Il blog di Elio Ria

Spighe di poesia

Poi tutto si aggiusterà...

dic 152020

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È festa! Già è festa, intorno brulicano le luci, le vetrine, la gente. In che modo lo sia per davvero nessuno lo sa. Che festa è mai questa? A chiederlo in giro nessuno saprebbe darne una buona risposta. È la festa in cui ci scambiamo i regali, ripete qualcuno. Ah ecco! Una ragione almeno c’è. Fare i regali, dunque. Possibile che ci siamo rincoglioniti in questo modo? Sembrerebbe proprio così. C’è il virus alle calcagna, tuttavia la festa s’ha da fare. Sì. Facciamola. Come? Come facciamo di solito, facendo finta di nulla, e in tal modo salviamo tutto, almeno in apparenza. Poi si vedrà? Sì! State tranquilli, lo abbiamo già detto e lo ridiciamo ‘andrà tutto bene’. Allora non ci sono problemi. Sì, fintantoché non compariranno, e giù proteste e rabbia. Siamo fatti così. Come? Così come siamo, come vogliamo essere. Evviva la festa, allora. Auguri, baci e abbracci. Dopo sarà un’altra storia che ci farà dimenticare la festa ben presto, avremo mal di testa, pronti ad accusare e a giudicare.
Avrei voluto trascrivere qui un testo di poesia, poi mi sono ricreduto pensando che in questo momento la poesia non attecchisce, non prende nessuno, roba di altri tempi per nostalgici. Ma vi è un’altra ragione: sul Natale i poeti hanno annaspato, scrivendo poesie dense di buonismo e di noioso romanticismo, versi di miele e di zucchero, lievitati male. Ci vorrebbe un testo poetico spumeggiante con bollicine fresche di poesia. I poeti di oggi cosa sono? La copia di questa festa di Natale. Ammuffiti nelle loro labirintiche concezioni di poesia. Chi lo avrebbe immaginato: né Natale, né poesia.
Auguri!

Il Natale in solitudine di Ungaretti

dic 102020

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Natale
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con
le quattro
capriole
di fumo
al focolare

(Giuseppe Ungaretti)

Cos’è davvero oggi questa festa? Ma è una festa? Una festa è festa allorquando procura gioia e innalza il cuore all’infinito. Questa festa che ogni 25 del mese di dicembre assumiamo come la festa delle feste, la più grande e intensa, cosa in fondo ci dà? O dovremmo essere noi a darle? Certamente noi ad essa diamo il significato del consumo, dell’ossessione della tensione di felicità, dimenticandoci l’evento storico che ne deriva. Siamo fatti così. Ci dimentichiamo dell’importanza che le cose rappresentano, ci abbandoniamo facilmente all’effimero, osservando il mondo attorno a noi in superficie, anche guardare ormai è una fatica. Perché farlo? Ungaretti: ho la stanchezza sulle spalle. Il poeta ha fatto la guerra, ne conosce nei particolari la gravità e la sofferenza. E noi? Noi no! Ugualmente siamo stanchi di troppo luccichio, tuttavia in esso ci sguazziamo. Invoca il poeta la solitudine, essere lasciato come una cosa in un angolo per raccogliersi e non disperdersi. Raccogliersi nella propria intimità, in quel focolare di coscienza che dà forza per dimenticare quello che ha vissuto. Il calore (di breve durata) del camino lo conforta: quattro capriole di fumo. Poi c’è il fronte che lo aspetta nuovamente.
E noi? Noi come farfalle impazzite non riconosciamo i fiori, i profumi, il verde, la semplicità. Noi piangiamo per il cenone di Natale. Cenone di Natale! Ci mortifichiamo delle limitazioni di festa. Questa è la nostra angoscia.
Buon Natale!

 

Il Natale di Josif Brodskij

dic 022018

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Immagina, col fiammifero acceso, quella sera, la grotta,
e per sentire freddo ricorri alle fessure del piancito,
bastano le stoviglie per provare la fame,
quanto al deserto, è ovunque, in ogni dove.

Immagina, col fiammifero acceso, la grotta
a mezzanotte, il falò, silhouette di oggetti
e di animali, e, il viso nelle pieghe di un telo stazzonato,
anche Maria, Giuseppe e il Bimbo infagottato.

Immagina tre re, le carovane prossime alla grotta,
anzi tre raggi diretti su una stella,
cigolìo di carriaggi, sonagli tintinnanti
(quel bimbo non si è ancora guadagnato

rintocchi di campane nel turchino addensato).
Immagina che per la prima volta, di là dal buio
di uno spazio infinito, Dio ravvisi se stesso nel Figlio
fatto Uomo: un senzatetto in un altro negletto.

(Josif Brodskij, Immagina, col fiammifero acceso, quella sera, la grotta)


È nato un bambino in una grotta. È Infagottato e stretto al seno di Maria, con Giuseppe che attesta la grandezza dell’evento della nascita. C’è un fiammifero nell’immaginazione del poeta che riproduce in miniatura quella luce di tanti secoli fa. Manca il freddo di quella sera, e per sentirlo invita a ricorrere alle fessure del pavimento. Per provare la fame, invece, basta osservare le pentole. Il deserto c’è, c’è sempre, ovunque, non è necessario immaginarlo.
Brodskij rivede la sacra scena della nascita di Cristo nella sua condizione esistenziale: gli basta un fiammifero per attualizzare il tempo e raffigurarlo in un nuovo inizio estraniante ed evocativo. La ‘ritrattazione’ della scena sta a significare una comparazione per verificare cose simili e dissimili che riguardano entrambi: Gesù e il poeta, in senso lato Gesù e l’uomo.
Scrive: «Quel bimbo non si è ancora guadagnato/ rintocchi di campane nel turchino addensato», vale a dire non si è ancora guadagnato la gloria che Egli stesso si darà con l’esemplarità della sua breve vita. Non una gloria per diritto divino, ma una gloria conquistata con i patimenti e le fatiche.
Il poeta inserisce i due versi citati, nell’ultimo della terza strofa e nel primo della quarta, in una parentesi tonda.
Perché ricorre al segno ortografico della parentesi?
La risposta va ricercata forse nell’intenzione del poeta di evidenziare il concetto della proposizione che dà sostanza al disegno divino: un inciso anche visivo che deve significare l’importanza dell’evento.
Perché disgiunge i due versi?
Forse ad intendere un’interruzione del tempo di narrazione e di contemplazione; una pausa che il lettore deve affrontare per comprendere bene ciò che viene detto, così come ha dovuto fare il poeta, per necessità di cristallizzazione di sacralità. Infine, scrive. «Immagina […] che Dio ravvisi se stesso nel Figlio/fatto Uomo: un senzatetto in un altro negletto». Dio che ravvisa sé stesso nel figlio trascurato, senza un tetto come tanti altri.

Un bambino nel sole

feb 112018

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Costretto in casa, mentre fuori brilla il sole,
un bimbo di sette anni che dovrebbe poter giocare
in pace su un’altalena una giostra uno scivolo
scivolò su una lastra di metallo gelido, da obitorio.

(Tony Harrison, L’immagine allo specchio)


Fermi tutti: c’è la guerra. Non una, ma nessuna ragione. Un obitorio e un cimitero per concludere la storia di un bambino di sette anni che ha soltanto come giochi avversità e negazioni. Il sole brilla a prescindere poiché non sa o finge di non sapere?
Dentro casa c’è la preghiera (pronunciata sommessamente) di libertà. Fuori c’è la guerra che va dove le pare in costruzioni di inattese sospensioni di soste e di percorsi.
In verità, c’è un pensiero di guerra che non inciampa mai in ciò che vuole e rendere possibile, tranne la vita. Rimane il dire poetico che è la casa ospitale di amore di un poeta, che dà parola all’oscurità che lo circonda e la rimanda alla lastra di metallo gelido che altro non è che questa follia della guerra che abitiamo (anche) con indifferenza.

 

[Nella foto Esraa e Waleed, due fratellini di 4 e 3 anni, siedono fra le macerie di Aleppo, il giorno di Natale. Come 3,7 milioni di altri bambini siriani, non hanno mai vissuto un giorno di pace - ©UNICEF/ UN013172/Al-Issa]

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