovanotti ti vorranno conoscere, ma mi raccomando, scegliti nu buenu partitu”
La vita di Adelina è segnata dall’attesa, dal dolore, dalla solitudine.
Adelina attende, sa attendere, nel senso che è proprio al termine, tende verso qualcosa, verso qualcuno.
“Molte delle sue amiche erano già maritate[…] ma lei era certa che prima o poi l’amore avrebbe bussato alla sua porta”
In un tempo soggettivo e circolare che scandisce il passare e il tornare delle stagioni, il passare e il tornare delle persone, Adelina nella zona intermedia fatta di accettazione, di pazienza e di accoglimento che la vita le costruisce con invincibile ostinazione, vive le sue esperienze di donna, l’amore, la nascita dei figli, il rapporto con il paese, la fatica di un lavoro stremante e di feudale crudezza-
“ Settembre arrivò e anche il momento della raccolta delle olive. A Don Ciccio [ …] nu poveru miserabile che era riuscito a entrare nelle grazie del signorotto locale, non importava niente dell’enorme fatica di quelle donne”
L’autore-narratore non giudica, non guarda dall’alto, non detta la sua onniscienza ma non si eclissa. Entra con cautela nella vita della protagonista, ne condivide gli umori, i sentimenti, i valori. Capita che lasci trasparire il suo punto di vista, al solo scopo, però, di fornire al lettore la mentalità della comunità popolare-
“ Adesso, come si conveniva ad una ragazza prossima a sposarsi, non le era più permesso di uscire da sola[…] figurarsi di andare alla fontana a prendere l’acqua”
Ebbe ad affermare Verga alle prese con “I Malavoglia, che “chi osserva lo spettacolo della lotta per l’esistenza non ha il diritto di giudicarlo” perché, la letteratura, dalla nostra visuale, non è evasione, né gioco, ma incessante interrogazione sul destino dell’uomo, a qualunque classe sociale appartenga e in qualsiasi latitudine viva.
La letteratura racconta e riflette e invita a riflettere sul bene e sul male, sull’ amore e sulla morte, sull’ eterno perpetuarsi dello spirito della realtà che è esso stesso realtà e perciò stesso chiude la strada alla trascendenza e alla metafisica.
Ne deriva un linguaggio di cose, nude, essenziali, elementari, mimetiche della vita della protagonista che incontra presto il dolore che si fa morte portandole via Vittorio, il marito tanto amato.
“ Vittorio era morto[…] cosa avrebbe detto alle sue creature, dove andavano a finire[…] i loro sogni, la loro vita da trascorrere assieme”
Nessun punto di domanda, la protagonista sa. La morte distrugge e cambia. In queste pagine, le più lunghe forse dell’intera narrazione, convivono, senza alcun artificio, le riflessioni di Adelina sul proprio destino che dichiarano quanta solitudine dolorosa abiti la sua anima e un’idea di coralità che si affaccia nei paesani che si stringono a lei, nei parenti che si prendono cura dei figli. E’ solo fugace impressione.
Marcellinara non è il paese de “I Malavoglia”. E’ altro da sé anche quel piccolo mondo parentale e amicale, chiuso alla storia che resta fuori dallo svolgersi di un tempo quotidiano, che al suo interno e non solo per gioco di letteratura, contiene e mantiene una narrazione nella narrazione.
“Scese dal letto[…] andò diritta verso il comò[…] estrasse una vecchia agenda scaduta[…] cominciò a parlare con la parte più nascosta di sé”
Adelina racconta, si racconta, in un dialogo con il figlio morto, Giuseppe, il primogenito, che, non essendole dato di conoscerne altra, ha la sola grammatica del dolore.
"Mi hai passato il cuore con la spada, ogni momento ti chiamo ma tu non rispondi mai: perdonami se ti do pena […]
E’ la narratrice stessa che diventa, a intervalli non misurati e perciò più efficaci, la protagonista. E’ lei che interrompendo l’andamento cronologico del romanzo, ci informa della morte del figlio più grande, al quale dice l’insensatezza e l’irrimediabilità del dolore. Il narrare diviene interiorità, si trasforma in una dimensione di silenzio e di nascondimento in cui si riversano i dubbi di Adelina sulla giustizia divina.
“Ho pregato sempre Dio di aiutarmi[…] ho avuto tanta pazienza e coraggio[…] Il Signore dice Beati quelli che piangono che saranno consolati, ma io[…] chi sa se avrò la ricompensa?”
E’ nel suo diario gelosamente custodito, che sono collocati tutti gli stati e i processi più importanti della sua vita affettiva e intellettiva. Adelina, Io pensante, dilaniato dal dolore pretende l’esclusiva conoscenza dei suoi contenuti interiori.
Nello spazio privato dell’ interiorità Adelina consuma il mistero dell’essenza umana.
Lo fa, e non può essere diversamente, con un linguaggio elementare e a volte sghembo del parlare comune. Tanto più intensamente preciso nella sua carica di sentimenti dolorosi, quanto più impreciso nelle forme e nei modi della sintassi . La visione oggettiva, reale, delle cose, è temporaneamente sospesa. Al suo posto, una nuova dimensione che trascende l’oggettività e si fa simbolo dell’umana condizione di sottomissione al dolore.
La narrazione continua il suo corso, Adelina è ancora affidata alla parola che narra, racconta e per ciò stesso “conta” in una combinazione di elementi che segue l’intenzione, non tanto di superare la finitezza della parola quanto di mantenere sorvegliato il territorio su cui evento dopo evento si completa la tessitura della vita di Adelina.
“Filo dopo filo, punto dopo punto Adelina era riuscita a ricostruire la sua vita, con quello che guadagnava facendo la sarta[…] aveva mandato avanti la famiglia, senza chiedere niente a nessuno, sempre fiera e con la testa alta”.
La mappa di una storia non minimale, né metaforica si conclude qui. Letteratura di cose che appartengono ai piccoli mondi più che ai grandi, alle dimensioni sconosciute più che a quelle manifeste e che reclamano che l’abnegazione, la purezza e il coraggio siano categorie universali anche nel chiuso di un animo semplice e nascosto.