Brigantaggio al femminile: le donne briganti del Meridione pre e post unitario - seconda parte
gen 212020Il brigante Bizzarro, seminava il terrore nelle Calabrie, trucidava senza pietà intere famiglie. Toccò anche a quella di Margherita, “donna del Brigante”, “brigantessa” per amore prima, per convinzione, dopo. Nei confronti del brigante, assoluta dedizione al punto da divenire più audace e più temibile di lui. Catturata, resistette a lungo ad una prigionia che non presentava certo minori disagi rispetto a quelli della latitanza. Bizzarro, sicuramente irresistibile con le donne briganti, ebbe però un destino atroce.
Dopo Margherita, si innamorò di Niccolina Licciardi e condivise con lei molte imprese brigantesche. Ne ebbe un figlio. Il neonato con il suo continuo piangere costituiva un pericolo per i due, braccati dai piemontesi. Fu così che Bizzarro uccise il piccolo scaraventandolo contro la parete di una grotta.
Niccolina non pianse, seppellì il piccolo e rimase a lungo a guardia della sua tomba. Poi, di notte, mentre Bizzarro dormiva, gli fece saltare le cervella con un colpo di fucile. Lo decapitò e si presentò con la testa del bandito avvolta in un panno presso il governatore di Catanzaro. Incassò la taglia e di lei si perse ogni traccia.
Sono storie di straordinaria ferocia e sebbene si siano certamente depositate, sui dati raccolti da cronisti dell’epoca, anche parti di leggenda, tuttavia ci sentiamo di affermare che il prodotto “del nero lago del cuore” di cui parlava Carlo Levi, a proposito del brigantaggio, fu ancora più orrifico se riferito alle donne. Queste, perduta ormai ogni possibilità di considerarsi parte del contesto sociale, denigrate e sconfessate dalle famiglie, private di ogni femminile grazia, riversavano con spietata lucidità odio e orrore sui propri nemici. I profili delle donne briganti sono stati tardivamente considerati dagli storici e quasi sempre circondati da un alone mitico.
La considerazione degli atti dei processi, ha riportato, nella storiografia de brigantaggio femminile, la necessaria oggettività e l’organicità della narrazione ma ha fornito dei racconti fortemente condizionati dalla visione storica che nel momento della compilazione dei trattati si avevano del brigantaggio e in particolare di quello femminile.
Ne è un caso, un testo di Jacopo Gelli del 1931 che risente fortemente della visione che del fenomeno si aveva nei primi decenni del novecento: le brigantesse erano volgarissime delinquenti asservite alla malavita di macchia.
Nei primi anni settanta, ne fa fede un testo di Franca Maria Trapani, le donne briganti vengono considerate una cellula pensante, perfettamente autonoma, rispetto alla controparte maschile. Quasi un’avanguardia della ribellione allo strapotere atavico che nel Mezzogiorno d’Italia imponeva alle donne sottomissione e asservimento. Tesi, quest’ultima, convalidata dagli ultimi studi che attraverso il più severo recupero degli atti processuali e delle cronache del tempo, hanno fatto chiarezza sulle componenti sociali ed economiche che hanno contribuito a costruire la figura della donna brigante con ogni possibile implicazione di violenza e di ferocia.
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Filomena Pennacchio fu certamente una delle più note tra le brigantesse. In Irpinia, nella provincia borbonica del Principato Ultra, dove era nata in una famiglia poverissima, faceva la sguattera presso i notabili del luogo. Incontrò Giuseppe Schiavone, capobanda lucano e lo seguì nelle sue imprese criminose. Nella banda era lei a comandare e a decidere ogni mossa e niente doveva spaventarla se prese parte attiva all’ eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di fanteria a Sferracavallo nel 1863. Contraddittorio il racconto della sua generosità mostrata in più occasioni e proprio nei confronti di alcune vittime della banda dello stesso Schiavone. Ugualmente note le sue avventure amorose. Oltre che di Schiavone fu la donna di Carmine Crocco, capo indiscusso di tutte le bande lucane, di Nico Nanco e Donato Tortora luogotenenti dello stesso Crocco. Alle brigantesse non facevano difetto i sentimenti d’amore manifestati a volte con modi teneri e delicati.
Maria Suriani ricamava i suoi messaggi d’amore sui fazzoletti che mandava al Capitano Cannone; di un’altra non bene identificata si conserva una tovaglietta con l’immagine ricamata dell’amante.
Né l’istinto materno veniva soffocato e spesso capitava che, dopo la cattura, sotto i panni maschili si nascondesse una donna brigante in stato di gravidanza. La stessa Filomena Pennacchio aspettava un figlio da Schiavone quando questi venne arrestato in seguito al tradimento di Rosa Giuliani alla quale la più avvenente Filomena aveva sottratto il suo uomo, proprio lo Schiavone. La Pennacchio mostrò una buona dose di istinto di conservazione. Tradì più volte i suoi compagni di banda per ottenere sconti di pena. Fece arrestare altre due brigantesse, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Dei venti anni di carcere ai quali era stata condannata, ne scontò solo sette. Tornata in libertà, nessuno seppe più niente di lei.
Lucana di Ruvo del Monte fu Maria Giovanna Tito. Poverissima, divenne, dopo l’agosto del 1861, manutengola della banda di Carmine Donatelli Crocco. Questi, aveva espugnato la cittadina di Ruvo, vincendo la resistenza dei suoi abitanti. Maria Giovanna divenne l’amante del Crocco e quando questi le preferì un’altra donna entrò per volere dello stesso Crocco, nella banda di Agostino Sacchetiello che contava 162 uomini e 60 cavalli. La brigantessa si comportò da vera sanguinaria tanto da meritare l’appellativo di “iena”. Filomena Pennacchio di cui abbiamo già scritto, la tradì e lei fu arrestata a Bisaccia il 29 novembre del 1864 in casa del prete Gemiano Rago, dove aveva trovato rifugio, insieme ad altri compagni di avventura. Processata dal Tribunale Militare di Guerra di Avellino, fu condannata a 15 anni di lavori forzati. Era il 30 Giugno del 1865. Nell’Aprile del 1868 le fu ridotta la pena a sette anni. Diversa la storia di Luisa Cannalonga che nutriva un odio profondo contro Garibaldi, odio che provvide a trasmettere ai due figli, Rosario e Gaetano Tranchella. Nel 1862 le fu imposto dalla Prefettura di Salerno, il domicilio coatto, perché sospettata di collaborare con bande di briganti. Il figlio più grande, Gaetano le fu ucciso e visto che era tornata libera, cercò la donna del figlio e il nipotino e insieme tornarono ad una vita normale.
Qui concludiamo il nostro racconto sulle donne briganti che non meno dei loro uomini o dei loro capi, scrissero un capitolo cruento ma di sicuro significativo nella storia del Mezzogiorno d’Italia.