Il Blog di Anna Stella Scerbo

Uomini e donne del Mezzogiorno: mito, letteratura, storia

Storia, Paesaggi e Gente di Calabria, i ricordi di Pietro Ingrao

lug 092019

 

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STORIA, PAESAGGI E GENTE DI CALABRIA: I RICORDI DI PIETRO INGRAO

"Queste memorie sono in qualche modo la ricostruzione di una vicenda personale e sociale nelle insanguinate vicende del mio tempo. Ma - anche per il memorialista - non è proprio certo che le cose siano andate così, e con tale "ordine" sotteso. L'accaduto forse diverrà più sicuro, quando saranno appurati nessi ed eventi che a tutt'oggi, almeno per chi scrive, risultano ambigui o ancora nel farsi, o ancora troppo personali e segreti. Quell'evento fu cosi, come sta aggrappato nella mia dolce, dolorosa memoria?”

In più casi viaggiatori hanno visitato la nostra regione, attratti da una terra misteriosa e difficile. In altri casi uomini dentro alla storia vi hanno dimorato per qualche tempo quando è stata la storia stessa a sospingerli per forza nell’ultimo lembo d’Italia. In nessun caso, la nostra regione ha deluso il viaggiatore o l’ospite forzato, poiché i luoghi, la gente l’ atmosfera  si sono incaricati di consegnare al viaggiatore o al confinato sentimenti e ricordi, emozioni e insegnamenti.

La retorica non è mai buona compagna dello scrivere, soprattutto quando oggetto dello scrivereè la propria terra che si vorrebbe disancorare dai tanti pregiudizi che ancora resistono su di essa. A far dire, però chi qui è stato, null’altro è dato da aggiungere se non che l’esperienza e i sentimenti   sono stati  vissuti senza filtri e senza pregiudizi.

Pietro Ingrao, nella sua autobiografia, “Volevo la luna” ( Einaudi 2007)   copre un arco temporale dalla fine della grande guerra agli anni 70, e dedica alla Calabria e alle persone incontrate pagine di rara efficacia.

                                                       ***

<Verso la fine di febbraio venne la decisione che io lasciassi Milano e mi trasferissi in Calabria […] Tutto filò liscio- tranne una grande fame- fino alla stazione di Paola. Qui la mia memoria è incerta. […] Di certo nelle prime luci dell’alba salivo su una carrozzella alla stazione di Cosenza, abbastanza disteso nell’animo. Il più era fatto e Cosenza era gradevole in quel limpido mattino meridionale>

Così scrive   del suo primo incontro con la Calabria. Le radici familiari erano repubblicane e garibaldine, la prima formazione giovanile era approdata alla “scelta di vita comunista e all’antifascismo”. E ancora l’amore per il cinema e la lettura di autori come Joyce e Kafka che animavano fermenti culturali aperti verso l’Europa. L’ingresso, giovanissimo, in una struttura clandestina del Partito Comunista a Roma, l’incontro con Laura, “intreccio di ragione e di dolcezza”, quindi, nell’inverno ’42, ’43 l’inizio della clandestinità tra Milano e la Calabria, terra da lui dichiaratamente amata, che lo ospita in tre importanti passaggi della sua vita. Nel 1943 come esule forzato; nel 1949 ai tempi delle rivolte contadine; nel 1970 durante l’insurrezione di Reggio Calabria.

Nell’inverno ’42, ‘43 Ingrao è a Cosenza.

<Alle dieci circa, varcavo la porta dell’officina di Bebè Cannataro che poi conobbi allegro, rumoroso e sfottente […] Quando dissi la parola d’ordine che faceva per me da lasciapassare, quasi non levò il capo […] Poi Bebè mi guardò a lungo e mi chiese: come hai detto? E quasi senza attendere la mia replica, rischiarò il viso>

Dalla città è costretto ai “boschi maestosi” di Camigliatello, nella casa di un gruppo di tagliaboschi. Il giovane Ingrao resta solo nel silenzio della foresta in attesa della sera e del ritorno di quegli improvvisati compagni di vita, semplici e sinceri. E’ singolare per un giovane l’esperienza del silenzio, soprattutto per chi, come lui, è abituato a lunghe giornate affollate di toni e di voci. Eppure i boschi della Sila, ”la trama infinita del fogliame” compiono il miracolo di avvicinarlo ai primordi della natura dove ogni cosa ha un suo ritmo, originale e intatto-

<Iniziò per me un tempo di stupefatta solitudine. I tagliaboschi si alzavano alle prime luci dell’alba per il loro duro lavoro. Io restavo solo con me stesso e con la foresta […] Poi il silenzio vinceva tutto, prendeva i pensieri ed era solo un lungo camminare in attesa del tramonto[…] A me il silenzio grande che a tratti segnava il cielo non dispiaceva: soprattutto mi incantava la trama infinita di fogliame, il suo interno agitarsi sempre per una fonte di cui non si coglieva l’inizio[…] Al tramonto del sabato, io restavo solo in pura compagnia di quelle piante. Non riuscivo a fissare bene […] se quella solitudine fosse un dono, un improvviso e fortunato godimento o il segno di una ferita grave>.

Dalla Sila a Zumpano, in una casa piccola, con un tesoro di carte e la prima possibilità di leggere Gramsci e Togliatti. A tenergli compagnia, in un successivo allocamento, sono i topi, enormi e rumorosi che Ingrao riesce a zittire, un poco, nella notte, accendendo un fuoco per terra, al centro della capanna dove dorme.

La Calabria lo ospita ancora, in circostanze diverse, nel 1949.

Il Mezzogiorno vive una pagina dolorosa a causa delle occupazioni da parte dei contadini, delle terre di cui hanno realmente “fame”. Il moto calabrese culmina con la tragedia di Melissa. La polizia spara sui contadini e due perdono la vita. Insieme a loro, una donna, Angelina Mauro. L’annosa questione meridionale ha immolato altri martiri e, sottolinea Ingrao, sarebbe iniziato finalmente dopo secoli, un percorso in Parlamento verso un lento mutamento nella proprietà della terra.

< I contadini avevano prima di tutto fame di terra, chiedevano terreni da lavorare, da mettere a frutto[…] Per vie intricate i ceti oppressi avevano ormai elaborato letture della vita, codici di comportamento e progetti che ambivano ad incidere sulla struttura della società. Così il 24 Ottobre del 1949 partì in Calabria un moto che era parte consapevole di questo mutamento[…] Partì per il Sud una carovana di giornalisti e di scrittori anche di parte borghese. Ritrovai, con una stretta al cuore quei luoghi singolari e sperduti della Sila che ora già mi sembravano diversi>

E’ Reggio Calabria, la protagonista di altre pagine calabresi.

La città insorge, siamo nel 1970, per la mancata assegnazione del capoluogo regionale affidato a Catanzaro. Ingrao è a Reggio, tiene un comizio ad una folla appassionata e intanto si prepara una grande manifestazione. La vigilia è febbrile: la rivolta è in mano alla destra, i treni che portano i manifestanti al Sud vengono bloccati dall’esplosione di bombe. E’ forte la paura dell’isolamento e di scontri duri e sanguinosi.  Poi, ogni dubbio si scioglie con la massa dei manifestanti, “lunga e impetuosa, perfino allegra”

<Furono eventi che pesarono non solo sulle vicende concrete ma anche sui codici, sui pensieri con cui leggevano il mondo e la storia tempestosa che segnava il nostro secolo>.

Dunque siamo

di fronte ai segni di una passione che non è solo politica ma profondamente umana. Non si spiegherebbe altrimenti la partecipazione cordiale, finanche affettiva, con cui racconta dell’umile gente della nostra terra. Bebè Cannataro, rumoroso e sfottente; Zù Peppino, il dolce vecchio con cui divideva il cibo frugale e asciutto. Uguale è la partecipazione che riserva ai personaggi in vista della politica calabrese, Misasi, Gullo, Mancini.

<Amavo la Calabria quasi quanto il mio paese natio. Era la terra che mi aveva salvato e protetto quando ero braccato dalla polizia fascista. E i monti della Sila, quelle campagne solitarie, […] e più di tutto i silenzi di quelle notti stellate[…] erano per me, ricordi fondativi>

Una bella lezione, un monito non detto ma percepito nei fatti raccontati e nelle azioni, a considerare la vita come impegno e passione, a guardarsi dentro anche nel rumore della gente e nel silenzio della natura, una bella, sincera dichiarazione d’amore alla nostra regione.

GIUSEPPE BERTO- La Calabria, luogo dell'anima

apr 072019

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<< Gira le alture del Mantinèo   pacifico sentiero/dimenticato alle forche della solitudine/diserta verso il faro e d’improvviso spegne il suo viaggio/ sopra i domini delle agavi e gli intensi blu/ed ecco spalancarsi la scogliera. Alle trasparenti venature s’àncora la casa/rifugio di pietra costruito coi tributi del sogno/. Qui al sonno dei responsi venne Berto/a stendere i tessuti/ad asciugare gli inchiostri e le nuvole del cuore/.Vedo ancora quella figura di eroe decaduto/pupille lanciate più oltre le tende del crepuscolo/mentre va vuotando la sua bottiglia di nostalgia/.Vento del mare che vai empiendo l’aria di sonagli/ferma qui le tue rime/sui profili dello Stromboli e dell’ondulata Lipari/ e col melodico strumento/dolcifica l’ombra che saccheggiò la sua vita/o se ti imbarchi di primo mattino/portalo nelle lodi della tua bocca/. E tu inquieto  e temibile mare/figlio dei gorghi di Scilla e di Cariddi/sciogli le rotolanti spume e rinfrescalo/con le spugne dei tuoi salti blu/. Ora che il giorno s’assottiglia/naufragando all’ultimo confine/un bagliore si spande e addolcisce la sera/ sia lampo di sole o lume di candela//>>.

Il testo è di Francesco Longo, poeta lametino.  Ebbe la fortuna di divenire amico di  Giuseppe Berto, di accoglierne  il sentimento doloroso dell’esistenza che abitava la sua anima e che Berto aveva affidato ad uno dei romanzi più noti del novecento, il Male Oscuro.

 Parliamo della profondità misteriosa del nostro essere, delle pieghe più nascoste della nostra anima, di quanto sia preziosa e inafferrabile la nostra essenza di creature esposte al malinteso, alla tristezza, al dolore come, seppure più raramente, alla gioia.                                                                 ***

<< […] Quella notte, dunque […] decisi che per nessuna ragione al mondo avrei sciupato l’occasione di conoscere quello scrittore la cui venuta in Calabria era tutta circondata di mistero>>

Così, ancora Longo in un racconto sul suo incontro con lo scrittore. Giuseppe Berto era Trevigiano. La morte di Berto avvenne tra l’indifferenza generale e lui che aveva dichiaratamente scritto di considerarsi il più grande scrittore dopo Gadda, cadde in un oblio che avvolge ancora la sua figura e la sua opera. Il 1914 è l’anno della sua nascita, a Mogliano Veneto, provincia di Treviso. Il rapporto col padre, assai tormentato, avrebbe condizionato il suo futuro di uomo e di letterato. Dopo la Laurea, si arruola nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Combatte in Africa e dopo il disastro di El Alamein, nel VI Battaglione Camicie Nere, partecipa alla ritirata dalla Cirenaica alla Tunisia. Viene fatto prigioniero, dopo aver inutilmente tentato di sfuggire agli inglesi sopportando terribili condizioni di vita che accentuavano la naturale malinconia del suo carattere e minavano le sue certezze, fino ad allora granitiche, nel Duce, nella magnificenza della Nazione e nella grandezza del Regime fascista. In Texas, a Hereford, trascorse tre anni durante i quali conobbe la letteratura americana e scrisse “La perduta gente” pubblicato in Italia da Longanesi (dopo il suo ritorno dall’America) col titolo “Il cielo è rosso”. E’ subito successo, grande e internazionale.

                                                                ***

<< Sotto le spente e immobili lanterne dormiva ancora il guardiano del faro, dopo la ronda notturna sul mare, mentre il sole ormai alto sfoggiava tutto il suo fulgore, costruendo lo spettacolo mattutino. Allora, procedendo verso il muretto che chiudeva il piccolo podere, mi affaccio a quel confine, di là dal quale colui che cercavo e che si era volontariamente allontanato dalla riva degli uomini, mi veniva incontro come per antica confidenza; avanzando da quella solitudine a passi lenti come se misurasse la distanza, e, quando mi fu avanti, accogliendo il mio saluto con un assenso del capo, la mia emozione fu così grande che il cuore non trovò appiglio dove ancorare i suoi battiti>>

Sonoi minuti, emozionanti, che accompagnano l’incontro tra Longo e Berto. Nel periodo tra la prigionia in America e questo incontro, lo scrittore aveva pubblicato “Il Brigante” nel 1951. Si era sposato e aveva avuto una figlia nel 1954. Nel 1955, con la pubblicazione di “Guerra in camicia nera”, Berto era approdato ad uno psicologismo umoristico che scardinava i topoi del precedente neorealismo. Ma, soprattutto, si era ammalato di una grave forma di nevrosi per la quale necessitò di lunghi periodi di cure psicanalitiche. La tormentata condizione dell’uomo che cerca gli appigli per non farsi inghiottire definitivamente dal buco nero della depressione e della perdita degli orizzonti di vita trovò il suo sfogo e il suo racconto ne “Il male oscuro”, vero caso letterario e premio Viareggio e Campiello nel 1964. Berto sentiva che il male di vivere che lo tormentava avrebbe potuto trovare sosta e quiete in una terra di sole e di mare, di lontana e limpida innocenza. Così, acquistò un terreno a Capo Vaticano, sulla costa tirrenica calabrese e vi costruì il suo rifugio. Qui, andò a cercarlo Francesco Longo.

***

<<Capo Vaticano a quel tempo non era sotto gli occhi della pubblicità e le poche conoscenze che si avevano, non erano legate all’incanto del suo paesaggio, né si era aperto al turismo di cui non si avvertiva necessità e il viandante che allungò il suo viaggio fino a quel luogo lo trovò brullo, non meno che selvaggio, dimenticato da ogni respiro umano: soltanto la solitudine vi galoppava e il canto del mare che consolava la pazienza dei pochi contadini e pescatori […]>>

 Dunque, Giuseppe Berto, a un certo punto della sua vita, aveva capito che era giunto il momento di fermarsi. Girò, “palmo a palmo tutte le coste dell’Italia Meridionale” e infine trovò il suo Genius Loci, come lo aveva immaginato, “violento e armonioso e non ancora toccato dagli uomini”. Due ettari di terreno incolto. Sotto, la roccia, a strapiombo sul mare. Glielo aveva venduto, per la cifra modesta di 300 mila lire, un certo Nicola La Sorba. Fu un buon affare. Berto non era ricco. Fece un prestito alla Cassa degli Scrittori, prestito che restituì in sei rate. Il 19 gennaio del 1957, firmò il rogito. Il regista Vittorio Sabel, anche lui innamorato del Sud e amico di Berto, sentì la fascinazione di quei luoghi e comprò un terreno confinante con quello di Berto. Fu Sabel che costruì per primo, una casa parallelepipedo bianco, due stanze e un bagno, pronta nel ’58 e che ospitò per qualche anno i Berto. Qui ebbe vita “Il male oscuro”. Berto e Sabel, durante la costruzione della casa, dormivano su una tavola di legno e preparavano a turno i pasti.

 Questo raccontava Angelo Grande, uomo di fiducia di Berto e Ignazio Polimeni, un contadino del posto, gli portava l’acqua a dorso di mulo e Mastro Antonio Lotorto, muratore di buona esperienza, riconoscibile, come altri personaggi del luogo, in alcuni scritti di Berto, lo aiutò nella costruzione di un piccolo locale, in aggiunta alla casa, per la figlia Antonia.

La costa di Ricadi e di Santa Maria non conosceva l’ombra di un turista né di bagnanti locali. Il mare, di una bellezza incomparabile aveva l’unico ruolo di refrigerare gli animali dei contadini e di ripulirli dai parassiti. Berto scrisse di questo in un articolo su “Le Ore” del 27 Agosto 1964 dal titolo eloquente: “ Un fiammante lungomare dove tutta la gioventù celebra la sua libera estate”. Il tono non era clemente e la Calabria ne usciva in tutta la sua misura di arretratezza. Giornali e   intellettuali locali ne ebbero risentimento e per un po’ si accesero risentite polemiche.

Ma di fatto Berto amava quel tratto di costa incontaminato e girava con una Renault 4 per i dintorni e se all’inizio trovava “sgradevole la miseria dei paesi”, se gli ci vollero anni per appropriarsi della poesia di “queste piante aspre e contorte del Sud anche esse quasi annullantesi nel paesaggio”, siamo convinti che a Berto fu proprio quell’angolo nascosto e ancora immune dal chiasso irrispettoso dei visitatori a dettargli l’ispirata necessità di scrivere il suo capolavoro, “Il male oscuro” nel quale, attraverso la dissoluzione delle strutture narrative tradizionali, lo scrittore ripercorreva le strade del proprio malessere, dell’indissolubile legame della propria interiorità col dolore fondo dell’esistenza. Mario Monicelli, nel 1989 ne ricavò un film dalla sceneggiatura affascinante  e con un’intensa  interpretazione di Giancarlo Giannini.

                                                                             ***

<< Era un uomo di alta statura, bello d’aspetto, dall’aria orgogliosa e con un’espressione di sofferenza in volto[…] gli occhi amplificati e dolenti per il passaggio di qualche antica pena, e in quell’ampiezza dilatata si poteva leggere tutta la solitudine di un uomo. Mentre procediamo, rompendo quell’aria pacifica,[…] improvvisamente quel senso di avventura che mi aveva accompagnato lungo il viaggio mi abbandona lasciandomi coi miei dubbi, in compagnia di quell’uomo a cui, forse avevo rotto il disegno del giorno, e al quale, fra poco, avrei dovuto confessare tutte le ragioni della mia venuta […] >>

 << Era qui dunque che viveva, annidato come un’ape nel cuore della rosa ed era un luogo ideale per uno che volesse coltivare la solitudine e nutrire ambizioni di eternità; e certamente era l’origine delle emozioni dello scrittore da quando alle pareti romane, aveva appeso le sue tempeste interiori >>

 Profondamente precise, queste annotazioni, pure se istintivamente ricavate da un primo emozionato incontro. A Francesco Longo non sfuggì, neanche per un attimo, la solennità di quell’incontro, l’empatico riconoscersi in “quella voce calma e solenne”, pur se rimanevano nascoste, al fondo di quell’animo sofferente di antico male, le “ragioni dell’esilio”. E come esiliato Berto viveva in quei luoghi dove era conosciuto come “il professore”. Frequentava solamente  l’osteria di Donna Sabella, forse per le profumate frittate di cipolla che erano la specialità dell’ostessa; andava all’Ufficio Postale e le telefonate le riceveva e le faceva dal luogo pubblico. Lo scrittore, seppure saturnino e poco incline alla confidente familiarità della gente del Sud, ebbe cordiali rapporti con quei paesani umili e affettuosi, il droghiere Michele Laversa, Angelo Grande che si occupò delle pratiche di burocrazia perché la residenza di Berto fosse spostata a Ricadi. Conobbe e frequentò il dottore Mario Rombolà di Brattirò che si prese cura della sua anima in perpetuo dolore. Nel ’58, Berto aveva fatto ricorso alla psicoanalisi. Il professore Nicola Perrotti lo prese in cura salvandolo, come ebbe ad affermare “da un brutto destino”. Berto, da parte sua cominciò ad avvertire che i rapporti tra letteratura e psicanalisi riguardavano lui come avevano riguardato Italo Svevo e l’identificazione con lo scrittore triestino andò avanti per più tempo.                                                                   

                                                                 ***

Potremmo addentrarci nella vita e nelle opere di Giuseppe Berto ancora a lungo tanto lo scrittore presenta aspetti di grande interesse. Potremmo parlare della sua tormentata relazione col cinema, delle  delusioni che gli venivano proprio da quegli stessi ambienti letterari e intellettuali che sembravano non voler riconoscere la sua grandezza, del conflitto tutto letterario con Alberto Moravia, del successo che gli diede fama internazionale. Torniamo, invece, a San Nicolò di Ricadi, patria dell’esilio e del cuore, dove venne celebrato il funerale religioso e dove un semplice, francescano cippo ricorda il suo nome e la data della sua morte. Era il primo di Novembre del 1978. Nell’ultima intervista televisiva, registrata a Capo Vaticano aveva avuto   parole di cristiana ispirazione e alla morte, da “ateo-non” quale si definiva, sembrava non avesse mai pensato.

 

 

 

 

VINCENZO PADULA - Lo Stato delle Persone in Calabria- seconda parte- Il matrimonio-

dic 302018

 

 

 

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«Il calabrese che nelle scuole si ricorda di essere concittadino di Augusto e nei campi d’essere fratello dei lupi, adopera il diritto lupino […]. Quand’ ella va di domenica alla  Messa e il sacrato è gremito di gente e gli organi suonano e le campane squillano, egli in faccia al sole, in faccia a Dio, in faccia al popolo, irrompe tra le donne come nibbio sopra lo stuolo di colombe, abbranca quella che egli ama; e o la imbianca, o la scapiglia o le toglie la muschera».

Padula ci informa che, nella Calabria del suo tempo, resistono taluni riti nuziali   del diritto Quiritario, ad esempio, quello di simulare il ratto della fanciulla. Rapirla dalle braccia della madre che fingeva grande paura, imbavagliarla con un velo (flammeum), sospingerla   in braccio entro la casa dello sposo che le conficcava una spada nelle chiome a voler ribadire una proprietà acquisita con la spada e da preservare con la spada, erano le scene sequenza tanto consapevoli, quanto necessarie all’imminenza del matrimonio . Sarebbe scontato considerare tali pratiche come lesive della dignità della donna se non vi riconoscessimo i segni di un passato remoto che in quanto possesso della nostra storia sociale e umana prende dignità di racconto-patrimonio da preservare e da tramandare.

Dunque, quell’innamorato che avevamo lasciato in indicibili pene impegnato nella conquista di una fanciulla quasi inafferrabile, ora la imbianca, la scapiglia, le toglie la muschera. Niente di meglio che le parole dello stesso Padula a raccontarci il senso   di questi termini e di questi atti.

«La fanciulla nubile mena in Calabria vita devota e reca in capo un velo di colore scuro: l’uomo dunque le toglie quel velo, gliene sciorina sopra un altro bianchissimo e la donna dicesi imbiancata. La fanciulla nubile porta la chioma coperta […] perché questa selvetta dove amore tende le sue paniuzze è sacra in Calabria; l’uomo le strappa il velo geloso e la donna dicesi scapigliata. La fanciulla nubile […] ha nella parte superiore della gonna tre buchi, in quel di mezzo ella ficca la testa, nei due laterali le braccia, e questi due si chiamano muschere. L’uomo le taglia col coltello queste muschere e la donna dicesi segnata».

Il diritto romano primitivo trova dunque in queste manifestazioni espliciti riferimenti. Principio e ragione della proprietà è la trasformazione, è ciò che l’uomo trasferisce di sé alle cose di cui si appropria, è il prenderne possesso e insieme assumersene il peso e la responsabilità. Tali modi appartenevano alle classi più umili e il nostro autore tiene costantemente in atto la necessità di non usare generalizzazioni che confondano il reale stato delle cose in una regione lontanissima dall’affrancarsi da retaggi che segnavano indissolubilmente i confini tra una società e l’altra. I “signori” usavano un solo modo per appropriarsi della donzella ambita, meno romuleo e meno eroico, e forse proprio per questo meno denso dell’umanità forte del calabrese:

«Indettatasi con l’uomo, la donna l’attende dietro l’uscio di via: l’amante passa, ella tosse, quei se la toglie sotto il braccio, va con lei due o tre volte nel paese e la lascia in deposito in un’altra famiglia».

E i signori la dovevano sapere lunga in fatto di sbrigative e a dire il vero poco eleganti pratiche di acquisizione della fanciulla designata come sposa:

 «Ch’è, ch’è non è? Rosina è volata; i vecchi padri soffiano, l’amante fa lo gnorri, la fuggitiva è reclusa e il paese parla! Si chiama dunque il Notaro, si roga l’atto e figli maschi».

Tutto questo conferma non soltanto la conoscenza che Padula ha della società calabrese del suo tempo ma anche la fine intelligenza delle cose che salda ogni sua analisi degli eventi (che sceglie come tema di argomentazione) alle più sottese ragioni interiori radicate nell’animo del calabrese.

La Calabria di Padula è del tutto libera da qualsivoglia sospetto di commiserazione così come da retorico compiacimento. Parla della serietà che il calabrese affida ad un sentimento tanto importante quanto destinato alla vita intera; il giovane non si innamora al primo sguardo e saggiamente imprende una “severissima inquisizione sul fatto della fanciulla” e tiene conto del comportamento della madre della fanciulla stessa poiché il detto popolare recita: “Dove salta la capra salta la capretta”. Sposa generalmente una sua vicina che le è cresciuta sotto gli occhi e della quale nessuno ha mai potuto dire una sola parola di dileggio. E pensate, cari lettori che la fanciulla che fino a questo punto abbiamo visto nel turbinio di serenate, finti rapimenti, reclusioni obbligate, sia davvero figurante insipida di questi riti? No davvero poiché ella:

« Innanzi di concedere il suo cuore vi pensa e ripensa e consulta il cielo e la terra […] e bella come Pitia nella Grecia, come Sibilla in Napoli,[…]  bella in tutti i luoghi e in tutti in tempi ha detto all’uomo- ”Io sono il frutto della scienza e della morte, mangiane ed adorami”-».

 

 

 

 

VINCENZO PADULA - " LO STATO DELLE PERSONE IN CALABRIA" Prima Parte

nov 132018

 

undefined"Amiamo la patria, e chi lo nega? Ma il nostro è amore poetico, mette radice nelle memorie dell’infanzia, negli amori della giovinezza, ha per obiettivo la natura fisica del luogo natale, i monti, le vie, gli alberi, le fontane,[…]è un istinto simile a quello che riconduce la rondine al medesimo nido […] ma non è virtù, non è amore politico, non è amore razionale che guarda il decoro, la gloria, l’immegliamento morale ed economico del paese nativo”-

 Queste affermazioni sono tratte da “Lo stato delle persone in Calabria”, prima inchiesta sul Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia. Si tratta di una raccolta di articoli apparsi prima sul “Bruzio”, periodico bisettimanale della città di Cosenza, e poi raccolti in un’unica opera. Vincenzo Padula, che del Bruzio fu direttore e redattore nel periodo 1864-1865, ne è l’autore. Di lui, personaggio di certo noto, ci piace riproporre la vita mossa da forti passioni, il suo pensiero politico, le sue opere ”dotate di valore letterario tale da farle sopravvivere al periodo in cui furono pubblicate”. Sacerdote, patriota, letterato, studioso e relatore antropologicamente e politicamente attento, profondo e arguto della realtà di Calabria, Vincenzo Padula nacque ad Acri, il 25 Marzo 1819. I Padula vi erano giunti al seguito del principe di Bisignano, del quale il nonno, era maestro di casa. Ordinato sacerdote, nel 1843, nel Seminario di San Marco Argentano, sembrava essere destinato ad una tranquilla esistenza di prete o di insegnante ma, come scrive “Sharo Gambino”,

-Rivelandosi presto d’una tempra insolita nella classe clericale del tempo, la quale ossequiava i potenti ed accettava, con spirito veramente poco rispondente alla parola di Cristo, che la loro autorità si risolvesse a danno degli umili, il Padula, coi suoi scritti, si schierò apertamente e coraggiosamente dalla parte del popolo sofferente di miseria e di ogni sorta di abusi e per questo suo atteggiamento fu perseguitato, processato, minacciato di morte ed impedito finanche di tenere lezioni private. Pur tuttavia egli non si piegò mai”.

Tempra fortissima dunque, quella del giovane sacerdote Padula, impegnato a recuperare i principi di una giustizia evangelica sistematicamente tradita nella società del tempo, nella quale gli sfruttati erano, a suo vedere, “Cristi Crocefissi”. Egli rivendica “i diritti conculcati, intima agli usurpatori del Demanio che lascino le terre usurpate”. Le conseguenze della sua aperta avversione nei confronti della borghesia terriera della zona di Acri non tardarono a farsi sentire. Dopo il fallimento dei moti risorgimentali mazziniani, incriminato di sedizione e di aggregazione a banda armata, fu aggredito da un manipolo di riottosi pagati dagli stessi latifondisti della zona. Era il 25 Settembre del 1848 e il più giovane dei suoi fratelli, Giacomino, morì di percosse dopo essere accorso in suo aiuto. Da questo evento la vita di Padula rimase segnata per sempre. Più di una volta venne inquisito e più di una volta incarcerato, costantemente ricercato dalla polizia borbonica, persino accusato di aver partecipato all’attentato alla vita di re Ferdinando di Borbone avvenuto nel 1856 . Dopo il ’60 Padula fu parte attiva del moto storico della lotta contro i baroni nuovi, i ladri di terre.

E’ un lungo periodo di straniamento, quasi una condizione di sradicamento quella che visse andando per varie località della Calabria e in altre parti d’Italia. La lealtà e la passione unitaria furono sempre estreme in Padula che nel 1861 abbandonò Napoli. Qui aveva partecipato al giornale “Il Progresso” ma lo aveva abbandonato in quanto, egli sospettava, essere coinvolto in tentativi di restaurazione murattiana.  In questo periodo della storia d’Italia, il nuovo Parlamento ebbe per più legislature Francesco De Sanctis come Ministro della Pubblica Istruzione. Fu grazie al suo interessamento che ottenne l’incarico nel Liceo di Cosenza sottraendosi così alle indigenti condizioni economiche in cui versava.

In questa città fondò “Il Bruzio”,  bisettimanale  politico la cui direzione egli ebbe negli anni 1864-65 anno in cui il giornale fu costretto a chiudere perché, ipotizza Carlo Muscetta, al Padula vennero delle serie minacce. Il giornale esprimeva le qualità artistiche e morali di Padula e si faceva portatore di più voci, di più risentite battaglie, che superavano i confini della singola posizione del nostro. I sostenitori del blocco agrario, tra i quali un certo Martire gli intentarono un processo che colpì anche un altro patriota, Guicciardi, volontario nel ’48. Lo Stato non si impegnò col Padula nella lotta contro gli usurpatori di terre e questi, vittima dell’imboscata giudiziaria, chiuse il Bruzio, ma non arretrò, come qualcuno ebbe modo di sospettare, sulle sue posizioni.

Nel 1866 tornò a Napoli e da qui all’Università di Parma dove dal 1878 insegnò Lettere Latine nelle quali eccelleva. Malato, trascorse gli ultimi anni della sua vita ad Acri dove si spense l’8 Gennaio del 1893. Battagliero anche in materia ecclesiastica, non nascondeva a nessuno, anzi lo sottolineava nei suoi scritti, che il rinnovamento e la modernizzazione della vita sociale e civile dell’Italia dovesse necessariamente passare dalla riforma della Chiesa Cattolica. La gerarchia ecclesiastica, a suo parere, si sarebbe dovuta affrancare dall’autorità eccessiva che il Vaticano esercitava sui vescovi  la cui elezione sarebbe dovuta toccare al popolo.

 

 

"Lo Stato delle persone in Calabria”: Il CORTEGGIAMENTOundefined

 

 

«O rosa vermiglia, io fui il primo ad amarti, […] un’ora che non ti veggo mi pare un anno; un anno a stare con te, mi parrebbe un sol giorno».

Nella sua opera più conosciuta, “Lo stato delle persone in Calabria”, Padula compie un’operazione di notevole peso culturale, sia che la si consideri da un punto di vista antropologico, sia che le si affidi il ruolo, globalmente riconosciuto, di inchiesta sul Mezzogiorno d’Italia.

In questa poderosa opera, un capitolo è dedicato alla “donna” e dunque all’amore e alle usanze assai nutrite dell’animo calabrese che accompagnano le fasi del corteggiamento. I nostri lettori si troveranno di fronte a pagine antologiche che hanno verità di storia e che ci riportano ad un mondo scomparso di cui fedelmente Padula offre la misura dei sentimenti che lo sorreggono e nello stesso tempo testimoniano la profonda cultura letteraria del nostro autore.

Nel capitolo di cui s’è detto, la prima parte è dedicata all’infanzia dei maschi e delle donne che fino ai sette anni vivono-

- « confusi, comune il salto, la lotta, il gioco e il maestro […] -sii mio compare-, dice la ragazza al ragazzo[…]ed entrambi vestono a guisa di bambino un fascio di puleggio e lo battezzano o nel giorno di San Giovanni si mandano un regalo di fiori»-

Padula sa che quanto riporta ha uno straordinario valore umano e sentimentale e definisce tali costumi metafore e poesia e alla maniera di Leopardi distingue un’età primitiva, ingenua, non corrotta, non ancora divenuta prosa.

Più avanti il suo sguardo si posa sui modi dell’adolescenza e della giovinezza e di uno sguardo divertito si tratta se egli afferma:

«Attente o madri! Fratelli, caricate gli schioppi. Potrò io descrivere l’amore di Calabria? I ruggiti dei leoni, i combattimenti dei tauri quando vanno in caldo sono immagini troppo sbiadite delle tempeste che scoppiano nel petto irsuto dei giovani calabresi».

 Padula non tace della diffidenza che i genitori e i fratelli della giovane che viene  richiesta nutrono nei confronti del focoso pretendente. A lui non resta che aspettare pazientemente di vedere l’amante solo pochissime volte e senza alcun contatto. E’ una forma d’amore rusticano alla maniera provenzale ma qui la corte è fatta da contadini e non c’è filtro di letteratura; qui è tutto reale, tutto concretamente vissuto e sofferto e ci sorprendono, condizionati come siamo dalla comunicazione d’amore via internet, le parole delle serenate che il giovane contadino calabrese canta sotto le finestre della sua bella:

«Le tue bellezze sono tre montagne d’oro e le tue braccia due candelabri d’argento. Vorrei morire schiacciato sotto quelle tre montagne, vorrei essere la candela di quei candelabri e consumarmi».

Più soavi, meno sacrificali le note d’amore che ripensano atmosfere d’Arcadia:

«Io per te stendo il passo, per te lo ritiro, per te cammino di notte […] Oh belle fanciulle che filate al sole, ov’è la vostra compagna?--“Ella dimora, o giovane brunetto, sotto quella parte di cielo dove non è nube”- Come campo pieno di pecore nere il cielo era pieno di nuvole nere, un solo punto vi era azzurro e sereno come la tua pupilla quando guarda la mia».

Sanguigno e carico di umore di vendetta contro un rivale semplicemente immaginato nella furia d’amore non corrisposto è il seguente passaggio di una serenata di tutt’altro tono:

«Tu sei un garofalo ed il mio sangue servirà ad innaffiarti. Altri ti ama, altri canta sotto le tue finestre. Dovrò patirlo? O uccido o sarò ucciso. La cosa più dolce è morire scannato innanzi alla porta dell’ amante […] Oh mia fanciulla, a mezzanotte tu sentirai grida e bestemmie e voci di gente che diranno - Buoni cristiani, aprite le finestre e sporgete le lucerne che qui è un uomo ferito- e all’alba tu vedrai il sangue sulla strada […]».

L’energia e la focosità del contadino calabrese sono pronte a qualsiasi vittoria come a qualsivoglia disfatta. Se sarà rifiutato, dopo tanto cantare e insisterà nel corteggiamento, prima lo si metterà amichevolmente sull’avviso, poi gli si fracasserà la chitarra e infine, se continuerà a fare lo “spasimato”, sarà un “lampo di siepe”a farlo smettere per sempre dove per lampo di siepe si intende “ un bel colpo di moschetto che un uomo appiattito dietro una siepe, manda ad altri nel petto”. Ci sarà una conclusione a questo ondivago muoversi di parole e di gesti ora con accenti e toni adoranti ora con foghe di sangue? Il gioco d’amore in fondo è questo, ha in sé ogni costanza di attesa quanto ogni possibilità   di conclusione.

 

 

 

LUANA FABIANO "L'autunno negli occhi"

ago 252018

 […] È così sporco il mondo:undefined

ha lenzuola annerite

che hanno perso l’amore

cenci stanchi di spolverare

di asciugare il dolore.[…]

 

[…] Hanno occhi accecati

i figli della guerra

da un sole che cola

sulla città sbriciolata […]

 

Il Poeta sa che forze  disgregatrici agiscono da sempre all’interno della storia umana avverte  la distopia di un mondo votato alla perdita di ogni orizzonte di senso.  Di fronte ad una vera e propria crisi dell’interiorità,  di fronte  a valori che ancor prima di trasmutarsi  si inabissano nel nulla, egli cerca una direzione sicura verso un fine di  salvezza e di integrità.

                                                                                   ***

 

 […] Fiuto le sottrazioni

le sento ancora tutte addosso

prepotenti.

Eppure, scavando

al fondo dei desideri

ho trovato due aquiloni

ripiegati nelle scarpe.

Ho sperato così

di ricongiungere i nostri fili […]

 

 Il Poeta impiega la vita a lasciar dire le cose per non lasciarle, invece, al caso o alla dimenticanza. Scopre che la poesia, indissolubilmente legata alla sua etimologia greca, è “fare”. Allora costruisce versi attraverso i quali impara qualcosa in più di sé e qualcosa in più della materia di cui è fatto il mondo.

                                                                          ***

 

[…] A nuove stelle parla un bambino

più luminose stanno a vegliare

si fa carezza una conchiglia

e di una madre

la voce immensa del mare[…]

 

Il Poeta insegue  il suono, l’onda musicale che si muove nella parola, il ritmo che fa essere la parola  qualcosa di impalpabile leggerezza, di ineffabile candore, nata per rinnovarsi e nello stesso tempo per ripetersi.

                                             

                                                                              ***

 

 […] Pesano i giorni:

chiusi a fatica come valigie

portano via saluti sbiaditi.

Il pianto è riserva:

in fondo ai ricordi scava buchi di luce[…]

 

Il Poeta è consapevole che per scrivere poesia,  bisogna sapere ascoltare sé, in un esercizio lungo e faticoso. Perché  Poesia è sempre qualcosa che succede al fondo della propria coscienza, è significazione, stilnovisticamente parlando, di quel modo ch’ei ditta dentro. Qualcosa che della nostra anima ignoriamo e che viene alla luce in un’epifania di ri-conoscimento.

                                                              

                                                                       ***

[…] L’hanno setacciata la bellezza

Privandola [i] delle sue mille forme:

i  semi imperfetti

le  margherite curve

per  l’alito di un vento funesto […]

 

Il Poeta sa che i contemporanei, quasi malati di una forma di sottoproletariato dello spirito, hanno privato la natura della sua più intima connotazione divina. Liberi ma diseredati nell’anima, la guardano con occhi lontani. Solo il poeta le restituisce dignità di bene essenziale.

                                                                                ***

Non era triste l’autunno in quegli anni:

a nascondino tra filari di viti […]

Una merenda di acini e vento,

si faceva di conto al melograno del nonno

in minuscoli specchi di semi succosi.[…]

Le mani colavano

come allegri acquerelli.

Dentro, ogni tanto,

fluttuava una foglia  […]

 

Il Poeta sa che la memoria riannoda i fili del passato perché ne sia custodita la bellezza, perché l’armonia che ne governava gli atti, riecheggi, pura e consolatrice oltre ogni nostro respirare.

                                                                      ***

 

 

 

 

 

 

[i]L’autrice

Luana Fabiano nasce a Catanzaro nel 1978 e vive a Squillace (Cz). Docente di madrelingua presso licei francesi della cittadina di Beauvais, si laurea, nel 2003, in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università della Calabria e, nel biennio 2003-2005, consegue la specializzazione all’insegnamento secondario. Dal 2005, insegna lingua e civiltà francese nella scuola secondaria di secondo grado. Attenta e sensibile studiosa di letteratura e di teatro, esordisce nel 2013 con la sua opera prima, la silloge: ‘I covoni della speranza’ (Lepisma Edizioni, Roma) con la prefazione di Dante Maffia e la postfazione di Anna Stella Scerbo. La silloge è risultata finalista al Premio Internazionale di Poesia, Prosa e Arti Figurative ‘Il Convivio 2013’. Nel 2014 pubblica la sua seconda fatica poetica, ‘Respiri violati’ (Puntoacapo Editrice, Alessandria) con prefazione del poeta Antonio Spagnuolo, che ha conquistato la giuria di alcuni premi nazionali di poesia quali ‘Memorial Melania Rea 2014’; ‘Giovanni Pascoli – L’Ora di Barga 2014’; ‘Leandro Polverini 2014’; ‘Astrolabio 2014’.

 

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