Il blog di Elio Ria

Spighe di poesia

Prova di remissione dei peccati

mag 052018

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Poiché l'alba si spande, poiché l’aurora è qui,
e poiché la speranza, perduta da gran tempo,
si volge nuovamente verso me che la chiamo,
l’imploro, e tutta questa felicità è per me,


i funesti pensieri devono ora finire,
devono ben finire i sogni angosciosi
e soprattutto basta con le labbra serrate,
con l’ironia, basta con le parole ricche


di spirito e senz’anima, basta anche con i pugni,
stretti, e con la collera verso malvagi e stupidi
che accade d’incontrare, col rancore esecrabile,
con l’oblio ricercato in bevande aborrite!


Perché io voglio, adesso che un essere di luce
Ha illuminato il buio della mia notte fonda,
con un amore a un tempo primo ed immortale
per la grazia, il sorriso e la benevolenza,


voglio, da voi guidato, begli occhi dolci, ardenti,
da te condotto, o mano che stringerai la mia,
camminare dritto per sentieri di muschio
e per le strade ingombre di ciottoli e di pietre;


sì, voglio camminare dritto e tranquillo
nella vita, fin dove mi spingerà la sorte,
senza violenza, senza rimorsi, senza invidia:
sarà questo il felice dovere in gaie lotte.


Poiché ad accompagnare il lungo, lungo viaggio,
canterò arie ingenue, mi dico che lei certo
mi ascolterà contenta, traendone piacere:
davvero non desidero un altro paradiso.

 
(Paul Verlaine, Alla mia adorata Mathilde Mauté De Fleurville, IV)


La poesia ci rileva un altro Verlain, più dolce e remissivo. La speranza che accada qualcosa di nuovo nella sua disarticolata e confusa anormalità traspare nella luce di un sentimento mitigato e castigato dalle brutte avventure, dai brutti pensieri. Rimette i suoi peccati alla poesia (coscienza critica di maledizione e di benedizione) con slanci mistici, di purezza e delicatezza. I suoi amori folli per uomini e donne lo avvolgono nel vizio, nella fiacchezza, nell’assenzio, con compiacimento, per poi desiderare (invocare, implorare) il riscatto, per ricadere ancora. La poesia lo illude e lo riscatta, lo uccide e lo risorge. La poesia è l’ultimo cancello da attraversare per un percorso di salvezza e di perdono, ma altri cancelli ancora gli prospettano un cammino impervio; condannato a cercare, a cambiare, a rimpiangere, a rivedere, a non rispettare l’osservanza: un demone costretto a essere schiavo del suo inappagamento. La sua inclinazione è la maledizione, che in lui si manifesta nella singolarità di una bellezza esuberante che lo annienta in momenti di illusorio benessere. Demone per sempre. La remissione dei peccati e i buoni propositi sono soltanto un espediente per ingannare – come tradizione e storia vuole – la sua condizione demonica in conflitto con la  tenerezza di fanciullo sperduto nelle fiamme di un inferno che gli è luogo di sprofondamento e di abdicazione al male. Non è il seduttore del male, ma il sedotto dal male. Il paradiso è il suo inferno; rimette i peccati per riprenderseli tutti con bramosia e rinnovato fuoco di piacere, poiché non è demone, è schiavo del demone. Il suo risentimento e ripiegamento a una vita normale pare sia un appello al quietismo per continuare a sopravvivere nell’ineluttabile e perniciosa tentazione del peccato. D’altronde Verlaine non può essere che Verlaine, vale a dire maledettamente fanciullo umano, troppo umano in preda alle allegorie del demone, che lo adotta come esempio da seguire nella perdizione dell’altrove, di un vicino altrove nel quale è chiamato a distinguersi  e a misurarsi con le misure aritmetiche di una condizione esistenziale quasi impossibile e inspiegabile. Un altro paradiso sarebbe la riconferma del suo inferno.

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