Il Blog di Anna Stella Scerbo

Uomini e donne del Mezzogiorno: mito, letteratura, storia

GIUSEPPE BERTO- La Calabria, luogo dell'anima

apr 072019

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<< Gira le alture del Mantinèo   pacifico sentiero/dimenticato alle forche della solitudine/diserta verso il faro e d’improvviso spegne il suo viaggio/ sopra i domini delle agavi e gli intensi blu/ed ecco spalancarsi la scogliera. Alle trasparenti venature s’àncora la casa/rifugio di pietra costruito coi tributi del sogno/. Qui al sonno dei responsi venne Berto/a stendere i tessuti/ad asciugare gli inchiostri e le nuvole del cuore/.Vedo ancora quella figura di eroe decaduto/pupille lanciate più oltre le tende del crepuscolo/mentre va vuotando la sua bottiglia di nostalgia/.Vento del mare che vai empiendo l’aria di sonagli/ferma qui le tue rime/sui profili dello Stromboli e dell’ondulata Lipari/ e col melodico strumento/dolcifica l’ombra che saccheggiò la sua vita/o se ti imbarchi di primo mattino/portalo nelle lodi della tua bocca/. E tu inquieto  e temibile mare/figlio dei gorghi di Scilla e di Cariddi/sciogli le rotolanti spume e rinfrescalo/con le spugne dei tuoi salti blu/. Ora che il giorno s’assottiglia/naufragando all’ultimo confine/un bagliore si spande e addolcisce la sera/ sia lampo di sole o lume di candela//>>.

Il testo è di Francesco Longo, poeta lametino.  Ebbe la fortuna di divenire amico di  Giuseppe Berto, di accoglierne  il sentimento doloroso dell’esistenza che abitava la sua anima e che Berto aveva affidato ad uno dei romanzi più noti del novecento, il Male Oscuro.

 Parliamo della profondità misteriosa del nostro essere, delle pieghe più nascoste della nostra anima, di quanto sia preziosa e inafferrabile la nostra essenza di creature esposte al malinteso, alla tristezza, al dolore come, seppure più raramente, alla gioia.                                                                 ***

<< […] Quella notte, dunque […] decisi che per nessuna ragione al mondo avrei sciupato l’occasione di conoscere quello scrittore la cui venuta in Calabria era tutta circondata di mistero>>

Così, ancora Longo in un racconto sul suo incontro con lo scrittore. Giuseppe Berto era Trevigiano. La morte di Berto avvenne tra l’indifferenza generale e lui che aveva dichiaratamente scritto di considerarsi il più grande scrittore dopo Gadda, cadde in un oblio che avvolge ancora la sua figura e la sua opera. Il 1914 è l’anno della sua nascita, a Mogliano Veneto, provincia di Treviso. Il rapporto col padre, assai tormentato, avrebbe condizionato il suo futuro di uomo e di letterato. Dopo la Laurea, si arruola nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Combatte in Africa e dopo il disastro di El Alamein, nel VI Battaglione Camicie Nere, partecipa alla ritirata dalla Cirenaica alla Tunisia. Viene fatto prigioniero, dopo aver inutilmente tentato di sfuggire agli inglesi sopportando terribili condizioni di vita che accentuavano la naturale malinconia del suo carattere e minavano le sue certezze, fino ad allora granitiche, nel Duce, nella magnificenza della Nazione e nella grandezza del Regime fascista. In Texas, a Hereford, trascorse tre anni durante i quali conobbe la letteratura americana e scrisse “La perduta gente” pubblicato in Italia da Longanesi (dopo il suo ritorno dall’America) col titolo “Il cielo è rosso”. E’ subito successo, grande e internazionale.

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<< Sotto le spente e immobili lanterne dormiva ancora il guardiano del faro, dopo la ronda notturna sul mare, mentre il sole ormai alto sfoggiava tutto il suo fulgore, costruendo lo spettacolo mattutino. Allora, procedendo verso il muretto che chiudeva il piccolo podere, mi affaccio a quel confine, di là dal quale colui che cercavo e che si era volontariamente allontanato dalla riva degli uomini, mi veniva incontro come per antica confidenza; avanzando da quella solitudine a passi lenti come se misurasse la distanza, e, quando mi fu avanti, accogliendo il mio saluto con un assenso del capo, la mia emozione fu così grande che il cuore non trovò appiglio dove ancorare i suoi battiti>>

Sonoi minuti, emozionanti, che accompagnano l’incontro tra Longo e Berto. Nel periodo tra la prigionia in America e questo incontro, lo scrittore aveva pubblicato “Il Brigante” nel 1951. Si era sposato e aveva avuto una figlia nel 1954. Nel 1955, con la pubblicazione di “Guerra in camicia nera”, Berto era approdato ad uno psicologismo umoristico che scardinava i topoi del precedente neorealismo. Ma, soprattutto, si era ammalato di una grave forma di nevrosi per la quale necessitò di lunghi periodi di cure psicanalitiche. La tormentata condizione dell’uomo che cerca gli appigli per non farsi inghiottire definitivamente dal buco nero della depressione e della perdita degli orizzonti di vita trovò il suo sfogo e il suo racconto ne “Il male oscuro”, vero caso letterario e premio Viareggio e Campiello nel 1964. Berto sentiva che il male di vivere che lo tormentava avrebbe potuto trovare sosta e quiete in una terra di sole e di mare, di lontana e limpida innocenza. Così, acquistò un terreno a Capo Vaticano, sulla costa tirrenica calabrese e vi costruì il suo rifugio. Qui, andò a cercarlo Francesco Longo.

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<<Capo Vaticano a quel tempo non era sotto gli occhi della pubblicità e le poche conoscenze che si avevano, non erano legate all’incanto del suo paesaggio, né si era aperto al turismo di cui non si avvertiva necessità e il viandante che allungò il suo viaggio fino a quel luogo lo trovò brullo, non meno che selvaggio, dimenticato da ogni respiro umano: soltanto la solitudine vi galoppava e il canto del mare che consolava la pazienza dei pochi contadini e pescatori […]>>

 Dunque, Giuseppe Berto, a un certo punto della sua vita, aveva capito che era giunto il momento di fermarsi. Girò, “palmo a palmo tutte le coste dell’Italia Meridionale” e infine trovò il suo Genius Loci, come lo aveva immaginato, “violento e armonioso e non ancora toccato dagli uomini”. Due ettari di terreno incolto. Sotto, la roccia, a strapiombo sul mare. Glielo aveva venduto, per la cifra modesta di 300 mila lire, un certo Nicola La Sorba. Fu un buon affare. Berto non era ricco. Fece un prestito alla Cassa degli Scrittori, prestito che restituì in sei rate. Il 19 gennaio del 1957, firmò il rogito. Il regista Vittorio Sabel, anche lui innamorato del Sud e amico di Berto, sentì la fascinazione di quei luoghi e comprò un terreno confinante con quello di Berto. Fu Sabel che costruì per primo, una casa parallelepipedo bianco, due stanze e un bagno, pronta nel ’58 e che ospitò per qualche anno i Berto. Qui ebbe vita “Il male oscuro”. Berto e Sabel, durante la costruzione della casa, dormivano su una tavola di legno e preparavano a turno i pasti.

 Questo raccontava Angelo Grande, uomo di fiducia di Berto e Ignazio Polimeni, un contadino del posto, gli portava l’acqua a dorso di mulo e Mastro Antonio Lotorto, muratore di buona esperienza, riconoscibile, come altri personaggi del luogo, in alcuni scritti di Berto, lo aiutò nella costruzione di un piccolo locale, in aggiunta alla casa, per la figlia Antonia.

La costa di Ricadi e di Santa Maria non conosceva l’ombra di un turista né di bagnanti locali. Il mare, di una bellezza incomparabile aveva l’unico ruolo di refrigerare gli animali dei contadini e di ripulirli dai parassiti. Berto scrisse di questo in un articolo su “Le Ore” del 27 Agosto 1964 dal titolo eloquente: “ Un fiammante lungomare dove tutta la gioventù celebra la sua libera estate”. Il tono non era clemente e la Calabria ne usciva in tutta la sua misura di arretratezza. Giornali e   intellettuali locali ne ebbero risentimento e per un po’ si accesero risentite polemiche.

Ma di fatto Berto amava quel tratto di costa incontaminato e girava con una Renault 4 per i dintorni e se all’inizio trovava “sgradevole la miseria dei paesi”, se gli ci vollero anni per appropriarsi della poesia di “queste piante aspre e contorte del Sud anche esse quasi annullantesi nel paesaggio”, siamo convinti che a Berto fu proprio quell’angolo nascosto e ancora immune dal chiasso irrispettoso dei visitatori a dettargli l’ispirata necessità di scrivere il suo capolavoro, “Il male oscuro” nel quale, attraverso la dissoluzione delle strutture narrative tradizionali, lo scrittore ripercorreva le strade del proprio malessere, dell’indissolubile legame della propria interiorità col dolore fondo dell’esistenza. Mario Monicelli, nel 1989 ne ricavò un film dalla sceneggiatura affascinante  e con un’intensa  interpretazione di Giancarlo Giannini.

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<< Era un uomo di alta statura, bello d’aspetto, dall’aria orgogliosa e con un’espressione di sofferenza in volto[…] gli occhi amplificati e dolenti per il passaggio di qualche antica pena, e in quell’ampiezza dilatata si poteva leggere tutta la solitudine di un uomo. Mentre procediamo, rompendo quell’aria pacifica,[…] improvvisamente quel senso di avventura che mi aveva accompagnato lungo il viaggio mi abbandona lasciandomi coi miei dubbi, in compagnia di quell’uomo a cui, forse avevo rotto il disegno del giorno, e al quale, fra poco, avrei dovuto confessare tutte le ragioni della mia venuta […] >>

 << Era qui dunque che viveva, annidato come un’ape nel cuore della rosa ed era un luogo ideale per uno che volesse coltivare la solitudine e nutrire ambizioni di eternità; e certamente era l’origine delle emozioni dello scrittore da quando alle pareti romane, aveva appeso le sue tempeste interiori >>

 Profondamente precise, queste annotazioni, pure se istintivamente ricavate da un primo emozionato incontro. A Francesco Longo non sfuggì, neanche per un attimo, la solennità di quell’incontro, l’empatico riconoscersi in “quella voce calma e solenne”, pur se rimanevano nascoste, al fondo di quell’animo sofferente di antico male, le “ragioni dell’esilio”. E come esiliato Berto viveva in quei luoghi dove era conosciuto come “il professore”. Frequentava solamente  l’osteria di Donna Sabella, forse per le profumate frittate di cipolla che erano la specialità dell’ostessa; andava all’Ufficio Postale e le telefonate le riceveva e le faceva dal luogo pubblico. Lo scrittore, seppure saturnino e poco incline alla confidente familiarità della gente del Sud, ebbe cordiali rapporti con quei paesani umili e affettuosi, il droghiere Michele Laversa, Angelo Grande che si occupò delle pratiche di burocrazia perché la residenza di Berto fosse spostata a Ricadi. Conobbe e frequentò il dottore Mario Rombolà di Brattirò che si prese cura della sua anima in perpetuo dolore. Nel ’58, Berto aveva fatto ricorso alla psicoanalisi. Il professore Nicola Perrotti lo prese in cura salvandolo, come ebbe ad affermare “da un brutto destino”. Berto, da parte sua cominciò ad avvertire che i rapporti tra letteratura e psicanalisi riguardavano lui come avevano riguardato Italo Svevo e l’identificazione con lo scrittore triestino andò avanti per più tempo.                                                                   

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Potremmo addentrarci nella vita e nelle opere di Giuseppe Berto ancora a lungo tanto lo scrittore presenta aspetti di grande interesse. Potremmo parlare della sua tormentata relazione col cinema, delle  delusioni che gli venivano proprio da quegli stessi ambienti letterari e intellettuali che sembravano non voler riconoscere la sua grandezza, del conflitto tutto letterario con Alberto Moravia, del successo che gli diede fama internazionale. Torniamo, invece, a San Nicolò di Ricadi, patria dell’esilio e del cuore, dove venne celebrato il funerale religioso e dove un semplice, francescano cippo ricorda il suo nome e la data della sua morte. Era il primo di Novembre del 1978. Nell’ultima intervista televisiva, registrata a Capo Vaticano aveva avuto   parole di cristiana ispirazione e alla morte, da “ateo-non” quale si definiva, sembrava non avesse mai pensato.

 

 

 

 

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