Il Blog di Anna Stella Scerbo

Uomini e donne del Mezzogiorno: mito, letteratura, storia

Francesco Jovine

mag 022018

 

 

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FRANCESCO JOVINE- IL PENSIERO, GLI SCRITTI CRITICI ( prima parte)

 

‹‹ L’umanità di oggi corre senza arresti, come spinta da un pungolo immane e ignoto verso una meta inesistente. E l’assenza del fine fa ricadere la ragione del moto nel moto stesso, ci si muove non per giungere ma per essere veloci, per trovare nel moto l’appagamento dell’ansia che ci spinge a suo capriccio ››.

E’ una verità consolidata. La letteratura meridionale, che del Meridione si occupa, è una presenza, al limite dell’oblio, ai bordi del panorama di autori meridionali che pure continuano ad essere grandi perché hanno abitato la coscienza del Novecento, segnandone i passi e imponendo svolte e novità. Francesco Jovine è proprio uno degli autori sui quali, nonostante qualche importante iniziativa editoriale, è sceso il silenzio.

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‹‹La  provincia per me è una specie di sogno. Sono venuto via dal mio paese di Guardialfiera a nove anni e nessuno là mi conosceva fisicamente. Fino ai quindici anni, ritornavo là l’estate, per un po’ durante le vacanze, poi, in venti anni, mi avranno visto appena tre volte. Conosco il Molise attraverso i racconti di mio padre e, un po’ per istinto. In me questa terra è come un mistero antico tramandatomi dai padri e rimasto nel sangue e nella fantasia››.

Nato a Guardialfiera(Campobasso) il 9 Ottobre del 1902, ebbe dal padre i primi rudimenti di letteratura e ad uno zio cieco, da cui ereditò la biblioteca, leggeva, durante l’estate, il Muratori o il Galanti. Sappiamo, per averlo scritto Francesco Cerra, suo amico e poeta, “dell’accorato amore che Ciccio aveva per i deboli e per gli umili, quasi un presagio della sua tematica di futuro poeta dell’umile gente dei campi”. Dopo il diploma di maestro elementare, rimase a Guardialfiera per quasi un anno frequentando la biblioteca che il dottor De Lisio gli metteva a disposizione e che gli consentiva di leggere i classici. Furono anni di fervore di studi, soprattutto di filosofia. Al Croce e al Gentile si accostò con uguale interesse. Rimase fedele al Croce e allo storicismo crociano. Si allontanò invece, dall’idealismo gentiliano  non appena gli fu chiaro il legame  tra il pensiero del filosofo e la dottrina fascista, entrambe fortemente antiliberali. Il Fascismo andava creandogli disagi ed egli, per allontanarsi da un clima che sentiva profondamente avverso a sé, chiese e ottenne l’insegnamento all’estero, prima a Tunisi, nel 1937 e ‘38, poi, a Il Cairo nel 1939 e nel ‘40, anno in cui tornò in Italia. Jovine si trovava a fare i conti con la caduta del principio della “funzione sociale dell’arte”, principio  da lui stesso caldeggiato anni prima. Lontanissimo dall’intendere l’Arte come processo innocente che si sforza di dare un nome alle cose, egli disegna la figura di un individuo letterario che non si appiattisce sul reale ed afferma che-

‹‹ Il ritenere di essere fedeli trascrittori di quanto interessa la nostra sensibilità, è un’ illusione. Per sfuggire alla retorica della pura forma, i neo-realisti minacciano di crearne un’altra: quella del puro contenuto››

A Jovine non erano indifferenti né l’attenzione ai moti dell’anima, né la risonanza che questi avevano  nei gesti e nelle azioni quotidiane. Gli apparivano, però, in tutta chiarezza, i rischi legati ad una deriva puramente contenutistica. Probabilmente tale rischio neanche si prefigurava così imminente ed inevitabile dal momento che le espressioni del Neorealismo, contenevano, non una piatta riproposizione del reale, ma la trasfigurazione del reale stesso che ne evidenziasse i tratti più importanti e peculiari. Scrive infatti-

‹‹ Tutti cominciano a convincersi che la realtà fisica ha scarse parentele con l’arte, che è manifestazione di una realtà tutta interna, ineffabile [. . .]. Anche quello che si chiama Neorealismo va inteso in questo senso: le nuove conquiste estetiche non permettono equivoci sul termine. Il richiamo alla realtà è un richiamo alla sincerità; un invito ad essere fedeli alle fonti interne dell’ispirazione››.

 Nel tentativo di conciliare critica estetica e critica storica  Jovine segue  un percorso teorico che da De Sanctis arriva a Gramsci (le sue guide ideali). Del De Sanctis , accoglieva la distinzione tra la morale e l’arte, in quanto “tutto ciò che si è distinto nettamente si può fecondamente ricongiungere”. Il De Sanctis godeva di un rinnovato interesse anche per via della rilettura e della mediazione di Antonio Gramsci.   Jovine, che aveva sostenuto la funzione sociale dell’arte, si sentiva rappresentato dal pensiero di Gramsci,  aveva già aderito all’ idea di comunismo di questo e ne aveva conosciuto gli scritti pubblicati fino al 1949.  Per  Jovine però, la teorizzazione dell’arte non rappresentava la questione principale dei suoi studi e delle sue osservazioni, egli seguiva le posizioni dell’ultimo De Sanctis attento alle componenti realistiche dell’arte e rifiutava le categorie crociane di poesia e non poesia, sicuro com’era che per comprendere un’opera bisogna entrare nella sua struttura complessiva, nella costruzione dei suoi significati  e ancor più recuperare la lezione Desanctisiana che sviluppava, in direzione antioscurantista, l’esperienza del pensiero democratico-borghese.

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 Jovine era diffidente nei confronti del letterato che in nome di un astratto naturalismo registrava prevalentemente o soltanto gli atti e le reazioni sensibili dei personaggi rifiutando di scandagliare il fondo enigmatico che ne era alla base. Lo era altresì verso gli epigoni dell’Ottocento e verso coloro che gerarchizzavano la letteratura e i suoi generi fondando arbitrarie graduatorie di autori e di opere. Tra il 1941 e il 1942, su “Il Meridiano di Roma” e su “Il Giornale d’Italia” rendeva note le sue valutazioni sull’arte pur senza alcuna pretesa di costruire una teoria autonoma ma evidenziando la sua preferenza nei confronti dei temi e degli autori che privilegiavano la cultura subalterna, le condizioni di gravità sociale del Sud d’Italia e le tradizioni popolari. Egli stesso, scrisse, con attenzione analitica e in senso diacronico, un documento sulla genesi del banditismo che indirizzò a Luigi Russo e che fu pubblicata postuma su “ Belfagor”. Sull’ ”Unità” e su “Rinascita” pubblicò gli scritti politici. Non gli andavano a genio gli “atteggiamenti  fascisti e fascistoidi” di più settori della vita pubblica italiana, né la convinzione, nata  da una “ una boria nazionalistica” e dura a morire, che il nostro paese sia stato il portatore delle più geniali forme d’arte  e  questo, secondo Jovine, avrebbe prodotto una categoria sociale di “velleitari permanenti della cultura”. Anche il rapporto tra “Il Principe” e “Le Lettere” gli fu caro, consapevole e convinto che la libertà degli intellettuali italiani sia-

‹‹ Libertà di più nobile natura, sostanziale alimento non solo del loro lavoro ma della  stessa personalità; è libertà legata alla tradizione greco-cristiana  dell’individualità, della responsabilità della coscienza del singolo che nessun mutamento delle costituzioni  può mutare permanentemente, ma che può avere un suo lungo, oscuro Medioevo››.

 

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