Il blog di Elio Ria

Spighe di poesia

9. Il Padre Nostro di Dante

apr 012021

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Papa Francesco ha promulgato il 25 marzo 2021 la lettera apostolica Candor Lucis Aeternae in memoria di Dante Alighieri.
L'intento di questa nuova lettera apostolica è accostarsi all'opera del Sommo Poeta manifestandone sia l'attualità sia la perennità, e per cogliere quei moniti e quelle riflessioni che ancora oggi sono essenziali per tutta l'umanità, non solo per i credenti.
Per il Papa, Dante sa leggere in profondità il cuore umano e in tutti, anche nelle figure più abiette e inquietanti, sa scorgere una scintilla di desiderio per raggiungere una qualche felicità, una pienezza di vita.
Nell’enciclica Papa Francesco menziona la preghiera del Padre Nostro in lingua volgare che non era stata mai presa in considerazione dai teologi, probabilmente perché si doveva recitare in latino, e certamente perché Dante più che tradurre fa una parafrasi della preghiera con rimandi francescani.

O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
da ogne creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
(Purg. XI, 1-21)

 

8. Gli appelli di Dante al lettore

mar 202021

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Erich Auerbach in Studi su Dante (Feltrinelli, 2008) elenca diciotto passi in cui Dante nella Commedia si rivolge direttamente al lettore, per chiedergli espressamente di partecipare alle sue esperienze, ai suoi sentimenti. Molti di questi passi hanno un tono drammatico ed esprimono l’alleanza di Dante con il suo lettore, ma anche consapevolezza della sua superiorità. Qualcosa di simile è difficile trovare nella letteratura pre-dantesca, o negli stessi poeti epici classici, i quali non adoperano mai appelli formali al lettore.
I suoi appelli sono sempre attuali e oggigiorno anche personalità politiche importanti amano citarlo nei loro discorsi pubblici, uno fra tutti: il presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping. Se invece andiamo indietro nel tempo, nel Cinquecento, scopriamo che la regina Elisabetta I d’Inghilterra amava l’idioma di Dante e voleva che anche le sue damigelle e i suoi collaboratori più stretti fossero in grado di parlarlo e scriverlo.
Ritorniamo ai giorni nostri, al ritmo del XXI secolo, con la traduzione in francese de La Comédie di René de Ceccatty, qui il traduttore volge l’endecasillabo dantesco in ottonari; decisamente una scelta coraggiosa in considerazione del fatto che il poema dantesco, già così asciutto, perde così ad ogni terzina un verso. C’è un lavoro di spoglio in cui appunto l’ottonario funge da misura di mera urgenza, adattabile ai nostri tempi, in cui l’autore ha obbedito più al senso L’intento di Ceccatty è quello di consentire una agevole lettura dell’opera dantesca, che oggi è chiamata ad esprimere una ulteriore affermazione di eterna modernità.

L’appello di Dante al lettore, per il suo livello stilistico e per la sua struttura, richiama quello dell’apostrofe classica. Dante adoperò la forma dl tipo «O voi che...» per convincere il lettore a fare di tutto per condividere spontaneamente l’esperienza del poeta e per trarre frutto dal suo insegnamento. «O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / Mirate» (Inf., IX, 61-62) ha il carattere delle apostrofi classiche, ma con una funzione più diretta per sensibilizzare il lettore; in «Aguzza qui, / lettor, ben gli occhi al vero» (Purg., VIII, v.19) l’invito è a concentrarsi sulla verità. Gli appelli si susseguono con stile diverso: essi toccano il livello del più profondo orrore, dell’umore tetro «O tu che leggi, udirai nuovo ludo,» (Inf., XXII, 118), dell’invocazione «La mente tua conservi quel ch’udito / hai contra te» (Inf., XVI, 127-128), del consiglio fraterno.
Nonostante il suo viaggio sia in solitudine nell’aldilà, nel passo: «O voi che siete in piccoletta barca, / desiderosi d’ascoltar, seguiti / dietro al mio legno che cantando varca,» (Par., II, 1-3), l’appello è indirizzato a veri compagni di viaggio, non a lettori di un libro. Il lettore immaginato da Dante è un discepolo a cui non si chiede di discutere e di giudicare, bensì di seguire ciò che Dante gli indica come insegnamento, e in ciò il poeta ha le idee chiare: Dio non è soltanto il dominus dell’universo, ma anche l’arbitro della giustizia; perciò chiunque difenda una causa sulla terra deve presentarla come la volontà di Dio.

Ogni scrittore si augura di essere letto, compreso e possibilmente amato, pur non possedendo la grandezza di Dante, il quale però aveva in mente un pubblico colto, ma soprattutto attento al suo messaggio e propenso ad attuarlo. Boccaccio, ammiratore di Dante, commentò la Commedia in pubblico, ma si fermò al XVII canto dell’Inferno, poiché gli era stata mossa l’accusa di sprecare energie per un pubblico incapace di recepire l’insegnamento. Tutto ciò era comunque in linea con la concezione di Dante, ma anche di Petrarca e di Boccaccio, che la letteratura dovesse essere di competenza aristocratica, stante la complessità delle tematiche trattate.

Una conclusione su quanto esposto risulterebbe non esaustiva, magari semplicistica oppure banale. Si può azzardare che l’opera di Dante sia un giacimento, non da sfruttare ma da tutelare. Come? Leggendola e divulgandola, riacquisendo la forza di conoscenza per ristabilire un equilibrio tra l’uomo e il tempo. Un tempo meno aggressivo, ma soprattutto meno esposto alle intemperanze che il modernismo alimenta in ogni momento per consacrare l’effimero. Ristabilire l’importanza della parola, riconoscendone l’autorità del significato, mediante la pazienza di leggerla o di ascoltarla.

Dalla lettura della Divina Commedia viene alla luce un’esperienza affascinante, irripetibile, non riscontrabile in nessun’altra opera. La relazione fra essere umano e mondo è posta a fondamento della stessa forma di vita, che fa comprendere quanto è dolorosa l’oscillazione dell’infelicità. Il compito dell’uomo non è soltanto la ricerca della risposta alla precarietà dell’esistenza, quanto il senso di una giustificazione che possa sopprimere le lacerazioni che le domande stesse producono. Porsi sulle tracce dei propri passi significa abbracciare una ricerca poetica in grado di dare un assesto giusto alla realtà. Dante interviene in tutti i campi della realtà, strappa il velo delle convenzioni e rivela la verità reale delle cose. Comprendere la realtà vuol dire riconoscere la «necessità» dell’errore, e solo attraverso la consapevolezza dell’errore è possibile intravedere la correttezza delle cose. L’errore che è inganno, deviazione del giusto cammino, ma insieme salvezza, riscatto.
Ripercorrere il cammino di Dante potrebbe consentire a tutti di tornare alle radici comuni della cultura e di riprendere fiato nel presente.

7. Dante politico

mar 072021

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Oggi Dante sarebbe smarrito di fronte alle incessanti contraddizioni di ogni tipo della società del terzo millennio, a ragion veduta. La sua visione universalistica non cambierebbe, i suoi principi morali e religiosi sarebbero gli stessi, cambierebbe probabilmente la sua idea di città e di stato, ma soprattutto si convincerebbe che aveva visto giusto nel suo mondo caratterizzato da instabilità. Anche perché fu un politico (uomo di municipio), e la politica condizionò la sua vita, anche se il suo desiderio fu sempre di vivere da nobile, confacente al suo concetto di nobiltà: distaccata dalle vili preoccupazioni economiche e dedita a tempo pieno allo studio e alla poesia. Ricercò un modello politico non transeunte e non partigiano di soluzione politico-statuale. Lo intravide nell’impero e il suo trattato Monarchia argomenta la necessità di una monarchia universale, poiché l’imperatore sarebbe esente da cupidigia, in quanto possessore di tutto, quindi garante di giustizia e di equità. Il trattato è una testimonianza importantissima del modo con cui Dante veniva a poco a poco accostandosi a quella visione superiore delle cose del mondo, di cui la Commedia è il frutto. Asor Rosa spiega così il successivo passaggio dalla dottrina alla poesia:

Dunque, è con quest’uomo, e con quest’intellettuale, che bisogna misurarsi, quando si affronta un’opera gigantesca, e dai molteplici significati, come la Commedia: un uomo ricco di passioni, amorose, politiche, religiose e lacerato in profondità dalla ferita dell’esilio; un intellettuale, che aveva coltivato l’ambizione di porsi come figura di riferimento nei campi più importanti della cultura contemporanea (la politica, la filosofia, la linguistica, ecc.). Non bisogna cioè pensare che la Commedia, in ragione della sua grandezza, non abbia un padre, un autore: un padre, un autore, su cui hanno lasciato un segno profondo le drammatiche esperienze degli anni precedenti e che lascerà un segno profondo, un’indelebile impronta di sé sull’opera maggiore. Essa è, innanzitutto, la risposta che Dante lancia la mondo, che lo ha ingannato e tradito.

Compì il miracolo della resurrezione di sé stesso. Osservò dall’alto la tragedia del «bene» e del «male» nel diritto di giustizia che si esplica con la pena della vendetta nell’Inferno, e dell’espiazione nel Purgatorio. L’innocenza è oltre il «bene» e chi è innocente non sa di esserlo, poiché non vede e non conosce tutto, ma se dovesse conoscere inevitabilmente si contaminerebbe di peccato. L’uomo dunque ha la capacità di scegliere tra il bene e il male nel momento in cui decide di vestire l’anima e abbandonare definitivamente l’innocenza, secondo l’assunto del libero arbitrio. Ma se Dio conosce tutto, conosce quindi tutto anticipatamente. Se Dio sa in anticipo quello che accadrà, allora vuol dire che è Lui stesso a determinare l’accaduto? Dante nega che sia Dio a determinare l’accaduto, e lo fa con una doppia metafora, a testimonianza del fatto che una spiegazione dottrinaria sarebbe stata molto complicata. Nel canto XVII del Paradiso (37-45) attribuisce a Dio il potere della massima conoscenza e del massimo potere sull’universo, ma al contempo difende il principio della libertà morale e intellettuale del singolo individuo. Dante in tal modo apre la strada a una nova concezione del cosmo ponendo in rilievo il problema della conoscenza, e non vi è dubbio che la Commedia sia un poema in cui il principio della conoscenza domina sovrano.
La Commedia non è solo rivolta verso il cielo e la terra, occupa anche un posto di rilievo la riflessione sul «buon governo», cioè su quell’agire dell’uomo verso il bene collettivo. E qui traspare la sua passione politica, mai sopita, in linea con la prospettiva generale della decadenza dei costumi, un problema che ancora oggi non è stato risolto. Il mondo secondo Dante volge in caduta libera al peggio, e solo un grande sforzo di fede potrebbe rimetterlo verso la direzione giusta. Non ha dubbi sulle cause di malcostume della sua Firenze:

La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni
(Inf. XVI, 73-75)

La ricchezza e i nuovi cittadini sono le due cause principali, sul piano storico, che provocarono a Firenze una crisi morale imperniata sulla superbia, l’invidia e l’avarizia. Nel canto VI del Purgatorio vi è la famosa invettiva che coinvolge le città dell’Italia a lui contemporanea:

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
(Purg. VI, 76-78)

Il giudizio di Dante è severo. Non è la sua invettiva attuale? Oppure il suo parlare in modo aspro più del dovuto lo rende presuntuoso, sprezzante e altero, come lo apostrofò Giovanni Villani (suo conoscente, più giovane di una decina d’anni)? Si intuisce il suo carattere forte, la sua volontà di rovesciare la realtà proiettandosi nel futuro. Durante l’esilio è condannato alla solitudine, ma più è solo e più è chiaro il suo intento di parlare a nome di tutti, tant’è che nella Commedia più volte si proclama profeta. Profeta non perché riesce a predire il futuro, ma perché può riferire ai vivi gli annunci ascoltati nell’aldilà. Il disegno politico di Dante è dato da una società ideale che giustifica l’urgenza della legge, senza la quale anche la libertà è vana aspirazione. Il suo pensiero parte da Dio per ritornare a Dio.

 

6. Il dantismo, ovvero l’analisi ossessiva

feb 232021

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Il distacco da Dante della società larga da quella ristretta degli studiosi è ancora oggi notevole, sarà forse anche colpa dei dantisti che nelle loro interpretazioni dell’opera di Dante delimitano volontariamente qualsivoglia approccio anche dilettantistico del lettore, che invece potrebbe attraverso una lettura ingenua e fuori dai canoni della filologia e della critica intravedere la bellezza testuale e fantastica dell’opera stessa. Sì, perché l’impressione che danno i dantisti è che di Dante possano parlare soltanto loro, cioè coloro che presuppongono di sapere ogni cosa su Dante e sulle sue opere, ostacolando ogni tentativo di libera interpretazione, imponendosi una riflessione masturbatoria e ossessiva. Per i dantisti l’opera è paragonata ad un trattato scientifico, orfana della bellezza dell’immaginazione libera del lettore. Gianni Vacchelli in L’«attualità» dell’esperienza di Dante. Un’iniziazione alla Commedia (Triquetra-Mimesis, 2014) scrive:

Il lettore è subito catapultato dentro la vicenda, immediatamente coinvolto. Dante è profondo, Dante è spirituale, Dante è simbolico, iniziatico, mistico, ma non bara mai con i suoi lettori. Non dimentica che deve appassionarli, renderli partecipi, perché solo così, nel piacere della lettura e della parola, tutte le potenzialità simboliche entreranno in atto; e loro vivranno la storia, parteciperanno e si trasformeranno. Dante è scrittore. Sa parlare agli adulti, ai colti, alle donnette. Persino ai bambini.

Rincuora la precisazione di Vacchelli, ma c’è anche un aspetto del titolo che colpisce: viene utilizzato il termine attualità (tra virgolette) al posto dell’abusato termine di modernità. Ecco la giustificazione che fornisce l’autore:

Abbiamo messa tra virgolette la parola perché è citazione diretta, e Dante fu probabilmente il primo ad usarla in volgare, dal latino actualitas: «attualitade», termine filosofico scolastico per dire «“ciò che è in atto” e, pertanto, la relativa perfezione che ne deriva». Parola di compimento, di integrazione.

Qualche riflessione sul sostantivo «attualità». Il termine indica anche modernità; Vacchelli però non lo preferisce, sceglie «attualità» per conferire sostanza concettuale all’opera dantesca e ribadire che «attualità» nella sua accezione filosofica è «eternità», quindi non nel significato dell’infinita estensione del tempo ma nel significato di assoluta atemporalità, cioè scevra da qualsiasi successione temporale. Attualità-eternità identificata con un puro presente con esclusione da sé di ogni passato e ogni futuro. L’attualità è insita nel suo messaggio di onestà, serietà e bellezza della vita: ecco perché è tanto più vicino a noi di qualunque altro poeta o scrittore. Dante quale lettore avrebbe immaginato durante la stesura della sua opera? Pietro Beltrami propone la seguente risposta:

Dante apostrofa il lettore come se tutto ciò che egli racconta fosse non solo la verità, ma la verità che ha per contenuto la rivelazione divina. Il lettore immaginato e, in fondo, creato da Dante è un discepolo a cui non si richiede di discutere e giudicare, bensì di seguire, usando sì le proprie forze, ma come Dante gl’impone di fare.

Bisognerebbe favorire l’opera con una divulgazione popolare, fuori dagli schemi scolastici, nuova, trasgressiva, al passo con i tempi, favorendo nuovi incontri con i lettori, togliendo quel velo di sacralità che è stato imposto all’opera, non per svilirne l’importanza ma per avvicinarla, porla, donarla al lettore. Le pubbliche letture in luoghi consacrati e sconsacrati attirano un pubblico avanti con l’età, composto essenzialmente da persone che vedono l’avvenimento come un’occasione mondana e non per la sua importanza letteraria.
Claudio Giunta in un articolo dal titolo Dante dopo l’Apocalisse (Domenica, Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2015), immagina ciò che Dante non osò immaginare:

Dante non pensava che il mondo sarebbe durato sino al 2016 e oltre, e «non avrebbe immaginato che, 750 anni dopo la sua nascita, «Dante Alighieri» e «Letteratura italiana» sarebbero stati quasi sinonimi, in molte università del mondo; che un discreto numero di esseri umani si sarebbero fatti chiamare dantisti, cioè specialisti di… lui, e che questa bizzarra specialità avrebbe permesso a molti di loro di campare più che dignitosamente, di farsi la casa, di cambiare la macchina a colpi di edizioni/commenti alla Commedia, alle Rime, alla Quaestio de aqua et terra; e che ogni anno sulla sua vita e sui suoi libri si sarebbero pubblicati articoli, libri, tesi di laurea e di dottorato a centinaia, a migliaia, e quattro o cinque riviste dedicate interamente a lui, e poi spettacoli teatrali, reading, videogiochi, Greenaway, Dan Brown, Gassman, Benigni, un indotto da far impallidire la Fiat…

A Dante tutto ciò non piacerebbe, la speculazione anche finanziaria del suo nome lo infastidirebbe; considerava il fiorino un «maledetto fiore» sbocciato dalla corruzione, simbolo tangibile del pervertimento della società. Rimpiangeva la piccola Firenze di cent’anni prima, che viveva con decoro e pudicizia. Marco Santagata in Dante. Il romanzo della sua vita (Mondadori, 2012) sostiene che «avversava la modernità, il progresso economico e la mobilità sociale»:

Dante considera il dinamismo sociale degenerazione dei costumi e perversione dei valori; perdita di ruolo e di potere degli antichi ceti dominanti. […] È convinto che la salvezza verrà solo ritornando indietro alla serena e domestica Firenze premercantile, all’epoca in cui la cristianità poggiava sull’equilibrio tra i due «soli» (papato e impero), a un assetto sociale gerarchico e stabile imperniato sulla nobiltà feudale. Tornare indietro e bloccare il tempo. Ricostituire un mondo immobile, garantito da un disegno istituzionale immutabile, simile in questo all’eterna corte celeste del Paradiso.

 

5. L’influenza di Dante nei poeti del Novecento

feb 132021

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Bisognerà attendere il Novecento per un crescente apprezzamento di Dante: dove la sua presenza nei testi di storici, critici, filologi, poeti del secolo sono ben rilevabili. Joyce lo ebbe a modello. Eliot assegnò al poeta della cristianità l’eredità della tradizione classica incarnata da Virgilio. L’influenza che Dante e la sua opera esercitarono sulla letteratura della seconda metà del Novecento è riscontrabile nelle opere di molti poeti. Il Novecento considerò la poesia un concentrato, escludendo l’idea che in poesia si potesse parlare di tutto. A queste preclusioni reagì soltanto una minoranza di poeti innovatori come Majakovskij, Eliot, Brecht, Williams, Neruda. Pound e Sanguineti volevano essere danteschi, ma la loro avanguardia produsse testi fin troppo grezzi dal punto di vista linguistico, addirittura Berardinelli li definisce «patologie autistiche del linguaggio poetico».
Si propongono di seguito alcuni poeti che hanno risentito dell’influenza della Divina Commedia nella stesura di alcune loro opere. Tale scelta tuttavia è da considerarsi personale, non ha quindi nessuna pretesa di completezza sull’argomento.
Borges, seppure in un primo momento confermò di non essere un buon conoscitore della lingua italiana, ammise di avere letto e riletto la Divina Commedia. In un’intervista degli anni Settanta rilasciata al critico letterario Lamberti Sorrentino disse:

Voi italiani potete vantare quello che considero il primo libro del mondo, e di tutti i tempi, che è appunto la Commedia. E tenga conto che io non sono cristiano. Voglio dire che il mio giudizio su Dante è letterario, non teologico. Io non ho sangue italiano, ma ho letto in italiano, una decina di volte la Divina Commedia. È incredibile quello che ha saputo fare Dante con la parola. Altri grandi e grandissimi sono irregolari, invece Dante ha scritto con un rigore e una lucidità che non fu data a nessun altro scrittore.

Come si accostò Borges alla Commedia? Probabilmente in tarda età, intorno al 1930: iniziò a leggere il poema in una edizione inglese con testo a fronte. Rilesse il poema a intervalli di tempo, in una dozzina di edizioni diverse, poiché era anche appassionato lettore dei commenti danteschi:

Gli italiani possiedono edizioni dei loro classici molto superiori a quelle di qualsiasi altra lingua. Ho avuto modo, come professore di letteratura inglese, di usare diverse edizioni di Shakespeare, per esempio, e i commenti sono molto poveri paragonati con quelli della Divina Commedia, perché nelle edizioni italiane si commenta ogni verso, non solo dal punto di vista storico o teologico, ma anche letterario.


Il poeta argentino dal 1940 e per un decennio scrisse alcuni testi creativi influenzati da Dante; pubblicò anche articoli sui personaggi di Francesca, Ulisse, Ugolino e sull’incontro di Dante con Beatrice. Successivamente alcuni di questi articoli furono rielaborati nella prefazione ad una edizione argentina della Divina Commedia in una collana popolare di classici. La fruizione dell’opera dantesca è riconoscibile in Borges a più livelli.
A un primo livello si scorge una curiosità sui generis, vale a dire Borges usa il poema come un’enciclopedia, una sorta di scrigno di erudizioni, una miniera di topoi e di invenzioni. Una prova tangibile è il Manuale di zoologia fantastica, dove le citazioni dantesche sono disseminate in tutte le parti del testo, in linea con la concezione di Borges che la letteratura è stata ‘fantastica’ in tutte le epoche storiche. L’architettura dell’oltretomba dantesco, le visioni paradisiache, sono godute dallo scrittore argentino come supreme invenzioni o ricreazioni fantastiche, pur riconoscendone il fondamento teologico e scientifico. A un secondo livello, ad esempio nell’Aleph, le suggestioni dantesche si avvicendano e si instaurano nella struttura del testo, ponendo in evidenza l’impossibilità della rappresentazione del Tutto, alla quale comunque Dante si avvicinò.

D’Annunzio pose attenzione nei riguardi di Dante e le presenze sono rivelate dai molti accenni sparsi nelle opere del poeta pescarese. Difatti, il dantista Luigi Scorrano in Modi ed esempi di dantismo novecentesco (Adriatica editrice salentina, 1976) considera alcuni testi dei validi exempla per mettere in luce le tracce dell’opera di Dante. Nel suo saggio si legge:

Si sa come D’Annunzio riuscisse particolarmente felice in molte trasposizioni del linguaggio altrui nel proprio. Nell’ambito dantesco basterà ricordare alcuni versi di Alcyone.

Aggiunge ancora su D’Annunzio, in riferimento al sonetto di Elettra (L’Alighieri, anno X, n.1, gennaio-giugno 1969):

D’Annunzio voleva stilizzare in forme e suoni danteschi il paesaggio e la storia volterrani, ma non è riuscito a quella fusione che altrove appare perfetta. Qui si avverte il peso dell’elemento dantesco, elemento lessicale preponderante; lo si avverte come qualcosa di estraneo che viene a introdursi nella struttura (o nella melodia) dannunziana soffocandone le libere movenze. Il pescarese non si accorge di questa gravezza, ma poiché si vanta di essersi nutrito di Dante, pensa di poter utilizzare Dante sempre e indiscriminatamente; non cerca un’espressione che gli sia peculiare, pensa solo all’espressione altrui come ad un’espressione sempre a lui congeniale quando sia assunta nel suo dettato; s’illude, cioè, sui limiti delle possibili utilizzazioni dei testi altrui.

Il rapporto con Dante va al di là di un semplice fenomeno di riuso: la presenza dantesca in un testo novecentesco è vettore di pensiero e di riflessione. Il caso di Montale è emblematico: un riutilizzo di materiale dantesco è presente in molti suoi testi con intenti comunicativi diversi. Quando fu invitato nel 1965 a partecipare come relatore al 'Congresso internazionale di Studi Danteschi' in onore del settimo centenario della nascita di Dante, ebbe modo di esprimere la propria opinione di poeta a quella dei critici. In evidente distacco dai critici rivendicò la propria personale lettura di Dante, una lettura da poeta a poeta. Montale cercò di dimostrare che l’avvicinamento a Dante non era in nome di una presunta modernità ma in virtù della congerie storica del ventesimo secolo:

Il mio convincimento invece – e lo do per quel che può valere – è che Dante non è moderno in nessuno di questi modi: il che non può impedirci di comprenderlo, almeno in parte, e di sentirlo stranamente vicino a noi. Ma perché questo avvenga è pure necessario giungere ad un’altra conclusione: che noi non viviamo più in un’era moderna, ma in un nuovo medioevo e di cui non possiamo ancora intravedere i caratteri.

Montale pur affermando che Dante non è moderno, osserva che questa distanza temporale che coinvolge i poeti con Dante non può impedire di comprenderlo, almeno in parte, e di sentirlo vicino, ma soprattutto non può essere «ripetuto». Precisa:

Esempio massimo di oggettivismo e razionalismo poetico egli resta estraneo ai nostri tempi, a una civiltà soggettivistica e fondamentalmente irrazionale perché pone i suoi significati nei fatti e non nelle idee. Ed è proprio la ragione dei fatti che oggi ci sfugge. Poeta concentrico Dante non può offrire modelli a un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò la Commedia è e resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale.

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Montale rivelò che il suo rapporto con l’opera dantesca era frutto di riverenza e di familiarità, distillato dalla spasmodica e ossessiva ricerca scientifica dell’analisi allegorica, che rendeva difficile una interpretazione moderna a un testo così distante. Difese Dante dagli studi della critica che vertevano a deformare l’opera e – anche se con toni garbati – polemizzò con Benedetto Croce, il quale ordinava di ignorare l’obsoleta impalcatura dell’opera, costituita da concetti filosofici «muti» per il mondo contemporaneo. Montale voleva salvare ogni aspetto dell’opera di Dante, poiché in essa intravedeva la «capacità del poeta di rendere sensibile l’astratto, di rendere corporeo anche l’immateriale». Il legame tra allegoria e senso letterale rappresenta la forza della Commedia, stante appunto la fusione perfetta tra la storia e il mito, dove ogni luogo è ben definito e ogni elemento che lo caratterizza è parte di un Tutto.

4. Dante e la giustizia

feb 042021

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Non va trascurato il rapporto tra Dante e il sapere giuridico del suo tempo. Nel poema traspare la tensione tra giustizia divina e diritto terreno, che è anche un modo per difendere la propria condizione di perseguitato politico.
La legge riveste un ruolo importante nella Commedia; è di certo anche un passo obbligato per il giurista che desideri riflettere sul tema della giustizia in ambito letterario. Di cosa parla l’intero poema se non dei premi e delle punizioni comminate da un giudice supremo?
Potremmo ipotizzare che Dante sia stato il primo estensore di un codice penale, in cui la pena diviene un male inflitto per annullare il male. Compiuto secondo la logica del ‘contrappasso’. Una pena definitiva, senza appelli e successive fasi di riabilitazione, nessuno sconto, pena certa, eterna. Un codice che non prevede redenzione almeno nell’Inferno, nel Purgatorio invece la pena subisce una correzione secondo una giustizia ripartiva che intende ‘purgar le gravi offese’. Le anime del Purgatorio accettano la pena, sono aperte al perdono: sia a donarlo, sia a riceverlo. La pena ha la funzione di ‘rimendare’, ossia di sanare la ferita causata dal peccato sia nell’animo del peccatore, sia nella società.
Nell’Inferno, sostiene Sartre, la pena perpetua rappresenta la giustizia di Lucifero; mentre nel Purgatorio si ‘intravede’ la clemenza di Dio che induce al perdono. L’inferno è la gabbia dove è racchiuso definitivamente il male, dove esso non può più nuocere agli altri se non a chi ha compiuto il male stesso; circoscritto nel regno di Lucifero celebra l’apoteosi del suo infausto significato, conoscibile soltanto ai dannati, chiamati ad espiare il male oltre ogni ragionevole comprensione. Nessuno potrà mai significare la condizione di sofferenza dei dannati, indicibile e irrappresentabile, condizione esclusiva di appartenenza al dannato. Questa sembra essere la pena delle pene, la massima condanna che va oltre ogni norma del codice penale di Dio, di quel codice di cui è esecutore e al contempo giudice Lucifero su delega di Dio, poiché Dio poi è chiamato ad esercitare la misericordia.

La domanda: «Chi dà a Dante il diritto di ergersi a giudice dell’umanità?». Si erge a giudice mosso da un desiderio di rivalsa nei confronti degli uomini, mettendo il suo dolore per l’esilio e per le ingiustizie patite per mano dei fiorentini a confronto con gli altri peccati degli uomini, in proporzione crea un metro di valutazione per sé e per gli altri, inscrivendo in esso le norme di condanna. Non vi è dunque il principio di equità né di serenità di coscienza, tutte le forme allegoriche di pena sono lo specchio del suo animo, infuocato di vendetta e di risentimento, superbia che traduce e nasconde magnificamente in metafore e similitudini. Ci dà una giustificazione del suo essere giudice: Giustizia mosse il mio alto fattore; / fecemi la divina podestate, / la somma sapienza e ‘l primo amore, vale a dire, la giustizia spinse il mio grande artefice (Dio) a crearmi, mi fece la divina potenza, la somma sapienza e il primo amore. In tal modo certifica la sua autorità e autorevolezza di giudice, tutto gli è consentito, nessuna cosa che riguarda gli uomini e Dio è esclusa, la Commedia diventa compendio delle leggi di Dio, scritte da Dante, nel suo modo di essere e sentirsi Sommo, al di sopra di ogni cosa, elevato al cielo, quasi a sedere alla destra di Dio. Tra l’altro, nella sua concezione di giustizia vi sono casi limite che svolgono un ruolo centrale, allo scopo di esplorarne le eccezioni; ad esempio, i pagani sono salvati dall’infinita misericordia di Dio. Nel sistema giuridico medievale il sistema di singole eccezioni permetteva di conciliare la validità delle norme giuridiche con le contingenze del quotidiano; di questo modus operandi Dante si serve in alcuni casi per ‘ricorrere’ alla misericordia di Dio.

In un importante saggio Dante e i confini del diritto, lo scrittore statunitense Justin Steinberg ci invita a ragionare sul modo in cui la giurisprudenza medievale abbia aiutato Dante a costruire il suo viaggio ultraterreno fatto di incontri con le varie personalità che si avvicendano nel corso della narrazione, nonché della edificazione del proprio universo fantastico. I riferimenti alla giustizia si trovano soprattutto nel De Monarchia. L’esigenza di Dante di mettere in scena la giustizia è dettata dalla voglia di dimostrare la propria innocenza dalle accuse che gli erano state rivolte. Indubbiamente in lui vi era il forte desiderio di vendetta, e magari se non fosse stato per la persecuzione ingiusta che ne aveva acceso il risentimento, non avrebbe mai scritto il poema. Per gli uomini del mondo che mal vivono è necessario, secondo il poeta, ripensare il proprio agire in corrispondenza delle leggi di Dio e di quelle della giustizia terrena, con particolare riferimento a quella esercitata dai regnanti. L’affermazione della giustizia si manifesta nella sottomissione ad essa attraverso la punizione che toccherà ad ognuno dei dannati, i quali passano dal timore della punizione al desiderio di subirla affinché si realizzi l’armonia interiore. L’idea di Giustizia di Dante è che essa viene da Dio, secondo un principio retributivo, secondo il quale al bene corrisponde il bene e al male corrisponde il male. Nella Divina Commedia, la vendetta divina in ordine al reato elargisce la giusta pena in relazione al male compiuto. Nell’Inferno si punisce l’atto; mentre nel Purgatorio si punisce l’intenzione della persona, il movente – se vogliamo.
La pena ristabilisce l’ordine e l’armonia dell’universo, rimette le cose a posto, nella concezione di armonizzazione dell’universo di Dio. La giustizia per Dante si configura come virtù dell’uomo e al contempo è principio morale fondante della società.

La vita dell’uomo ogni giorno è messa alla prova: le vicissitudini buone e cattive si alternano, confluiscono nel corpo e nella mente dell’uomo e ne influenzano l’agire. È una gran bella cosa la vita, tuttavia presenta pericoli, agguati che inducono a sbagliare, a fare scelte difficili, impensabili, dolorose. È appunto una Commedia; già, Commedia, così come l’ha chiamata Dante, non tragedia. Dante ci prende per mano nel suo viaggio, ci accompagna nei tormenti e nelle gioie della vita, con similitudini, metafore che rivelano la complessità della vita interiore in cui lo spirito potrebbe sollevarsi verso quello stadio di armonia che è principio e origine della vita, dell’universo e di tutte le cose.
La Commedia è straordinariamente ricca di contenuti, una delle più affollate opere della letteratura, un compendio di morale, di giustizia, di fede, di religione, di vita. Dante, seppure è lontano storicamente da noi, ci è vicino emotivamente, per le situazioni rappresentate, oltre che per le riflessioni sul destino dell’uomo.
Nel suo compito di viandante nell’aldilà, anticipa in un certo senso le decisioni di Dio. Difatti, osò prevedere il giudizio di Dio sugli uomini, condannò e premiò sia pure per finzione letteraria tutti i personaggi inclusi nel poema. Condannò Francesca e commiserò Francesca. Benedetto Croce afferma: «Dante, come teologo, come credente, come uomo etico, condanna quei peccatori, ma sentimentalmente non condanna e non assolve». Il vizio è l’Inferno. Il passaggio dal vizio alla virtù è il Purgatorio. La condizione degli uomini perfetti è il Paradiso.

 

3. La grandezza di Dante

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Il primo importante documento sulla circolazione dell’Inferno si deve a Francesco da Barberino (1264-1348), notaio, poligrafo e artista, che probabilmente Dante conosceva bene. Francesco da Barberino in una nota redatta tra la fine del 1313 e il marzo 1314 scrive: «Dante Alighieri in una sua opera che s’intitola Commedia e tratta, tra molte altre, di cose infernali, presenta Virgilio come proprio maestro». È la prova che la Commedia, la cui elaborazione ebbe inizio tra il 1305 e il 1307, era già ultimata, forse già nelle prime due cantiche.

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Cosa scoraggia l’interesse e la lettura della Divina Commedia?
- È stata scritta sette secoli fa: la vita è cambiata, le esigenze sono diverse. È un’opera ideologica e la società attuale è distratta da altri interessi.
- La dimensione dottrinale è dominante e la visione di Dante sul mondo è sempre presente, poiché lo scopo non è solo quello di intrattenere, piuttosto quello di enunciare concetti filosofici e teologici.
- Un’opera complessa in cui le istanze umane sono presenti: amore, odio, potere, dolore, morte, sofferenza. Si aggiunga anche la necessità che bisogna dotarsi di un commentario o di un’enciclopedia durante la lettura per gli innumerevoli intrecci storici, filosofici e teologici sempre presenti in ogni terzina.
- Dante parla anche della sua vita privata, e ne parla come se tutti fossero al corrente di ciò che sta dicendo.

Una certa difficoltà di lettura è plausibile almeno in parte, tuttavia non può essere assunta a pretesto per escluderla. In verità, anche il peso interpretativo che gli è stato imposto dalla critica contribuisce a gravare sulla comprensione. Per riuscire ad amare Dante e la Divina Commedia bisogna avere chiara la genesi dell’opera, capire qual è il suo scopo e quali sono gli antecedenti letterari dell’opera.
Comprendere i significati allegorici, le tematiche trattate, la concezione dello spazio e del tempo, la simbologia dei numeri, per avere una visione d’insieme anche all’interno di ogni Cantica, giacché un’intera epoca della storia d’Italia e d’Europa si riassume nell’opera. Dante fece della propria esistenza la ragione stessa della sua opera, tant’è che volle essere riconosciuto come l’auctor cristiano al pari di Virgilio, auctor pagano.

con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesimo prenderò ‘l cappello

Per Boccaccio aveva diritto a più titoli:

E di tanti e sì fatti studii non ingiustamente meritò altissimi titoli; però che alcuni il chiamarono sempre poeta, altri filosofo, e molti teologo, mentre visse.

Il titolo di poeta comprende gli altri titoli. La Divina Commedia è insieme opera creativa e compositiva; cioè è strutturata in modo tale che raffigura lo scenario di un 'altro mondo', ossia dell’altro mondo con i suoi confini geografici dei tre regni e le leggi che li regolano. Nino Borsellino nel suo Ritratto di Dante (Laterza, 2007) così definisce il poeta:

Dante è un attore, il primo attore del suo poema. Ma egli è anche, anzi soprattutto, l’autore, il creatore di un mondo fantascientifico, ma anzi è il nostro, che egli rievoca continuamente, per allusioni talora, che nascondono circostanze private ignote anche ai primi lettori, ma spesso con dettagli di cronaca cittadina.

Il poema fu composto – secondo la ricostruzione cronologica più attendibile tra il 1306 e il 1309 – nel pieno della sua maturità di uomo e di scrittore. I suoi modelli di riferimento furono Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio. Dante assimilò da essi il ritmo narrativo, le descrizioni, le modulazioni delle azioni. La lingua del poema diventerà la lingua di tutti, del parlato, la lingua in continua evoluzione: trattiene e migliora la lingua dei dialetti, conia neologismi, recupera da altre lingue antiche e moderne termini che confluiscono nel suo grande vocabolario. La grandezza di Dante è un dato inconfutabile, diventando nel tempo quasi un luogo comune, come a dire: «sì va bene è il sommo… ma non andiamo oltre». Un modo sbrigativo per difendersi dalla sua grandezza, per non leggere la sua opera, per non confrontarsi con le sue tesi, per non penetrare in un mondo che forse fa paura, ma soprattutto per non tediarsi del suo modo di rappresentazione della storia e delle cose della storia.
La sua fortuna di poeta è sempre oscillante, con oblio e ritorni, nonostante il rilievo culturale della sua opera sia rimasto sempre valido; d’altronde anche le mode letterarie hanno il loro peso, altrimenti non si spiega come il Cinquecento contrappose Petrarca a Dante, e il Seicento relegò l’uno e l’altro tra le anticaglie. La disputa fra antichi e moderni conobbe in quelle epoche una generale caduta d’interesse che ne compromise la fortuna critica e poetica. Dante più degli altri conobbe il disinteresse, l’indifferenza, l’oblio.

Tutti però devono qualcosa a Dante: poeti, scrittori, filosofi, musicisti e pittori. Il genio di Dante è stato riconosciuto da tutti quando il poeta era ancora in vita. Solo per citare alcuni pittori: Raffaello era stato cresciuto nel culto di Dante, raffigurandolo sia nel ‘Parnaso’ che nella ‘Disputa del Sacramento’ sulle pareti della stanza della Segnatura. Michelangelo fu definito ‘Dante della pittura’, che tra l’altro conosceva vari canti della Divina Commedia a memoria. Nei suo affreschi della Cappella Sistina sono evidenti gli influssi danteschi, in particolar modo nel ‘Giudizio universale’.
Illustrare la Divina Commedia è stata sempre un’impresa ambiziosa quanto stimolante per gli artisti di tutte le epoche. Il francese Gustave Dorè illustrò nel secolo XIX gli aspetti più realistici dell’opera dantesca. Un altro significativo illustratore dantesco fu Amos Nattini, che, incoraggiato da Gabriele D’Annunzio, realizzò una serie di 100 tavole che costituirono l’illustrazione di una speciale edizione della Divina Commedia.
In ambito musicale nell’Ottocento vi fu una particolare predilezione per la prima cantica della Commedia. Solo a mo’ di esempio, ricordiamo la canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro intonata, fra gli altri, da Luca Marenzio (1553-1599), compositore cantore e liutista e soprattutto il più acclamato autore di madrigali del suo tempo; oltre al celebre ma purtroppo perduto Lamento del Conte Ugolino di Vincenzo Galilei (1520-1591).
Nel XIX secolo non mancano lavori pregevoli: Il conte Ugolino (1828) per basso e pianoforte e Ave Regina (1844) per soprano, contralto e archi di Gaetano Donizetti. Pater noster per coro (1879), Ave Maria per soprano e archi (1880), Laudi alla Vergine Maria per coro femminile (1886) di Giuseppe Verdi.
Il compositore russo Boris Tischenko (1939-2010) dedicò al poeta un ciclo sinfonico intitolato Beatrice costituito da cinque sinfonie. E già, l’imponente presenza di Beatrice non poteva non essere notata musicalmente. Nel 2000, compose la Seconda Sinfonia, sottotitolata Abbandonate ogni speranza voi che entrate.
L’inglese Granville Bantock (1868-1946) compose nel 1901 Dante and Beatrice, rielaborato poi nel 1910.
Il russo Vladimir Martynov (1946) compose l’opera La vita nuova.
Tanti altri compositori e musicisti, fra i quali, Mario Castelnuovo Tedesco (1895-1968), Franz Liszt (1811-1886), Nicolai Jacobsen (1979), Anton Rubinstein (1829-1894), approdarono alle opere dantesche per ricavarne pregevoli spartiti musicali.
Dante amava la musica e frequentava i musicisti, come sottolinea Boccaccio (Della origine, vita, costumi e studii di Dante Alighieri di Firenze e delle opere composte da lui): «Sommamente si dilettò in suoni e canti nella sua giovinezza e a ciascuno che a quei tempi era ottimo cantatore e sonatore fu amico e ebbe usanza». I cantori dell’epoca componevano melodie ispirandosi ai versi del sommo poeta.

È Dante, e non l’opera in sé, a riscuotere attenzione e successo; grazie alla sua visionaria creatività è diventato un vero e proprio brand declinato in ogni settore del mercato, dal cinema al romanzo, dal videogioco al fumetto. È sempre l’Inferno ad attirare l’interesse artistico. La Panini Comics ha editato nel 2011, in chiave horror moderno, una serie di fumetti tratti a loro volta dal videogioco Dante’s Inferno di Electronic Arts. In questa rivisitazione gotica della Divina Commedia, Dante è un crociato che torna a casa dalla sua Beatrice ma la trova uccisa. Sconvolto dal dolore, il poeta entra nell’Inferno per capire le ragioni dell’assassinio dell’amata e per tentare di salvarla. Il suo cammino verso la verità sarà però ostacolato da creature infernali. Una versione pop-moderna dell’opera di Dante che sorprende e al contempo diverte.
L’Editore Bonelli invece ha pubblicato Speciale Dampyr, personaggio del fumetto intitolato La porta dell’inferno, ambientato nell’Oltretomba dantesco e ispirato al lavoro di Dorè.
Non potevano mancare Topolino e Paperino: l’editrice Giunti ha pubblicato nel 2016 due fumetti dal titolo L’Inferno di Topolino e L’Inferno di Paperino.

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Se Dante è saccheggiato, ripreso, riscritto, reinventato, una ragione ci deve essere e va ovviamente ricercata nella sua grandezza, nel suo modo di essere personaggio accattivante per storie moderne in formato cinematografico, fumettistico e mediatico. La stessa cosa non capita con nessun altro personaggio, e nemmeno con Leonardo, con Shakespeare o Manzoni. Dante è Dante, è l’unico letterato che non ha bisogno del cognome per identificarsi, dire Alighieri è controproducente.

2. Tutti lo conoscono, pochi lo leggono

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Dante tutti lo conoscono. Pochi lo leggono. Amato dai dantisti. È studiato però con affanno dagli studenti. Benigni lo ha letto in televisione e nell’aula del Senato (4 maggio 2015), in occasione del 750° anniversario della nascita. La cultura televisiva (unica realtà percepita da milioni di persone) impera e quand’essa è ‘somministrata’ al pubblico da un comico dà forse maggiore diletto. Fatto rilevante è che Dante sopravvive grazie al suo nome e cognome, ma della Divina Commedia e delle altre sue opere gli italiani sanno ben poco.
Si è conclusa la stagione della cultura, nonostante gli sforzi anche governativi di ringiovanirla alla stregua di una donna vecchia che costantemente si sottopone ad interventi chirurgici per migliorare l’aspetto del viso e del corpo, ma rimane pur sempre una donna rattoppata che non crea più stupore. Sui Grandi della letteratura è forse calato il grande silenzio? La funzione dell’intellettuale è in liquidazione? Un tempo l’intellettuale fondava la propria opera sul presupposto che la storia avesse un senso, prestava il proprio impegno per quel senso al fine di ridefinirlo, aggiustarlo, sui principi del fare cultura. Oggigiorno si avverte l’assenza di ‘quelle cose’ che negli anni ’70 e ’80 rappresentavano la voglia di impegno nella cultura e fungevano da stimolo nell’innovazione sociale, nel pensiero, nella riflessione, nel contatto umano. Cos’erano ‘quelle cose?’. Essenzialmente le fabbriche, gli operai, il ceto medio, che avevano un determinato peso specifico nel contesto contemporaneo. Di ‘quelle cose’ oggi rimane ben poco: il nuovo capitalismo tecnologico e finanziario ha frantumato l’architettura sociale indispensabile alla conoscenza, al sapere e alla divulgazione del patrimonio culturale nazionale. La povertà di oggi è anche culturale: mancano i lettori, gli scrittori veri scarseggiano. Ogni cosa che riguarda l’individuo e nell’insieme la società è resa fluida e finisce nelle tubature di scarico, trascinando con sé la memoria e la speranza di futuro. In Italia, la circolazione del sapere è in aderenza all’ovvietà e il valore della fiducia in essa è scarso. Leggere i classici permetterebbe invece un confronto con un mondo culturale distante e vicino, del quale si avverte ancora l’esigenza di comprenderlo meglio e di rivitalizzarlo nel contesto dell’attualità. Distante per l’intervallo storico e temporale; tuttavia vicino per il suo innegabile aspetto fondativo della civiltà occidentale.
Questi sono tempi brutti e difficili, ma in ambito letterario l’Italia ha una tradizione di studi superiori molto importante che deve essere salvaguardata: ma salvaguardare significa ripensare e rinnovare.
Dove sono gli intellettuali? Cosa fanno gli scrittori? I poeti contemporanei? Quest’ultimi sono fin troppo impegnati alle loro produzioni,  preferiscono i salotti di quattro dame all’impegno al quale è invece chiamato il poeta, quell’impegno civile di cui Dante ci ha trasmesso la testimonianza con un’opera che resiste, per fortuna, e che nonostante tutto vive e rappresenta un modello di poesia, e non solo.
Asor Rosa non ha dubbi:

Se fino agli anni Settanta riesci a collocare gli scrittori entro categorie definite, già nel decennio successivo il quadro appare disintegrato. […] Fino agli anni Settanta, il panorama si compone di scelte nitide, dagli anni Ottanta in poi, e in misura crescente, questo non è più possibile. Si pensi agli ultimi narratori degni di considerazione: Mazzucco, Ammaniti, Vinci, Giordano… Ognuno di loro, necessariamente, va per proprio conto: la cosiddetta «società letteraria» si è totalmente disintegrata (Il grande silenzio, Laterza, 2010).

La parola scritta non può che essere politica, in quanto è depositaria di un alto significato della responsabilità dell’impegno del poeta, ed è condivisione tra la storia personale del poeta e quella di tutti gli altri individui. La poesia fa accadere sempre qualcosa di buono. Essa è nell’uomo e parla dell’uomo, dei suoi rapporti, delle speranze, delle disperazioni, delle gioie, del passato e del presente. Parla di ciò che è contenuto nell’Io, ma anche di ciò che è latente. Dante docet.
L’assenza di lettura connessa alla sua importanza sociale è anche riconducibile alle abitudini di pigrizia del lettore, che preferisce il comodo divano per saziarsi di programmi televisivi inutili e demenziali. E pensare che un tempo la televisione mandava in onda (1963-1968) Almanacco, programma di divulgazione con cadenza settimanale toccando argomenti di scienza, storia e costume; nel comitato di redazione figuravano studiosi e docenti universitari come Carlo Bo, Alfonso Gatto e Gabriele De Rosa. Negli anni ’60 Non è mai troppo tardi era un corso di istruzione popolare a cura di Alberto Manzi.

Non si legge, ma si pubblicano quintali di poesie che fanno rabbrividire per le banalità esplicate. La poesia non fa tirature. Tutti si avvalgono (indegnamente) del titolo di poeta. Il poeta nel terzo millennio ha una grande responsabilità: dovrà innanzitutto comprendere che quanto più scarsa è la disponibilità della gente all’ascolto, tanto più intensa è la necessità della gente di essere ascoltata. È una paradossale condizione della società, la quale ormai stenta a proteggersi dall’eccesso di proposte che provengono da ogni ambito sociale.
La poesia è percepita come un’attività arcaica, estranea al ‘mercato’. Si riscontra l’assenza di una lingua autorevole e credibile, fruibile da tutti, non elitaria, che sappia opporsi al linguaggio dell’omologazione di massa. La forza della poesia, per Dante, consisteva nella capacità di trasmettere la verità, di significare e di osservare le cose con la sensibilità insita nella propria natura di poeta, al punto di creare un ponte fra la luce dell’intelletto e le cose invisibili.
La poesia può opporsi al degrado sociale, può fare in modo che la letteratura classica conservi la sua autenticità.
Cultura non vuole dire leggere tanti libri o imparare nozioni, ostentare in ogni modo erudizione, recitare dotte citazioni in latino, rievocare a vanvera letterati del passato. Anzi, vuol dire sviluppare idee, presiedere ogni giorno al motore della mente per oliarlo e farlo partire, ragionare, riflettere, ponderare. Il tempo di questa società è sublimato (nella sua accezione scientifica): si trasforma direttamente dallo stato solido allo stato aeriforme, con la conseguenza che non si riesce a comprendere più né lo stato né la sua condizione temporale. Sì è sempre indaffarati e la vita scorre con continui rimandi al dopo, costantemente in condizioni di disturbo. Il tempo è così ristretto che ha prodotto profondi mutamenti a livello individuale e collettivo, i quali generano cicli ripetitivi di occupazioni, automatizzati e corrispondenti al concetto di un benessere corporale ossessivo. C’è, ad esempio, uno strumento che ormai nessuno utilizza: l’agenda. Non ha più senso scrivere appuntamenti; ogni cosa si sviluppa in un segmento temporale così breve che non richiede di essere ricordata. L’ozio contemplativo e la lettura in solitudine sono attività che non si tengono in considerazione. È in atto il totale controllo delle coscienze. In questa sconcertante realtà lo studio è demandato nelle aule scolastiche con le consuete forme di insegnamento, dove il piacere della lettura è commisurato ad un alto tasso di disinteresse, e gli studenti non riescono a dare un senso al loro dovere di studio, presi come sono da altri aspetti affabulatori, dei quali sono vittime inconsapevoli.

 

 

1. Perché leggere Dante

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Un’intera epoca della storia d’Italia e d’Europa, quella contrassegnata dalla crisi delle istituzioni civili e religiose del Medioevo, si riassume nell’opera di Dante Alighieri. Essa appartiene perciò a tutta la cultura dell’Occidente, alla sua memoria intellettuale e alla sua coscienza spirituale e politica. (Nino Borsellino)

La Divina Commedia è opera di altissimo valore letterario, di bellezza e di raffinatezza.
Nei suoi testi vi è la vita, il destino dell’uomo, la fede e Dio. Dante Alighieri (1265-1321) inizia un viaggio periglioso (intorno ai 35 anni), oltreché fantastico e illuminante. Un viaggio che, attraverso i regni dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, lo condurrà fino alla visione di Dio.
La Divina Commedia contempla l’esistenza terrena dell’uomo in tutta la sua ampiezza. Non si può non leggerla: fa parte del nostro patrimonio culturale.
L’opera scritta circa sette secoli fa, in un tempo che dilata le distanze con la modernità, è oggi uno dei libri più letti al mondo dopo la Bibbia. Sì, c’è la lingua che, se si può dire, disturba la comprensione e l’agilità di lettura, ma con un po’ di impegno si entra con facilità nella ‘contemporaneità’ dei versi danteschi. Nelle università orientali è studiata con grande passione, anche in quelle molto lontane per tradizione e cultura dalla nostra, come nel Vietnam e in Giappone, dove ci sono specialisti di Dante. La Divina Commedia, nata alla fine dell’età medievale, esplicita, in forma di alta poesia, l’identità culturale costituitasi dalla fusione di due grandi tradizioni: la greco-romana e l’ebraico-cristiana. Dante si fece portavoce delle concezioni universali e dell’uomo, nelle quali ha messo le sue radici la società moderna.
In questa opera Dante dimostra la sua modernità in aderenza ad una visione universalistica dell’uomo che tende a una verità che superi la parzialità delle singole percezioni della realtà. La sua contemporaneità rende possibile l’immagine dell’essere umano nel suo ‘cammino’, fingendo di non sapere, di non riconoscere i personaggi che incontra. Lo scopo dichiarato, educativo, del poema è di indurre gli uomini sulla via del bene, mediante la rappresentazione delle pene e dei premi che spettano rispettivamente ai peccatori e ai buoni. Alighieri sceglie i dannati, i penitenti o i beati in base alla loro notorietà, ovvero tra gli esempi più importanti e noti di un determinato peccato o di una certa virtù; nella descrizione riscontriamo personaggi reali e storici oppure letterari e immaginari, ma anche personaggi di ‘cronaca nera’ del tempo di Dante, ad esempio Paolo e Francesca. Quanto alla lingua, si serve del volgare fiorentino, benché ricorra anche a latinismi, francesismi, provenzalismi e prestiti da varie altre lingue.
Virgilio è allegoria della ragione umana che guida Dante solo sino al Paradiso terrestre posto in cima al monte del Purgatorio, che è a sua volta allegoria della felicità eterna; mentre sarà Beatrice a guidare Dante fino al paradiso Celeste, allegoria della felicità eterna e del possesso delle virtù teologali.
La fama di Dante è un fatto accertato: è il poeta del mondo, colui che ha innalzato la poesia, le cose dell’uomo e di Dio alla massima espressione dell’arte, della lingua e soprattutto della forma. La Commedia è propedeutica e necessaria non solo agli studiosi, ai dantisti, agli accademici, ma soprattutto agli uomini (lettori) predisposti a comprendere la storia della nostra civiltà, delle nostre tradizioni che nel tempo hanno stabilito i fondamenti giusti dell’agire umano in concordanza con le leggi di Dio.
Del culto dantesco, iniziato nel Trecento, sono prova i circa 700 codici giunti a noi, continuerà nel tempo e nel tempo diverrà più specificatamente storia del tempo. Non l’autografo dantesco, tuttavia oggi si segue il testo della «Vulgata» stabilito da Giorgio Petrocchi, critico e filologo, che ha impostato l’edizione della Divina Commedia in base alla tradizione manoscritta anteriore a Giovanni Boccaccio. Nel tempo il culto ha subito rallentamenti: nel Quattrocento e Cinquecento fu preferito a Petrarca; nel Seicento, l’interesse diminuì, rinascendo però in parte nel Settecento; mentre nell’Ottocento con la critica di Carducci iniziò uno studio critico e più scientifico del testo.
Nel 1888 si costituì la Società Dantesca nella sala di Leone X in Palazzo Vecchio dove fu approvato lo Statuto e fu eletto  Presidente provvisorio (e in seguito onorario) Pietro Torrigiani, sindaco di Firenze. Organo ufficiale della Società è la rivista Studi danteschi, fondata nel 1920, finalizzata a raccogliere e a pubblicare gli articoli scientifici riguardanti Dante Alighieri. Per quanto concerne la diffusione e la promozione dell’opera dantesca, nel 1899 veniva istituita la pubblica lettura del poema, avente appunto lo scopo di assicurare in perpetuo la lettura e illustrazione della Divina Commedia e conciliabilmente con essa anche la pubblica esposizione delle altre opere di Dante nel salone denominato ‘Sala di Dante’.
Nel 2021 ricorre il settimo centenario della morte del Sommo Poeta, avvenuta nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, nell’esilio di Ravenna. Questa città si prepara a celebrare ‘Dante 2021’ con la partecipazione di studiosi di varia estrazione (filologi, linguisti, letterati, storici), di attori, giornalisti e conduttori televisivi. Sarà questa manifestazione, di dimensione europea e internazionale, un’occasione per tentare di coinvolgere un pubblico più vasto per renderlo partecipe non di un evento ma di una vicinanza anche affettuosa e di stima nei confronti di un illustre italiano. L’obiettivo è di realizzare finalmente un’educazione permanente allo studio e alla divulgazione di Dante. Vi è anche la finalità di riproporre l’istituzione di una cattedra di Studi danteschi.
Porre quindi tutte le forze della cultura a sostegno di una dimensione divulgatrice che sappia colpire gli interessi non solo degli studiosi ma anche della gente, poiché tutto ruota attorno a Dante. Nicola Gardini sul poeta così si esprime:
Dopo secoli di esegesi e di scandaglio filologico, che pure non hanno rivoltato tutte le pieghe del testo, l’indagine si sta spostando sempre di più sul campo della ricezione e della fortuna. Dante, infatti, non è solo l’autore di importanti scritture. Dante è un fenomeno, un ingrediente culturale, un’icona, un reagente pop: è la politica, è la metafisica, è la realtà, è il corpo, è il sesso, è quello che ti pare. […] Dante va bene o può andar bene per tutti, mette d’accordo tutti, basta trattarlo nelle maniere più diverse (Tutto ruota attorno a Dante, Il Sole 24 Ore, 2 agosto 2015).

C’è da capire come trattarlo ulteriormente, cosa utilizzare delle sue scritture, in un lavoro paziente e intelligente, già perché Dante è riconducibile non soltanto alla Divina Commedia ma anche alle altre sue opere. In verità, tutti siamo chiamati a una rilettura dantesca, liberandoci di antiche e consolidate asserzioni sui testi. Nick Havely (autore emerito di letteratura inglese, Università di York) afferma che non è attendibile l’opinione corrente che il Seicento sia stato poco incline a Dante, anzi in quel periodo la lettura di Dante rinvigorì l’interesse per la Commedia.

Ci sono cose da mettere a posto, riguardare, riscrivere, non tutto è stato fatto o detto su Dante. La letteratura insegna e dà conoscenza di altri mondi, altre vite, altre storie, altri concetti filosofici e teologici. Ogni giorno, in qualunque parte del mondo, viene pubblicato un libro, un articolo, un saggio su Dante.
La Divina Commedia non è una lettura per eruditi, né siamo obbligati a condividere le sue concezioni filosofiche e teologiche, semmai risulterebbe interessante conoscerle e apprezzarle nella forma poetica in cui sono trattate, vale a dire la bellezza dei versi, di certe similitudini, o della infinita immaginazione del poeta. Ci vuole uno sforzo e un piacere della conoscenza per leggere Dante, ma ne vale la pena.
Borges era affascinato dalla prodigiosa immaginazione e capacità stilistica del fiorentino, tanto da scrivere in un suo saggio:

È noto a tutti che i poeti procedono per iperboli: per Petrarca, o per Góngora, ogni chioma di donna è oro e ogni acqua è cristallo; questo meccanico e grossolano alfabeto di simboli indebolisce il rigore delle parole e sembra fondato sull’indifferenza dell’osservazione imperfetta. Dante si vieta tale errore; nel suo libro non c’è parola che sia ingiustificata.
La precisione che ho appena indicato non è un artificio retorico; è affermazione dell’onestà, della pienezza con cui ogni circostanza del poema è stata immaginata. E altrettanto può dirsi dei dettagli di natura psicologica, così ammirevoli e al tempo stesso così semplici.

Ecco la grandezza di Dante!

Il mondo di Dante, quello di circa settecento anni fa, presenta gli stessi bisogni umani: l’amore, l’odio, il dolore, la paura della morte, la fede, la religione, la politica; tuttavia il poeta ci dà un’idea di salvezza, l’idea di un viaggio che ognuno di noi nella propria vita dovrebbe compiere per valutarne il senso.
Nel canto del Paradiso invoca Apollo (allegoria del dio cristiano), che, nella sua onnipotenza è anche dio del canto: «O buon Apollo, a l’ultimo lavoro / fammi del tuo valor sì fatto vaso, / come dimandi a dar l’amato alloro», per ottenerne gloria ma anche per essere contenitore capace di accogliere e trasmettere la voce divina, in un linguaggio umano (poesia), che non offre dolcezza o consolazione, bensì annuncia tutta la ‘violenza’ della verità.

Il cardinale Ravasi in un’intervista (Il Messaggero, 25 gennaio 2014) ha spiegato:

Dante in una frase dice su realtà profonde tutto quello che raffinati intellettuali non sarebbero in grado di spiegare nemmeno con migliaia di parole. Ha costruito un sistema a tutti i livelli, con il suo spirito ‘sistematico’ medievale – un respiro che noi abbiamo perso – può esserci d’aiuto. Spesso ci si perde dietro ai piccoli particolari, non si tiene conto di tutto l’affresco. I grandi maestri sono quelli che sono stati capaci di darti una visione, non solo un’attrezzatura. La sua voce è ininterrottamente striata di protesta contro ingiustizie e prevaricazioni. Dante non teme di scendere nella valle della storia e nella polvere delle vicende, non di rado ‘infernali’, che noi viviamo. Se ci fosse Dante oggi, sarebbe stato implacabile sugli scandali. Ma c’è una differenza fondamentale: la cultura contemporanea ha l’elemento della curiosità. L’accusa è fatta con gusto quasi erotico nell’entrare in questo mondo degradato, per una questione di polemica. Manca il turgore dell’indignazione. Lo sdegno è una virtù, l’ira è un vizio.
Dante è necessario a tutti in tutti i tempi, sa intrecciare realismo e utopia, verità umana aspra e verità divina salvifica. Per questo, sarebbe utile leggere un canto dantesco al giorno come ‘breviario laico’.

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