Il blog di Elio Ria

Spighe di poesia

6. Il dantismo, ovvero l’analisi ossessiva

feb 232021

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Il distacco da Dante della società larga da quella ristretta degli studiosi è ancora oggi notevole, sarà forse anche colpa dei dantisti che nelle loro interpretazioni dell’opera di Dante delimitano volontariamente qualsivoglia approccio anche dilettantistico del lettore, che invece potrebbe attraverso una lettura ingenua e fuori dai canoni della filologia e della critica intravedere la bellezza testuale e fantastica dell’opera stessa. Sì, perché l’impressione che danno i dantisti è che di Dante possano parlare soltanto loro, cioè coloro che presuppongono di sapere ogni cosa su Dante e sulle sue opere, ostacolando ogni tentativo di libera interpretazione, imponendosi una riflessione masturbatoria e ossessiva. Per i dantisti l’opera è paragonata ad un trattato scientifico, orfana della bellezza dell’immaginazione libera del lettore. Gianni Vacchelli in L’«attualità» dell’esperienza di Dante. Un’iniziazione alla Commedia (Triquetra-Mimesis, 2014) scrive:

Il lettore è subito catapultato dentro la vicenda, immediatamente coinvolto. Dante è profondo, Dante è spirituale, Dante è simbolico, iniziatico, mistico, ma non bara mai con i suoi lettori. Non dimentica che deve appassionarli, renderli partecipi, perché solo così, nel piacere della lettura e della parola, tutte le potenzialità simboliche entreranno in atto; e loro vivranno la storia, parteciperanno e si trasformeranno. Dante è scrittore. Sa parlare agli adulti, ai colti, alle donnette. Persino ai bambini.

Rincuora la precisazione di Vacchelli, ma c’è anche un aspetto del titolo che colpisce: viene utilizzato il termine attualità (tra virgolette) al posto dell’abusato termine di modernità. Ecco la giustificazione che fornisce l’autore:

Abbiamo messa tra virgolette la parola perché è citazione diretta, e Dante fu probabilmente il primo ad usarla in volgare, dal latino actualitas: «attualitade», termine filosofico scolastico per dire «“ciò che è in atto” e, pertanto, la relativa perfezione che ne deriva». Parola di compimento, di integrazione.

Qualche riflessione sul sostantivo «attualità». Il termine indica anche modernità; Vacchelli però non lo preferisce, sceglie «attualità» per conferire sostanza concettuale all’opera dantesca e ribadire che «attualità» nella sua accezione filosofica è «eternità», quindi non nel significato dell’infinita estensione del tempo ma nel significato di assoluta atemporalità, cioè scevra da qualsiasi successione temporale. Attualità-eternità identificata con un puro presente con esclusione da sé di ogni passato e ogni futuro. L’attualità è insita nel suo messaggio di onestà, serietà e bellezza della vita: ecco perché è tanto più vicino a noi di qualunque altro poeta o scrittore. Dante quale lettore avrebbe immaginato durante la stesura della sua opera? Pietro Beltrami propone la seguente risposta:

Dante apostrofa il lettore come se tutto ciò che egli racconta fosse non solo la verità, ma la verità che ha per contenuto la rivelazione divina. Il lettore immaginato e, in fondo, creato da Dante è un discepolo a cui non si richiede di discutere e giudicare, bensì di seguire, usando sì le proprie forze, ma come Dante gl’impone di fare.

Bisognerebbe favorire l’opera con una divulgazione popolare, fuori dagli schemi scolastici, nuova, trasgressiva, al passo con i tempi, favorendo nuovi incontri con i lettori, togliendo quel velo di sacralità che è stato imposto all’opera, non per svilirne l’importanza ma per avvicinarla, porla, donarla al lettore. Le pubbliche letture in luoghi consacrati e sconsacrati attirano un pubblico avanti con l’età, composto essenzialmente da persone che vedono l’avvenimento come un’occasione mondana e non per la sua importanza letteraria.
Claudio Giunta in un articolo dal titolo Dante dopo l’Apocalisse (Domenica, Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2015), immagina ciò che Dante non osò immaginare:

Dante non pensava che il mondo sarebbe durato sino al 2016 e oltre, e «non avrebbe immaginato che, 750 anni dopo la sua nascita, «Dante Alighieri» e «Letteratura italiana» sarebbero stati quasi sinonimi, in molte università del mondo; che un discreto numero di esseri umani si sarebbero fatti chiamare dantisti, cioè specialisti di… lui, e che questa bizzarra specialità avrebbe permesso a molti di loro di campare più che dignitosamente, di farsi la casa, di cambiare la macchina a colpi di edizioni/commenti alla Commedia, alle Rime, alla Quaestio de aqua et terra; e che ogni anno sulla sua vita e sui suoi libri si sarebbero pubblicati articoli, libri, tesi di laurea e di dottorato a centinaia, a migliaia, e quattro o cinque riviste dedicate interamente a lui, e poi spettacoli teatrali, reading, videogiochi, Greenaway, Dan Brown, Gassman, Benigni, un indotto da far impallidire la Fiat…

A Dante tutto ciò non piacerebbe, la speculazione anche finanziaria del suo nome lo infastidirebbe; considerava il fiorino un «maledetto fiore» sbocciato dalla corruzione, simbolo tangibile del pervertimento della società. Rimpiangeva la piccola Firenze di cent’anni prima, che viveva con decoro e pudicizia. Marco Santagata in Dante. Il romanzo della sua vita (Mondadori, 2012) sostiene che «avversava la modernità, il progresso economico e la mobilità sociale»:

Dante considera il dinamismo sociale degenerazione dei costumi e perversione dei valori; perdita di ruolo e di potere degli antichi ceti dominanti. […] È convinto che la salvezza verrà solo ritornando indietro alla serena e domestica Firenze premercantile, all’epoca in cui la cristianità poggiava sull’equilibrio tra i due «soli» (papato e impero), a un assetto sociale gerarchico e stabile imperniato sulla nobiltà feudale. Tornare indietro e bloccare il tempo. Ricostituire un mondo immobile, garantito da un disegno istituzionale immutabile, simile in questo all’eterna corte celeste del Paradiso.

 

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