Il Blog di Rosario Frasca

Le opinioni di un Clown, ovvero: Il mito di Er

Date a Cesare

set 292022

Licet dare tributum Caesari an non? Dabimus an non dabimus?"

 

Gli mandarono alcuni farisei ed erodiani per coglierlo in fallo nel discorso. E venuti, quelli gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio. È lecito o no dare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?». Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse: «Perché mi tentate? Portatemi un denaro perché io lo veda». Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: «Di chi è questa immagine e l'iscrizione?». Gli risposero: «Di Cesare». Gesù disse loro: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». E rimasero ammirati di lui.

Inseriamo anche la versione in latino, (così lo capisce anche Cesare)

Et mittunt ad eum quosdam ex pharisaeis et herodianis ut eum caperent in verbo. Qui venientes dicunt ei: "Magister, scimus quia verax es et non curas quemquam, nec enim vides in faciem hominum, sed in veritate viam Dei doces. Licet dare tributum Caesari an non? Dabimus an non dabimus?" Qui sciens versutiam eorum ait illis:"Quid me tentatis? Afferte mihi denarium, ut videam. Att illi attulerunt. Et ait illis:"Cuius est imago haec et inscriptio?"Illi autem dixerunt ei: "Caesaris". Jesus autem dixit illis:"Quae sunt Caesaris, reddite Caesari et quae sunt Dei, Deo". Et mirabantur super eo.



 Il nostro povero cuore, di carne, ama con un affetto umano che, se è unito all'amore di Cristo, è anche soprannaturale. Questa, non altra, è la carità che dobbiamo far crescere nell'anima, e che ci porterà a scoprire negli altri l'immagine del Signore. (San Josemaria Escrivà)

 

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"Sono un clown. Definizione ufficiale:

Attore comico, non pago tasse per nessuna Chiesa".

(Heinrich Boll - Opinioni di un clown)

 

La trappola mancata

La risposta di Gesù è un esempio magistrale di abilità comunicativa. Da buon "Maestro" accoglie la domanda insidiosa, schiva l'aggressività degli interlocutori e li costringe a riflettere e rispondere alla sua domanda di rimbalzo, molto più semplice e concreta. Cattura attenzione obbligandoli ad osservare la moneta che hanno tra le mani, a guardare l'effige e leggere l'iscrizione. I farisei son così costretti a distrarsi dall'intenzionalità maligna del tranello e a concentrarsi su come rispondere adeguatamente a Gesù; non hanno tempo per organizzare una risposta che mantenga in atto la malignità delle loro intenzioni: e la risposta è semplice, immediata e mette in mostra tutta la loro conoscenza e padronanza dell'argomento; facilitati anche dal fatto di avere la moneta tra le mani e possono vedere bene l'effige e l'iscrizione; così rispondono con sicurezza che la moneta è Di Cesare.

Con questa risposta, l'argomento del dialogo cambia: non si tratta più della liceità del dare o meno il tributo a Cesare ma di riconoscere l'intestatario, il proprietario della moneta. E su questa evidente e facile verità, dichiarata con prontezza dai farisei, Gesù risponde all'originaria domanda con parole semplici e chiare: "Rendete a Cesare quel che è di Cesare" e subito aggiunge: "...e a Dio ciò che è di Dio"; cioè, detto tra le righe: come la moneta è di Cesare, così la volontà è di Dio.

Farisei ed erodiani sono rimasti intrappolati nella loro cupidigia, nascosta dietro lo scudo della ribellione al dominio romano; e son costretti ad ammettere sia il potere imperiale di Cesare e sia all'onnipotenza di Dio. Per un patito di giustizia, - che viaggia sulla logica espressa dal motto "a ciascuno il suo" - la morale del dialogo è che non ci può essere giustizia (in tutte le declinazioni sociali: finanziaria, tributaria, lavorativa, ecc...) se non è illuminata dall'amore e finalizzata al bene comune, cioè a Dio (Deus caritas est).

La domanda trappola dei farisei potrebbe costringere un interlocutore emotivo a schierarsi pro o contro, una parte o l'altra; ma la risposta di Gesù è "divina", va oltre: non interviene direttamente  sulla questione materiale del dare o non dare il tributo, ma sposta le opzioni di scelta dal piano materiale e impositivo alla coscienza d'essere individuale e sociale; ovvero alla coscienza di classe. Detto in altri termini: dal dare qualcosa ad essere qualcuno; come dire: "Chi sei tu?... Se sei suddito paghi, se sei Cesare incassi. Dimmi chi sei e ti dirò che fai. L'aut aut, diventa soggettivo ovvero ha radici soggettive, è radicato nel soggetto.

L'oggetto del contendere perde valore perchè il nocciolo non è più materiale ma esistenziale: "chi si è" viene prima del "cosa si ha" (da dare); non siamo più nella relazione, siamo nella coscienza d'essere: oltre oltre delle parti; siamo nella realtà, nel logos dove tutto è perchè è; tutto è giustificato: Cesare, popolo e tributo.

Monoteismo... e Cesare?

Anche se per i romani il loro imperatore è quasi una divinità, per il popolo ebraico Dio è uno; e loro sono il "popolo eletto": farisei ed erodiani credono in un solo Dio... e in solo popolo: "Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio all'infuori di me".

Jahvè è il solo Dio d'Israele: non solo è proibito il culto d'altri dei, ma altresì ogni raffigurazione della divinità.(Treccani)

 Per i farisei "Jahvè è il solo Dio d'Israele", cioè, di Abramo e della sua discendenza: non c'è posto per Cesare. I farisei ritengono, credono e sono convinti che i romani non sono discendenti di Abramo. Per Gesù, invece, è tutta un'altra storia: Dio è suo padre; lui stesso, in quanto uomo, è figlio di Dio; ovvero, generalizzando, tutti gli uomini sono figli di Dio*. In definitiva per Gesù Dio è padre anche di quell'uomo raffigurato nella moneta e chiamato Cesare.

Dunque, nella logica cristiana, tutti gli uomini, nel profondo della loro coscienza, trovano l'onnipotenza di Dio Padre e solo a Lui possono chiedere lumi se imporre o meno il tributo; e se darlo o meno a colui che lo impone perchè la "storia" lo ha messo al governo.

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In principio era l'etica

Gesù, perfetto uomo e perfetto Dio, ha dato la sua magistrale risposta ai farisei, in quella circostanza; ma la stessa risposta resta valida oggi e per sempre. La moneta è diventata un pre-testo per riordinare a Dio tutto il creato, tutta la società: Cesare, il popolo e il t ributo. "Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è Dio", generalizzando, ieri come oggi, vuol dire che qualsiasi questione etica, con ricaduta sociale, politica e individuale, va esaminata, discussa e risolta secondo coscienza:

il principio etico non viene dal cielo ma è nella coscienza di ciascuno, illuminata dall'amore...che è Dio (Deus caritas est).

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Nota

(*) Dal Vangelo secondo Matteo: "Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo»."

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Libertà e libero arbitrio

"Libera Chiesa in libero Stato" - L'espressione venne utilizzata da Cavour in occasione del suo primo intervento al parlamento, fatto dopo la proclamazione del Regno d'Italia, il 17 marzo 1861, che portò alla proclamazione di Roma come capitale del regno. (Wikipedia)

 

Il rapporto tra Stato e Chiesa in Italia è stato sintetizzato da Cavour con il motto: "libera chiesa in libero stato”; ma il motto è ingannatore perchè Stato e Chiesa sono Istituzioni, entità astratte, persone giuridiche senza carne nè ossa: non sono persone umane e non possono essere ontologicamente "libere" così come semplifica solennemente il motto usato da Cavour.

Sarebbe come dire che Stato e Chiesa esistono da loro stesse, si son create e fatte da sole, sono da sempre e per sempre saranno; cioè possono crearsi, governarsi e servirsi senza l'intervento di qualcuno che sappia farlo: uomo, donna, re, regina, suddito o suddita non fa differenza.

Sappiamo tutti che non è e non può essere così: perché è sempre l’uomo che fa lo Stato o il Regno o la Chiesa o le altre forme di reggenza e governo della società, comunità, tribù, gruppi, ecc.; una qualsiasi forma astratta, immagine o ente "fai da te" non può esistere nè fare alcunchè senza l'uomo.

Stato laico e la Chiesa laica, come figure e/o forme, sono sì indipendenti tra loro; ma entrambe dipendono, dalla natura, dalla realtà; cioè, giuridicamente, dalle leggi della natura, da leggi di quel corpo iuris riconosciuto in tutti gli Stati, Regni e Nazioni del mondo, senza distinzioni di sesso, razza e religione.


Ogni uomo di responsabilità organizza il suo agire, il suo fare politico con atti ispirati dal corpo iuris naturale universale condiviso da tutta l'umanità.

Ritornando alla dinamica del dialogo evangelico della moneta, una considerazione che salta all'evidenza è che nelle dispute su questioni etiche, prima che politiche, l'abilità di "controllo" della situazione dialogica, sta nel non rispondere, istintivamente e precipitosamente, nei termini in cui spesso vengono poste le domande; ma digerirle, rifletterle e riformularle nei termini universalmente condivisi; tenendo presente che c'è un ordine sociale subordinato all’ordine naturale, che a sua volta risponde per fede, in fede e con fede al mistero soprannaturale inconoscibile.

Solo questo "misterioso" e immaginario "Ente" a cui ci si può accostare solo per fede, può garantire la libertà dell'uomo; di ogni uomo, in ogni momento e in ogni circostanza; questa libertà, per i cristiani è agìta nel mondo, alimentata ed ispirata dalla caritas, dall’amore, da Dio: Deus caritas est. Pertanto, la linfa del politico autentico non è la rivalità con il diverso o l'avversario di parte, ma è l'amore per il mondo e l'umanità, compreso il nemico. Per il cristiano questo amore è incarnato in Gesù, "perfetto uomo e perfetto Dio".

In ogni disputa, il cristiano si sforza di essere Cristo in persona; e prenderà prudentemente la decisione giusta ed eticamente corretta, rispetto a Dio, agli uomini e a se stesso: cioè, trasformerà in atto politico quella risposta che Gesù diede ai farisei oltre duemila anni fa; cioè, rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. E questo non vuol dire che Cesare e Dio abitano due mondi separati; sono, invece, due mondi compenetrati l'un l'altro nell'uomo, nel comportamento umano, senza soluzioni di continuità, secondo quel modello di perfezione umana e divina che è la persona di Gesù Cristo, "perfetto Uomo e perfetto Dio".

I politici, uomini e donne, dovrebbero essere così: "perfetti" ... o, almeno, umili quanto basta per provare ad imitarlo.

 

Et mirabantur super eo.

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ratio imitarum naturam

 

 

"Monologo della Madonna"

set 072022
Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione.
(Carmelo Bene)

(da ZAHR TEATËR - Monologhi alternativi)

 

undefinedCi sono cretini che hanno visto la Madonna* e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna. Io sono un cretino che la Madonna non l’ha vista mai. Tutto consiste in questo, vedere la Madonna o non vederla.

San Giuseppe da Copertino*, guardiano di porci, si faceva le ali frequentando la propria maldestrezza e le notti, in preghiera, si guadagnava gli altari della Vergine, a bocca aperta, volando.


I cretini che vedono la Madonna hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma.


I cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso, e invece di posare ricadono come se un tale, avendo i piombi alle caviglie e volendo disfarsene, decide di tagliarsi i piedi e si trascina verso la salvezza, tra lo scherno dei guardiani, fidenti a ragione nell’emorragia imminente che lo fermerà.

Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono.

 
È l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto.Tutto quanto è diverso, è Dio. Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci, la bocca sei tu. Divina è l’illusione. Questo è un santo.


Così è di tutti i santi, fondamentalmente impreparati, anzi negati. Gli altari muovono verso di loro, macchinati dall’ebetismo della loro psicosi o da forze telluriche equilibranti – ma questo è escluso -. È così che un santo perde se stesso, tramite l’idiozia incontrollata. Un altare comincia dove finisce la misura. Essere santi è perdere il controllo, rinunciare al peso, e il peso è organizzare la propria dimensione. Dov’è passata una strega passerà una fata.


undefinedSe a frate Asino avessero regalato una mela metà verde e metà rossa, per metà avvelenata, lui che aveva le mani di burro, l’avrebbe perduta di mano. Lui non poteva perdersi o salvarsi, perché senza intenzione, inetto.


Chi non ha mai pensato alla morte è forse immortale. È così che si vede la Madonna.


Ma i cretini che vedono la Madonna, non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro: miracolo è la trasparenza.


Sacramento è questa demenza, perché una fede accecante li ha sbarrati, questi occhi, ha mutato gli strati – erano di pietra gli strati – li ha mutati in veli. E gli occhi hanno visto la vista. Uno sguardo. O l’uomo è così cieco, oppure Dio è oggettivo.


I cretini che vedono, vedono in una visione se stessi, con le varianti che la fede apporta: se vermi, si rivedono farfalle, se pozzanghere nuvole, se mare cielo. E dinanzi a questo alter ego si inginocchiano come davanti a Dio. Si confessano a un secondo peccato. Divino è tutto quanto hanno inconsciamente imparato di sé. Hanno visto la Madonna. Santi.


I cretini che non hanno visto la Madonna, hanno orrore di sé, cercano altrove, nel prossimo, nelle donne – in convenevoli dei quotidiano fatti preghiere – e questo porta a miriadi di altari. Passionisti della comunicativa, non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio. L’umiltà è conditio prima.


I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione.

 

La sacralità dell'immagine

 

Il brano è tratto da "menzogna romantica e verità romanzesca" di René Girard. L'accademico definisce lo scrittore un "realista del desiderio" che ricorre alla memoria affettiva (grammatica della trascendenza) per strutturare e "manipolare" personaggi e immagini a suo piacimento a supporto del racconto.

 

Il narratore si avvicina al suo dio solo con timore e tremore. I gesti più insignificanti assumono, grazie alle immagini, un valore di rito; la grammatica della trascendenza ne costituisce la struttura e i personaggi del racconto partecipano alla deificazione del mediatore.

Chi scrive non è un realista dell’oggetto ma un realista del desiderio. A un livello inferiore della creazione letteraria, l’immagine è un supporto, un semplice ornamento che lo scrittore può sopprimere o sostituire a suo piacimento.

Le immagini trasfigurano l’oggetto; non lo trasfigurano in un modo qualunque ma nel modo intellettivo che “cristallizza” l’immagine dell’oggetto nella mente mediandola, cioè, prendendo le mosse dai dati appresi dai libri e dal proprio vissuto. Nelle immagini mitologiche si congiungono e si fondono meravigliosamente il desiderio nascente del ricordo, la crescita umana del narratore protetta dalla famiglia e persino dagli oggetti ambientali.

Nell’animo del lettore gli accenni oggettivi non richiamano il sacro ma l’atmosfera in cui il sacro si svilisce e finisce col morire nella catarsi poetica del ricordo attualizzato. Lo scrittore sceglie sempre le immagini meno adatte alla funzione sacrale che egli desidera far loro svolgere. Riesce tuttavia a inserirle nel suo sistema estetico narrativo. Vi riesce poiché, a questo punto dello sviluppo romanzesco, la divinità del mediatore è saldamente costituita.

Non appena lo scrittore posa lo sguardo “fisso e doloroso” su un essere, un oggetto o un personaggio qualsiasi, vediamo scavarsi, tra questo essere e lui l’abisso della trascendenza.

Qui non è più l’immagine che rende sacra la percezione, ma la percezione che sacralizza l’immagine. Lo scrittore, però, tratta questa immagine falsa come un immagine vera e le fa riflettere il sacro fittizio che trae dal mediatore. L’immagine rispecchia il sacro come un eco rimanda il suono al luogo d’origine.

Non è un gioco gratuito. Esso non distrugge il realismo del desiderio, ma lo porta a perfetto compimento. Tutto infatti è falso nel desiderio, tutto è teatrale e artificiale salvo l’immensa fame di sacro. Ed è questa fame che trasforma gli elementi di una misera e positiva esistenza non appena il narratore abbia scoperto il suo Dio e riesca a rigettare sull’altro, sul mediatore, l’onnipotenza divina il cui fardello lo schiaccia.

 

I nominati

 

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L'Annunciata - di Antonello da Messina

 

 

Madonna

(da Wikipedia)

Maria (in ebraico: מרים, Myrhiàm; aramaico: Maryām; greco: Μαριάμ Mariam, Μαρία/Μαρίη Mar[1] María; arabo: مريم, Maryam), detta anche Maria di Nazareth, è la madre di Gesù.

Venerata come "Santissima Madre di Dio" dai cattolici e dagli ortodossi (che la onorano del titolo di Θεοτόκος, Theotókos), la sua santità è comunque riconosciuta dalla Comunione anglicana e anche da confessioni protestanti come quella luterana. Soprattutto in Italia è usato anche il titolo di Madonna.

Facendo riferimento anche al passo evangelico sotto evidenziato,[2] Maria, la Madre di Gesù Cristo è un modo ortodosso ed esaustivo di riferirsi a Maria:

- "la" (Madre di Dio) in quanto protagonista di un evento unico e irripetibile, quale è l'Incarnazione,
- "Gesù", che in ebraico antico vuol dire Il Salvatore: il nome di persona che Ella diede a suo Figlio, secondo la volontà di Dio che gli fu annunciata dall'Arcangelo Gabriele,
- "Cristo": che in greco antico vuol dire l'Unto del Signore,
- "Dio": "Figlio di Dio" nel Vangelo, e poi anche Dio stesso, come sarà compreso nella successiva definizione del Mistero della Trinità: Gesù Cristo è la Seconda Persona della Santissima Trinità.

In sintesi: Maria, da Madre di Dio (Theotókos) a Madre di Gesù Cristo.

Per completezza, l'uso del nome di sola "Madre di Cristo", noto come tesi nestoriana, fu dichiarato eretico dal Concilio di Efeso (431 d.C.). Sono ben noti casi di Unzione di Dio per i Re di Israele, come Davide e Salomone, puri esseri umani, senza la natura divina di Gesù Cristo.

Maria, madre di Gesù Cristo, suo unico figlio, è detta Vergine in diversi passi biblici: Atti 1:14[3], Matteo 2:11[4] e 1:23[5], Luca 1:27[6] e poi Luca 1:34-38[7][Nota 2].

Altrove, si afferma anche che Maria, madre di Gesù Cristo, era collegata alla nobile discendenza di Davide, Re di Israele: Salmi 132:11[8], e Vangelo di Luca 1:32[9]; e per tramite di Elisabetta (madre del Battista), parente di Maria in Luca 1:36[10], dove a sua volta Elisabetta era discendente del sommo sacerdote Aronne in Luca 1:5[11]. A tutto questo, si aggiunge la genealogia di Gesù dal ramo paterno e materno.

Alla Vergine Maria è dedicata una sūra nel Corano, anche per l'Islam essa è madre vergine di Gesù e discendente di Re Davide[12][13]. Per l'Islam, Allah è Uno (e non Trino) e totalmente trascendente, non si incarna in nessun essere umano: Gesù non è Dio, è il secondo uomo e profeta più importante della Rivelazione, dopo Maometto.

 

San Giuseppe da Copertino

undefined"Giuseppe da Copertino, al secolo Giuseppe Maria Desa, è stato un presbitero italiano, appartenente all'Ordine dei Frati Minori Conventuali. Fu beatificato da papa Benedetto XIV nel 1753, e proclamato santo da papa Clemente XIII nel 1767. (Wikipedia)

 

Tra i fatti straordinari che si sarebbero verificati, la sua prima levitazione è documentata il 4 ottobre 1630, nel santuario della Madonna della Grottella a Copertino, dove si sollevò da terra fino all’altezza del pulpito. Le estasi e gli episodi di sollevamento da terra durante la celebrazione della messa divennero frequenti, davanti agli occhi della folla che arrivava a fare esperimenti sulla sua sensibilità con spilli e candele accese.

 

 

 

 

L'autore

 

Carmelo Bene

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(da wikipedia)

Carmelo Pompilio Realino Antonio Bene è stato un attore, regista, drammaturgo, filosofo, scrittore e poeta italiano. È stato uno dei protagonisti della "neoavanguardia" teatrale italiana e tra i fondatori del "nuovo teatro italiano".

La sua discussa e controversa figura, spesso oggetto di clamorose polemiche, ha diviso critica e pubblico fin dagli esordi: considerato da alcuni un affabulante ingannatore e un presuntuoso "massacratore" di testi[49], per altri Bene è stato uno dei più grandi attori del Novecento. Dalle dichiarazioni di Bene risulta evidente il suo disprezzo per certa critica teatrale, da lui ritenuta "piena di parvenus". Tra i primi a rendergli omaggio si ricordano alcuni tra i più illustri esponenti del mondo intellettuale dell'epoca, come, ad esempio, Eugenio Montale, Alberto Moravia, Ennio Flaiano e Pier Paolo Pasolini. Bene ebbe poi modo di collaborare, tra gli altri, con Pierre Klossowski e Gilles Deleuze, i quali scrissero alcuni saggi sul modo di fare teatro dell'artista italiano. La lotta di Bene si rivolge contro il naturalismo e la drammaturgia borghese, contro le classiche visioni del teatro. Rivendica l'arte attoriale innalzando l'attore da mera maestranza (così definita da Silvio D'Amico) ad artista-personificazione assoluta del complesso teatrale. Il testo, poiché nato dalla penna di uno scrittore spesso avulso dal problema del linguaggio scenico, non può essere interpretato[27]: esso deve necessariamente essere ricreato dall'attore.

Carmelo Bene è contro il teatro di testo, per un teatro da lui definito "scrittura di scena"[50], un teatro del dire e non del detto. Fare "teatro del già detto" sarebbe un ripetere a memoria le parole di altri senza creatività, quello che Artaud definiva un "teatro di invertiti, droghieri, imbecilli, finocchi: in una parola di Occidentali". È l'attore, con la scrittura di scena, a fare teatro hic et nunc. Il testo viene considerato come "spazzatura", perché lo spettacolo va visto nella sua totalità. Il testo ha il medesimo valore di altri elementi come le luci, le musiche, le quinte. Il teatro di testo, di immedesimazione, viene definito da Bene come un teatro cabarettistico. Gli attori che si calano in dei ruoli, che interpretano, sono per lui degli intrattenitori, degli imbonitori, dei "trovarobe". Nel suo teatro, l'attore è l'Artefice. Il testo non viene più messo in risalto come nel teatro di testo, viene anzi martoriato, continuando un discorso iniziato da Artaud, che già aveva iniziato la distruzione del linguaggio, ma che per Bene fallì sulle scene, perché cadde nella interpretazione[27].

Bene distrugge l'Io sulla scena, l'immedesimazione in un ruolo[51], a favore di un teatro del soggetto-attore. Bene è stato definito Attore Artifex, cioè attore artefice di tutto, e lui stesso preferiva definirsi, con un neologismo, una "macchina attoriale": autore, regista, attore, scenografo, costumista.[52] Buona parte delle opere letterarie di Carmelo Bene le possiamo trovare raccolte in un volume unico, dal titolo Opere, con l'Autografia di un ritratto, nella collana dei Classici Bompiani. Inoltre La Fondazione Immemoriale di Carmelo Bene si preoccupa della "conservazione, divulgazione e promozione nazionale ed estera dell'opera totale di Carmelo Bene, concertistica, cinematografica, televisiva, teatrale, letteraria, poetica, teorica, ..."

 

L'accademico

 

René Girard

undefinedRené Girard (Avignone, 25 dicembre 1923 – Stanford, 4 novembre 2015[1]) è stato un antropologo, critico letterario e filosofo francese. Il suo lavoro appartiene al campo dell'antropologia filosofica e ha influssi su critica letteraria, psicologia, storia, sociologia e teologia. È stato professore di letteratura comparata presso la Stanford University (Stati Uniti) fino al momento del ritiro. Cattolico, ha scritto diversi libri, sviluppando l'idea che ogni cultura umana è basata sul sacrificio come via d'uscita dalla violenza mimetica (cioè imitativa) tra rivali. Le sue riflessioni si sono indirizzate verso tre idee principali:

1 - il desiderio mimetico,
2 - il meccanismo del capro espiatorio,
3 - la capacità del testo della Bibbia di svelare sia l'uno che l'altro.

(da wikipedia)

 

 

 

 

 

ratio imitarum naturam

Il racconto sono io!

mag 062022

Julio Cortazar

 

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Julio Cortázar, all'anagrafe Julio Florencio Cortázar Descotte (Bruxelles 1914 – Parigi 1984), è tra i maggiori autori di lingua spagnola del xx secolo. Scrittore, poeta, critico letterario, saggista e drammaturgo; argentino naturalizzato francese; maestro del racconto e del romanzo. Scrittore dalla vocazione sperimentale: la sua scrittura è caratterizzata da una forte componente fantastica e a tratti metafisica, ma sempre aderente a uno stile realistico. Stimato da Borges e da molti paragonato a Čechov e Edgar Allan Poe. I suoi racconti non seguono una linearità temporale e sono abitati da personaggi che si muovono e agiscono in situazioni che riflettono fantastiche e inaspettate proiezioni oniriche della realtà. (wikipedia)

 

Ho la convinzione che esistano certe costanti, certi valori che si applicano a tutti i racconti, fantastici o realistici, drammatici o umoristici. E penso che forse è possibile illustrare, qui, quelle invarianti che danno a un buon racconto la sua atmosfera peculiare e la sua qualità di opera d'arte. (Julio Cortazar) 

 

1. Il testo
2. Il racconto
3. Risonanze 1
4. La scrittura
5. Risonanze 2
6. Ricordare
7. Raccontare
8. Il tema

Appendice immaginaria

Presentazione

Nella prima parte è riportato "Il testo" dell'incipit di una conferenza tenuta da Cortazar a La Habana (pubblicata in Casa de las Americas n. II nov1962- feb1963): "Alcuni aspetti del racconto" e riportata in appendice all'edizione Einaudi della raccolta di racconti "Bestiario". Di seguito "Il Racconto" è una essenziale raccolta di definizioni della parola (Racconto) tratte da Wikipedia e Treccani. "Risonanze 1" è un primo epilogo soggettivo che prende spunto da quanto dichiarato da Cortazar nella conferenza, sull'autore fantasma linfatico dell'opera. "La scrittura" è un breve escursus della scrittura che parte dai graffiti preistorici. "Risonanze 2" è il secondo epilogo soggettivo sulle dinamiche che conducono alla scrittura e/o all'opera d'arte. In "Ricordare" è riportata parte della presentazione di un'intervista autobiografica di Jung in cui risalta l'importanza della memoria affettiva come crogiuolo creativo del racconto. "Raccontare" è un brano tratto dal racconto Bestiario di Cortazar che mette in luce l'aspetto onirico della memoria affettiva dell'autore. Infine "Il tema" è un piccolo accenno al tema di fondo della libertà imprigionata nell'immagine ovvero nella maschera letteraria del racconto. In appendice immaginaria sono inserriti due esempi del ruolo dell'immagine e della memoria: Bobi Bazlen e le gambe di Dora Markus; Pigmalione.

 

1 - Il testo

Conferenza: Alcuni aspetti del racconto Iundefined
Data: 1962
Professore/Relatore: Julio Cortazar

 

Il fantasma

Mi trovo oggi, dinanzi a voi, in una situazione piuttosto paradossale. Uno scrittore argentino di racconti si accinge a scambiare alcune idee sul racconto senza che i suoi ascoltatori e interlocutori, salvo eccezioni, conoscano nulla della sua opera. L'isolamento culturale che continua a pregiudicare i nostri paesi, sommato all'ingiusta emarginazione cui si vede relegata Cuba attualmente han fatto si che i miei libri, che sono già un discreto numero, non siano arrivati se non eccezionalmente nelle mani di lettori tanto ben disposti ed entusiasti come voi. Il brutto di tutto questo, non e' tanto che voi non abbiate avuto occasione di vagliare i miei racconti, quanto che io mi sento un po' come un fantasma che viene a parlarvi senza quella relativa tranquillità che dà sempre il sapersi preceduto dal lavoro compiuto negli anni.


E il fatto di sentirmi come un fantasma deve già essere percepibile in me, perché qualche giorno fa una signora argentina mi ha assicurato che io non ero Julio Cortazar, e di fronte al mio stupore ha aggiunto che l'autentico Julio Cortazar è un signore dai capelli bianchi, amicissimo di un suo parente, e che non si è mai mosso da Buenos Aires. Siccome io risiedo da dodici anni a Parigi, capirete come la mia qualità spettrale si sia notevolmente intensificata in seguito a questa rivelazione.


Se sparisco di colpo nel mezzo di una frase, non mi sorprenderò troppo, e chissà che non ne guadagniamo tutti.

 

L'opera

Si dice che il desiderio più ardente di un fantasma è quello di riacquistare almeno un accenno di corporeità, qualcosa da tangibile che lo restituisca per un momento alla sua vita di carne e ossa.Per acquisire un po' di tangibilità dinanzi a voi, dirò in poche parole quali sono il senso e la direzione dei miei racconti. Non lo faccio per puro piacere informativo, perché nessun percorso teorico può sostituire l'opera in sé; le mie ragioni sono più importanti.

 

Il genere letterario

Poiché mi occuperò di alcune aspetti del racconto come genere letterario, ed è possibile che qualcuna delle mie idee sorprenda o traumatizzi coloro che ascoltano, mi pare di un'elementare onestà definire il tipo di narrazione che m'interessa, accennando al mio particolare modo d'intendere il mondo.

Quasi tutti i racconti che ho scritto appartengono al genere chiamato fantastico per mancanza di un termine migliore e si contrappongono a quel falso realismo che consiste nel credere che tutte le cose si possano descrivere e spiegare: come dava per scontato l'ottimismo scientifico e filosofico del diciottesimo secolo; e cioè, nell'ambito del un mondo retto più o meno armoniosamente da un sistema di leggi, di principi, di rapporti di causa effetto, di psicologie definite, di geografie ben cartografate.

L'eccezionalità

Nel mio caso, il sospetto che un altro ordine più segreto e meno comunicabile, e la feconda scoperta di Alfred Jarry(*), per il quale il vero studio della realtà non risiedeva nelle leggi bensì nelle eccezioni a tali leggi, sono state alcuni dei principi orientativi della mia ricerca personale di una letteratura al margine di qualunque realismo troppo ingenuo.

Perciò, se nelle idee che seguono riscontrerete una predilezione per tutto quanto è eccezionale nel racconto, siano i temi, siano pure le forme espressive, credo che questa presentazione del mio personale modo d'intendere il mondo, spiegherà la mia presa di posizione e il mio approccio al problema. In ultima analisi si potrà dire che ho solo parlato del racconto tale e quale lo pratico io. E, tuttavia, non credo sia così.

*) Alfred Jarry (Laval, 8 settembre 1873 – Parigi, 1º novembre 1907) è stato un drammaturgo, scrittore e poeta francese. (https://it.wikipedia.org/wiki/Alfred_Jarry) 

 

La forma e le altre letterature

Ho la convinzione che esistano certe costanti, certi valori che si applicano a tutti i racconti, fantastici o realistici, drammatici o umoristici. E penso che forse è possibile illustrare, qui, quelle invarianti che danno a un buon racconto la sua atmosfera peculiare e la sua qualità di opera d'arte.

L'opportunità di scambiare qualche idea in merito al racconto mi interessa per svariate ragioni. Vivo in un paese (Francia) dove questo genere ha scarso vigore, sebbene negli ultimi anni si noti presso scrittori e lettori un interesse crescente per questa forma d'espressione.

Ad ogni modo, mentre i critici continuano ad accumulare teorie e intrattenere accese polemiche in merito al romanzo, quasi nessuno s'interessa alla problematica del racconto. Vivere come scrittore di racconti in un paese dove questa forma espressiva è un prodotto quasi esotico, obbliga necessariamente a cercare in altre letterature l'alimento che lì manca.

A poco a poco, nella versione originale o in traduzione, uno accumula, in modo quasi astioso, un enorme quantità di racconti del passato e del presente e arriva il giorno in cui può fare un bilancio, tentare un'approssimazione valutativa a un genere così difficile da definire, così sfuggente nei suoi molteplici contrastanti aspetti e, in fondo, così segreto e ripiegato in se stesso, chiocciola del linguaggio, fratello misterioso della poesia in un'altra dimensione del tempo letterario.

Teorici, critici e scrittori

Nelle letterature giovani la creazione spontanea precede quasi sempre l'esame critico ed è giusto che sia così. Nessuno può pretendere che i racconti si debbano scrivere solo dopo averne conosciuto le leggi. In primo luogo tali leggi non esistono; al massimo si può parlare di punti di vista, di certe costanti che danno una struttura a questo genere così poco incasellabile; in secondo luogo, non si vede perché i teorici e i critici debbano essere gli scrittori stessi, ed è naturale che quelli entrino in scena solo quando esista già un retaggio, un accumulo di letteratura che permetta di indagarne e di chiarirne lo sviluppo e le qualità.

Il lavoro

Se ci facciamo un'idea convincente di tale forma di espressione letteraria, questo potrà contribuire a stabilire una scala di valori per l'antologia ideale che dovrà essere fatta. C'è troppa confusione, troppi malintesi su questo terreno. Mentre gli scrittori di racconti proseguono il loro lavoro, è ormai tempo di parlare di tale lavoro in se stesso, al di là delle persone e delle nazionalità.

La vita, il racconto e l'immagine

È necessario arrivare ad avere un'idea viva di ciò che è il racconto, e questo è sempre difficile nella misura in cui le idee tendono all'astratto, a devitalizzare il loro contenuto, mentre a sua volta la vita rifiuta angosciata quel guinzaglio che vuole metterle la concettualizzazione per fissarla e categorizzarla.

Ma se non abbiamo un'idea viva di ciò che è il racconto, avremo perso tempo, perché un racconto, in ultima istanza, si muove su quel piano dell'uomo dove la vita e l'espressione scritta di quella vita ingaggiano una lotta fraterna, se mi si concede il termine; e il risultato di tale lotta è il racconto stesso, una sintesi vivente e insieme una vita sintetizzata, qualcosa come un incresparsi d'acqua dentro un bicchiere, una fugacità in una permanenza.

Solo con immagini si può trasmettere quell'alchimia che è all'origine della profonda risonanza che un grande racconto ha in noi, e che spiega anche perché ci siano pochissimi racconti veramente grandi.

2 - Il racconto

(definizioni)
Il racconto è una narrazione in prosa di contenuto fantastico o realistico, distinto dalla fiaba, poiché presenta le vicende narrate come realmente avvenute, e più breve del romanzo. Se riferito a una specifica persona, il racconto - di formato più o meno esteso - diventa biografico. (Wikipedia)

raccóntos. m. [der. di raccontare]. –
1. Relazione, esposizione di fatti o discorsi, spec. se fatta a voce o senza particolare cura, oppure se relativa ad avvenimenti privati (si distingue perciò danarrazionecomeraccontaredanarrare, ed è diverso anche daresoconto, che è più ufficiale e tecnico):il r.delle tue vicende familiari mi ha colpito;mi fece il r.particolareggiato del suo viaggio; l’attività stessa del raccontare:cominciare,terminare un r.;commuoversi nel r.delle proprie disgrazie;nel calore del r.;a un certo punto del racconto. Con riferimento al contenuto: r.storico, leggendario,favoloso,verosimile,inverosimile; al modo: r.prolisso,stringato,brillante,freddo,monotono.

2. Componimento letterario di carattere narrativo, quasi sempre d’invenzione, più breve e meno complesso del romanzo (in quanto dedicato in genere a una sola vicenda e destinato a una lettura ininterrotta) e distinto dalla fiaba perché tende a presentare i fatti come realmente avvenuti (per questi suoi caratteri si identifica sostanzialmente con la novella): un volume di racconti; r.popolari, per l’infanzia; r.lungo, breve, ben costruito, slegato.

3. Nel linguaggio della critica letter. (spec. nella critica formalistica), è sinon. di intreccio, contrapposto allafabula, ed è pertanto usato per ogni opera narrativa in versi o in prosa. ◆ Dim.raccontino; spreg.raccontùccio; pegg.raccontàccio(tutti con riferimento per lo più a racconti scritti). (Treccani)


3 - Risonanze 1


Il racconto sono io!undefined

Totum exigit te, qui fecit te
(SANT'AGOSTINO, Sermo 34, 4, 7 [PL 38, 212]),

Cortazar inizia evidenziando il paradosso di dover parlare della sua opera a un pubblico che non la conosce; questo lo fa sentire come un fantasma, desideroso di ritornare ad essere corpo in carne e ossa (Orribile Mostro).

Il racconto (opera d'arte) è quel corpo che l'autore sta cercando. Nella relazione, nella scrittura (nell'opera d'arte) è contenuto il corpo e l'anima dell'autore. L'opera è il rito che rinnova il sacrificio (l'eucarestia) dell'autore: la scrittura è il suo sacramento letterario.

"In generale i bambini che circolano nei miei racconti in qualche modo mi rappresentano" (J. Cortazar)

- Il racconto (l'opera d'arte) è un "Grido dell'anima" dell'artista e rende bene l'idea dell'eroe romantico. È in questa luce particolare che l'autore (artista) assume, nel suo agire, nel suo narrarsi, una drammaticità che rasenta il tragico. L'eroe-autore è dibattuto drammaticamente tra la pochezza umana e l'onnipotenza divina. (Essere o non essere - essere o apparire).

- Le "memorie affettive* dell'artista abitano la sua opera.

- Nell'esprimere se stesso, l'artista scompare dalla realtà oggettiva, dal pulpito, e si trasforma nel fantasma linfatico della sua opera; per lo scrittore, il suo racconto diventa una eterotopia, un luogo altro, una nuova "realtà", un museo dove sono esposte o espresse le sue memorie affettive, la sua vita; luoghi, situazioni e personaggi del suo vissuto rievocati e rappresentati "a sua immagine e somiglianza", a uso e consumo di ogni lettore e di tutta l'umanità: un se stesso che si mette in mostra, si dona nell'opera. L'opera incorpora l'autore, è il sacramento dell'autore, è l'autore.

"Madame Bovary c'est moi!" fa sapere Gustave Flaubert al mondo che lo interroga sul suo romanzo. Così anche Julio Cortazar che parla dei suoi racconti in una conferenza è come se dicesse: "Il racconto sono io"; un'affermazione perentoria che si approssima vertiginosamente all'universale "Io sono la via, la verità e la vita" .

 

 

4 - La scrittura

 


- Scrivere - a cosa serve, a chi serve? Due domande bisogna porsi davanti a un testo scritto: a cosa serve e a chi serve. La risposta a undefinedqueste domande può essere univoca: serve a conoscere; in senso universale ovvero per comunicare, testimoniare, lasciar traccia della propria presenza nel mondo, farsi e far conoscere a chi mai leggerà quel graffito, quell'immagine, quel testo.

- Esordio casuale - Diciassettemila anni prima della nostra era, a Lascaux, alcuni uomini tracciano i loro primi disegni. Passano altri undici millenni e inizia, solo allora, una delle storie più straordinarie dell'umanità: la scrittura. Si pensa spesso che chi inventò i primi segni scritti volesse lasciare traccia delle leggende del suo popolo. Gli inizi del romanzo della scrittura sono molto meno... romanzeschi. (La scrittura memoria degli uomini - Universale Electa/Gallimard)

- Dono degli dei - Da un capo all'altro del mondo gli uomini, che scorgono nella scrittura un dono divino, si ingegnano a trascrivere la storia sulla pietra, sull'argilla o sul papiro.

 

5 - Risonanze 2


- Guida morale - Il fondatore dell'Opus Dei, San Josemaria Escrivà, in uno dei suoi brevi e fulminanti consigli, scrive: "Un'impaziente e disordinata preoccupazione di emergere può mascherare l'amor proprio sotto il mantello del «servire le anime». Con falsità, ci fabbrichiamo la giustificazione di non dover lasciar cadere certe occasioni, certe circostanze favorevoli..."

- Alla luce di queste parole, la scrittura può essere vista come una fuga dalla realtà, una testimonianza del proprio sentirsi inadeguati in un mondo che non ci accoglie e che percepiamo ostile. Ma la scrittura è anche il forte desiderio di testimoniare la nostra presenza in quello stesso mondo, con tutte quelle forme espressive, come la scrittura e tutte le arti, che ci fanno sentire liberi; ci mettono in condizione di essere distaccati, fuori dal mondo e dalle sue ostative contraddizioni.


- L'arte, in genere, è un rifugio che ci protegge, ci dà sicurezza e in qualche modo ci libera; ma è anche l'ambito esistenziale estremamente egocentrico; l'arte diventa così il vessillo della disabilità dell'artista di vivere il presente concretamente, conformandosi alla normalità di quel mondo che odia e che ama;


- è anche un atto di ribellione: la raffigurazione del bisogno insopprimibile di estraniarsi dal mondo, di staccare e saltare a piè pari la realtà della vita quotidiana in cui siamo immersi; per rientrarci poi da lontano, dalle altezze dell'arte, dalla fine del mondo, aprendo - in tutta libertà e di nascosto - la finestra della fantasia, sbircia un nuovo mondo sconosciuto agli altri, lo interpreta, lo fa suo e lo propone all'umanità perduta nel vecchio mondo con tutta l'energia del mistero e della novità; spesso vien preso per pazzo mentre lui racconta il suo cammino per la libertà: parlando, disegnando, incidendo, scalfendo, tracciando, musicando, artigianando, ecc... insomma, testimoniando il suo fantastico mondo libero, meraviglioso e/o tenebroso, comunque pieno di vitale e di intima verità; così l'artista si presenta con forza e "propone" il suo cammino, il suo modo d'essere vivo, la sua storia, il suo racconto; una storia che può essere anche la storia dell'umanità... ma c'è chi sospetta e lo crede pazzo.

6 - Ricordare

Jung e le sue memorie affettive(*)

- Ricordi, sogni, riflessioni di Carl Gustav Jung
raccolti ed editi da Aniela Jaffé traduzione di Guido Russo edizione riveduta e cresciuta

Dall'introduzione.
Questo libro ebbe origine durante il Congresso di Eranos, tenutosi ad Ascona nell'estate del 1956. In quell'occasione Kurt Wolff, conversando con alcuni amici di Zurigo, manifestò il desiderio di pubblicare una biografia di C. G. Jung nelle edizioni "Pantheon Books" di New York; e la dott. Jolande Jacobi, assistente diJung, propose che mi venisse dato l'incarico di biografa.

Tutti noi sapevamo che il compito non era facile, e ci era ben nota la riluttanza diJung a rendere pubblica la sua vita privata: infatti diede il suo consenso solo dopo un lungo periodo di dubbi e di esitazioni. Però, appena convinto, dedicò al nostro lavoro in comune un intero pomeriggio alla settimana: molto tempo, se siconsidera l'attività febbrile richiesta dal suo normale ritmo di lavoro, e quantofacilmente - avendo già superata l'ottantina - egli cedesse alla stanchezza.

Nella primavera del 1957, si era convenuto di scrivere una vera e propria "autobiografia", narrata da Jung stesso. Questo accordo determinò la forma del libro: intervista autobiografica cioè articolata in domande finalizzate al racconto delle memorie dell'intervistato.

Jung, benché da principio fosse reticente, si appassionò presto al lavoro, ecominciò a raccontare di se stesso, della sua evoluzione, dei suoi sogni e dei suoi pensieri, con un interesse crescente.

Verso la fine dell'anno l'atteggiamento di Jung, favorevole a quella fatica in comune, portò a un passo decisivo: dopo un periodo di intimo travaglio le immagini remote della sua infanzia riemergevano alla luce della coscienza.

Jung avvertiva il legame che le univa alle idee esposte nelle opere della sua maturità, ma non riusciva a coglierlo con chiarezza. Fu così che una mattina mi avvertì che voleva fissare i suoi ricordi d'infanzia direttamente: l'intervistato si era accorto che, nel metodo usato la narrazione delle sue memorie era troppo "addomesticata" e l'intervista presentava ancora numerose lacune nel suo racconto.

Tale decisione fu tanto più gradita in quanto risultò inattesa, poiché sapevo quale fatica gli costasse scrivere. A quell'età non si sarebbe mai accinto a un'impresa del genere se non l'avesse considerata come un "compito" impostogli dal suo intimo: era la prova che l'autobiografia gli appariva legittima nei termini della sua vita interiore.
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*) "La memoria affettiva è il focolare di tutta l'opera dell'autore. E' fonte di verità e fonte di sacro; da essa scaturiscono le metafore religiose; essa svela la funzione divina e demoniaca del mediatore. Non bisogna limitarne gli effetti ai ricordi più antichi e più felici. Mai il vivo ricordo è più necessario che nei periodi di angoscia, perché dissipa la nebbia dell'odio". (Renè Girard - "Menzogna romantica e verità romanzesca")

 

7 - Raccontare

(brano tratto dal racconto "Bestiario" di J. Cortazar)

Coricata, a luci spente, piena di baci e di sguardi tristi di Inès e di sua madre, non ancora decise ma già completamente decise a mandarla. Pregustava l'arrivo in break, la prima colazione, la gioia di Nino cacciatore di scarafaggi, Nino rospo, Nino pesce (un ricordo di tre anni fa, Nino mentre mostra delle figurine appiccicate con colla di farina in un album, e le dice serio: "questo è un rospo, e questo è un pesce"). E adesso Nino nel parco mentre lo aspetta con la rete per le farfalle, e anche le morbide mani di Rema - le vide nascere dall'oscurità, stava con gli occhi aperti e invece della faccia di Nino zac le mani di Rema, la minore dei Funes. "Zia Rema mi vuole tanto bene", e gli occhi di Nino diventarono grandi e umidi, e di nuovo vide Nino staccarsi e fluttuare nell'aria confusa della camera da letto, e guardarla contento. Nino pesce.

Si addormentò con il desiderio che la settimana passasse quella notte stessa, e poi gli addii, il viaggio in treno, i cinque chilometri in break, il portone, gli eucalipti del viale d'entrata. Prima di addormentarsi ebbe un momento di orrore quando immaginò che poteva anche essere un sogno. Sgranchendosi all'improvviso colpì con i piedi le sbarre di bronzo, sentì dolore attraverso le coperte, e in sala da pranzo si udivano parlare sua madre e Ines, i bagagli, andare dal medico per i foruncoli, olio di fegato di merluzzo e hamamelis Virginia.

Non era un sogno, non era un sogno.

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Parenti onirici Acquerello di Rosario Frasca 

8 - Il tema


La libertà è uno dei beni più apprezzati e ricercati dall’uomo moderno e contemporaneo. Tutti desiderano essere liberi, non avere condizionamenti, non essere limitati, e perciò aspirano ad affrancarsi da ogni tipo di “prigione”: culturale, sociale, economica. (Franciscus)

...anche il racconto è può essere una prigione

 

 

Appendice "immaginaria"

Bobi Bazlen e le gambe di Dora Markus - Chissà che direbbe Freud...o qualunque altro "maestro" del sospetto vedendo la foto delle gambe di Dora Markus inviata a Montale dal suo amico Bobi Bazlen che, pieno di volontà di vivere e di scrivere, non è riuscito ad "essere" né poeta né artista...ma solo un fantasma che c'è ma non c'è. Un fantasma che non aveva il desiderio ardente di riappropriarsi, anche per un momento, del corpo perduto come invece ha confessato Julio Cortazar ai studenti cubani.

Lettera a Montale 25/Settembre/1929

 

undefinedMio caro Eusebius,
Sono stato molto addolorato per la morte di Schmitz. E sento molto - la sentono tutti - la sua mancanza. -
Scorso in libreria il Tuo articolo su S. sulla Fiera Letteraria (non lo compero "per principio", come non ho mai comperato un giornale): ho paura che il Tuo articolo si presti troppo ad essere interpretato male, ed a far sorgere la leggenda d'uno Svevo borghese intelligente, colto, comprensivo, buon critico, psicologo chiaroveggente nella vita, ecc. Non aveva che genio: nient'altro. Del resto era stupido, egoista, opportunista, gauche, calcolatore, senza tatto.
Non aveva che genio, ed è questo che mi rende più affascinante il suo ricordo. Se puoi, e se avrai occasione di scrivere ancora di Schmitz, metti a posto più possibile: la leggenda della "nobile esistenza" (dedicata unicamente, - ad eccezione dei tre romanzi - a far soldi) è troppo penosa, e troppo ignobile. -
Giorni or sono visita di condoglianze in casa Schmitz, con la figlia che racconta storielle tutte da ridere di suo padre. Tenterò di farmi dare in mano tutta l'opera postuma, e di evitare la pubblicazione dell'opera omnia. Sarebbe un disastro. Credo non ci sia nulla di pubblicabile. Ma darò un'occhiata, e - se sarà possibile - Ti manderò i manoscritti. - Sua moglie - a quanto pare - migliora.
Del resto:
IO: Fisicamente molto bene, moralmente meno. Grandi disastri a casa mia, e ripercussioni abbastanza gravi per la mia assenza (durata in tutto 20 giorni): credo che non mi potrò più muovere........, nemmeno per un paio di giorni. Fa dunque Tu tutto il possibile di venire a Trieste. -
GERTI E CARLO: Bene. A Trieste, loro ospite, un'amica di Gerti, con delle gambe meravigliose. Falle una poesia. Si chiama DORA MARKUS. - *
Regalato ad un amico, che vive in Jugoslavia, il mio esemplare degli Ossi di S. (Ribet) ed il mio Convegno con il Carnevale. Non so se sono già esauriti. Se puoi mandameli. Grazie. -
Avrei ancora molto da scrivere. Ma sono sfinito: ed è molto tardi. Scrivimi. A lungo.
Affettuasamente
tuo Bobi

 

(*) La lirica Dora Markus, probabilmente scritta nel 1928, apparve per la prima volta sul "Meridiano"di Roma, a. I, n. 2, 10 Gennaio 1937.

 

 

 

Anche Pigmalione non era artista, né poeta ma un re e che da re si infatuò di una statua della dea Venere che prese da un santuario. 

Pigmalione- Ovidio trasforma Pigmalione in un timido scultore, alienato dalla società e sprezzante le donne per la loro volgarità. Solo la statua che undefinedegli stesso ha creato merita tutte le attenzioni e i doni possibili, e solo di lei Pigmalione si innamora, pregando gli dei che la rendano reale. A differenza di ciò che accade a Orfeo, il disprezzo di Pigmalione verso le donne e la società, non lo porta alla morte, ma a veder esaudite le sue preghiere: la statua diventa una donna reale che Pigmalione sposa e dalla quale avrà la figlia Pafo.

 

Pigmalione, uno scultore, aveva modellato una statua femminile nuda e d'avorio, di cui si era perdutamente innamorato considerandola il proprio ideale femminile, superiore a qualunque donna anche in carne e ossa, tanto da dormirle accanto nella speranza che un giorno si animasse.

A questo scopo, in occasione delle feste rituali in onore di Afrodite, Pigmalione si recò al tempio della dea e la pregò di concedergli in sposa la scultura creata con lesue mani rendendola una creatura umana: la dea acconsentì. Egli stesso vide la statualentamente animarsi, respirare e aprire gli occhi.

Pigmalione e la statua si sposarono ed ebbero una figlia, Pafo, che diede successivamente il suo nome all'omonima città di Cipro famosa per un tempio dedicato ad Afrodite.

La statua, priva di nome nel mito, è stata denominata da autori moderni (dal XVIII secolo in poi) Galatea.

 


Nell'uso comune, si definisce "pigmalione" chi assume il ruolo di maestro nei confronti di una persona rozza e incolta, specialmente una donna, plasmandone la personalità, sviluppandone le doti naturali e affinandone i modi.

 

 

ratio imitarum naturam 

 

 

 

 

Il sacrificio dell'eroe

mag 062022

La condizione dell'artista

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Nella discussione fatta tempo fa sulla lettura del romanzo di Boll, "Opinioni di un clown" in un intervento, Eloise ha posto una domanda specifica sulla condizione dell'artista secondo Hans, (il clown protagonista del romanzo) argomentando tre passi del romanzo, per lei fondamentali:

 

Nel "grido dell'anima" del clown Hans, oltre all'amore, al desiderio, alla critica eccetera si dà anche una rappresentazione molto ben definita dell'artista "vero", cioè non di colui che insegue la fama e l'approvazione sociale ma di colui che vive proprio la condizione dell'artista. Riflessione tra l'altro quanto mai moderna, anche se con miriadi di altri autori e filosofi alle spalle.

Come si può definire la coscienza infelice rispetto alla condizione dell'artista. Le coppie letterarie, fino a che punto possono aiutare in questo. Comunque sia, quali sono i punti principali della condizione dell'artista secondo Hans?

 

Questi tre passi, a mio avviso, sono fondamentali:

1 - http://www.letteratour.it/forum/img/boll01.gif#.YnVePs4D0XI.link


Bellissimo passo secondo me in cui si prendono le distanze non solo dal "messaggio per forza" di chi vuole a qualsiasi costo interpretare e ordinare l'esistente secondo propri criteri e schemi pre-determinati (qui in primis la borghesia e i cattolici), ma anche dalla criticaversus l'arte. "Io detesto spiegare una metafora": grande monito anche per noi stessi, che siamo qui a riflettere sulla letteratura!

2 - http://www.letteratour.it/forum/img/boll02.gif#.YnVePpe9zGI.link


Oltre a contenere una semplice quanto bellissima dichiarazione d'amore, di nuovo troviamo il contrasto tra chi interpreta tutto secondo schemi prefissati e chi parla invece col cuore e basta. "Questo discorso non sa di te" ha senso solo se "da te" ci si aspetta già qualcosa, mentre la vera curiosità e conoscenza dell'altro dovrebbe basarsi sulla possibilità di accogliere e accettare le infinite sfaccettature dell'io così come le ha espresse per esempio Proust.

3 - http://www.letteratour.it/forum/img/boll03.gif#.YnVePqvZhjg.link


Qui si entra nel vivo della concezione dell'arte, che si esplica come un'essenza astratta, [invisibile], che narra, che racconta qualcosa, e che può essere del tutto estraniata dal contingente. Inoltre si introduce ancora una volta la contrapposizione artista vs borghesia dal punto di vista del concetto del tempo libero che, lo ricordo, nasce proprio con l'utilitarismo e la società borghese dell’ottocento.

 

In risposta alle questioni poste in questo lucidissimo intervento di Eloise, ho espresso un'opinione da "clown apprendista"; e ho allargato l'argomento introducendo l'osservazione sul "tempo libero" espressa dal clown romanzato:

L'opera d'arte

Il concetto di "opera d'arte" è legato indissolubilmente al concetto di tempo. Il clown Hans, "l'artista", ci pennella alcune "estrinsecazioni del "tempo libero".

"Osservo con il fervore da fanatico ogni estrinsecazione del tempo libero: l'operaio che si mette in tasca la busta paga e sale sulla sua motocicletta, l'agente di borsa che posa definitivamente il ricevitore del telefono, ripone il taccuino nel cassetto e lo chiude; oppure la commessa di un negozio di commestibili che si toglie il grembiale, si lava le mani e davanti allo specchio si aggiusta i capelli e si rifà il trucco, prende la borsetta ed eccola fuori: tutto è così umano, che spesso mi sento io disumano perché il tempo libero lo posso presentare soltanto come numero."

Mi sembra una definizione calzante sia per l'artista osserv-attore (lettore) e raccont-attore (interprete), sia per il concetto di "opera d'arte" che è vista comunque "fuori dal tempo"(sacro)* e da tutto ciò che è legato al tempo ovvero da tutto ciò che ha inizio e fine, arrivo e partenza; nascita e morte; ciò definisce l'arte intesa in senso religioso, alternativa e/o in concorrenza con la religione del "messaggio" - com'è ben esposto nel primo passo presentato da Eloise: la religione del messaggio che corrompe… la realtà e non permette di assaporare liberamente, fisicamente e armonicamente quel delizioso bicchiere di vino senza ricamarci sopra inopportune iperboli concettuali che corrompono la sacralità sensoriale del gusto con il concetto immaginario del divino: il pensiero non esalta i sensi ma riduce la realtà fisica a pura occasione divinatoria e divinizzante.

L'arte è elemento di rottura così come vuole essere la religione intesa nel senso liberatorio e non nel senso di una morale fondata sul rispetto di "regole morte", - queste sì che sono "fuori dal tempo" -, inattuali e inattuabili, fuori dalla realtà di tutti i giorni anche se rivestite di una sacralità pesso solo di comodo.

La regola, umana soggetta al tempo (potere temporale), uccide l'arte e l'artista così come uccide l'amore e l'amante. La regola senza la fede che va oltre il tempo, è la morte nell'anima: quella stessa morte a cui si ispira la coscienza infelice interpretata ipocritamente dai padroni del pensiero. Nel suo romanzo "la morte dell'anima", Jean-Paul Sartre ha descritto con lucidità questo passaggio esistenziale: "Dal rifiuto giovanile alla scelta militante. La dolorosa maturazione di un intellettuale nella Francia travolta dal nazismo" (sottotitolo del romanzo edizione Oscar Mondatori). Le leggi, per quanto perfette possano essere, senza sacrificio si trasformano in "trappole per topi".

Il sacrificio

Le opinioni del clown Hans non sono solo opinioni ma un "j'accuse" feroce all'ipocrisia che impera nella società, nell'humus culturale di una nazione, nazista per caso e cattolica per convenienza ovvero universale nell'accezione più corruttibile e deleteria del termine: l'onnipotenza, la dis-umana "volontà di potenza" che Nietzsche ha così ben definito nella sua poetica del "superuomo" e interpretato con la sua vita, lasciandocene testimonianza preziosa, per sempre verificabile nelle sue opere.

Opere intrise di "nichilismo": una filosofia, quella del superuomo, con una sua logica semplice e lineare ma con esiti nefasti; una coercizione tribale, primitiva divenuta di moda non per la sua intrinseca forza, sebbene accattivante, trainante e dirompente; ma per la debolezza  di un contraltare eroico umanistico; esiti nefasti che la storia ci ha restituito e restituisce senza compromessi; che hanno caratterizzato e caratterizzano tuttora le cronache quotidiane di una globalizzazione totale, totalitaria e impossibile.

E allora, dall'alto della nostra estraneità storica, davanti al sacrificio dell'eroico clown, l'evangelico ecce homo con il quale Pilato presenta alla folla Cristo flagellato e coronato di spine (Giovanni 19,5) si perde nell' autarchico e disarmante Ecce Bombo di Nanni Moretti.

da ecce homo a ecce bombo… !!!

 

ratio imitarum naturam (I, 60, 5.)

La verità nelle immagini

apr 192022

11 settembre 2001undefined

Chi siamo adesso

Chi siamo adesso? Vogliamo continuare ad essere degli zombie? A costruire specchi su cui compiacersi? Rinascere e non reagire! Rinascere su basi nuove, indeformabili, inviolabili, inattaccabili, imperscrutabili. Dove l'uomo forma l'uomo disfa; dove nasconde: vìola; dove arrocca attacca; dove segreta scruta. Dove l'uomo arriva a costruire lì arriva pure a distruggere. Siamo straordinariamente fragili; vittime della nostra forza illusoria. Tutto ciò che facciamo è soggetto alla distruzione; tutti gli specchi dove ci riflettiamo sono soggetti ad infrangersi: fatti da noi e da noi distrutti. La scelta è radicale, non ci sono vie di mezzo: per rinascere bisogna prima morire. Siamo veramente pronti a morire a noi stessi? Siamo veramente pronti a rinunciare ai nostri sogni, alle nostre aspirazioni, ai nostri desideri, ai riflessi di noi stessi negli specchi? Siamo disposti a rinunciare a tutto ciò che la nostra storia, i nostri padri ci hanno indotto ad essere? E' dura la rinuncia; è dura ma è il primo passo. Annientamento della nostra falsa identità: se pur ci riuscissimo, e poi?

 

Costruire qualcosa di completamente nuovo

Su che basi costruire e costruirci? Dove andiamo a collocare le fondamenta? Non abbiamo detto che siamo straordinariamente fragili? Allora non dovremmo fidarci delle nostre sole forze. Forse è per questo che il ricorso al divino è testimoniato fin dagli albori della nostra esistenza in forma umana. Il divino. Già: il divino; che vuol dire divino? Divino è qualcosa che esula dalla conoscenza umana? E' il luogo del mistero? Dell'imperscrutabilità; dell'inattaccabilità; dell'inviolabilità? E si! dovrebbe essere proprio questo il significato del divino. Solo con questo approccio forse riusciremo a costruire il nuovo uomo. Non è fondamentalismo perché il divino è lo stesso per tutti ed è per definizione indefinibile, imperscrutabile, inaccessibile, nascosto all'uomo il quale ne fa immagine secondo la sua necessità occasionale, diversa alle varie latitudini e longitudini di questo nostro pianeta e chissà di questo nostro universo.

 

L'uomo nuovo

L'uomo nuovo è quello che vive la sua storia sapendo che nulla gli è dovuto ma tutto è un dono. La vita è un dono e, nelle sue manifestazioni brutte e orrende, dobbiamo ricordarci che come il bene anche il male passa attraverso il vaglio dell'uomo e solo lui può scegliere per il bene o per il male. Le categorie del bene e del male esistono a prescindere dall'agire umano ma questo non vuol dire che l'uomo non è responsabile del bene e del male che si produce nella vita. E' la sua scelta che traduce in fatti e in atti la forza immanente del male.

 

La responsabilità

E' nostra la responsabilità di tutto quel che è accaduto; dico nostra e non degli americani o degli arabi, o europei, o giapponesi ecc…è nostra, di tutti, senza distinguo. Siamo noi che ci limitiamo a compiacerci delle nostre immagini riflesse negli specchi; siamo noi che continuiamo a vivere credendo nella competizione di immagini e non nella nostra essenza nel nostro essere uomini. Tutti indistintamente siamo colpevoli del misfatto, tutti. Non ho parole per descrivere il sentimento che si è impadronito di me quando ho appreso la notizia. Mi immaginavo la scena (ho appreso la notizia per telefono) la spettacolarità e pensavo alla catastrofe ero paralizzato, sgomento, non riuscivo a dire niente di sensato.

 

La verità delle immagini

Poi vedendo le immagini ho capito. Ho capito che l'uomo è più forte di qualsiasi disgrazia; ha qualcosa dentro che viene fuori quando è messo alle strette; ho visto il disorientamento, l'angoscia, la solidarietà. I miei occhi si sono fissati sulle persone sui loro gesti, i loro pianti, le grida, il coraggio, affrontare il pericolo per salvare l'Altro. Ho visto l'uomo: quello vero. Su quelle immagini è la mia riflessione e non su quanto hanno detto i vari personaggi. Quelle immagini erano vere mi stavano raccontando qualcosa di vero; il sorriso o il pianto, lo sgomento, l'intraprendenza, le paralisi, le grida, i silenzi, i lamenti, l'indifferenza. Ho fede in Dio, ho fiducia nell'uomo, ho speranza in un mondo migliore.

 

undefinedLa trasfigurazione parte dall'incontro con il divino e con se stessi in rapporto al divino. Il sogno diventa visione e ci si trova immersi in una realtà diversa, un'altra realtà in cui tutto è perfetto, chiaro e determinato; senza una storia che la giustifichi e definisca ciò che vediamo, tocchiamo e sentiamo: tutto è perché è; tutto è presente tutto è concreto e tangibile, tutto è beatitudine: una realtà che attrae, conferma e conquista le anime altrimenti perse nelle reti del mondo. È la visione trasfigurata della realtà oggettiva che ci circonda.

 

 

 

La Trasfigurazione (Raffaello)

RF

La guerra

mar 162022

 

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Irène Némirovsky (Kiev, 11 febbraio 1903 – Auschwitz, 17 agosto 1942) è stata una scrittrice francese di origine ebraica, vittima dell'Olocausto.

Nata in Ucraina, di religione ebraica convertitasi poi al cattolicesimo nel 1939, ha vissuto e lavorato in Francia. Arrestata dai nazisti, in quanto ebrea, Irène Némirovsky fu deportata nel luglio del 1942 ad Auschwitz, dove morì un mese più tardi di tifo. (Wikipedia)

 

 

 Sandor Marai, altro profugo sopravvissuto alla guerra, in un suo romanzo, scrisse delle condizioni esistenziali di una profuga sua compagna di viaggio e di vita:

"Sono una profuga e comincio a capire che, quando si lascia una patria, si lasciano tutte le patrie possibili. Quello che noi profughi riceviamo per attestare la nostra identità, è solo un documento; di qua o di là, in qualsiasi angolo del mondo, la nostra identità è solo un documento. La spoliazione che subiamo non ci toglie di dosso soltanto la vera identità - non quella di un freddo e anonimo pezzo di carta - ma ci toglie anche tutto quello che gli uomini chiamano patria, in qualsiasi epoca. Lo capiamo solo lentamente." (Sandor Marai, "Il sangue di San Gennaro")

 

Nota

Le informazioni in premessa sono tratte dalla discussione,del gruppo di lettura fatta sul romanzo "Due" di Irene Nemirovsky e da "Suite francese" il romanzo postumo della stessa autrice; che ha riscosso un grande successo in tutta Europa ed è stato giudicato dai critici come il capolavoro di Irene Nemirovsky.

 

Premessa

Il nome Nemirovsky significa "colui che non conosce pace" e richiama i secoli di soprusi subiti dagli ebrei-russi di Nemirov, città della Russia.

Nel 1929 Bernard Grasset, entusiasta di David Golder, un manoscrtto arrivato per posta, decise di pubblicarlo immediatamente. Appena uscito, David Golder fu elogiato all'unanimità dalla critica, tanto che Irene Nemirovsky divenne subito celebre e fu lodata da scrittori di diversa estrazione, come Joseph Kessel, un ebreo, e Robert Brasillach, un monarchico di estrema destra e antisemita. Brasillach elogiò in particolare la purezza della prosa di quella nuova arrivata nel mondo letterario parigino.

Irene era nata a Kiev, ma aveva imparato il francese dalla governante fin dalla prima infanzia. Inoltre parlava correntemente il russo, il polacco, l'inglese, il basco e il finlandese, e capiva lo yiddish. La Nemirovsky si meravigliò perfino che si attribuisse tanta importanza a quel David Golder che lei stessa definiva un romanzetto.

Il padre, Leon Nemirovsky, aveva avuto la sventura di nascere nel 1868 nella città dalla quale doveva dilagare la grande ondata di pogrom contro gli ebrei russi, persecuzione che durò molti anni. Sul suo biglietto da visita si poteva leggere: "Lèon Nemirovsky, presidente del consiglio della banca commerciale di Voronez, Amministratore delegato della Banca Unione di Mosca, membro del consiglio della Banca Privata del Commercio di San Pietroburgo".

La madre, che si faceva chiamare Fanny, l'aveva messa al mondo unicamente per compiacere il ricco marito: per lei la nascita di quella figlia non rappresentava altro che il primo segno del declino della propria femminilità, e aveva lasciato la bambina alle cure della balia. Per dimostrare a se stessa di essere ancora giovane si ostinò a voler vedere Irene, divenuta adolescente, un eterna bambina, che obbligava a vestirsi e a pettinarsi come una scolaretta.

Irene, abbandonata a se stessa durante le ore di libertà della governante, si rifugiava nella lettura; cominciò a scrivere, e reagì alla disperazione sviluppando a sua volta nei confronti della madre un odio feroce.

In "Le vin de solitude" scrive dell'eroina:
"Non diceva mai "mamma" articolando chiaramente le due sillabe; pronunciava "mam" in una sorta di rapido borbottio che si strappava dal cuore con sforzo e con una sorta di sordo e subdolo dolore. Il volto della madre, contratto dall'ira, si avvicinò al suo, e lei vide brillare gli occhi che odiava, le pupille dilatate dalla collera e dalla paura … Dio ha detto: "Mia sarà la vendetta…"

Con sorpresa la vendetta continua a governare la storia delle nostre eroine. L'esergo premesso da Tolstoj in Anna Karenina parla chiaro: “Mihi vindicta: ego retribuan".

Irene Nemirovsky apprende senz'altro da Tolstoj uno stile narrativo leggero ed elegante per scrivere delle atrocità della guerra nel suo  capolavoro postumo. 

 

1903 - nata a Kiev (11 febbraio)
1918 - fuga in Finlandia;
1919 - approdo a Rouen e arrivo a Parigi;
1939 - conversione al cristianesimo;
1942 - deportata ed eliminata ad Auschwitz;

Dalla Russia con amore, alla Francia con stupore, fino ad Auschwitz per morire.

Questo il percorso di Irene Nemirovsky: ebrea, nata in Ucraina, profuga in Francia, morta in Germania.

 

Suite francese

(Némirovsky, Irène. I capolavori (eNewton Classici) (Italian Edition) (p.1832). Newton Compton Editori. Edizione del Kindle.)

Nota - Il brano riportato è l'incipit del romanzo; e rende bene lo stile elegante della prosa e l'assoluto realismo delle descrizioni narrative; un realismo romanzesco che non concede nulla al sentimento e all'eroismo romantico. Le situazioni descritte le abbiamo ben presenti oggi negli angosciosi e freddi report giornalistici che arrivano dall'Ucraina martoriata dalla guerra.

 

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1. La guerra

Fa caldo, pensavano i parigini. Aria di primavera. Una notte di guerra, l’allarme. Ma la notte svanisce, la guerra è lontana. Quelli che erano svegli, i malati a letto, le madri che avevano i figli al fronte, le donne innamorate con gli occhi sciupati dal pianto coglievano il primo respiro della sirena. All’inizio non era che un ansito profondo simile al soffio di un petto in costrizione.

Bastarono pochi istanti, poi tutto il cielo fu riempito dal rumore. Veniva da lontano, da oltre l’orizzonte, sembrava quasi senza fretta! I dormienti sognavano il mare che sospinge in avanti le onde e i ciottoli, la tempesta che scuote le cime degli alberi a marzo, una mandria di buoi in corsa sotto i cui zoccoli la terra trema sordamente, finché il sonno era interrotto e l’uomo mormorava aprendo appena gli occhi. «C’è l’allarme?».

Più nervose, più attente, le donne erano già in piedi. Alcune, chiuse le finestre e gli scuri, tornavano a letto. Il giorno prima, lunedì 3 giugno, per la prima volta dall’inizio della guerra, delle bombe erano state sganciate su Parigi; la popolazione era però rimasta tranquilla. Le notizie tuttavia non erano buone. Ma non ci si credeva. Come peraltro non si sarebbe prestato fede all’annuncio di una vittoria. «Non ci si capisce niente», diceva la gente.

Servendosi di una pila tascabile, si rivestivano i bambini. Le mamme sollevavano nelle braccia i piccoli corpi abbandonati e tiepidi: «Vieni, non aver paura, non piangere», c’è l’allarme. Tutte le luci si spegnevano, ma nel dorato e trasparente cielo di giugno, ogni casa, ogni strada era visibile.

Il fiume sembrava accogliere tutte le luci, riflettendole e moltiplicandole come uno specchio sfaccettato. Le finestre oscurate non completamente, i tetti che luccicavano nell’ombra lieve, le borchie metalliche dei portoni di cui ogni sporgenza emetteva un debole scintillio, qualche semaforo che restava acceso più a lungo degli altri, inspiegabilmente, era il fiume ad attirarli, a imprigionarli e farli giocare tra i suoi flutti.

Dall’alto doveva apparire bianco, scorrere come un flusso di latte. Alcuni pensavano che potesse servire da riferimento per gli aerei nemici. Altri dicevano che era impossibile. In realtà non si sapeva nulla. «Io me ne resto a letto», mormoravano voci insonnolite, «Non ho paura». «Ad ogni modo, una sola volta basta», replicavano i più prudenti.

Oltre le vetrate che coprivano le scale di servizio delle nuove costruzioni, si vedevano scendere una, due, tre piccole luci. Gli inquilini del sesto piano abbandonavano le zone più elevate; tenevano davanti a sé le torce elettriche accese a dispetto dei regolamenti. «Preferisco non scassarmi la testa sulle scale, vieni Emilio?» Istintivamente si parlava a voce bassa come se si fosse circondati da sguardi eorecchie nemici. Una dopo l’altra si sentiva lo sbattere di porte racchiuse di colpo.undefinedNei quartieri popolari la gente si assiepava nelle stazioni del métro, nei rifugi dall’odore stantio mentre i ricchi si limitavano a scendere giù nelle portinerie, l’occhio teso verso gli scoppi e le esplosioni che avrebbero annunciato la caduta delle bombe, attenti, i corpi tesi come bestie inquiete nei boschi quando si avvicina la notte della caccia; i poveri non erano più paurosi dei ricchi; non erano maggiormente attaccati alla vita, ma avevano più di loro lo spirito del gregge, avevano bisogno gli uni degli altri, bisogno di stare a contatto di gomito, di piangere o di ridere insieme.

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Il sole stava per sorgere; un riflesso pervinca e argenteo si rifletteva sul selciato, sui parapetti del lungo Senna, sulle torri di Notre-Dame. Sacchetti di sabbia, accatastati attorno agli edifici principali sino a mezza altezza, imprigionavano le danzatrici di Carpeaux sulla facciata dell’Opéra, soffocavano l’urlo della Marseilleuse sull’Arco di Trionfo.

Ancora piuttosto lontano rimbombavano colpi di cannone, poi si facevano più vicini e i vetri tremavano in risposta. Bambini nascevano in camere troppo calde dove erano state tappate tutte le fessure delle finestre affinché non trapelasse all’esterno il minimo raggio di luce, e il pianto dei neonati faceva dimenticare alle donne il rumore delle sirene e la guerra. Alle orecchie dei moribondi i colpi di cannone giungevano deboli e privi di significato, un ulteriore suono che si mescolava al sinistro e indefinito rumore che accoglie l’agonizzante come un gorgo. I piccoli, accucciati contro il fianco caldo della mamma, dormivano quieti e facevano con le labbra dei piccoli schiocchi leggeri, come di un agnellino che succhia il latte.

Abbandonate al momento dell’allarme, alcune carrette di ortolani, cariche di fiori freschi, erano buttate in mezzo alla strada. Il sole, ancora rosseggiante, saliva nel cielo limpido. Venne tirato un colpo di cannone, questa volta tanto vicino alla città che gli uccelli sfrecciarono in volo dalla sommità dei monumenti. Dall’alto planavano grandi uccelli neri, mai visti prima, spiegavano sotto il sole le ali satinate di rosa, poi si levavano in volo i bei piccioni grassi tubando e le rondini, i passeri saltellavano tranquillamente nelle strade deserte. Sulle rive del fiume, sui rami dei pioppi, grappoli di piccoli uccelli scuri cantavano alto. In fondo alle cantine giunse finalmente un suono lontano, attutito dalla distanza, una specie di fanfara su tre toni.

 

L’allarme era cessato.

 

 

 

 

 

 

 

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