Il blog di Elio Ria

Spighe di poesia

Scoprire l'infinito

apr 302021

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Mi lego il cappello – ripiego lo scialle –
le piccole incombenze della vita svolgo –
puntualmente – come se la più insignificante
fosse per me – infinita –

(Emily Dickinson)

 

Il quotidiano è la storia della nostra vita, dove proviamo a ripartire ogni giorno, le stesse cose si annodano ai nostri capelli, si srotolano nelle mani, si perfezionano nel pensiero, memorie che svaniscono nella brevità di un presente. Se provassimo a riflettere sulle piccole cose quotidiane che facciamo, certamente proveremmo quella sensazione di infinito che Dickinson ci descrive in questi pochi versi. L'infinito è il nostro pensiero di allungare il mondo, anche per certi aspetti di allontanare da noi, ci piace immaginarlo esteso, immenso per sottrarci dal senso del 'finito', del già fatto, conosciuto, lavorato. L'infinito è necessario come il pane, l'acqua, senza di esso non avremmo la conoscenza, il sapere, il dubbio, l'incertezza incartata nelle nostre certezze. 

9. Il Padre Nostro di Dante

apr 012021

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Papa Francesco ha promulgato il 25 marzo 2021 la lettera apostolica Candor Lucis Aeternae in memoria di Dante Alighieri.
L'intento di questa nuova lettera apostolica è accostarsi all'opera del Sommo Poeta manifestandone sia l'attualità sia la perennità, e per cogliere quei moniti e quelle riflessioni che ancora oggi sono essenziali per tutta l'umanità, non solo per i credenti.
Per il Papa, Dante sa leggere in profondità il cuore umano e in tutti, anche nelle figure più abiette e inquietanti, sa scorgere una scintilla di desiderio per raggiungere una qualche felicità, una pienezza di vita.
Nell’enciclica Papa Francesco menziona la preghiera del Padre Nostro in lingua volgare che non era stata mai presa in considerazione dai teologi, probabilmente perché si doveva recitare in latino, e certamente perché Dante più che tradurre fa una parafrasi della preghiera con rimandi francescani.

O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
da ogne creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
(Purg. XI, 1-21)

 

8. Gli appelli di Dante al lettore

mar 202021

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Erich Auerbach in Studi su Dante (Feltrinelli, 2008) elenca diciotto passi in cui Dante nella Commedia si rivolge direttamente al lettore, per chiedergli espressamente di partecipare alle sue esperienze, ai suoi sentimenti. Molti di questi passi hanno un tono drammatico ed esprimono l’alleanza di Dante con il suo lettore, ma anche consapevolezza della sua superiorità. Qualcosa di simile è difficile trovare nella letteratura pre-dantesca, o negli stessi poeti epici classici, i quali non adoperano mai appelli formali al lettore.
I suoi appelli sono sempre attuali e oggigiorno anche personalità politiche importanti amano citarlo nei loro discorsi pubblici, uno fra tutti: il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping. Se invece andiamo indietro nel tempo, nel Cinquecento, scopriamo che la regina Elisabetta I d’Inghilterra amava l’idioma di Dante e voleva che anche le sue damigelle e i suoi collaboratori più stretti fossero in grado di parlarlo e scriverlo.
Ritorniamo ai giorni nostri, al ritmo del XXI secolo, con la traduzione in francese de La Comédie di René de Ceccatty, qui il traduttore volge l’endecasillabo dantesco in ottonari; decisamente una scelta coraggiosa in considerazione del fatto che il poema dantesco, già così asciutto, perde così ad ogni terzina un verso. C’è un lavoro di spoglio in cui appunto l’ottonario funge da misura di mera urgenza, adattabile ai nostri tempi, in cui l’autore ha obbedito più al senso L’intento di Ceccatty è quello di consentire una agevole lettura dell’opera dantesca, che oggi è chiamata ad esprimere una ulteriore affermazione di eterna modernità.

L’appello di Dante al lettore, per il suo livello stilistico e per la sua struttura, richiama quello dell’apostrofe classica. Dante adoperò la forma dl tipo «O voi che...» per convincere il lettore a fare di tutto per condividere spontaneamente l’esperienza del poeta e per trarre frutto dal suo insegnamento. «O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / Mirate» (Inf., IX, 61-62) ha il carattere delle apostrofi classiche, ma con una funzione più diretta per sensibilizzare il lettore; in «Aguzza qui, / lettor, ben gli occhi al vero» (Purg., VIII, v.19) l’invito è a concentrarsi sulla verità. Gli appelli si susseguono con stile diverso: essi toccano il livello del più profondo orrore, dell’umore tetro «O tu che leggi, udirai nuovo ludo,» (Inf., XXII, 118), dell’invocazione «La mente tua conservi quel ch’udito / hai contra te» (Inf., XVI, 127-128), del consiglio fraterno.
Nonostante il suo viaggio sia in solitudine nell’aldilà, nel passo: «O voi che siete in piccoletta barca, / desiderosi d’ascoltar, seguiti / dietro al mio legno che cantando varca,» (Par., II, 1-3), l’appello è indirizzato a veri compagni di viaggio, non a lettori di un libro. Il lettore immaginato da Dante è un discepolo a cui non si chiede di discutere e di giudicare, bensì di seguire ciò che Dante gli indica come insegnamento, e in ciò il poeta ha le idee chiare: Dio non è soltanto il dominus dell’universo, ma anche l’arbitro della giustizia; perciò chiunque difenda una causa sulla terra deve presentarla come la volontà di Dio.

Ogni scrittore si augura di essere letto, compreso e possibilmente amato, pur non possedendo la grandezza di Dante, il quale però aveva in mente un pubblico colto, ma soprattutto attento al suo messaggio e propenso ad attuarlo. Boccaccio, ammiratore di Dante, commentò la Commedia in pubblico, ma si fermò al XVII canto dell’Inferno, poiché gli era stata mossa l’accusa di sprecare energie per un pubblico incapace di recepire l’insegnamento. Tutto ciò era comunque in linea con la concezione di Dante, ma anche di Petrarca e di Boccaccio, che la letteratura dovesse essere di competenza aristocratica, stante la complessità delle tematiche trattate.

Una conclusione su quanto esposto risulterebbe non esaustiva, magari semplicistica oppure banale. Si può azzardare che l’opera di Dante sia un giacimento, non da sfruttare ma da tutelare. Come? Leggendola e divulgandola, riacquisendo la forza di conoscenza per ristabilire un equilibrio tra l’uomo e il tempo. Un tempo meno aggressivo, ma soprattutto meno esposto alle intemperanze che il modernismo alimenta in ogni momento per consacrare l’effimero. Ristabilire l’importanza della parola, riconoscendone l’autorità del significato, mediante la pazienza di leggerla o di ascoltarla.

Dalla lettura della Divina Commedia viene alla luce un’esperienza affascinante, irripetibile, non riscontrabile in nessun’altra opera. La relazione fra essere umano e mondo è posta a fondamento della stessa forma di vita, che fa comprendere quanto è dolorosa l’oscillazione dell’infelicità. Il compito dell’uomo non è soltanto la ricerca della risposta alla precarietà dell’esistenza, quanto il senso di una giustificazione che possa sopprimere le lacerazioni che le domande stesse producono. Porsi sulle tracce dei propri passi significa abbracciare una ricerca poetica in grado di dare un assesto giusto alla realtà. Dante interviene in tutti i campi della realtà, strappa il velo delle convenzioni e rivela la verità reale delle cose. Comprendere la realtà vuol dire riconoscere la «necessità» dell’errore, e solo attraverso la consapevolezza dell’errore è possibile intravedere la correttezza delle cose. L’errore che è inganno, deviazione del giusto cammino, ma insieme salvezza, riscatto.
Ripercorrere il cammino di Dante potrebbe consentire a tutti di tornare alle radici comuni della cultura e di riprendere fiato nel presente.

7. Dante politico

mar 072021

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Oggi Dante sarebbe smarrito di fronte alle incessanti contraddizioni di ogni tipo della società del terzo millennio, a ragion veduta. La sua visione universalistica non cambierebbe, i suoi principi morali e religiosi sarebbero gli stessi, cambierebbe probabilmente la sua idea di città e di stato, ma soprattutto si convincerebbe che aveva visto giusto nel suo mondo caratterizzato da instabilità. Anche perché fu un politico (uomo di municipio), e la politica condizionò la sua vita, anche se il suo desiderio fu sempre di vivere da nobile, confacente al suo concetto di nobiltà: distaccata dalle vili preoccupazioni economiche e dedita a tempo pieno allo studio e alla poesia. Ricercò un modello politico non transeunte e non partigiano di soluzione politico-statuale. Lo intravide nell’impero e il suo trattato Monarchia argomenta la necessità di una monarchia universale, poiché l’imperatore sarebbe esente da cupidigia, in quanto possessore di tutto, quindi garante di giustizia e di equità. Il trattato è una testimonianza importantissima del modo con cui Dante veniva a poco a poco accostandosi a quella visione superiore delle cose del mondo, di cui la Commedia è il frutto. Asor Rosa spiega così il successivo passaggio dalla dottrina alla poesia:

Dunque, è con quest’uomo, e con quest’intellettuale, che bisogna misurarsi, quando si affronta un’opera gigantesca, e dai molteplici significati, come la Commedia: un uomo ricco di passioni, amorose, politiche, religiose e lacerato in profondità dalla ferita dell’esilio; un intellettuale, che aveva coltivato l’ambizione di porsi come figura di riferimento nei campi più importanti della cultura contemporanea (la politica, la filosofia, la linguistica, ecc.). Non bisogna cioè pensare che la Commedia, in ragione della sua grandezza, non abbia un padre, un autore: un padre, un autore, su cui hanno lasciato un segno profondo le drammatiche esperienze degli anni precedenti e che lascerà un segno profondo, un’indelebile impronta di sé sull’opera maggiore. Essa è, innanzitutto, la risposta che Dante lancia la mondo, che lo ha ingannato e tradito.

Compì il miracolo della resurrezione di sé stesso. Osservò dall’alto la tragedia del «bene» e del «male» nel diritto di giustizia che si esplica con la pena della vendetta nell’Inferno, e dell’espiazione nel Purgatorio. L’innocenza è oltre il «bene» e chi è innocente non sa di esserlo, poiché non vede e non conosce tutto, ma se dovesse conoscere inevitabilmente si contaminerebbe di peccato. L’uomo dunque ha la capacità di scegliere tra il bene e il male nel momento in cui decide di vestire l’anima e abbandonare definitivamente l’innocenza, secondo l’assunto del libero arbitrio. Ma se Dio conosce tutto, conosce quindi tutto anticipatamente. Se Dio sa in anticipo quello che accadrà, allora vuol dire che è Lui stesso a determinare l’accaduto? Dante nega che sia Dio a determinare l’accaduto, e lo fa con una doppia metafora, a testimonianza del fatto che una spiegazione dottrinaria sarebbe stata molto complicata. Nel canto XVII del Paradiso (37-45) attribuisce a Dio il potere della massima conoscenza e del massimo potere sull’universo, ma al contempo difende il principio della libertà morale e intellettuale del singolo individuo. Dante in tal modo apre la strada a una nova concezione del cosmo ponendo in rilievo il problema della conoscenza, e non vi è dubbio che la Commedia sia un poema in cui il principio della conoscenza domina sovrano.
La Commedia non è solo rivolta verso il cielo e la terra, occupa anche un posto di rilievo la riflessione sul «buon governo», cioè su quell’agire dell’uomo verso il bene collettivo. E qui traspare la sua passione politica, mai sopita, in linea con la prospettiva generale della decadenza dei costumi, un problema che ancora oggi non è stato risolto. Il mondo secondo Dante volge in caduta libera al peggio, e solo un grande sforzo di fede potrebbe rimetterlo verso la direzione giusta. Non ha dubbi sulle cause di malcostume della sua Firenze:

La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni
(Inf. XVI, 73-75)

La ricchezza e i nuovi cittadini sono le due cause principali, sul piano storico, che provocarono a Firenze una crisi morale imperniata sulla superbia, l’invidia e l’avarizia. Nel canto VI del Purgatorio vi è la famosa invettiva che coinvolge le città dell’Italia a lui contemporanea:

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
(Purg. VI, 76-78)

Il giudizio di Dante è severo. Non è la sua invettiva attuale? Oppure il suo parlare in modo aspro più del dovuto lo rende presuntuoso, sprezzante e altero, come lo apostrofò Giovanni Villani (suo conoscente, più giovane di una decina d’anni)? Si intuisce il suo carattere forte, la sua volontà di rovesciare la realtà proiettandosi nel futuro. Durante l’esilio è condannato alla solitudine, ma più è solo e più è chiaro il suo intento di parlare a nome di tutti, tant’è che nella Commedia più volte si proclama profeta. Profeta non perché riesce a predire il futuro, ma perché può riferire ai vivi gli annunci ascoltati nell’aldilà. Il disegno politico di Dante è dato da una società ideale che giustifica l’urgenza della legge, senza la quale anche la libertà è vana aspirazione. Il suo pensiero parte da Dio per ritornare a Dio.

 

6. Il dantismo, ovvero l’analisi ossessiva

feb 232021

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Il distacco da Dante della società larga da quella ristretta degli studiosi è ancora oggi notevole, sarà forse anche colpa dei dantisti che nelle loro interpretazioni dell’opera di Dante delimitano volontariamente qualsivoglia approccio anche dilettantistico del lettore, che invece potrebbe attraverso una lettura ingenua e fuori dai canoni della filologia e della critica intravedere la bellezza testuale e fantastica dell’opera stessa. Sì, perché l’impressione che danno i dantisti è che di Dante possano parlare soltanto loro, cioè coloro che presuppongono di sapere ogni cosa su Dante e sulle sue opere, ostacolando ogni tentativo di libera interpretazione, imponendosi una riflessione masturbatoria e ossessiva. Per i dantisti l’opera è paragonata ad un trattato scientifico, orfana della bellezza dell’immaginazione libera del lettore. Gianni Vacchelli in L’«attualità» dell’esperienza di Dante. Un’iniziazione alla Commedia (Triquetra-Mimesis, 2014) scrive:

Il lettore è subito catapultato dentro la vicenda, immediatamente coinvolto. Dante è profondo, Dante è spirituale, Dante è simbolico, iniziatico, mistico, ma non bara mai con i suoi lettori. Non dimentica che deve appassionarli, renderli partecipi, perché solo così, nel piacere della lettura e della parola, tutte le potenzialità simboliche entreranno in atto; e loro vivranno la storia, parteciperanno e si trasformeranno. Dante è scrittore. Sa parlare agli adulti, ai colti, alle donnette. Persino ai bambini.

Rincuora la precisazione di Vacchelli, ma c’è anche un aspetto del titolo che colpisce: viene utilizzato il termine attualità (tra virgolette) al posto dell’abusato termine di modernità. Ecco la giustificazione che fornisce l’autore:

Abbiamo messa tra virgolette la parola perché è citazione diretta, e Dante fu probabilmente il primo ad usarla in volgare, dal latino actualitas: «attualitade», termine filosofico scolastico per dire «“ciò che è in atto” e, pertanto, la relativa perfezione che ne deriva». Parola di compimento, di integrazione.

Qualche riflessione sul sostantivo «attualità». Il termine indica anche modernità; Vacchelli però non lo preferisce, sceglie «attualità» per conferire sostanza concettuale all’opera dantesca e ribadire che «attualità» nella sua accezione filosofica è «eternità», quindi non nel significato dell’infinita estensione del tempo ma nel significato di assoluta atemporalità, cioè scevra da qualsiasi successione temporale. Attualità-eternità identificata con un puro presente con esclusione da sé di ogni passato e ogni futuro. L’attualità è insita nel suo messaggio di onestà, serietà e bellezza della vita: ecco perché è tanto più vicino a noi di qualunque altro poeta o scrittore. Dante quale lettore avrebbe immaginato durante la stesura della sua opera? Pietro Beltrami propone la seguente risposta:

Dante apostrofa il lettore come se tutto ciò che egli racconta fosse non solo la verità, ma la verità che ha per contenuto la rivelazione divina. Il lettore immaginato e, in fondo, creato da Dante è un discepolo a cui non si richiede di discutere e giudicare, bensì di seguire, usando sì le proprie forze, ma come Dante gl’impone di fare.

Bisognerebbe favorire l’opera con una divulgazione popolare, fuori dagli schemi scolastici, nuova, trasgressiva, al passo con i tempi, favorendo nuovi incontri con i lettori, togliendo quel velo di sacralità che è stato imposto all’opera, non per svilirne l’importanza ma per avvicinarla, porla, donarla al lettore. Le pubbliche letture in luoghi consacrati e sconsacrati attirano un pubblico avanti con l’età, composto essenzialmente da persone che vedono l’avvenimento come un’occasione mondana e non per la sua importanza letteraria.
Claudio Giunta in un articolo dal titolo Dante dopo l’Apocalisse (Domenica, Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2015), immagina ciò che Dante non osò immaginare:

Dante non pensava che il mondo sarebbe durato sino al 2016 e oltre, e «non avrebbe immaginato che, 750 anni dopo la sua nascita, «Dante Alighieri» e «Letteratura italiana» sarebbero stati quasi sinonimi, in molte università del mondo; che un discreto numero di esseri umani si sarebbero fatti chiamare dantisti, cioè specialisti di… lui, e che questa bizzarra specialità avrebbe permesso a molti di loro di campare più che dignitosamente, di farsi la casa, di cambiare la macchina a colpi di edizioni/commenti alla Commedia, alle Rime, alla Quaestio de aqua et terra; e che ogni anno sulla sua vita e sui suoi libri si sarebbero pubblicati articoli, libri, tesi di laurea e di dottorato a centinaia, a migliaia, e quattro o cinque riviste dedicate interamente a lui, e poi spettacoli teatrali, reading, videogiochi, Greenaway, Dan Brown, Gassman, Benigni, un indotto da far impallidire la Fiat…

A Dante tutto ciò non piacerebbe, la speculazione anche finanziaria del suo nome lo infastidirebbe; considerava il fiorino un «maledetto fiore» sbocciato dalla corruzione, simbolo tangibile del pervertimento della società. Rimpiangeva la piccola Firenze di cent’anni prima, che viveva con decoro e pudicizia. Marco Santagata in Dante. Il romanzo della sua vita (Mondadori, 2012) sostiene che «avversava la modernità, il progresso economico e la mobilità sociale»:

Dante considera il dinamismo sociale degenerazione dei costumi e perversione dei valori; perdita di ruolo e di potere degli antichi ceti dominanti. […] È convinto che la salvezza verrà solo ritornando indietro alla serena e domestica Firenze premercantile, all’epoca in cui la cristianità poggiava sull’equilibrio tra i due «soli» (papato e impero), a un assetto sociale gerarchico e stabile imperniato sulla nobiltà feudale. Tornare indietro e bloccare il tempo. Ricostituire un mondo immobile, garantito da un disegno istituzionale immutabile, simile in questo all’eterna corte celeste del Paradiso.

 

5. L’influenza di Dante nei poeti del Novecento

feb 132021

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Bisognerà attendere il Novecento per un crescente apprezzamento di Dante: dove la sua presenza nei testi di storici, critici, filologi, poeti del secolo sono ben rilevabili. Joyce lo ebbe a modello. Eliot assegnò al poeta della cristianità l’eredità della tradizione classica incarnata da Virgilio. L’influenza che Dante e la sua opera esercitarono sulla letteratura della seconda metà del Novecento è riscontrabile nelle opere di molti poeti. Il Novecento considerò la poesia un concentrato, escludendo l’idea che in poesia si potesse parlare di tutto. A queste preclusioni reagì soltanto una minoranza di poeti innovatori come Majakovskij, Eliot, Brecht, Williams, Neruda. Pound e Sanguineti volevano essere danteschi, ma la loro avanguardia produsse testi fin troppo grezzi dal punto di vista linguistico, addirittura Berardinelli li definisce «patologie autistiche del linguaggio poetico».
Si propongono di seguito alcuni poeti che hanno risentito dell’influenza della Divina Commedia nella stesura di alcune loro opere. Tale scelta tuttavia è da considerarsi personale, non ha quindi nessuna pretesa di completezza sull’argomento.
Borges, seppure in un primo momento confermò di non essere un buon conoscitore della lingua italiana, ammise di avere letto e riletto la Divina Commedia. In un’intervista degli anni Settanta rilasciata al critico letterario Lamberti Sorrentino disse:

Voi italiani potete vantare quello che considero il primo libro del mondo, e di tutti i tempi, che è appunto la Commedia. E tenga conto che io non sono cristiano. Voglio dire che il mio giudizio su Dante è letterario, non teologico. Io non ho sangue italiano, ma ho letto in italiano, una decina di volte la Divina Commedia. È incredibile quello che ha saputo fare Dante con la parola. Altri grandi e grandissimi sono irregolari, invece Dante ha scritto con un rigore e una lucidità che non fu data a nessun altro scrittore.

Come si accostò Borges alla Commedia? Probabilmente in tarda età, intorno al 1930: iniziò a leggere il poema in una edizione inglese con testo a fronte. Rilesse il poema a intervalli di tempo, in una dozzina di edizioni diverse, poiché era anche appassionato lettore dei commenti danteschi:

Gli italiani possiedono edizioni dei loro classici molto superiori a quelle di qualsiasi altra lingua. Ho avuto modo, come professore di letteratura inglese, di usare diverse edizioni di Shakespeare, per esempio, e i commenti sono molto poveri paragonati con quelli della Divina Commedia, perché nelle edizioni italiane si commenta ogni verso, non solo dal punto di vista storico o teologico, ma anche letterario.


Il poeta argentino dal 1940 e per un decennio scrisse alcuni testi creativi influenzati da Dante; pubblicò anche articoli sui personaggi di Francesca, Ulisse, Ugolino e sull’incontro di Dante con Beatrice. Successivamente alcuni di questi articoli furono rielaborati nella prefazione ad una edizione argentina della Divina Commedia in una collana popolare di classici. La fruizione dell’opera dantesca è riconoscibile in Borges a più livelli.
A un primo livello si scorge una curiosità sui generis, vale a dire Borges usa il poema come un’enciclopedia, una sorta di scrigno di erudizioni, una miniera di topoi e di invenzioni. Una prova tangibile è il Manuale di zoologia fantastica, dove le citazioni dantesche sono disseminate in tutte le parti del testo, in linea con la concezione di Borges che la letteratura è stata ‘fantastica’ in tutte le epoche storiche. L’architettura dell’oltretomba dantesco, le visioni paradisiache, sono godute dallo scrittore argentino come supreme invenzioni o ricreazioni fantastiche, pur riconoscendone il fondamento teologico e scientifico. A un secondo livello, ad esempio nell’Aleph, le suggestioni dantesche si avvicendano e si instaurano nella struttura del testo, ponendo in evidenza l’impossibilità della rappresentazione del Tutto, alla quale comunque Dante si avvicinò.

D’Annunzio pose attenzione nei riguardi di Dante e le presenze sono rivelate dai molti accenni sparsi nelle opere del poeta pescarese. Difatti, il dantista Luigi Scorrano in Modi ed esempi di dantismo novecentesco (Adriatica editrice salentina, 1976) considera alcuni testi dei validi exempla per mettere in luce le tracce dell’opera di Dante. Nel suo saggio si legge:

Si sa come D’Annunzio riuscisse particolarmente felice in molte trasposizioni del linguaggio altrui nel proprio. Nell’ambito dantesco basterà ricordare alcuni versi di Alcyone.

Aggiunge ancora su D’Annunzio, in riferimento al sonetto di Elettra (L’Alighieri, anno X, n.1, gennaio-giugno 1969):

D’Annunzio voleva stilizzare in forme e suoni danteschi il paesaggio e la storia volterrani, ma non è riuscito a quella fusione che altrove appare perfetta. Qui si avverte il peso dell’elemento dantesco, elemento lessicale preponderante; lo si avverte come qualcosa di estraneo che viene a introdursi nella struttura (o nella melodia) dannunziana soffocandone le libere movenze. Il pescarese non si accorge di questa gravezza, ma poiché si vanta di essersi nutrito di Dante, pensa di poter utilizzare Dante sempre e indiscriminatamente; non cerca un’espressione che gli sia peculiare, pensa solo all’espressione altrui come ad un’espressione sempre a lui congeniale quando sia assunta nel suo dettato; s’illude, cioè, sui limiti delle possibili utilizzazioni dei testi altrui.

Il rapporto con Dante va al di là di un semplice fenomeno di riuso: la presenza dantesca in un testo novecentesco è vettore di pensiero e di riflessione. Il caso di Montale è emblematico: un riutilizzo di materiale dantesco è presente in molti suoi testi con intenti comunicativi diversi. Quando fu invitato nel 1965 a partecipare come relatore al 'Congresso internazionale di Studi Danteschi' in onore del settimo centenario della nascita di Dante, ebbe modo di esprimere la propria opinione di poeta a quella dei critici. In evidente distacco dai critici rivendicò la propria personale lettura di Dante, una lettura da poeta a poeta. Montale cercò di dimostrare che l’avvicinamento a Dante non era in nome di una presunta modernità ma in virtù della congerie storica del ventesimo secolo:

Il mio convincimento invece – e lo do per quel che può valere – è che Dante non è moderno in nessuno di questi modi: il che non può impedirci di comprenderlo, almeno in parte, e di sentirlo stranamente vicino a noi. Ma perché questo avvenga è pure necessario giungere ad un’altra conclusione: che noi non viviamo più in un’era moderna, ma in un nuovo medioevo e di cui non possiamo ancora intravedere i caratteri.

Montale pur affermando che Dante non è moderno, osserva che questa distanza temporale che coinvolge i poeti con Dante non può impedire di comprenderlo, almeno in parte, e di sentirlo vicino, ma soprattutto non può essere «ripetuto». Precisa:

Esempio massimo di oggettivismo e razionalismo poetico egli resta estraneo ai nostri tempi, a una civiltà soggettivistica e fondamentalmente irrazionale perché pone i suoi significati nei fatti e non nelle idee. Ed è proprio la ragione dei fatti che oggi ci sfugge. Poeta concentrico Dante non può offrire modelli a un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò la Commedia è e resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale.

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Montale rivelò che il suo rapporto con l’opera dantesca era frutto di riverenza e di familiarità, distillato dalla spasmodica e ossessiva ricerca scientifica dell’analisi allegorica, che rendeva difficile una interpretazione moderna a un testo così distante. Difese Dante dagli studi della critica che vertevano a deformare l’opera e – anche se con toni garbati – polemizzò con Benedetto Croce, il quale ordinava di ignorare l’obsoleta impalcatura dell’opera, costituita da concetti filosofici «muti» per il mondo contemporaneo. Montale voleva salvare ogni aspetto dell’opera di Dante, poiché in essa intravedeva la «capacità del poeta di rendere sensibile l’astratto, di rendere corporeo anche l’immateriale». Il legame tra allegoria e senso letterale rappresenta la forza della Commedia, stante appunto la fusione perfetta tra la storia e il mito, dove ogni luogo è ben definito e ogni elemento che lo caratterizza è parte di un Tutto.

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