Il Blog di Rosario Frasca

Le opinioni di un Clown, ovvero: Il mito di Er

Il Gattopardo e il sonno degli dei

mar 102023

Chi è Il Gattopardo? 

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Il Gattopardo è l'autore - Guseppe Tomasi di Lampedusa, nobile, letterato e scrittore, divenuto silenziosamente famoso per aver romanzato gli avvenimenti che hanno caratterizzato, in Sicilia e in Italia il "passaggio storico e culturale" dal vecchio ordine feudale tardo-medioevale, al disordine "borghese, patriottico e insurrezionale sulle ali romantiche di una fallace promessa di libertà.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, duca di Palma e Principe di Lampedusa, nato nel 1986 e morto nel 1957, si formò su scritti illuministici e raccolte di relazioni militari. Divenne narratore solo nella seconda parte della sua vita, privo di contatti con gli ambienti letterari. Compose un solo romanzo, Il Gattopardo, che, rifiutato da due grandi case editrici, fu pubblicato da Feltrinelli nel 1958 ed ebbe immediato grandissimo consenso di pubblico e critica.

 

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Il Gattopardo è lo stemma di una delle più importanti famiglie dell'aristocrazia siciliana cui Giuseppe Tomasi apparteneva. Da questa posizione di appartenenza nobiliare, poco prima di abbandonare il mondo, Tomasi ha completato il romanzo, trasferendo in quelle pagine una lucida e puntuale raffigurazione della società e dell'ambiente siciliano offrendo ampi spazi di lettura dell'ambiente, della politica e del vivere quotidiano. Il punto di vista narrativo è quello dell'autore stesso, cioè, quello di un nobile rassegnato e costretto dai tempi a passare testimone al nuovo che avanza ovvero agli ennesimi dominatori stranieri portatori di civiltà lontane ed estranee al comune sentire del popolo siciliano. Per voce dello stesso Tomasi, il punto di vista corrisponde a quello del protagonista del romanzo: Don Fabrizio, Principe di Salina, ultimo Gattopardo e monumentale testimone di una sicilianità fiera e orgogliosa, seppur  sopita dietro un vivere quotidiano distaccato e silenzioso. 

L'opera non fu prontamente capita da importanti editori, (Mondatori, Einaudi), che ne rifiutarono la pubblicazione; questo ostracismo culturale procurò profonda delusione e tristezza all'autore che non riuscì a vedere la pubblicazione del suo romanzo prima della sua morte che sopraggiunse nel 1957. L'opera uscì con Feltrinelli nel 1958 ed ebbe immediato successo; confermato qualche anno dopo dal magnifico film omonimo di Luchino Visconti.

   

 

           

Trama del film

1860 - Garibaldi con le sue camicie rosse invade la Sicilia. Nonostanmte lo sconvolgimento politico, l'aristocratico don Fabrizio, Principe di Salina, compie egualmente con la sua famiglia il viaggiuo annuale verso la residenza di campagna di Donnafugata. Qui il Principe viene a sapere da padre Pirrone che Concetta, sua figlia, ama Tancredi, il nipote prediletto di don Fabrizio. Ma le speranze di Concetta sfioriscono rapidamente quando appare la figlia del Sindaco, Angelica Sedara. Don Fabrizio si rende conto che questo connubio tra la nuova borghesia e la declinante aristocrazia è uno dei muitamenti che deve essere accettato. Questa intesa verrà consacrata durante un grandioso ballo al termine del quale il Principe si allontana meditando sul significato dei nuovi eventi che richiamano la sua attenzione ad un sofferto bilancio della propria vita.

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"Il Gattopardo" è un film unico ed emblematico: un capolavoro costruito su inusuali scelte iconografiche, scenografiche, ambientali e interpretative; sequenze che raccontano con vivacità, profondità e puntigliosa eleganza quel confuso periodo storico connotato sinteticamente come "Risorgimento": una sintesi dimentica delle ferite profonde lasciate dai drammatici eventi vissuti dal popolo e dall'aristocrazia siciliana; una guerra a tutto campo che vedeva i Savoia proiettati verso la conquista di quei territori dominati dai Borboni.

La fase storica

La fine del regno borbonico delle Due Sicilie, si articolò in una serie di momenti distinti successivi alla spedizione dei Mille, tra l'ottobre del 1860 e il marzo del 1861.

Formalmente, le Due Sicilie furono annesse a larga maggioranza al Piemonte-Sardegna dopo l'esito dei due plebisciti d'annessione tenutisi nelle province napoletane e nelle province siciliane il 21 ottobre 1860, i cui risultati furono formalizzati con i regi decreti 17 dicembre 1860, nn. 4498 e 4499 («Le province napoletane fanno parte del Regno d'Italia» e «Le province siciliane fanno parte del Regno d'Italia»).

La decisione dell'annessione immediata ed incondizionata delle Due Sicilie al Regno di Sardegna fu fortemente voluta dal primo ministro conte di Cavour, che, spaventato dalla prospettiva di un'affermazione democratico-popolare e repubblicana nei territori meridionali conquistati da Garibaldi, fece di tutto affinché la spedizione dei Mille non scivolasse cioè, verso una soluzione democratica, rivoluzionaria e incontrollabile.

"Annessione" voleva dire vaccinazione contro il rischio rivoluzionario, contro il "disordine sociale", perciò si cercò subito di stabilire delle intese con gli esponenti meno compromessi del vecchio regime e soprattutto si cercò di rassicurare il vecchio ceto agrario, il cui appoggio era indispensabile per il controllo politico del Mezzogiorno.

 L'obiettivo dei Savoia era l'annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno sabaudo sotto la bandiera tricolore. Questo ambizioso obiettivo venne raggiunto con l'aiuto di Garibaldi che, appoggiato dagli inglesi, guidò lo sbarco dei mille in Sicilia.

Con quella conquista, il nuovo Regno d'Italia potrà affacciarsi sul mediterraneo con tutte le sue coste; un'unica entità nazionale, nominalmente libera ma intimamente legata e vincolata alle altre nazioni europee che aspiravano a fruire di quelle coste per soddisfare le mire espansionistiche dei potentati economici verso nuovi mercati; coste e sponde che ora vedono e sostengono un flusso migratorio inverso: quello dei migranti che fuggono dalle loro terre per approdare a quell'Europa opulenta e colonizzatrice che fa fatica ad accoglierli. 

 

 undefinedEuropa

 

Il cuore del romanzo è nel confronto tra l'emissario piemontese Chevalley che espone la proposta dei Savoia a Don Fabrizio. Il Principe risponde con un intenso monologo, tanto orgoglioso  quanto rassegnato, rifiutando  la proposta di nomina a Senatore esponendone i motivi storici, ambientali ed esistenziali che caratterizzano il popolo siciliano e che renderebbero vano qualsiasi tentativo di dominio e governo delle anime; come ben esprime la frase che rappresenta l'icona indelebile del romanzo: 

 

«Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi»

(Tancredi Falconeri, nipote di don Fabrizio Corbera, Principe di Salina)

 

 

Il monologo

 

1 - La proposta

undefinedAppena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato:

"Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno ad alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali son state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all'esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e, com'è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l'attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti."

Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul canepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo. Immobile la zampaccia dai peli biondastri ricopriva interamente la cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo.

Ormai avvezzo alla sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa,Chevalley non si lasciò smontare:

"Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superiori hanno creduto di dover informare lei stesso, e farle chiedere se questa proposta sarebbe stata di suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale le autorità sperano molto è stato l'oggetto della mia missione qui, missione che per altro mi ha valso l'onore e il piacere di conoscere Lei ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto pittoresca."

Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l'acqua dalle foglie delle ninfee: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello stesso tempo orgogliosi e abituati ad esserlo. "Adesso questo qui s'immagina di venire a farmi un grande onore a me, che sono quel che sono, tra l'altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev'essere press'a poco come essere senatore. È vero che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi dà il suo pezzo di pecorino mi fa un regalo più grande di Giulio Lascari quando m'invita a pranzo. Il guaio è che il pecorino mi dà la nausea; e così non resta che la gratitudine che non si vede e il naso arricciato dal disgusto che si vede fin troppo."

undefinedLe idee sue in fatto di Senato erano del resto vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato Romano, al senatore Papirio che aveva spezzato una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore questo che soltanto suo figlio Paolo non avrebbe trovato eccessivo; lo infastidiva anche il riaffacciarsi insistente di una frase detta talvolta da Padre Pirrone: "Senatores boni viri, senatus autem mala bestia". Adesso vi era anche il Senato dell'Impero di Parigi, ma non era che un'assemblea di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi era stato un Senato anche a Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civici, e di quali amministratori! Robetta per un Salina. Volle sincerarsi:

"Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po' che cosa è veramente essere senatori. La stampa della passata monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e un soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente a illuminarmi. Cosa è? un semplice appellativo onorifico, una specie di decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative?"

Il piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano, s'inalberò:

"Ma, Principe, il Senato è la Camera Alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostro paese, prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi che il Governo o essi stessi propongono per il progresso del paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben fare, impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei rappresenterà la Sicilia alla pari dei deputati eletti, farà udire la voce di questa sua bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudire."

Chevalley avrebbe forse continuato a lungo su questo tono, se Bendicò non avesse da dietro la porta chiesto alla "saggezza del Sovrano" di essere ammesso; Don Fabrizio fece l'atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tanta mollezza da dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui; Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley; dopo, persuaso di avere a che fare con un buon uomo si accovacciò sotto la finestyra e dormì.

 

2 - La risposta

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2.1 Il rifiuto

"Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l'impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono."

"Ma allora, principe, perchè non accettare?"

"Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto 'adesione' non 'partecipazione'. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perchè adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi.

In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di 'fare'. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il 'la'; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso."

"Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato."

"L'intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s'impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia tra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto."

undefinedParlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l'indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata.

2.2 Il sonno

"Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto tra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è il desiderio di oblio, lo schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte; la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana.

Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto."

Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l'ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati da cavalli impennacchiati e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse:

"Ma non le sembra di esagerare un po', principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi, per nominarne uno, che mi sono sembrati tutt'altro che dei dormiglioni."

Il Principe si seccò:

"Siamo troppi perchè non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D'altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l'ambiente, il clima, il paesaggio.

Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gli incongrui stupri hanno formato l'animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l'inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c'infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste;

questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l'energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l'acqua che non c'è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora le piogge, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete.

Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perchè non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d'arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d'imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo."

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Pozzallo (la Torre Cabrera)

L'inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo.

"Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall'isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent'anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.

Ma mi scusi, Chevalley, mi sono lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è venuto fin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure d'Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento. Sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere a chi di dovere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell'affetto. Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo tra i vecchi tempi e i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due.

Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d'illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà d'ingannare se stesso, questo requisito essenziale di chi voglia guidare gli altri?
Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest'ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al come più che al perché e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche."

Tacque, lasciò in pace San Pietro. Continuò:

2.3 Il consiglio

"Posso dare a lei un consiglio da trasmettere ai suoi superiori?"

"Va da sè, principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare che invece di un consiglio vorrà darci un assenso."

"C'è un nome che vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedara; egli ha più meriti di me per sedervi; il casato, mi è stato detto, è antico o finirà con esserlo; più che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi del Maggio scorso più che ineccepibile è stata utilissima; illusioni non credo che ne abbia più di me, ma è abbastanza svelto da sapere crearsele quando occorra. È l'individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perchè ho inteso dire che vuol porre la propria candidatura alla camera dei deputati." ...

 
Di Sedara si era parlato in Prefettura, le attività di lui quale sindaco e quale privato erano note; Chevalley sussultò: era un onest'uomo e la propria stima delle camere legislative era pari alla purità delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece bene a non compromettersi perché, infatti, dieci anni più tardi, l'ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio.

Benchè onesto però Chevalley non era stupido; mancava di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma si rendeva delle cose con lenta solidità, e poi non aveva la impenetrabilità meridionale agli affanni altrui. Comprese l'amarezza e lo sconforto di Don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo della miseria, di abiezione, di nera indifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato l'opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignacciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre ma sereno e vivente; ebbe pietà tanto del principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime i cui elenchi giungevano così spesso al suo ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo.

Volle fare un ultimo sforzo; e l'emozione conferiva pathos alla sua voce:

"Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedara; e tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori."

Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano:

2.4 L'aneddoto

"Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto conosciuto; Lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: 'i Siciliani vorranno migliorare'. Le racconterò un aneddoto personale.

Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi non si erano fatti un'idea chiara.

Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall'altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. 'They are coming to teach us good manners', risposi, 'but won't succeed, because we are gods.' 'Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perchè noi siamo dei.' Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono.

Così rispondo anche a lei caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi.

Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani musulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti vicerè spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perchè avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?

undefinedProudhon

Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è del feudalismo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalismo c'è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salima. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c'è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male.

È tardi, Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per qualche ora la parte di uomo civile."

 

2.5 Il commiato

L'indomani mattina ... Chevalley pensava:

"Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione, nuova, agile, moderna cambierà tutto."

Il Principe era depresso e pensava:

"Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli...; e dopo sarà diverso, ma peggiore.

Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueranno a crederci il sale della terra."


Si ringraziarono scambievolmente, si salutarono. Chevalley s'inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro ruote color di vomito. Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il lungo viaggio.

Era appena giorno; quel tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal sudiciume immemoriale del finestrino. Chevalley era solo; fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell'indice, ripulì un vetro per l'ampiezza di un occhio. Guardò; dinanzi a lui sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile.

 

Il monologo nel film di Luchino Visconti: otto minuti di grande intensità.

 

3 - Il Libro

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Retrocopertina:

Siamo in Sicilia, all'epoca del tramonto borbonico: è di scena una famiglia della più alta aristocrazia isolana, colta nel momento rivelatore del trapasso di regime, mentre già incalzano i tempi nuovi (dall'anno dell'impresa dei Mille di Garibaldi la storia si prolunga fino ai primordi del Novecento). Accentrato quasi interamente intorno a un solo personaggio, il principe Fabrizio Salina, il romanzo, lirico e critico insieme, ben poco concede all'intreccio e al romanzesco tanto cari alla narrativa dell'Ottocento. L'immagine della Sicilia che invece ci offre è un'immagine viva, animata da uno spirito alacre e modernissimo, ampiamente consapevole della problematica storica e politica contemporanea.

Tradotto in tutte le lingue, Il Gattopardo è ormai un classico della nostra letteratura.

GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA, duca di Palma e Principe di Lampedusa, nato nel 1986 e morto nel 1957, si formò su scritti illuministici e raccolte di relazioni militari. Divenne narratore solo nella seconda parte della sua vita, privo di contatti con gli ambienti letterari. Compose un solo romanzo, Il Gattopardo, che, rifiutato da due grandi case editrici, fu pubblicato da Feltrinelli nel 1958 su interessamento di Giorgio Bassani, ed ebbe immediato, grandissimo consenso di pubblico e critica (disponibile anche in audiolibro "Emons Feltrinelli", 2012). (...)

 

link: podcast/audiolibri/il-gattopardo-di-giuseppe-tomasi-di-lampedusa.html

 

ratio imitarum naturam (I, 60, 5.)

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