Il blog di Elio Ria

Spighe di poesia

1. In principio, un ‘sale petit cagot’

mar 032020

Ernest Delahaye, il migliore amico d’infanzia e compagno di scuola di Arthur Rimbaud, racconta che Rimbaud a dodici anni era di ardente fede, di devozione esaltata fino al martirio se fosse stato necessario. Un giorno nel vedere i più grandi del collegio che giocavano a gettarsi addosso l’acqua santa, intervenne con decisione per reprimere il sacrilegio, aggrappandosi agli abiti dei profanatori. Da allora i suoi compagni lo definirono sale petit cagot (piccolo sporco bigotto), ed egli accettò con orgoglio (fierté) l’infamante epiteto. 

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Arthur riceve dalla madre Vitalie Cuif un’educazione rigida e strettamente religiosa, che apparentemente accetta e vive. E proprio questa fierté che dà l’impulso all’avventura poetica di Rimbaud e, in particolare, del suo comportamento nei confronti della religione. Mira sempre in alto. È affascinato dalle sombres choses (cose oscure).
Vitalie Cuif si separò dal marito nel 1860 quando Rimbaud aveva sei anni. Indubbiamente la responsabilità della conduzione familiare la portò ad essere rigida e intransigente con i figli. Non credette mai alla vocazione poetica di Arthur. D’altronde, come avrebbe potuto crederci, impastata com’era di regole? Trovò conforto per tutta la sua esistenza nella religione: ad essa si abbandonò. Intravedeva nel piccolo Arthur la genialità della diversità, che lo portava ad essere scapigliato, anarchico, indipendente, sporco, assorto dentro la sua personale storia di bambino che non vuole conoscere la giovinezza e gli svaghi che da essa derivano. Tuttavia, solo Arthur è deluso dall’atteggiamento materno: né i fratelli né le sorelle ebbero lagnanze nei confronti della madre.
Rimbaud era un ragazzo bello, con i suoi occhi blu-azzurri, chiari come la luce della luna nelle notti d’estate. Il viso ovale, da «angelo in esilio» come lo definiva Verlaine – lo rendeva più attraente e affascinante. Era il cherubino della madre.

Rimbaud non ebbe nessuna simpatia per Charleville, dove nacque il 20 ottobre del 1854. La detesto con forza. In À la musique ironizza sugli asmatici borghesi che strangolati dal caldo portano imbecillità invidiose. Charleville è come una droga dei cui effetti e sensazioni di disgusto Rimbaud si serve per suscitare altre immagini: la pioggia è un «distillato di lacrime», le tenebre «bave sugli alberi», le viole «inzuccherati sputi delle nere Farfalle», Venere «ebete e lenta».
Le poesie hanno in comune il tono blasfemo, sarcastico, distruttore, che con i neologismi e termini gergali dissonanti sostanziano il nuovo idioma di Rimbaud.

La ribellione di Rimbaud si manifesta contro la mediocrità borghese e contro il clericalismo soffocante delle buie sacrestie. In Les pouvres à l’église (1871) mette in rilievo il ruolo di ‘ornamento dei poveri in chiesa’: essi sono necessari, e la loro condizione non deve mai mutare durante la loro esistenza. Tra l’altro, il Gesù ingiallito da una morte che non è più quella candida e vitale della crocefissione, smaschera l’ipocrisia dei cristiani. Cristo morto non è più risorto e per Rimbaud è ladro di energie. Il poeta decide di forzare l’assurdo non per mezzo della fede, ma tramite la tecnica poetica. Meno fortunato di Kierkegaard, Rimbaud non ebbe la sorte di cadere nella ‘gioia della rinuncia’. La sua sorte è terribile in quanto non sa di aver perduto tutto; mentre Kierkegaard lo sa.

Il disgusto della religione si manifesta in particolare in Un coeur sous une soutane, un testo brutalmente anticlericale, scritto probabilmente in collegio nel 1870, che non fu pubblicato subito perché ritenuto offensivo per i suoi toni crudi e sarcastici.
Un cuore sotto la sottana si presenta come una pesante satira della religione, in particolare nella forma insegnata nei seminari dell’800. Il protagonista è il giovane seminarista Léonard (poco incline alle pratiche igieniche) che si innamora della giovane Timotina Labinette appartenente ad una famiglia borghese. Léonard è preso dell’avvenenza della giovane e annota sul suo diario: «Beh, ieri non ho più resistito: ho disteso le mie ali come l’’arcangelo Gabriele, le ali del mio cuore. Il soffio dello spirito santo mi ha percorso tutto l’essere! Ho preso la mia lira e ho cantato: Avvicinatevi, / O grande Maria! /O Madre Adorata! / Del dolce Gesù! / Sanctus Christu! / O Vergine incinta, / o madre santa, / abbi pietà di noi.
L’intento demolitorio dei dogmi è evidente: Rimbaud rivolgendosi alla Madonna declama ‘O Vergine incinta’, un sacrilegio – se vogliamo – stante il dogma dell’Immacolata Concezione. Ancora, a Cristo dà l’appellativo di Sanctus, ma ‘santo’ è colui che sull'esempio di Gesù Cristo, animato dall'amore, vive e muore in grazia di Dio, quindi si potrebbe intendere l’attribuzione a Cristo di ‘Sanctus’ come inopportuna; forse Rimbaud intendeva dare una forma divina diversa a Gesù Cristo, fuori dagli schemi canonici della Chiesa e della borghesia. Il cristianesimo per Rimbaud aveva la responsabilità di aver generato il tipo da lui più disprezzato: il piccolo borghese. Tuttavia, per quanto concerne il testo Un cuore sotto la sottana, non si può limitare l’attenzione al solo aspetto anticlericale. Infatti, un’attenta lettura della novella permette al contempo di capire che il disprezzo della religione va ben al di là della semplice contestazione dell’ipocrisia imperante nella piccola e media borghesia. Léonard disvela l’immagine realistica, mostruosa e insopportabile impostagli dalla sua cultura. Il critico letterario Richter scrive: «La puzza dei piedi di Léonard e del sesso di Timotina sta candidamente insieme con lo Spirito Santo, perché il povero seminarista si esprime nei termini più realistici e più sinceri a lui consentiti. L’eccitazione sessuale dei suoi diciott’anni fa tutt’uno con la sua educazione religiosa, si esprime nella particolare lingua che gli è stata insegnata in seminario» (M. Richter, «Sulla religione di Rimbaud», Studi francesi [Online], 177 (LIX III) 2015».
Significativa e accorata è l’ultima parte del testo, dove il seminarista Léonard riveste ormai l’abito talare: «Oggi sono stato rivestito dell’abito sacro; sto per diventare un servo di Dio; avrò una parrocchia e una modesta perpetua in un ricco paese. Ho la fede; lavorerò per la mia salvezza e, senza essere spendaccione, vivrò come un buon servitore di Dio con la sua serva. Mia madre, la sacra Chiesa, mi riscalderà sul suo seno: che sia benedetta! Che Dio sia benedetto! … Quanto alla brutalmente diletta passione che serbo in fondo al cuore, saprò sopportarla con fermezza: senza riaccenderla, potrò talvolta riportarla alla memoria: sono cose molto dolci! – Io, d’altra parte, ero nato per l’amore e per la fede! – Forse un giorno, tornando in quella città, avrò la gioia di confessare la mia cara Timotina… E poi di lei conservo un dolce ricordo: da un anno non mi sono tolto i calzettoni che mi ha donato…
Quei calzettoni, o mio Dio! Me li terrò ai piedi fin nel tuo santo paradiso».

Rimbaud come Léonard e Gesù Cristo deve rinunciare all’amore, portando con sé «una croce e una corona di spine». In questa disfatta Rimbaud appare come l’angelo caduto sulla terra per essere testimone del disordine morale in cui l’uomo vive. Paul Claudel, in linea con questa tesi, sostiene che il poeta ardennese è un ‘mistico allo stato selvaggio’. Sergio Solmi sostiene, invece, che quella di Rimbaud sia una mistica poetica, più che religiosa, di cui Une Saison en enfer registra la sua peculiarità. Il fondamentale senso di inaccettazione della realtà finisce con il postulare un’altra realtà. Questo ‘oltre’ è un luogo raggiungibile, del quale occorre scoprire il ‘luogo e la formula’.
In Une Saison en enfer ogni sentimento religioso viene ribaltato e cancellato, vi è una inquietudine spirituale, forse anche di una richiesta (fragile) di soccorso della fede cristiana, poi soffocata. Se l’inferno è eterno per Rimbaud dura una stagione, un episodio della vita, da intendersi come il tempo della discesa nel proprio abisso che dà come ultima ragione di vita la scrittura poetica che si sottrae alle convenzioni e agli ‘insulsi ritornelli’, ‘ritmi ingenui’ alla ricerca di una ‘lingua’.

Poesie come Soleil et Chair e Les Premières communions mostrano come il giovane poeta, sempre più insoddisfatto della religione che ha caratterizzato la sua infanzia e che egli ormai irride, sente il bisogno di un’altra religione più umana, più concreta. Baudelaire è diventato il suo idolo e lo considera un vrai Dieu. Medita di fare un’esperienza assoluta (di tipo soprannaturale), ossia la ‘veggenza’ per arrivare all’inconnu. Come? Attraverso una lingua nuova avente un valore superiore a tutte le altre.

L’esperienza poetica di Rimbaud si conclude con la Saison, dove analizza le sue imprese metafisiche e la ricerca decisiva di una risposta al problema di cambiare vita. La Saison è scritta per se stesso: ha bisogno di trovarsi, fare un patto per gli anni avvenire. Yves Bonnefoy individua tre fallimenti: fallimento dell’impresa del Veggente, fallimento dell’impresa della carità o della reinvenzione di una moralità passionale, fallimento dell’esigenza della verità (Rimbaud. Speranza e lucidità). Rimbaud disgustato dalla propria incoerenza progetta una fuga dall’Europa, alla ricerca di un mondo innocente e non cristiano, l’Africa.

Il mito di Rimbaud cristiano è falso. Ad alimentarlo fu la sorella Isabelle, che assistette Rimbaud nell'agonia. Secondo Isabelle, Arthur sarebbe morto come un giusto, un santo, un martire, dopo essersi confessato. Testimonianza invalidata dal fatto che il poeta era in un forte stato di delirio, tant'è che invocava alternativamente Cristo e Allah e chiamava la sorella col nome del suo servo indigeno. 

Rimbaud durante la sua esistenza ha sfidato l’impossibile e senza attuare alcunché di precauzione ha esplorato l’abisso; ma ancora prima che ciò accadesse, aveva percepito con il suo sguardo attento di poeta il velo sottile e impercettibile dell’ipocrisia, vera dominatrice del mondo. L’ipocrisia degli uomini e delle donne, delle istituzioni, dei preti, della Chiesa, degli operai, della gente comune, dei nobili. L’ipocrisia è un agire apparentemente onesto, una finzione o simulazione che potrebbe condurre all’acquisizione di una fama immeritata di virtù. Tutto ciò che accade nella società è intriso di sporcizia, di puzza, di bene supposto, di male celato, di follia. Rimbaud lo comprende, lo intuisce fin da piccolo, impara ben presto a convivere con le assenze e le più varie forme di ipocrisie, una fra tutte la religione, della quale seppur accetta il Dio non ne configura mai la sua necessaria importanza in ambito individuale e collettivo. Il dio dei cristiani gli appare uno strumento in mano ai cristiani (borghesi) per porre in essere non le virtù ma le azioni disonorevoli sapientemente camuffate – appunto – dall’ipocrisia. Da ciò possiamo comprendere lo sdegno di Rimbaud. Egli, tuttavia, non è un vinto, l’impossibile, per lui, fu l’amore, nel mondo del bene e del male. Il suo vizio è stato l’inferno, dal quale non è scappato, assumendo la miseria umana, per operarne la trasmutazione. Egli da veggente ha trasgredito la legge, senza tuttavia infrangerla, per ritrovare le strade dell’assoluto, in solitudine, confessando che la carità non è che la sorella della morte. Uno scontro impossibile con l’impossibile, il suo; senza nulla risolvere, senza che alcun miracolo abbia avuto luogo. L’unico vero miracolo che ottiene è la morte, quella stessa morte che nell’inferno lo ha nutrito di fiamme e di vitalità, e poi lo abbandona nel deserto della solitudine, con il solo atto di fede possibile, la poesia.

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Bibliografia minima generale

- Rimbaud A., Rimbaud. Opere in versi e in prosa (con testo a fronte), intr. e note di M. Guglielminetti, trad. di D. Bellezza, Garzanti, IV edizione marzo 2004.

- Rimbaud A., Opere, intr. di Y. Bonnefoy, nota sulla trad. di D.G. Fiori, A. Mondadori Editore, III edizione febbraio 1984, Collana 'I Meridiani'.

- Y. Bonnefoy, Rimbaud. Speranza e lucidità, edizione italiana a cura di F. Scotto, Donzelli  editore, Roma 2010.

- M. Richter, «Sulla religione di Rimbaud», Studi francesi [Online], 177 (LIX III) 2015.

 - E. Ria, Il ragazzo dalla faccia pulita. Saggio su Rimbaud, Villaggio Maori edizioni, Catania 2014, Collana 'Ellissi'.

 

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