Il blog di Elio Ria

Spighe di poesia

5. L’influenza di Dante nei poeti del Novecento

feb 132021

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Bisognerà attendere il Novecento per un crescente apprezzamento di Dante: dove la sua presenza nei testi di storici, critici, filologi, poeti del secolo sono ben rilevabili. Joyce lo ebbe a modello. Eliot assegnò al poeta della cristianità l’eredità della tradizione classica incarnata da Virgilio. L’influenza che Dante e la sua opera esercitarono sulla letteratura della seconda metà del Novecento è riscontrabile nelle opere di molti poeti. Il Novecento considerò la poesia un concentrato, escludendo l’idea che in poesia si potesse parlare di tutto. A queste preclusioni reagì soltanto una minoranza di poeti innovatori come Majakovskij, Eliot, Brecht, Williams, Neruda. Pound e Sanguineti volevano essere danteschi, ma la loro avanguardia produsse testi fin troppo grezzi dal punto di vista linguistico, addirittura Berardinelli li definisce «patologie autistiche del linguaggio poetico».
Si propongono di seguito alcuni poeti che hanno risentito dell’influenza della Divina Commedia nella stesura di alcune loro opere. Tale scelta tuttavia è da considerarsi personale, non ha quindi nessuna pretesa di completezza sull’argomento.
Borges, seppure in un primo momento confermò di non essere un buon conoscitore della lingua italiana, ammise di avere letto e riletto la Divina Commedia. In un’intervista degli anni Settanta rilasciata al critico letterario Lamberti Sorrentino disse:

Voi italiani potete vantare quello che considero il primo libro del mondo, e di tutti i tempi, che è appunto la Commedia. E tenga conto che io non sono cristiano. Voglio dire che il mio giudizio su Dante è letterario, non teologico. Io non ho sangue italiano, ma ho letto in italiano, una decina di volte la Divina Commedia. È incredibile quello che ha saputo fare Dante con la parola. Altri grandi e grandissimi sono irregolari, invece Dante ha scritto con un rigore e una lucidità che non fu data a nessun altro scrittore.

Come si accostò Borges alla Commedia? Probabilmente in tarda età, intorno al 1930: iniziò a leggere il poema in una edizione inglese con testo a fronte. Rilesse il poema a intervalli di tempo, in una dozzina di edizioni diverse, poiché era anche appassionato lettore dei commenti danteschi:

Gli italiani possiedono edizioni dei loro classici molto superiori a quelle di qualsiasi altra lingua. Ho avuto modo, come professore di letteratura inglese, di usare diverse edizioni di Shakespeare, per esempio, e i commenti sono molto poveri paragonati con quelli della Divina Commedia, perché nelle edizioni italiane si commenta ogni verso, non solo dal punto di vista storico o teologico, ma anche letterario.


Il poeta argentino dal 1940 e per un decennio scrisse alcuni testi creativi influenzati da Dante; pubblicò anche articoli sui personaggi di Francesca, Ulisse, Ugolino e sull’incontro di Dante con Beatrice. Successivamente alcuni di questi articoli furono rielaborati nella prefazione ad una edizione argentina della Divina Commedia in una collana popolare di classici. La fruizione dell’opera dantesca è riconoscibile in Borges a più livelli.
A un primo livello si scorge una curiosità sui generis, vale a dire Borges usa il poema come un’enciclopedia, una sorta di scrigno di erudizioni, una miniera di topoi e di invenzioni. Una prova tangibile è il Manuale di zoologia fantastica, dove le citazioni dantesche sono disseminate in tutte le parti del testo, in linea con la concezione di Borges che la letteratura è stata ‘fantastica’ in tutte le epoche storiche. L’architettura dell’oltretomba dantesco, le visioni paradisiache, sono godute dallo scrittore argentino come supreme invenzioni o ricreazioni fantastiche, pur riconoscendone il fondamento teologico e scientifico. A un secondo livello, ad esempio nell’Aleph, le suggestioni dantesche si avvicendano e si instaurano nella struttura del testo, ponendo in evidenza l’impossibilità della rappresentazione del Tutto, alla quale comunque Dante si avvicinò.

D’Annunzio pose attenzione nei riguardi di Dante e le presenze sono rivelate dai molti accenni sparsi nelle opere del poeta pescarese. Difatti, il dantista Luigi Scorrano in Modi ed esempi di dantismo novecentesco (Adriatica editrice salentina, 1976) considera alcuni testi dei validi exempla per mettere in luce le tracce dell’opera di Dante. Nel suo saggio si legge:

Si sa come D’Annunzio riuscisse particolarmente felice in molte trasposizioni del linguaggio altrui nel proprio. Nell’ambito dantesco basterà ricordare alcuni versi di Alcyone.

Aggiunge ancora su D’Annunzio, in riferimento al sonetto di Elettra (L’Alighieri, anno X, n.1, gennaio-giugno 1969):

D’Annunzio voleva stilizzare in forme e suoni danteschi il paesaggio e la storia volterrani, ma non è riuscito a quella fusione che altrove appare perfetta. Qui si avverte il peso dell’elemento dantesco, elemento lessicale preponderante; lo si avverte come qualcosa di estraneo che viene a introdursi nella struttura (o nella melodia) dannunziana soffocandone le libere movenze. Il pescarese non si accorge di questa gravezza, ma poiché si vanta di essersi nutrito di Dante, pensa di poter utilizzare Dante sempre e indiscriminatamente; non cerca un’espressione che gli sia peculiare, pensa solo all’espressione altrui come ad un’espressione sempre a lui congeniale quando sia assunta nel suo dettato; s’illude, cioè, sui limiti delle possibili utilizzazioni dei testi altrui.

Il rapporto con Dante va al di là di un semplice fenomeno di riuso: la presenza dantesca in un testo novecentesco è vettore di pensiero e di riflessione. Il caso di Montale è emblematico: un riutilizzo di materiale dantesco è presente in molti suoi testi con intenti comunicativi diversi. Quando fu invitato nel 1965 a partecipare come relatore al 'Congresso internazionale di Studi Danteschi' in onore del settimo centenario della nascita di Dante, ebbe modo di esprimere la propria opinione di poeta a quella dei critici. In evidente distacco dai critici rivendicò la propria personale lettura di Dante, una lettura da poeta a poeta. Montale cercò di dimostrare che l’avvicinamento a Dante non era in nome di una presunta modernità ma in virtù della congerie storica del ventesimo secolo:

Il mio convincimento invece – e lo do per quel che può valere – è che Dante non è moderno in nessuno di questi modi: il che non può impedirci di comprenderlo, almeno in parte, e di sentirlo stranamente vicino a noi. Ma perché questo avvenga è pure necessario giungere ad un’altra conclusione: che noi non viviamo più in un’era moderna, ma in un nuovo medioevo e di cui non possiamo ancora intravedere i caratteri.

Montale pur affermando che Dante non è moderno, osserva che questa distanza temporale che coinvolge i poeti con Dante non può impedire di comprenderlo, almeno in parte, e di sentirlo vicino, ma soprattutto non può essere «ripetuto». Precisa:

Esempio massimo di oggettivismo e razionalismo poetico egli resta estraneo ai nostri tempi, a una civiltà soggettivistica e fondamentalmente irrazionale perché pone i suoi significati nei fatti e non nelle idee. Ed è proprio la ragione dei fatti che oggi ci sfugge. Poeta concentrico Dante non può offrire modelli a un mondo che si allontana progressivamente dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò la Commedia è e resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale.

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Montale rivelò che il suo rapporto con l’opera dantesca era frutto di riverenza e di familiarità, distillato dalla spasmodica e ossessiva ricerca scientifica dell’analisi allegorica, che rendeva difficile una interpretazione moderna a un testo così distante. Difese Dante dagli studi della critica che vertevano a deformare l’opera e – anche se con toni garbati – polemizzò con Benedetto Croce, il quale ordinava di ignorare l’obsoleta impalcatura dell’opera, costituita da concetti filosofici «muti» per il mondo contemporaneo. Montale voleva salvare ogni aspetto dell’opera di Dante, poiché in essa intravedeva la «capacità del poeta di rendere sensibile l’astratto, di rendere corporeo anche l’immateriale». Il legame tra allegoria e senso letterale rappresenta la forza della Commedia, stante appunto la fusione perfetta tra la storia e il mito, dove ogni luogo è ben definito e ogni elemento che lo caratterizza è parte di un Tutto.

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