Il blog di Elio Ria

Spighe di poesia

7. Dante politico

mar 072021

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Oggi Dante sarebbe smarrito di fronte alle incessanti contraddizioni di ogni tipo della società del terzo millennio, a ragion veduta. La sua visione universalistica non cambierebbe, i suoi principi morali e religiosi sarebbero gli stessi, cambierebbe probabilmente la sua idea di città e di stato, ma soprattutto si convincerebbe che aveva visto giusto nel suo mondo caratterizzato da instabilità. Anche perché fu un politico (uomo di municipio), e la politica condizionò la sua vita, anche se il suo desiderio fu sempre di vivere da nobile, confacente al suo concetto di nobiltà: distaccata dalle vili preoccupazioni economiche e dedita a tempo pieno allo studio e alla poesia. Ricercò un modello politico non transeunte e non partigiano di soluzione politico-statuale. Lo intravide nell’impero e il suo trattato Monarchia argomenta la necessità di una monarchia universale, poiché l’imperatore sarebbe esente da cupidigia, in quanto possessore di tutto, quindi garante di giustizia e di equità. Il trattato è una testimonianza importantissima del modo con cui Dante veniva a poco a poco accostandosi a quella visione superiore delle cose del mondo, di cui la Commedia è il frutto. Asor Rosa spiega così il successivo passaggio dalla dottrina alla poesia:

Dunque, è con quest’uomo, e con quest’intellettuale, che bisogna misurarsi, quando si affronta un’opera gigantesca, e dai molteplici significati, come la Commedia: un uomo ricco di passioni, amorose, politiche, religiose e lacerato in profondità dalla ferita dell’esilio; un intellettuale, che aveva coltivato l’ambizione di porsi come figura di riferimento nei campi più importanti della cultura contemporanea (la politica, la filosofia, la linguistica, ecc.). Non bisogna cioè pensare che la Commedia, in ragione della sua grandezza, non abbia un padre, un autore: un padre, un autore, su cui hanno lasciato un segno profondo le drammatiche esperienze degli anni precedenti e che lascerà un segno profondo, un’indelebile impronta di sé sull’opera maggiore. Essa è, innanzitutto, la risposta che Dante lancia la mondo, che lo ha ingannato e tradito.

Compì il miracolo della resurrezione di sé stesso. Osservò dall’alto la tragedia del «bene» e del «male» nel diritto di giustizia che si esplica con la pena della vendetta nell’Inferno, e dell’espiazione nel Purgatorio. L’innocenza è oltre il «bene» e chi è innocente non sa di esserlo, poiché non vede e non conosce tutto, ma se dovesse conoscere inevitabilmente si contaminerebbe di peccato. L’uomo dunque ha la capacità di scegliere tra il bene e il male nel momento in cui decide di vestire l’anima e abbandonare definitivamente l’innocenza, secondo l’assunto del libero arbitrio. Ma se Dio conosce tutto, conosce quindi tutto anticipatamente. Se Dio sa in anticipo quello che accadrà, allora vuol dire che è Lui stesso a determinare l’accaduto? Dante nega che sia Dio a determinare l’accaduto, e lo fa con una doppia metafora, a testimonianza del fatto che una spiegazione dottrinaria sarebbe stata molto complicata. Nel canto XVII del Paradiso (37-45) attribuisce a Dio il potere della massima conoscenza e del massimo potere sull’universo, ma al contempo difende il principio della libertà morale e intellettuale del singolo individuo. Dante in tal modo apre la strada a una nova concezione del cosmo ponendo in rilievo il problema della conoscenza, e non vi è dubbio che la Commedia sia un poema in cui il principio della conoscenza domina sovrano.
La Commedia non è solo rivolta verso il cielo e la terra, occupa anche un posto di rilievo la riflessione sul «buon governo», cioè su quell’agire dell’uomo verso il bene collettivo. E qui traspare la sua passione politica, mai sopita, in linea con la prospettiva generale della decadenza dei costumi, un problema che ancora oggi non è stato risolto. Il mondo secondo Dante volge in caduta libera al peggio, e solo un grande sforzo di fede potrebbe rimetterlo verso la direzione giusta. Non ha dubbi sulle cause di malcostume della sua Firenze:

La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni
(Inf. XVI, 73-75)

La ricchezza e i nuovi cittadini sono le due cause principali, sul piano storico, che provocarono a Firenze una crisi morale imperniata sulla superbia, l’invidia e l’avarizia. Nel canto VI del Purgatorio vi è la famosa invettiva che coinvolge le città dell’Italia a lui contemporanea:

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
(Purg. VI, 76-78)

Il giudizio di Dante è severo. Non è la sua invettiva attuale? Oppure il suo parlare in modo aspro più del dovuto lo rende presuntuoso, sprezzante e altero, come lo apostrofò Giovanni Villani (suo conoscente, più giovane di una decina d’anni)? Si intuisce il suo carattere forte, la sua volontà di rovesciare la realtà proiettandosi nel futuro. Durante l’esilio è condannato alla solitudine, ma più è solo e più è chiaro il suo intento di parlare a nome di tutti, tant’è che nella Commedia più volte si proclama profeta. Profeta non perché riesce a predire il futuro, ma perché può riferire ai vivi gli annunci ascoltati nell’aldilà. Il disegno politico di Dante è dato da una società ideale che giustifica l’urgenza della legge, senza la quale anche la libertà è vana aspirazione. Il suo pensiero parte da Dio per ritornare a Dio.

 

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