Il blog di Elio Ria

Spighe di poesia

Guardare in faccia tutti i destini come un dio

feb 182020

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Ho rinnegato tutti gli dèi dinanzi a una scrivania da
mettere in ordine,
Ho guardato in faccia tutti i destini per il divertimento
di sentir gridare,
E la mia stanchezza è un vecchio relitto che marcisce sulla
spiaggia deserta,
E come quest’immagine di un qualsiasi altro poeta chiudo
la scrivania e la poesia.

Come un dio, non ho messo in ordine né la verità né la vita.

(F. Pessoa, da Quasi)

Pessoa (Lisbona, 1888-1935) di sé scrive: «Non ho ambizioni né desideri./ Essere poeta non è un’ambizione mia./ È la mia ambizione di essere solo». In questi tre versi riassume il suo modo d’essere poeta, in cui la solitudine non è un ‘altro se stesso’ bensì un frammento di sé con propria autonomia letteraria creatrice. Ecco, il poeta Pessoa. Colui che ha indagato se stesso nella solitudine e la solitudine fuori di se stesso. In questa poesia il suo corpo è fuori dalla poesia come un dio: nel vuoto le sillabe cadono, non si possono riordinare, si rifondano nell’oscillazione del senso del destino che nelle sue impossibili derivazioni imprime un transito fuori dalla portata dell’uomo. Il poeta vede, ma non può far nulla. Guarda in faccia tutti i destini per il divertimento di sentir gridare per comprendere, come se dalla voce di esso fosse possibile cogliere, in chiaroscuro, un aggancio allo sguardo. I versi hanno un suono flebile di voce di destino, che vuole e non vuole svelarsi in un’esistenza vera, verosimile, veritiera. Il poeta cerca il sentiero (destino) in forma di sostanza linguistica e ne determina il suo divenire nella parola poetica, giunta lì per caso. Solo la parola (poetica) può connettersi con lo spettro delle cromie al buio celato dalla luce-destino. Ma, il poeta, non può mettere ordine al disordine come può fare un dio, deve lasciare le cose così come si presentano e si coniugano con la vita degli uomini. Egli può raccontare qualcosa della storia, ma non tutto. Il suo dio è come un dio. Un dio impassibile ai suoi stessi sentimenti, inflessibile nel suo ordine, dannatamente (beatamente?) dio per sé e per gli altri, che non sa di essere dio. Sì, il dio del poeta, che a sua immagine subentra nella scrittura del poeta e lo sconvolge in ritmi, metri e spazi di infinita solitudine, dandogli da bere la sabbia rovente del deserto e il pane della potenza (pane dei demoni), per distruggere parole e coniarne altre. Dio che si concede un momento di svago e di libertà nella poetica di un poeta prediletto, ma al contempo, maledetto di inquietudine e di suicidio, di forza ineguagliabile, di occhi che sono paesaggi infiniti di illusioni e di speranze. Pessoa ha ricevuto nelle sue carni questo dio, che gli ha riversato nel sangue l’oppio del destino, ma ha ceduto la sua poesia per non mettere in ordine né la verità né la vita, perché così è scritto, e perché così deve essere. Il poeta non ha l’ambizione di essere poeta, è – invece - dio che ambisce alla corona di alloro della poesia per mezzo del poeta. Il poeta sacrifica nelle vene la sua stessa vita per darne un’altra, allontanandosi dalla gente in silenzio e senza gloria, lasciando i suoi versi agli ‘altri’, a ‘nessuno’, a ‘qualcuno’. È la sorte del poeta che vive in ‘disparte’, poiché nella moltitudine sarebbe incompreso e dilapidato,  e di cui – qualche volta – si prende cura questo dio per il proprio soddisfacimento e sollazzo.

 

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