Il Blog di Rosario Frasca

Le opinioni di un Clown, ovvero: Il mito di Er

Monologhi o-scurati

apr 242024

Premessa

Si tratta di due monologhi lontani tra loro anni luce. Uno è l’attuale monologo salito alla ribalta dei media dopo essere stato rifiutato dalla Rai e divenuto virale nei social. L’altro è il monologo immaginato da Fellini che lo mette in bocca al violoncellista Mastorna il quale rifiuta il premio fasullo che gli viene assegnato nell’aldilà da una bella signora e dai notabili di turno. L'accostamento dei due monologhi è solo un divertimento scribacchino che ho voluto sperimentare per far arrivare un messaggio di gioia e di libertà in occasione della Festa di Liberazione: una festa democratica una memoria importante che non merita inutili polemiche e faziosità politiche. Buona festa e buona lettura a tutti.

 

La premiazione

tratto da "Il viaggio di G. Mastorna" di Federico Fellini)

Avanza, sul palcoscenico, una stupenda signora, in mantello di visone, broccato, parure di diamanti: come una Madonna. Sorride, a destra e a sinistra, rispondendo all'uragano di applausi. La segue un valletto dall'aria ascetica e glabra: un valletto che porta un enorme cofano stipato di buste. La bella e maestosa signora sorride e, di colpo, il suo enorme sorriso diventa un dettaglio ripercosso simultaneamente da tutti gli schermi televisivi.
Prende con la mano bianca, una busta e si prepara, con un gesto diafano, ad aprirla. Ma prima di ciò il presentatore dice, indicando un grande schermo che si illumina, come per incanto, dietro i trofei floreali del palcoscenico:

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Come sempre, lo sapete bene (la perfezione non ammette novità), noi proietteremo su questo schermo le scene esemplari della vita dei premiati. Questo dovrà servire, se non da esempio - visto che quello che uno fa non è detto che sappia farlo anche un altro, - almeno da giustificazione per la scelta che è stata fatta.

La bella signora sorride, come per mettere il punto a questo discorsetto e poi, con agili dita, apre una busta. Ed ecco che l'altoparlante scandisce rimbombando il suo nome. Chiamano lui, proprio lui.

Giuseppe Mastorna, violoncellista.

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Dietro le quinte, dove fervono i preparativi. Mastorna, con la faccia tutta impiastricciata di cerone, di rossetto e di nerofumo, esasperato da tutti quei toccamenti, (da tutte quelle attenzioni plateali, quegli occhi che lo fissavano), si alza di scatto e, pulendosi il viso con l'asciugamano, si avvia verso il palcoscenico, mentre scoppiano attorno applausi fragorosi. Squilli di fanfare, sventolio di bandiere, lancio di palloncini.

Un uomo con la fascia da sindaco gli si fa incontro, leggendo sui suoi foglietti la solita litania di lodi:

Avvicinati eletto figlio del vecchio pianeta Terra, splendida bandiera della raz...

Vuol dire "della razza umana" ma, nell'allargare le braccia, i foglietti gli volano via di mano e si sparpagliano per terra. Faticosamente s'inchina a raccoglierli ansimando, e continua, impappinandosi, il suo discorsetto.

...avvicinati, fa' che le mie indegne mani... l'aureo simulacro... ah no, ecco qua... maestro di armonia, artefice di incantesimi sonori, ti aspettavamo! Alla timida voce del tuo strumento palpitavano le foglie, l'uomo scuro e afflitto si sentiva chiamato al paradi...

si interrompe di nuovo, cercando il foglietto giusto. Il Presentatore gli viene in aiuto, raccogliendo da terra il foglietto dove c'è il seguito della frase, e continuando a leggere per lui:

...paradiso, il musicofilo assaporava l'esaudimento delle sue pretese estetiche. Tu ci onori, maestro, con la tua presenza, tu ci conforti, accettando il tangibile segno della nostra inesausta ammirazione!

Sul grande schermo che fa da fondale sul palcoscenico, appare un'immagine che dovrebbe essere quella di Mastorna. Ma non è Mastorna. L'immagine ritrae uno squallido tipetto insaccato in una veste da prete, che con aria sciocca e immobilizzato con la mano alzata regge un ombrello.

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Mastorna (indicando l'immagine): Ma quello non sono io!

Mastorna ripete con voce strozzata dalla rabbia: Quello non sono io! Non v'accorgete che è l'immagine di un altro?

Tutti ridono divertiti come d'innanzi all'incomprensibile capriccio di un bambino (con vivaci scuotimenti di testa e a gesti sembrano voler rassicurare Mastorna che l'immagine proiettata sul telone è proprio lui).

Implacabilmente la bella signora, sorridendo in uno sfavillio di denti bianchissimi, continua con la sua rotonda voce da cantante:

...l'aureo simulacro a cui si volgono i sogni di tanti. Che tu possa trascorrere qui da noi un'eternità felice!...

Così dicendo apre l'astuccio e fa per consegnarlo a Mastorna. L'astuccio, foderato di seta, contiene una piccola piastrina metallica dorata. Ma Mastorna non ritira il premio. Guarda il modestissimo trofeo in silenzio, con una smorfia di derisione e poi, con uno scatto furioso, dà un colpo all'astuccio e lo fa schizzar via dalle mani della signora, che rimane impietrita, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati.


Nel silenzio improvviso che è sceso su tutti, una voce robotica fuori scena, comincia a parlare:

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 La fabbrica del tempo (Franco Fortunato)

 

(dal monologo di Antonio Scurati)

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"In questa nostra falsa primavera non si commemora soltanto l'omicidio politico; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944. Sono luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.

Queste concomitanti ricorrenze luttuose - primavera del '24, primavera del '44 - proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica - non soltanto alla fine o occasionalmente - un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?

Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così.

Il gruppo dirigente post-fascista ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l'esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola "antifascismo"nelle diverse occasioni commemorative della Resistenza).

Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell'anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana".

Mastorna, dopo aver ascoltato la voce robotica, interviene animosamente:

Ma che state a di'? Eternità felice? Antifascismo? Qui? Con voi? In questa specie di circo equestre? In questa confusione, in questa volgarità? In questo cretinismo? Ma io ne faccio a meno della vostra felicità eterna!

Questa sarebbe la seconda vita, la vera vita? Questo il traguardo dove dovevamo arrivare dopo tanti anni di paure, di ansie, di solitudine, di male? Una vita tanto magra e amara, tutto per arrivare a questa festa sciagurata? È questo il regno di Dio?

(Con un urlo disperato).

Non è possibile! Con tutte le mie forze, con tutta la mia passione, con tutta la mia intelligenza, tutto il mio cuore io grido: non è possibile che la morte sia questa! Non dobbiamo accettarla, non possiamo accettarla!

Da bambini si andava in chiesa, ricordate?... Ci accompagnavano in chiesa,...si dicevano le preghiere, ci si andava a confessare... gli uomini hanno costruito cattedrali immense... hanno sofferto, sperato, si sono fatti uccidere... perché cosa? Rispondete: tutto per questo carnevale?


Da quando sono capitato qui, ogni cosa è confusione, tutto è incomprensibile, tutto è peggio di prima, una ridicola pagliacciata priva di senso che mi fa rimpiangere la nostra vissuta umanità, il nostro buon senso, ci fa rimpiangere la vita umana, con tutti i suoi errori. Chi ha inventato questa dimensione è un pasticcione confuso che ha bisogno del nostro aiuto, dei nostri consigli.
Che squallore, che desolazione di fantasia! È questa dunque la favolosissima morte?

Qualcuno dalla platea grida

Ma tu cosa aspettavi che ci fosse? Come te l'eri immaginata questa faccenda?

È vero... è vero. Cosa avrei voluto trovare?...Non lo so...

(Con uno scatto accorato).

Ma qualcosa deve pur esserci di diverso... qualcosa che non assomiglia a tutto quello che abbiamo già conosciuto. Non è possibile che tutto sia identico a prima.

(Aspettando Godot)

La stessa ignoranza, la stessa paura, le stesse vanità, la stessa baraonda. E nessuno che sia in grado di spiegarci che cosa è successo, che cosa si debba fare. Abbiamo diritto di avere almeno delle spiegazioni.

 Una voce dalla platea:

- Ha ragione, che cosa siamo morti a fare, allora?

Ero venuto qui con fiducia ed umiltà, pronto a rispondere a tutto quello che mi sarebbe stato chiesto, disposto a pagare in ogni modo il conto che mi sarebbe toccato; domandavo in cambio una parola definitiva, una sistemazione, un'indicazione da seguire, un po' di chiarezza.


Mi si dà invece una medaglietta accompagnata da una motivazione che farebbe ridere il più squallido e il più frivolo dei nostri tribunali. Mi si consegna uno stupido trofeo per azioni altrettanto insignificanti. Si sbaglia persino la mia fotografia. Fate finta di non riconoscermi? Debbo aiutarvi io a ricordarvi di me? Devo proprio dirvi io chi sono e che cosa ho fatto? Ma allora, se devo dirvelo io, a che cosa è servito sentirsi spiati, osservati alle spalle per tutta la vita?

Voi dovete ricordarvi tutto di me. Tutto deve essere scritto a lettere di fiamma nella vostra mente, nella vostra memoria; e se non c'è scritto allora siete stati negligenti voi, e voi dovete meritare una punizione, non io.

O forse questa medaglia, che mi date senza nessun criterio, è un pot-pourri di tutta la mia vita, un allegro incomprensibile "e visse felice e contento" con il quale mi si vuol liquidare?

In questo caso io rifiuto un simile vergognoso riconoscimento. Io dico di no Io dico di no Io dico di no. Ora basta. Quello che sta succedendo qui è mostruoso e criminale, uno sberleffo avvilente, un insulto al mio cuore e alla mia intelligenza.


Mi si è fatto credere illusoriamente in un'idea di giudizio, di premio, di castigo, ed ora mi accorgo di avere in questo modo imposto alla mia vita un senso del tutto immaginario che mi ha impedito di scoprire quello vero.

Che debbo fare? Piangere per la delusione, per l'amarezza, per il dolore? Sarebbe troppo poco, significherebbe annullarmi in questa melma schifosa che sta tentando di soffocarmi. Io sputo su questo tribunale assente e pazzo e disprezzo il suo silenzio.


La fine del discorso di Mastorna è accolta da vivacissime reazioni contrastanti: C'è chi applaude freneticamente, chi piange di entusiasmo e di commozione, chi urla di sdegno, chi invoca maledizioni su Mastorna, l'arresto immediato. Gruppi di applauditori si sono fatti sotto il palcoscenico e acclamano Mastorna come un liberatore. tra le varie fazioni cominciano a volare insulti, schiaffi risse e vere lotte nascono in ogni dove dell'immenso salone.

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Qualcuno fa segno all'orchestra di attaccare a suonare: esplode una fragorosa musica da ballo in mezzo a tanto sconvolgimento, si formano delle coppie. Molti si mettono a ballare, mentre gli altoparlanti rimbombano inviti alla calma, alla moderazione.

Un gruppo, tra i più esagitati applauditori, è salito sul palcoscenico circondano Mastorna,lo sollevano e lo portano in trionfo.

 ratio imitarum naturam

C'è ancora domani: la mia visione

gen 012024

 

 Prologo

La memoria affettiva è il giudizio universale dell'esistenza. Essa separa il bene dal male, ma il male deve figurare nella storia perché la storia è il passato. La memoria affettiva è il focolare di tutta l'opera. E' fonte di verità e fonte di sacro; da essa scaturiscono le metafore religiose; essa svela la funzione divina e demoniaca dell'uomo. (Renè Girard - MRVR)

 

Il programma era quello di mangiare qualcosa insieme per poi andare nel pomeriggio a Le Scuderie del Quirinale a vedere la Mostra allestita per il centesimo compleanno di Calvino*. Ma la Mostra è saltata giù per la ripida pendenza del colle fino a spiattellarsi alle falde della "salita di montecavallo" che è diventata così "discesa di smontacalvino".

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Perchè quella discesa l'hanno chiamata salita avrà un suo motivo; ma lasciamo perdere le elucubrazioni toponomastiche e andiamo avanti con la storia vera, quella che per Luciano di Samosata* è comunque falsa.

Bene, ci siamo detti, il gioco è fatto; pochi clic, qualche tap sullo smartphone e improntiamo subito il nuovo programma: all'Adriano proiettano sui bianchi schermi cinematografici, l'opera prima di una regista che, seppur attrice brillante politicamente scorretta, in realtà, a sentir le voci, con questo film pare voglia dimostrare di essere perfettamente allineata alla memoria storica, all'attualità contestatrice... e al miglior domani che verrà; in altri termini una ribelle omologata classificabile come "accettabile" nella famigerata finestra di Overton*; e come dimostra la fredda e sintetica declatoria di Wikipedia:

"Paola Cortellesi* (Roma, 24 novembre1973) è una regista, attrice, comica e sceneggiatrice italiana".

Seguendo notizie tam tam, mi sono fatto l'idea che il suo film strizza un occhio ruffiano a un passato statico, immobile, morto che non diventa mai presente ma lo scavalca per continuare la sua folle corsa verso un futuro immaginario, visionario, illusorio, ...surreale."C'è ancora domani" invita a pensare che il passato è morto e non ci appartiene"; e già ...ma è il titolo di un film, un'opera di finzione: e quando si finge, cioè, quando si mette una maschera alla storia, tutto è permesso nel nome della narrazione, e della creatività; e vedere questa maschera storica messa in scena con grande maestria, regolata da una regia attenta, nascosta e inappellabile, consente a noi spettatori di riflettere sulla nostra esistenza passata, presente e futura; e di vivere la quotidianità  all'interno di una imprescindibile e misteriosa eternità, dimenticata forse per distrazione, deviata da opportunismi e compiacenze effimere e fallaci.

Il "domani" del titolo mi intriga, mi smuove curiosità: qualche scambio d'idee sul possibile valore artistico, morale e sociale del film e decidiamo di andare al cinema; pago il conto; montiamo in macchina e, dal quartiere degli orti del Giannicolo, rotoliamo giù, fino agli enormi e allineati palazzi di Prati: quartiere savoiardo edificato oltre i borghi di Castel Sant'Angelo che si erge maestoso ai margini del biondo Tevere; il fiume generatore dell'urbe che scorre invisibile nel suo letto, occultato alla vista dagli ottocenteschi muraglioni d'argine.

Lasciamo la macchina nel posteggio sotterraneo di Piazza Cavour, alle falde di quel mastodontico palazzo, icona di una illusoria Giustizia, simbolo di una posticcia unità condivisa tra le diverse indoli italiche: un enorme e grottesco agglomerato di pietre, muri, archi, altissimi portali, corridoi spettrali, fontane a prospetto che sputano acqua in goffe vasche, colme di inutilità e sorvegliate da improbabili statue con fattezze da guardiani della notte del "Trono di Spade"; insomma, un monumento imponente che il sottile e bonario sarcasmo romano ha ribattezzato ironicamente "er Palazzaccio".

Il Teatro Adriano divenuto cinema multisala, è lì di fronte: distribuito in un edificio elegante e sobrio che, con la sua luminosa semplicità, protetto dagli antistanti giardini della Piazza e dalla compassata statua di "Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, conte di Cavour (1810 – 1861), politico italiano" senza passaporto e senza portafoglio, sberleffa quel tronfio, ingombrante e autoreferenziale Palazzo di Giustizia.

L'umile Adriano ci accoglie sorridente e sollecito, con i suoi paggetti premurosi che ci vengono in soccorso per dirimere le nostre evidenti incertezze situazionali, dovute al malfunzionamento di un distributore di caffè che si ostinava a non erogare la calda e sospirata bevanda. Sciolto il conflitto d'interessi, tutto sirisolve in pochi minuti e lesti ci addentriamo nella sala di proiezione per gustarci quel domani che per nostra fortuna, c'è ancora.

Al buio troviamo la fila e i posti assegnati dall'Intelligenza Artificiale dello smartphone e ci apriamo al titolato domani sprofondati nelle poltrone e con il naso all'insù a rimirar il prepotente ingombro delle immagini semoventi sul gigantesco schermo che domina la sala.

 undefinedInizia il film: un dolce e lento risveglio di una coppia dormiente che termina bruscamente con un sonoro e ben amplificato schiaffo del maschio verso l'imbambolata e costernata femmina; in sala percepisco un sussulto di sorpresa: la donna schiaffeggiata sullo schermo e gli spettatori in sala, forse si aspettavano che la scena scivolasse dolcemente su una carezza, un bacio, una tenerezza piuttosto che sobbalzare al frastuono di un fumettistico "schiafff" la cui sonorità amplificata e impietosa si è diffusa roboante sulla silente platea di spettatori interdetti; ma la faccia imbalsamata della protagonista è strabiliante, convince e prepara bonariamente lo spettatore che è in me alla serena visione film.

Con lo sguardo fisso sul gigantesco schermo scopro che quella appena descritta è solo la sequenza-prologo; "promette bene", ho pensato, ma senza ridere: non me la sono sentita, anche se ero fortemente tentato; d'altra parte il film è presentato come un'opera seria e impegnata: tratta argomenti importanti, come il maschilismo, la violenza, la subalternità della donna, il sotterraneo patriarcato, prepotente e sottilmente condizionante, ecc... peraltro, in concomitanza con fatti di cronaca tragici e agghiaccianti, sono mesi che in giro che non si sente altro; e io non posso ridere così, alla prima scena, senza nemmeno sapere il perché: come si fa a ridere per uno schiaffo violento sul dolce viso di una donna? Trattengo la risata e mi guardo i titoli di testa che alla chetichella compaiono e scorrono sullo schermo.

 Guardo i titoli un po' distrattamente e mi sospendo un attimo quando leggo i nomi della "produzione"; mi sfiora appena l'idea di riflettere sulla produzione multinazionale; ma è un attimo e subito mi costringo a non pensare: voglio godermi il film. Noto anche che lo stile fotografico è il bianco e il nero; anche qui vorrei riflettere sulla scelta della regia ma mi costringo ancora a non pensare...c'è ancora domani per farlo.

Scorrono le immagini rincorse lentamente dai titoli di testa; ma non riescono a catturare più di tanto la mia attenzione: nebulosamente il mio pensiero cerca qualcosa su cui fissarsi. Mi guardo dentro e rifletto.

Vagano i miei pensieri e, per un brevissimo tempo, si fermano sull'enigma del sacro*, sulla sacralità del titolo: "C'è ancora domani". Forse vuol dire che siamo ancora vivi, che la morte non ci appartiene, che siamo ancora capaci di futuro, d'immaginazione, di sogni, visioni. Ma in fondo, che cos'è la morte? A questa domanda mi rifiuto di rispondere, c'è ancora domani penso ...e, dai pascoli inesplorati di un futuro visionario, abitato dall'incolpevole morte, istintivamente mi riapproprio e assaporo le voluttuose immagini del film che scorrono sullo schermo indisturbate e mute, anzi mugugnanti a bocca chiusa; mi sistemo meglio nell'avvolgente poltrona ed entro nel film, con la morte che pascola inascoltata nella mia anima; ed incurante dell'anima mortifera dissolvo il mio corpo sulla poltrona e in voluttuosa osmosi entro nel film.

Le sequenze si susseguono a ritmo incalzante non ci sono stati altri spazi di riflessione; e la storia scorre, tutto è narrato con semplicità, con un linguaggio essenziale, scarno ed efficace per l'economia della narrazione. I personaggi sono ben caratterizzati da subito: via via prendono forma e consistenza e io li osservo, li incontro e li conosco, uno per uno, senza tralasciare nessuno; fino alla fine del film. 

Rifletto in silenzio mentre intorno sento il brusio della fine; si accendono le luci ed esco dal cinema Adriano contento di aver visto un bel film... a bocca chiusa. Sono entrato dubbioso, ho visto e sono uscito soddisfatto; sicuro che,

per quanto l'uomo e la donna siano magnificamente diversi, per essere uguali... c'è ancora domani.

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Epilogo

Dopo lo schiaffo prologo, ci sono state alcune sequenze che sono rimaste accantonate nella mia memoria per il loro contenuto affettivo. Le ambientazioni romane e alcune situazioni del film mi hanno fatto rivivere momenti iconici dell'infanzia; una in particolare ha aperto la finestra della memoria affettiva: la scena dei bambini che dormono "da capo a piedi" sullo stesso letto; forse non è una scena che rispecchia l'attualità del mio vivere quotidiano, ma è raffigurata quella miseria spensierata e a suo modo felice che ha accompagnato la mia infanzia romana; è la stessa miseria, forse meno felice, anzi, forse più drammatica, che in forme diverse, pervade le periferie urbane, suburbane e culturali della metropoli attuale.

 

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C'è una frase con la quale la protagonista Delia risponde alla figlia che, contrariata dall'atteggiamento remissivo della madre di fronte alle angherie e alla violenza del padre-padrone, la esorta a ribellarsi, ad andare via, fuggire per non subire, a non sottomettersi alla bruta violenza del marito nonché padre; ma Delia, in tono calmo e serafico, risponde: 'ndo' vado? Due parole che fanno riflettere sulle situazioni della vita coniugale: quando le liti, a volte o forse spesso, finiscono nel mutismo riflessivo dei litiganti: son quasi sicuro che entrambi si domandano in silenzio: 'ndò vado?

Verso la metà del film, sono stato pervaso da un indefinito malessere, una rabbia sopita e dimentica, ribolliva e montava sempre più, come schiuma di birra versata velocemente nel boccale: la tenevo a bada per non farla traboccare. È indubbio che come spettatore ero ormai coinvolto: ero dentro il film, ero un personaggio inespresso che partecipava la scena e seguiva il ritmo delle sequenze incalzanti che, come violente frustrate, flagellavano la dignità della donna; mi veniva quasi voglia d'intervenire per dare una lezione a quel marito che continuava imperterrito a dar botte all'incolpevole moglie; noi spettatori che guardavamo il film, sapevamo che le botte alla moglie erano solo per sfogare le taciute frustrazioni di uomo incompiuto, di figlio succube, di padre assente, di marito al ribasso, di un fallito...di un sottoproletario, squattrinato e rassegnato: una nullità ingombrante, antipatica e impertubabilmente idiota; bravissimo, superbo l'attore che lo interpreta, Valerio Mastandrea.

 

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Un'altra parentesi riflessiva mi è capitata nelle sequenze finali del film: la corsa di Delia verso la libertà. Quando l'inquadratura indugia  sulla folla di donne e uomini che si accalcano davanti a un edificio pubblico, forse una scuola o qualcosa di simile, sono rimasto in colpevole imbambolamento come a dire: tutto qui? Non capivo il tipo di libertà, la mèta, l'obiettivo che aveva motivato la corsa di Delia; poi la narrazione del film ha dissolto il mio dubbio amletico: per la prima volta nella storia della Repubblica, la donna contava qualcosa nella società vincolata ancora a tradizioni e consuetudini di tipo patriarcale.

 Delia poteva finalmente considerarsi cittadina al pari del suo violento marito; il suo voto valeva quanto quello del coniuge idiota: non era il massimo ma era la sua vendetta "democratica" contro la sopraffazione del maschio a tutti i costi, del marito, del suocero e di tutti quegli uomini un po' idioti, un po' saccenti, un po' stupidi che numerosi affollavano la sua vita e le toglievano il respiro della libertà.

 undefinedDelia, prima di quella corsa era una semplice donna al pari dell'adamitica Eva immersa in situazioni che la opprimevano e le negavano la libertà; dopo quella corsa invece è diventata una cittadina della Repubblica, una donna che ancora e comunque subisce la violenza e le botte del maschio ma, con il diritto di voto, ha compiuto un salto epocale verso quella giustizia sociale che stenta ad affermarsi nelle periferie esistenziali di un mondo che annaspa per arrivare a quel domani che c'è ancora.

  Dea madre (Paleolitico)   

 

 

 

 

 

 

 

 

 ratio imitarum naturam

 

 

Il Gattopardo e il sonno degli dei

mar 102023

Chi è Il Gattopardo? 

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Il Gattopardo è l'autore - Guseppe Tomasi di Lampedusa, nobile, letterato e scrittore, divenuto silenziosamente famoso per aver romanzato gli avvenimenti che hanno caratterizzato, in Sicilia e in Italia il "passaggio storico e culturale" dal vecchio ordine feudale tardo-medioevale, al disordine "borghese, patriottico e insurrezionale sulle ali romantiche di una fallace promessa di libertà.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, duca di Palma e Principe di Lampedusa, nato nel 1986 e morto nel 1957, si formò su scritti illuministici e raccolte di relazioni militari. Divenne narratore solo nella seconda parte della sua vita, privo di contatti con gli ambienti letterari. Compose un solo romanzo, Il Gattopardo, che, rifiutato da due grandi case editrici, fu pubblicato da Feltrinelli nel 1958 ed ebbe immediato grandissimo consenso di pubblico e critica.

 

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Il Gattopardo è lo stemma di una delle più importanti famiglie dell'aristocrazia siciliana cui Giuseppe Tomasi apparteneva. Da questa posizione di appartenenza nobiliare, poco prima di abbandonare il mondo, Tomasi ha completato il romanzo, trasferendo in quelle pagine una lucida e puntuale raffigurazione della società e dell'ambiente siciliano offrendo ampi spazi di lettura dell'ambiente, della politica e del vivere quotidiano. Il punto di vista narrativo è quello dell'autore stesso, cioè, quello di un nobile rassegnato e costretto dai tempi a passare testimone al nuovo che avanza ovvero agli ennesimi dominatori stranieri portatori di civiltà lontane ed estranee al comune sentire del popolo siciliano. Per voce dello stesso Tomasi, il punto di vista corrisponde a quello del protagonista del romanzo: Don Fabrizio, Principe di Salina, ultimo Gattopardo e monumentale testimone di una sicilianità fiera e orgogliosa, seppur  sopita dietro un vivere quotidiano distaccato e silenzioso. 

L'opera non fu prontamente capita da importanti editori, (Mondatori, Einaudi), che ne rifiutarono la pubblicazione; questo ostracismo culturale procurò profonda delusione e tristezza all'autore che non riuscì a vedere la pubblicazione del suo romanzo prima della sua morte che sopraggiunse nel 1957. L'opera uscì con Feltrinelli nel 1958 ed ebbe immediato successo; confermato qualche anno dopo dal magnifico film omonimo di Luchino Visconti.

   

 

           

Trama del film

1860 - Garibaldi con le sue camicie rosse invade la Sicilia. Nonostanmte lo sconvolgimento politico, l'aristocratico don Fabrizio, Principe di Salina, compie egualmente con la sua famiglia il viaggiuo annuale verso la residenza di campagna di Donnafugata. Qui il Principe viene a sapere da padre Pirrone che Concetta, sua figlia, ama Tancredi, il nipote prediletto di don Fabrizio. Ma le speranze di Concetta sfioriscono rapidamente quando appare la figlia del Sindaco, Angelica Sedara. Don Fabrizio si rende conto che questo connubio tra la nuova borghesia e la declinante aristocrazia è uno dei muitamenti che deve essere accettato. Questa intesa verrà consacrata durante un grandioso ballo al termine del quale il Principe si allontana meditando sul significato dei nuovi eventi che richiamano la sua attenzione ad un sofferto bilancio della propria vita.

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"Il Gattopardo" è un film unico ed emblematico: un capolavoro costruito su inusuali scelte iconografiche, scenografiche, ambientali e interpretative; sequenze che raccontano con vivacità, profondità e puntigliosa eleganza quel confuso periodo storico connotato sinteticamente come "Risorgimento": una sintesi dimentica delle ferite profonde lasciate dai drammatici eventi vissuti dal popolo e dall'aristocrazia siciliana; una guerra a tutto campo che vedeva i Savoia proiettati verso la conquista di quei territori dominati dai Borboni.

La fase storica

La fine del regno borbonico delle Due Sicilie, si articolò in una serie di momenti distinti successivi alla spedizione dei Mille, tra l'ottobre del 1860 e il marzo del 1861.

Formalmente, le Due Sicilie furono annesse a larga maggioranza al Piemonte-Sardegna dopo l'esito dei due plebisciti d'annessione tenutisi nelle province napoletane e nelle province siciliane il 21 ottobre 1860, i cui risultati furono formalizzati con i regi decreti 17 dicembre 1860, nn. 4498 e 4499 («Le province napoletane fanno parte del Regno d'Italia» e «Le province siciliane fanno parte del Regno d'Italia»).

La decisione dell'annessione immediata ed incondizionata delle Due Sicilie al Regno di Sardegna fu fortemente voluta dal primo ministro conte di Cavour, che, spaventato dalla prospettiva di un'affermazione democratico-popolare e repubblicana nei territori meridionali conquistati da Garibaldi, fece di tutto affinché la spedizione dei Mille non scivolasse cioè, verso una soluzione democratica, rivoluzionaria e incontrollabile.

"Annessione" voleva dire vaccinazione contro il rischio rivoluzionario, contro il "disordine sociale", perciò si cercò subito di stabilire delle intese con gli esponenti meno compromessi del vecchio regime e soprattutto si cercò di rassicurare il vecchio ceto agrario, il cui appoggio era indispensabile per il controllo politico del Mezzogiorno.

 L'obiettivo dei Savoia era l'annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno sabaudo sotto la bandiera tricolore. Questo ambizioso obiettivo venne raggiunto con l'aiuto di Garibaldi che, appoggiato dagli inglesi, guidò lo sbarco dei mille in Sicilia.

Con quella conquista, il nuovo Regno d'Italia potrà affacciarsi sul mediterraneo con tutte le sue coste; un'unica entità nazionale, nominalmente libera ma intimamente legata e vincolata alle altre nazioni europee che aspiravano a fruire di quelle coste per soddisfare le mire espansionistiche dei potentati economici verso nuovi mercati; coste e sponde che ora vedono e sostengono un flusso migratorio inverso: quello dei migranti che fuggono dalle loro terre per approdare a quell'Europa opulenta e colonizzatrice che fa fatica ad accoglierli. 

 

 undefinedEuropa

 

Il cuore del romanzo è nel confronto tra l'emissario piemontese Chevalley che espone la proposta dei Savoia a Don Fabrizio. Il Principe risponde con un intenso monologo, tanto orgoglioso  quanto rassegnato, rifiutando  la proposta di nomina a Senatore esponendone i motivi storici, ambientali ed esistenziali che caratterizzano il popolo siciliano e che renderebbero vano qualsiasi tentativo di dominio e governo delle anime; come ben esprime la frase che rappresenta l'icona indelebile del romanzo: 

 

«Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi»

(Tancredi Falconeri, nipote di don Fabrizio Corbera, Principe di Salina)

 

 

Il monologo

 

1 - La proposta

undefinedAppena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato:

"Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno ad alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali son state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all'esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e, com'è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l'attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti."

Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul canepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo. Immobile la zampaccia dai peli biondastri ricopriva interamente la cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo.

Ormai avvezzo alla sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa,Chevalley non si lasciò smontare:

"Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superiori hanno creduto di dover informare lei stesso, e farle chiedere se questa proposta sarebbe stata di suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale le autorità sperano molto è stato l'oggetto della mia missione qui, missione che per altro mi ha valso l'onore e il piacere di conoscere Lei ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto pittoresca."

Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l'acqua dalle foglie delle ninfee: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello stesso tempo orgogliosi e abituati ad esserlo. "Adesso questo qui s'immagina di venire a farmi un grande onore a me, che sono quel che sono, tra l'altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev'essere press'a poco come essere senatore. È vero che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi dà il suo pezzo di pecorino mi fa un regalo più grande di Giulio Lascari quando m'invita a pranzo. Il guaio è che il pecorino mi dà la nausea; e così non resta che la gratitudine che non si vede e il naso arricciato dal disgusto che si vede fin troppo."

undefinedLe idee sue in fatto di Senato erano del resto vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato Romano, al senatore Papirio che aveva spezzato una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore questo che soltanto suo figlio Paolo non avrebbe trovato eccessivo; lo infastidiva anche il riaffacciarsi insistente di una frase detta talvolta da Padre Pirrone: "Senatores boni viri, senatus autem mala bestia". Adesso vi era anche il Senato dell'Impero di Parigi, ma non era che un'assemblea di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi era stato un Senato anche a Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civici, e di quali amministratori! Robetta per un Salina. Volle sincerarsi:

"Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po' che cosa è veramente essere senatori. La stampa della passata monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e un soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente a illuminarmi. Cosa è? un semplice appellativo onorifico, una specie di decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative?"

Il piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano, s'inalberò:

"Ma, Principe, il Senato è la Camera Alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostro paese, prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi che il Governo o essi stessi propongono per il progresso del paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben fare, impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei rappresenterà la Sicilia alla pari dei deputati eletti, farà udire la voce di questa sua bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudire."

Chevalley avrebbe forse continuato a lungo su questo tono, se Bendicò non avesse da dietro la porta chiesto alla "saggezza del Sovrano" di essere ammesso; Don Fabrizio fece l'atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tanta mollezza da dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui; Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley; dopo, persuaso di avere a che fare con un buon uomo si accovacciò sotto la finestyra e dormì.

 

2 - La risposta

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2.1 Il rifiuto

"Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l'impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono."

"Ma allora, principe, perchè non accettare?"

"Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto 'adesione' non 'partecipazione'. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perchè adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi.

In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di 'fare'. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il 'la'; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso."

"Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato."

"L'intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s'impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia tra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto."

undefinedParlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l'indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata.

2.2 Il sonno

"Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto tra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è il desiderio di oblio, lo schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte; la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana.

Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto."

Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l'ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati da cavalli impennacchiati e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse:

"Ma non le sembra di esagerare un po', principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi, per nominarne uno, che mi sono sembrati tutt'altro che dei dormiglioni."

Il Principe si seccò:

"Siamo troppi perchè non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D'altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l'ambiente, il clima, il paesaggio.

Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gli incongrui stupri hanno formato l'animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l'inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c'infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste;

questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l'energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l'acqua che non c'è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete.

Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perchè non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d'arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d'imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo."

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Pozzallo (la Torre Cabrera)

L'inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo.

"Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall'isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent'anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.

Ma mi scusi, Chevalley, mi sono lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è venuto fin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure d'Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento. Sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere a chi di dovere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell'affetto. Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo tra i vecchi tempi e i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due.

Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d'illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà d'ingannare se stesso, questo requisito essenziale di chi voglia guidare gli altri?
Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest'ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al come più che al perché e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche."

Tacque, lasciò in pace San Pietro. Continuò:

2.3 Il consiglio

"Posso dare a lei un consiglio da trasmettere ai suoi superiori?"

"Va da sè, principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare che invece di un consiglio vorrà darci un assenso."

"C'è un nome che vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedara; egli ha più meriti di me per sedervi; il casato, mi è stato detto, è antico o finirà con esserlo; più che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi del Maggio scorso più che ineccepibile è stata utilissima; illusioni non credo che ne abbia più di me, ma è abbastanza svelto da sapere crearsele quando occorra. È l'individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perchè ho inteso dire che vuol porre la propria candidatura alla camera dei deputati." ...

 
Di Sedara si era parlato in Prefettura, le attività di lui quale sindaco e quale privato erano note; Chevalley sussultò: era un onest'uomo e la propria stima delle camere legislative era pari alla purità delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece bene a non compromettersi perché, infatti, dieci anni più tardi, l'ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio.

Benchè onesto però Chevalley non era stupido; mancava di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma si rendeva delle cose con lenta solidità, e poi non aveva la impenetrabilità meridionale agli affanni altrui. Comprese l'amarezza e lo sconforto di Don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo della miseria, di abiezione, di nera indifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato l'opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignacciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre ma sereno e vivente; ebbe pietà tanto del principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime i cui elenchi giungevano così spesso al suo ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo.

Volle fare un ultimo sforzo; e l'emozione conferiva pathos alla sua voce:

"Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedara; e tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori."

Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano:

2.4 L'aneddoto

"Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto conosciuto; Lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: 'i Siciliani vorranno migliorare'. Le racconterò un aneddoto personale.

Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi non si erano fatti un'idea chiara.

Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall'altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. 'They are coming to teach us good manners', risposi, 'but won't succeed, because we are gods.' 'Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perchè noi siamo dei.' Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono.

Così rispondo anche a lei caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi.

Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani musulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti vicerè spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perchè avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?

undefinedProudhon

Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è del feudalismo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalismo c'è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salima. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c'è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male.

È tardi, Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per qualche ora la parte di uomo civile."

 

2.5 Il commiato

L'indomani mattina ... Chevalley pensava:

"Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione, nuova, agile, moderna cambierà tutto."

Il Principe era depresso e pensava:

"Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli...; e dopo sarà diverso, ma peggiore.

Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueranno a crederci il sale della terra."


Si ringraziarono scambievolmente, si salutarono. Chevalley s'inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro ruote color di vomito. Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il lungo viaggio.

Era appena giorno; quel tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal sudiciume immemoriale del finestrino. Chevalley era solo; fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell'indice, ripulì un vetro per l'ampiezza di un occhio. Guardò; dinanzi a lui sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile.

 

Il monologo nel film di Luchino Visconti: otto minuti di grande intensità.

 

3 - Il Libro

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Retrocopertina:

Siamo in Sicilia, all'epoca del tramonto borbonico: è di scena una famiglia della più alta aristocrazia isolana, colta nel momento rivelatore del trapasso di regime, mentre già incalzano i tempi nuovi (dall'anno dell'impresa dei Mille di Garibaldi la storia si prolunga fino ai primordi del Novecento). Accentrato quasi interamente intorno a un solo personaggio, il principe Fabrizio Salina, il romanzo, lirico e critico insieme, ben poco concede all'intreccio e al romanzesco tanto cari alla narrativa dell'Ottocento. L'immagine della Sicilia che invece ci offre è un'immagine viva, animata da uno spirito alacre e modernissimo, ampiamente consapevole della problematica storica e politica contemporanea.

Tradotto in tutte le lingue, Il Gattopardo è ormai un classico della nostra letteratura.

GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA, duca di Palma e Principe di Lampedusa, nato nel 1986 e morto nel 1957, si formò su scritti illuministici e raccolte di relazioni militari. Divenne narratore solo nella seconda parte della sua vita, privo di contatti con gli ambienti letterari. Compose un solo romanzo, Il Gattopardo, che, rifiutato da due grandi case editrici, fu pubblicato da Feltrinelli nel 1958 su interessamento di Giorgio Bassani, ed ebbe immediato, grandissimo consenso di pubblico e critica (disponibile anche in audiolibro "Emons Feltrinelli", 2012). (...)

 

link: podcast/audiolibri/il-gattopardo-di-giuseppe-tomasi-di-lampedusa.html

 

ratio imitarum naturam (I, 60, 5.)

Che Dio ci aiuti!

gen 232023

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I "fisici" e i "lirici"* erano unanimi: il film è profondamente umano, onesto, necessario: grazie all'autore! e ciascuno di coloro che intervenivano diceva: "Questo film parla di me". (Andrej Tarkovskij - Scolpire il Tempo)

 

Che Dio ci aiuti è una serie televisiva italiana, prodotta da Lux Vide e Rai Fiction, in onda su Rai 1 dal 15 dicembre 2011.

 


Suor Angela è una suora sui generis, scorretta e bizzarra, mamma insostituibile per le ragazze del convento, focolare domestico di una famiglia allargata e molto movimentata. Quando il convento viene trasformato in un convitto con tanto di bar, Suor Angela entra in contatto con persone di vario genere, dando loro una mano a scoprire verità e a risolvere i piccoli, grandi problemi quotidiani.  (RaiPlay)

Regia: Francesco Vicario, Isabella Leoni


Interpreti: Elena Sofia Ricci, Francesca Chillemi, Valeria Fabrizi, Pierpaolo Spollon, Fiorenza Pieri, Massimo Poggio, Lino Guanciale, Miriam Dalmazio, Serena Rossi, Laura Galvan, Diana Del Bufalo, Cristiano Caccamo, Erasmo Genzini

 

 

 

Marco Porta

Recensione pubblicata sulla rivista Studi Cattolici (Edizioni Ares) undefined

 Un cristiano dei nostri tempi, per lo sconforto di vedere intorno a sé una società sempre più secolarizzata, rischia di cedere alla “psicologia della tomba, che a poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo”.(1)
C’è però una suora televisiva che con la sua sola presenza può sollevare l’animo dal “grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa”.(2)
Ho preso a prestito, parafrasando un bel po’, il bel complimento con cui lo scrittore spagnolo Miguel Delibes rende omaggio a sua moglie nel pregevole romanzo Signora in rosso su fondo grigio.(3)
Ancorchè vestita di nero, Suor Angela è una simpaticissima figura che si staglia luminosa sullo sfondo multicolore delleintricate vicende che ruotano attorno al Convento degli Angeli, nella rinomata fiction Che Dio ci aiuti.(4)

 

Una storia semplice ma non scontata

 

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Suor Angela (Elena Sofia Ricci)

 

A colpi di vicinanza cordiale, di rimbrotti affettuosi, di abbracci materni, ma anche di avemarie e padrenostri, Suor Angela riesce a sciogliere i nodi delle più variegate vicissitudini esistenziali: crisi coniugali, gravidanze inattese, pene d’amore, incapacità di tanti uomini e donne di assumere le responsabilità di padri e madri, e un lungo eccetera.

Suor Angela scopre la vocazione in carcere, dove finisce giovanissima coinvolta, suo malgrado, in una rapina a mano armata con omicidio. Si innamora di Gesù e diventa una suora capace di dialogare con tutti. in primo luogo con il Crocifisso che presiede la cappella del Convento degli Angeli.

Dai colloqui-monologhi Suor Angela-Gesù s’impara a parlare con Dio a cuore aperto, per affidarsi, protestare, chiedere, aiuto, ringraziare.

Nel colloquio con il Crocifisso Suor Angela fa il pieno di quell’energia di amore che le consente di avvicinarsi agli altri con affettuosa comprensione per le fragilità e gli errori, senza complicità e senza fare sconti sui valori morali fondamentali. Fermamente convinta che anche le persone più sgangherate possono ritrovare la strada del bene, Suor Angela non esita a entrare nelle loro storie, senza mai arrendersi quando i primi tentativi falliscono.

 

Al centro c’è il Vangelo

 

Scene di vita quotidiana - Raffaello Sorbi

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C’è davvero molto Vangelo negli episodi di questa serie, che giunge ormai alla settima stagione mantenendo inalterato il consenso entusiasta di un vasto pubblico.
E c'è finalmente una presentazione credibile e attraente di valori umani e cristiani: la bellezza dell’amore umano e di una sessualità ben vissuta; un forte si alla vita, con inesauribile comprensione e vicinanza alle donne in difficoltà per una gravidanza sofferta; la difficile arte dell’educazione dei figli, della maternità e della paternità; il valore della giustizia, del rispetto per le leggi, che non si possono violare in nome di una buona intenzione. Solo sulle norme del codice stradale (sensi unici, limiti di velocità, semafori rossi, ecc.) Suor Angela, guidatrice un po’ disinvolta, sembra fare qualche eccezione: nessuno è perfetto.

Che Dio ci aiuti riesce a mostrare che la cifra del cristianesimo è l’Incarnazione. Il Vangelo è la lieta notizia che Dio si è fatto uomo, ha piantato la sua tenda in mezzo a noi e si fa presente in tutte le dimensioni della vita umana, per dare senso al lavoro, alla famiglia, alle gioie e ai dolori, alla salute e alla malattia, alla “banalità quotidiana” e alle feste.

Nell’epoca della secolarizzazione si tende a vivere in una sorta di ateismo pratico, con un Dio ricacciato nel privato delle coscienze o nel buio di chiese desolatamente vuote. Invece negli episodi di Che Dio ci aiuti, Gesù è una presenza viva, seppur discreta e non invadente. Con lui è presente Sua Madre e spesso fa capolino anche l’angelo custode.
Nelle piacevoli storie di questa fiction è stata accolta la celebre esortazione di san Giovanni Paolo II: non abbiate paura, aprite le porte a Cristo! Come si ricorderà la riecheggiava anche Papa Benedetto XVI nell’omelia all’inizio del suo pontificato:
“Ancora una volta il Papa voleva dire: no! Chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla - assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande, No! solo in questa amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera”.

Se un piccolo appunto si può rivolgere alla validissima squadra di ideatori e sceneggiatori della Lux Vide, è quello di aver lasciato in ombra la dimensione sacramentale della fede cattolica, che è il proprium dell’agire salvifico di Cristo, vero Dio e vero uomo.

Gesù guariva corpi e anime “toccandole” con la sua Umanità. con le sue mani, la sua voce, i suoi gesti, persino con la sua saliva (puro con lo sputo). E continua a guarire anche oggi attraverso la mediazione dei sacramenti e pertanto attraverso il ministero sacerdotale.

Si può chiedere perdono a Dio anche fuori dal sacramento della confessione, ma solo il sacramento, ovviamente se ben vissuto, ci dà la consolante certezza di ascoltare le parole di Gesù: ti sono perdonati i tuoi peccati.

Come evangelizzatrice Suor Angela vale quattro don Matteo. Però a un malato grave non basta offrire il balsamo di una parola di consolazione, per quanto impregnata di Vangelo. Bisogna chiamare don Matteo ad amministrare al malato l’Unzione degli infermi e il Viatico. Dato che Spoleto e Assisi distano solo una quarantina di chilometri, perché non pensare almeno una volta a un episodio crossover tra le due fiction?

 

Un cast all’altezza

 

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Suor Angela (Elena Sofia Ricci) e Azzurra (Francesca Chillemi)

Bravissimi tutti gli attori, ma un encomio cum laude va ad Elena Sofia Ricci, che si è calata nel personaggio di suor Angela con tale maestria e sincerità da risultare sempre assolutamente naturale, spontanea, credibile.

Quando ho visto su un giornale la foto dell’attrice sono rimasto di stucco: perbacco, cosa ci fa suor Angela in pantaloni e tacco 10? Come ha potuto una suora così innamorata di Gesù abbandonare la vocazione?
Ormai sappiamo che nella settima stagione Elena Sofia Ricci si congederà dalla parte di Suor Angela, lasciando un po’ orfani i suoi fans. Come faranno milioni di telespettatori a fare a meno di questa eccellente madre e sorella che li ha edificati e divertiti in questi anni con il suo sorriso e la sua simpatia?

Per fortuna Suor Angela ha trovato a chi passare il testimone, accompagnando la più esuberante ed estroversa delle sue ragazze in un graduale cammino di scoperta della vocazione religiosa. Senza lasciarsi impressionare dalle sue vertiginose minigonne e dalla sua tumultuosa vita sentimentale, Suor Angela ha capito che Azzurra Leonardi ha un gran cuore, capace di amare e di servire.

Nella sesta stagione Azzurra, senza perdere la sua vivacità, è diventata una novizia saggia e affidabile, nella settima sembra che diventerà suora. Suor Angela ne è molto fiera e a chi le domandasse come è possibile che la siciliana Francesca Chillemi, Miss Italia 2003, si faccia suora, risponderebbe subito: a Dio nulla è impossibile. Vero è! Allora cara Azzurra, che Dio ci aiuti!

Marco Porta               

Note:

1 - Francesco, Evangelii Gaudium, n. 83
2 - Ibidem
3 - Passigli, 2001: “Una donna che con la sua sola presenza alleggeriva il peso del vivere” p. 11
4 - Produzione Lux Vide e Rai Fiction, la serie è uscita nel 2011 ed è giunta alla sesta stagione, raggiungendo in qualche puntata i sei milioni di spettatori. La serie è disponibile su RaiPlay. Dall’inizio del 2023 è in onda la settima stagione.

 

 Extra Stagione 7

 

ratio imitarum naturam

La Greppia di Natale

dic 102022

Racconto di Natale 2022

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Presepe Reggia di Caserta

 

Definizione

greppia ‹grép·pia›
s.f.
1 La rastrelliera per il foraggio, sovrastante la mangiatoia; estens. , la mangiatoia.
...
ETIMOLOGIA Dal gotico *kripa
DATA sec. XV.

C’era una volta,

in un paese lontano, una fanciulla di bell’aspetto di nome Ermione. Indossava sempre dei vestitini colorati e viveva in una casa fatta di legno che si trovava nel punto più alto della collina.

Tante leggende e racconti erano stati inventati riguardo al Confine, in quel un posto quasi magico, dove le piccole finestre della sua casa guardavano da una parte il paese delle genti e dall’altra aprivano lo sguardo sulle soglie del misterioso bosco di Aram.


Ogni mattina, la bella Ermione, scendeva dalla collina fino ad arrivare nella piazza del paese per vendere i suoi lavori fatti a mano, ma poi, quando la meridiana segnava le quattro del pomeriggio, tutta allegra, con passo svelto, amava ritornare sulla cima della collina e sedersi ai piedi del grande Abete Bianco e da lì ammirare il sole al tramonto. Il suoi pensieri e sogni erano sempre colorati di rosa e la vita scorreva serena.


Il bosco di Aram, che da alcuni era temuto e da tanti persino sconosciuto, era invece il suo giardino segreto. L’unica regola per entrare nel bosco di Aram era il silenzio. Per Ermione però non era un problema. Quando, la prima volta, chiese di entrare nel bosco, il grande Abete Bianco, che si trovava alle soglie del bosco e ne era il primo custode, le regalò un mantello di seta argentea, detto anche “il leggero mantello del silenzio”. Ogni volta che Ermione lo indossava, il mantello aveva il potere di aprire il suo cuore all’ascolto, le folle dei pensieri che le giravano dentro si calmavano e dopo poco sparivano completamente, lasciando il suo cuore in uno stato di serena pace con la quale poteva entrare nel bosco.

Sempre, in quelle occasioni, il suo sguardo si faceva vigile e il suo orecchio attento per scoprire le tante meraviglie nascoste negli angoli più remoti di quella selva incantata. Le varietà di alberi e gli animali che vi abitavano erano tantissime, ma non era sempre stato così. Nelle antiche leggende del paese, si raccontava che all’inizio, la collina era un enorme e sconfinato deserto. Ma poi, ci fu un tempo propizio, e venne un gran Signore che vista la profonda desolazione di quella terra, decise di porvi rimedio e mandò un editto a tutti gli angoli di quel regno che diceva
così:

“Nel deserto preparate la via al Signore.

Ogni valle sia innalzata,
ogni monte e ogni colle siano abbassati;
il terreno accidentato si trasformi in piano
e quello scosceso in vallata.
Farò scaturire fiumi su brulle colline,
fontane in mezzo alle valli;
cambierò il deserto in un lago d'acqua,
la terra arida in zona di sorgenti.
Nel deserto pianterò cedri,
acacie, mirti e ulivi;
nella steppa porrò cipressi,
olmi e abeti;
perché vedano e sappiano,
considerino e comprendano a un tempo
che questo ha fatto la mano del Signore”.

 Nel giro di due decenni la terra brulla e abbandonata, iniziò ad essere lavorata, accudita, arata, vennero piantati alberi e così piovve. Si formarono ruscelli, fiumi e poi laghi e tutto divenne verde e rigoglioso.

Crebbe il Cedro del Libano che è pianta di frutto nobile, di legno incorruttibile, di odore soave: fecondo di opere, insigne per limpidezza di cuore, fragrante per nome e fama, che fiorisce di mirabile letizia. L’utile Biancospino, arbusto salutarmente pungente, abile a far siepi contro il cinghiale del bosco, costruttore di mura e restauratore di strade sicure. Il verdeggiante Mirto, pianta dalle proprietà sedative e moderanti; che fa ogni cosa con modestia e discrezione, senza voler apparire né troppo giusto né troppo arrendevole, così che il bene appaia nel moderato decoro delle cose. E v’è pure l’Olivo, l’albero della pietà e della pace, della gioia e della consolazione. Con l’olio della sua letizia illumina i volti di chi l’incontra e le sue opere di misericordia sono la consolazione dei piangenti. Suo amico è l’Olmo, perché quantunque questo non sia albero nobile per altezza e per frutto, è tuttavia sempre di sostegno per tutti e insegna come portare gli uni i pesi degli altri. C’è poi il simpatico Bosso, pianticella sapiente che non sale molto in alto ma che non perde mai il suo verde, sa cos’è il timore e vive nella sua umiltà, abbracciato alla terra, felice d’esistere. Ripete spesso:

“Non alzate la testa contro il cielo...chi si umilia sarà esaltato. Nessuno disprezzi o tenga in poco conto i ministeri esteriori e le opere umili, perché per lo più le cose che esteriormente appaiono più modeste, sono interiormente le più preziose”.

Infine c’è il maestoso Abete Bianco, lì, sulla soglia del bosco. Slanciato nell’alto, denso di ombre e turgido di fronde, egli è porta d’accesso al bosco, è amante del bene e delle altissime verità. Guarda con benevolenza le cose della terra e con le sue alte cime penetra e contempla la bontà delle cose celesti.

 In quegli anni, la bella Ermione, aveva imparato tante cose da tutti i suoi amici alberi: la nobiltà d’animo e la dignità, la discreta sobrietà e la temperanza, la letizia e la pace, l’umiltà e la perseveranza, ma più di tutto aveva pian piano iniziato a distinguere le varie mozioni che si producono nell’anima e a diventar abile ad accogliere le ispirazioni buone e a respingere quelle cattive. Era anche nato in lei il desiderio di vivere tutta la vita orientata verso il bene, così da poter portare gioia ovunque andasse. Abete Bianco, il più saggio tra gli alberi, s’avvedeva dei progressi della fanciulla e decise che era venuto il tempo d’insegnarle non solo a distinguere tra bene e male,
ma anche come scegliere dov’è il meglio in ogni situazione, cioè il Magis.

Quel pomeriggio l’arrivo di Ermione al bosco fu repentino e con gioiosa effervescenza salutava tutti i suoi amici con grandi sorrisi, regalava caramelle e offriva acqua dolce a chiunque incontrava. Sembrava un funghetto delle foreste, così Abete Bianco, la fece chiamare e salutandola le domandò:

“Salve Ermione, ti vedo gioconda, qual buon vento ti rallegra?”

ed Ermione:

“Ma caro Abete, perché mi guardi interrogato ed hai quel libro in mano? Non è oggi il giorno d’andare al laghetto della memoria?”.

L’albero la guardò interdetto e disse:

“Oggi? Laghetto della memoria?”

ma pensando in cuor suo che era molto più importante spiegarle cose fosse il Magis e le raffinatezze degli inganni di Messer Gramigna, continuò:

“Beh...vediamo…”

e prese in mano un lungo calendario con numeri, date, nomi, luoghi. Il buon Abete per dissuaderla, fece come per scrutare in quella pergamena grandi segreti, dopo un po' alzò gli occhi e disse:

“E sia, ma non oggi...forse domani”.

E con voce solenne disse:

“E’ venuto il tempo, ed è questo, che tu possa iniziare a
distinguere, in ogni occasione, tra tanti beni qual è il meglio”.

Ermione rimase ferma, poi, comprese che quel lungo panegirico era un sostanzioso “no” e quindi iniziò a fare i capricci. Era scura in viso e si mise seduta vicino al Bosso che la compativa, poi passò dietro al Biancospino per nascondersi, così poter sgattaiolare via dal bosco, ma il buon Cedro con una tossettina, come a volersi schiarire la voce, prese a dire:

“Su, su, fanciulla...non vorrai fare i capricci?!? Lo sai che sei stata affidata a noi dalla Pietà Celeste, affinché tu possa imparare l’arte della vita e non venir sballottata qua e là da qualsiasi vento di dottrina, o presa nelle maglie di quella astuzia che tende a trarre nell’errore. Al contrario, sei qui per imparare a vivere secondo verità nella carità, per crescere bene in ogni cosa, e
infine per evitare gli inganni di Messer Gramigna e andare sempre avanti di bene in meglio”.

Ermione si arrese e andò a sedersi vicino ad Abete Bianco, che gli spiegò: cosa fosse la consolazione senza causa, di stare attenta alle illusioni, di studiare il corso dei suoi pensieri e vedere se il principio, il mezzo e il fine fossero tutti buoni, e ancora a considerare la disposizione della sua anima e infine dal giorno seguente avrebbe dovuto annotare ciò che poteva servirle come memorandum per poter scegliere sempre il meglio.

Sulla via del ritorno una ridda di pensieri le girava nella mente, aveva ascoltato con attenzione discorsi, parole e consigli, intuiva in essi una sconosciuta profondità, ma ne era al contempo spaventata; sembravano cose troppo difficili ed estranee, ma si consolò pensando che il giorno dopo, sarebbe finalmente andata al laghetto della memoria e lì avrebbe avuto modo per ricordare e comprendere tutto ciò che le era stato detto.

L’indomani, di buon mattino, s’avviò contenta per il sentiero che portava al laghetto della memoria. Mentre camminava un pensiero le ritornò in cuore, e suonava come un monito, una frase che Abete Bianco le aveva ripetuto più volte:

“Attende tibi!”, a dire: “Attenta a te stessa… a come vedi e ascolti la realtà”.

L’aria era leggera e fresca, Ermione, seduta sulla riva, guardava le nuvole che si specchiavano nell’acqua e prendevano le più strane e belle forme. Mentre stava lì s’accorse di una una figura che era comparsa vicino alla sua. Si girò di scatto per sapere chi fosse e rimase meravigliata al vedere una figura così bella. Era un albero nuovo, luminoso e dai modi gentili.

L’Albero Luminoso si presentò in modo affabile, le offrì dei frutti ed Ermione vedendo che erano buoni da mangiare, gradevoli agli occhi e anche desiderabili per acquistare saggezza, mise da parte i consigli di Abete Bianco, subito prese e ne mangiò. Ne fu estasiata e si trovò contenta per aver fatto questa nuova amicizia. Guardava l’Albero Luminoso con ammirazione, anche se mentre camminavano per uscire dal bosco, lei notò che diversamente da tutti gli altri, quest’albero aveva una pianta rampicante che saliva intorno al suo tronco fino al collo. Le sembrò una cosa strana, ma non volle ripagare tanta generosità con una diffidente paura.

Arrivarono alle soglie del bosco e lì si salutarono. Ermione diede un cenno di saluto anche ad Abete Bianco, che le lanciò uno sguardo di disapprovazione, Ermione non se ne avvide, pensò che a volte anche gli alberi posso essere stanchi ed irritati e così prese il sentiero che portava verso casa. Quasi arrivata al vialetto, si sentì vicino una presenza, volse lo sguardo indietro e vide Albero Luminoso che la seguiva. Si fermò, sorrise e l’albero non perse occasione per invitarsi a cena.

Quella sera, stettero a parlare nel giardinetto di Ermione per un bel po'. La fanciulla ripensava e raccontava la sua storia, quella del paese e del bosco, del miracolo dell’uomo che piantò gli alberi, dei suoi amici e dei progetti che aveva per il futuro. Desiderava custodire il Confine e far sì che il bosco di Aram diventasse sempre sereno e più rigoglioso. Albero Luminoso sorrideva ed esultava ad ogni progetto della fanciulla. Così mentre parlavano, questi le disse che per realizzare i suoi bellissimi sogni avrebbe dovuto diventare molto responsabile e mettersi a lavorare molto; solo questo avrebbe permesso al bosco e a tutto il paese di crescere e vivere molto meglio. Ermione concordò con quest’idea, fu così, che dallo spuntare dell’alba, iniziò a lavorare instancabilmente giorno e notte e confezionava abiti e vestiti.

Nel passare dei giorni il ritmo di lavoro divenne più serrato e si fece persuasa di scendere solo una volta a settimana in paese per vedere i suoi manufatti, per poi ritornare in fretta a casa per continuare a lavorare. Passarono così diverse settimane. Ermione era contenta del suo lavoro ed aveva comprato anche una scatola di ferro per conservare tutti i suoi guadagni.

Nei giorni in cui si sentiva venire meno le forze, s’incoraggiava ripetendo a se stessa che stava facendo tutto per il bene dei suoi amici. Intanto il bosco, in sua assenza, cominciò ad essere invaso dalle piante rampicanti di Messer Gramigna. L’acqua iniziò a scarseggiare, la terra divenne più brulla, gli alberi del bosco si domandavano il perché della prolungata assenza della fanciulla e iniziarono a temere per la loro vita.

Venne così un giorno in cui Olmo, Cedro, Mirto e Abete Bianco decisero di fare una spedizione segreta per vedere dove e come stesse la loro cara Ermione. Presero il sentiero del silenzio e dopo alcune ore di cammino, sul far del tramonto, arrivarono alla casetta della fanciulla. Da fuori si sentiva qualcuno che lavorava e parlottava tra sé, era proprio la loro amica Ermione. Bussarono, provarono a chiamarla, batterono con le fronde sulle finestre, ma la giovane era troppo intenta nel suo lavoro e non s’accorse di nulla. Desolati e vedendo che ormai stava scendendo la notte, gli alberi fecero ritorno nel bosco.

Passarono alcuni mesi e la fanciulla, sempre attesa nel bosco, non si vedeva mai arrivare. Gli alberi divennero tristi e cominciarono a perdere la loro lucentezza, contemporaneamente l’Albero Luminoso, conosciuto più comunemente come Messer Gramigna, aveva allargato il suo possesso nel bosco e tanti alberi erano stati soffocati dai lacci delle sue piante rampicanti e si erano ammalati. L’aria iniziò a cambiare, la pioggia tardava a venire, gli alberi iniziarono a seccare. La gente del paese discuteva nei crocicchi delle strade, per cercare una soluzione alla fame.

E arrivò un sabato ed Ermione di buon mattino scese in paese, ma invece del solito mercato, vi trovò gran trambusto, campane che suonavano, sirene che urlavano, uomini che correvano, bambini che piangevano: il bosco stava bruciando. Ermione, guardando dal fondo della vallata s’accorse di una linea di fuoco che contornava tutto il bosco. Spaventata e scossa diede un grido soffocato e scrollò la testa come di chi si risveglia da un lungo sonno, da un’illusione. Cosa stava succedendo? E tutto il suo lavoro? A cosa erano serviti tanti sacrifici, tante notti insonni, tanti risparmi? Eppure erano mesi che lavorava proprio per il bosco. Come era potuto accadere? Era basita e non sapeva cosa poter fare.

Mentre il trambusto del paese continuava, lei si sedette al bordo di una fontana nella piazza centrale. Il subbuglio continuava e dall’alto della collina una voce faceva l’eco di un nome, e come un passa parola generale, si sentiva ripete a volte forte a volte piano: Ermione, Ermione, Ermione… l’eco arrivò in tutte le botteghe del paese. A quel punto tutti i paesani: grandi e piccoli, giovani e anziani, donne e bambini si dispersero per il paese per trovare la fanciulla.

Tra i tanti, anche un ragazzo muto dalla nascita, volle mettersi in cerca della fanciulla, ma sconfortato perché non poteva come gli altri ripetere quel nome, arrivato alla piazza centrale del paese si sedette al bordo della fontana vicino ad una taverna chiamata “L’albero Luminoso, da Messer Gramigna” e sospirò. Ermione riconobbe in quel sospiro il suo stesso stato d’animo e gli si avvicinò. Con i gesti il ragazzo cercò di farle capire che gli alberi della foresta avevano detto che l’unica che avrebbe potuto salvare il bosco (e quindi il paese), era la loro amica Ermione, la sua presenza sarebbe bastata per spegnere le fiamme e far guarire il bosco.

Ermione si rese conto che il ragazzo muto stava parlando proprio di lei e che Messer Gramigna vestendosi da Albero Luminoso l’aveva ingannata magistralmente. Ringraziò il giovane e risalì di corsa la collina fino alle soglie del bosco. C’erano fiamme e un grande fumo, in tanti portavano acqua e terra, ma l’incendio era troppo forte, nessuno riusciva a superare la barriera delle fiamme, neanche Ermione. La fanciulla guardò verso il cielo e sperò contro ogni speranza, pianse e poco dopo si sentì una voce che sul ritmo della pioggia recitava così:

 
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.


Il giorno dopo, Ermione tornò sulle soglie del bosco ed entrando con alcuni compaesani vide Abete Bianco semi bruciato e poi Ulivo annerito, Bosso assetato, Mirto e Olmo sfigurati, Cedro impaurito e Biancospino sfiorito. Che miserabile condizione … Ma non si perse d’animo e passò mesi a curare i suoi amici alberi. Comprese che il lavoro vero della vita non stava nello strafare ma nell’amare, che non è il tanto fare ma il gustare che conta...e che “il mal d’amore non si cura se non con la presenza e la figura”.Così tornò, come i tempi passati, ad andare tutti i giorni nel bosco, a curare i suoi amici, a custodire con attenzione le soglie del bosco.

Arrivò l’Avvento e il paese cominciò a vestirsi a festa per Natale. Ermione portò la buona notizia nel bosco, ma gli alberi si guardarono e vedendosi spogli e bruciacchiati, si dissero l’un l’altro che quell’anno non sarebbero potuti scendere a valle e quindi non ci sarebbero stati né alberi, né luci, né ghirlande, ma soprattutto non ci sarebbe stata la greppia per Gesù Bambino. Ermione allora si sedette da una parte, era silenziosa e triste e non sapeva cosa poter fare. In quel momento il piccolo Bosso disse: “Un passo per volta, un poco per uno”.

Tutti gli alberi si guardarono, compresero e dei grandi sorrisi si aprirono sui loro volti. Olmo prese i suoi attrezzi e ogni albero diede la parte migliore che gli era rimasta. Si mise così, come fine ebanista, a comporre, separare, limare e incastrare ciò che ognuno aveva donato di sé e ne uscì un bellissimo guscio a mandorla. A quel punto il buon Cedro s’avvicinò alla fanciulla e la invitò a regalare il proprio fiocco per abbellire la greppia. Ella era un po' intimorita, perché dopo tutto quello che era successo, si sentiva in colpa, così Abete Bianco disse:

“Cara Ermione, tutti possiamo fare errori, anche in buona fede, ma non è questo che ci determina. In queste situazioni, la cosa più importante è non restare caduti”.

La giovane, allora, si guardò intorno e incoraggiata dalla benevolenza dei suoi amici, riprese forza, si alzò, tolse dai capelli il suo fiocco e lo diede ad Olmo. Fu così, che anche quell’anno in paese ci fu una culla per Dio...e nella Notte Santa il balsamo della misericordia divina scese come rugiada su tutta la valle del Confine e sul preziosissimo bosco di Aram.

 

ratio imitarum naturam




 

Aspettando l'8 dicembre

nov 282022

 

Memoria di un callarello

Immigrato a Roma dalla Sicilia nel 1957, dopo pochi anni già ero immerso nelle tradizioni romane. Una di queste era quella di portare i fiori alla statua della Madonna, posta in cima all'obelisco di Piazza di Spagna.

A Roma è tradizione che l'8 dicembre, giorno della festa dell'Immacolata, le molteplici istituzioni cittadine, comunali, religiose e civili, rendano omaggio alla Madonna; l'Istituto Tata Giovanni, che mi ospitava, era una di queste.

Già da settembre ci preparavamo per la "marcia"…un due, un due, un due, passo o etc. Le divise le distribuivano a dicembre. Tutti aspettavamo l'otto dicembre con trepidazione, sufficienza, ansia, paura, gioia,… i più svariati sentimenti ci accomunavano nell'attesa di quel giorno. I tamburini rullavano, i tamburoni (grancasse) tuonavano, il mazziere roteava la mazza; ogni occasione era buona per guardare le nostre divise appese, lucidare le scarpe e immaginare le vie di Roma che rimbombavano al ritmo della marcia di cento "callarelli" che battevano il passo.

Ci chiamavano "i callarelli" perché la tradizione dice che Tata Giovanni (Giovanni Borgi), al "passo del Biscione" (a pochi metri da Campo dè fiori) cuoceva le minestre in un grosso callare in cui ribollivano i rimasugli del mercato e altre vivande che i bancarellari gli donavano; poi distribuiva la sbrodaglia calda ai suoi ragazzi radunati intorno al callare fumante.

 

undefined 8 dicembre 1961 - I callarelli dopo aver portato il callare di fiori alla Madonna 

 

Alla festa dell'Immacolata, l'8 dicembre di ogni anno, per tradizione, noi callarelli del Tata Giovanni portavamo l'omaggio floreale alla Madonna che svetta in cima all'obelisco di Piazza di Spagna; i fiori erano sistemati in un grosso callare di rame che veniva portato da due callarelli più grandicelli, e noi più piccoli marciavano dietro al callare e a una squadra di tamburini che scandivano il ritmo rullando la marcetta guidati dal mazziere. Tra i palazzi alti di via condotti il suono dei tamburi rimbombava forte; e noi callarelli, impettiti marciavamo emozionati perché tutti ci guardavano incuriositi e sbalorditi per la precisione con cui segnavamo il passo. Un due, un due, passoo, sbam!! 

  

undefinedGiovanni Borgi detto "Tatagiovanni"

Tata Giovanni - Soprannome dato in Roma (in romanesco tata significa babbo) a Giovanni Borgi (18 febbraio 1732-28 giugno 1798), l'umile muratore che fu il fondatore dell'Ospizio della SS. Assunta (detto comunemente di Tatagiovanni), per il ricovero e l'istituzione dei poveri orfani abbandonati.

Giovanni Borgi ha iniziato col raccogliere per le vie di Roma, ragazzi orfani o abbandonati; ospitava e manteneva questi ragazzi, nella sua povera abitazione; procurava loro lavoro; faceva in modo, pur nella sua ignoranza, che non mancasse loro una elementare istruzione di religione e di lettere, per opera di alcuni benefattori interessati alla sua causa.

Fu appunto uno di questi, mons. Di Pietro, poi cardinale, che, trovandosi il Borgi in maggiori ristrettezze per il cresciuto numero dei ricoverati nella sua casa di Via dei Cartari, generosamente affittò per essi un piano del palazzo Ruggia in via Giulia, dove nel 1786 si trasferì il primo nucleo di orfani, che, nella nuova sede assunse carattere di stabile istituzione.undefined

Ma col tempo, cominciando le elemosine a scarseggiare, il Borgi pare si recasse in persona dal pontefice Pio VI e gli facesse presente la sua impossibilità a procedere nella benefica iniziativa. Il pontefice la prese tanto a cuore che donò all'istituto l'intero palazzo Ruggia e la raccomandò definitivamente alla pubblica carità. Da allora il pio istituto non mancò più d'aiuti.

undefinedDopo la morte del Borgi le sedi variarono spesso. Nel convento degli agostiniani a S. Nicola da Tolentino fino al 1800; in un edificio annesso a S. Silvestro al Quirinale fino al 1809, quando ne dovette sloggiare per la confisca dei Francesi durante la seconda occupazione. L'istituto riparò allora provvisoriamente in locali presso la chiesa di S. Agata de' Goti trasferendosi, dopo qualche mese, al palazzo Ravenna all'Esquilino, dove rimase fino al 1816, quando il pontefice Pio VII, rientrato in Roma, gli concesse parte dell'ex-monastero delle salesiane a S. Anna de' Falegnami. Pio IX, che nei primi anni del sacerdozio era stato direttore dell'istituto, divenuto papa, ne amplificò la sede acquistando per esso la parte rimanente del monastero di S. Anna. Beneficenze, favore e protezione l'istituto ebbe sempre dai successivi pontefici e, dopo il 1870, anche dal governo italiano.

undefinedNel 1886 l'ospizio cambiò ancora di sede, dovendosi demolire il convento di S. Anna per l'apertura della nuova Via Arenula e si stabilì al palazzo Righetti in Piazza del Biscione, dove è rimasto fino al 1926, cioè fino all'attuale sua sistemazione al Viale di Porta Ardeatina, fuori Porta S. Paolo.

L'ospizio accoglie ora dai 130 ai 150 orfani, che vengono avviati ai varî mestieri dell'artigianato; ha un consiglio d'amministrazione composto di cinque membri e un direttore. Con r. decreto del 21 marzo 1935 è stato approvato il nuovo statuto organico con il quale, fra l'altro, l'ospizio viene ad assumere ufficialmente il titolo di Istituto della SS. Assunta.

Bibl.: A. C. L. Morichini, Di Giovanni Borgi mastro muratore detto Tatagiovanni e del suo ospizio per gli orfani abbandonati, Roma 1830; S. Fazzini, L'ospizio di Tata Giovanni, Roma 1932.

Un direttore importante

undefinedGiovanni Maria Mastai-Ferretti - Papa Pio IX

Giovanni Maria Mastai-Ferretti, dopo la caduta di Napoleone Bonaparte, tornò a Roma al seguito di Pio VII e frequentò l'Università romana. In questo periodo fu seminarista e si prodigò presso il "Tata Giovanni", un ospizio per i ragazzi abbandonati che ricevevano un'educazione, un'istruzione e imparavano un mestiere. Fu tra questi futuri falegnami, sarti, calzolai che cominciò il suo apostolato per i poveri che lo segnerà sempre nella sua vita.

 Il 5 gennaio 1817 prese gli ordini minori, il 20 dicembre 1818 venne ordinato suddiacono e il 6 marzo 1819 diacono. Il 10 aprile 1819 fu ordinato sacerdote dal cardinale Fabrizio Sceberras Testaferrata, vescovo di Senigallia. Celebrò la prima messa il giorno dopo, giorno della Pasqua, nella chiesa del "Tata Giovanni", sant'Anna dei Falegnami, tra i suoi poveri.

Si dedicò all'apostolato nella sua città natale e contemporaneamente fu direttore del "Tata Giovanni", a Roma.

 

ratio imitarum naturam (I, 60, 5.)

 

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