Il Calamaio Bianco

Tra le righe dell'Albania

"Non ci sono confini, non ci sono misure, non c'è un inizio, non c'è una fine." Marcello Kalowski e il suo La scuola dei giusti nascosti

gen 032021

Marcello Kalowski, con il suo La scuola dei giusti nascosti, consegna al lettore un libro dallo stile elegante nella sua semplicità e dalla trama compatta, che si snoda intorno alla storia di un'amicizia, in pieno regime fascista, di due giovani vite. Originale il ruolo conferito alla scuola, mezzo salvifico, capace di rallentare il meccanismo della macchina antisemita. Conosciamo meglio il suo pensiero e il suo romanzo, attraverso questo interessante confronto, che gentilmente ci concede.

Perché la scelta di utilizzare la scuola come strumento di salvezza?

L'argomento della shoah è al centro di molti scritti ed è stato trattato in diversi modi. Questa realtà mi ha parecchio condizionato durante la stesura del libro, creandomi una sgradevole sensazione di disagio. "Cosa penserà la gente, quando entrerà in libreria e troverà l'ennesimo libro sulla shoah?" Una domanda costante, un pensiero fisso, che mi ha accompagnato per tutto il periodo in cui ho dato vita al romanzo, tanto da divenire il nucleo del volume stesso. Io non sono uno storico, ma vivo nella ferma convinzione che i libri abbiano il sacrosanto dovere di divulgare la conoscenza. Tale certezza fa sorgere in me una domanda: quale uso fare di questa conoscenza? Da qui parte la necessità di porre la scuola come "momento" centrale del libro. In qualsiasi comunità, quando si decide di imporre dei codici per limitare l'accesso a tale collettività o che servano per escludere chi non è ritenuto degno di farne parte, si inizia proprio coinvolgendo la cultura, trasformandola in un elemento dispregiativo, ma allo stesso tempo fondamentale. Basti pensare al Manifesto degli scienziati razzisti, pubblicato tra settembre e ottobre del 1938 e firmato da alcuni dei più celebri scienziati italiani, divenendo la base ideologica e pseudoscientifica della politica razzista dell'Italia fascista. Quando gli uomini di cultura dimenticano la loro missione, passando dalla parte dell'arroganza e dell'ingiustizia, diventano inevitabilmente pericolosi, insieme alla cultura stessa. Sono pochissime le voci rilevanti che si sono opposte al fascismo e buona parte dell'Italia intellettuale si è tristemente allineata alla politica del fascio. L'urgenza di dare tale impostazione a La scuola dei giusti nascosti, nasce proprio dalla voglia di mettere la cultura dalla parte dei giusti. Fare memoria è un compito molto complicato.

undefined

Cosa significa,"fare memoria è molto complicato"?

La nostra storia attuale è figlia di una narrazione del passato, ricca di omissioni e fare memoria significa mettere in discussione quella che banalmente viene definita la nostra identità, presente compreso e questo richiede una buona dose di coraggio. Ancora oggi, in ambiente scolastico, si affrontano con non poche difficoltà le problematiche legate alle leggi razziali e tutto quello che concerne l'antisemitismo, è relegato alla giornata del 27 Gennaio. Fondamentalmente non si è mai fatta un'analisi rigorosa e transigente della realtà fascista. Il messaggio che in qualche modo passa, è relativo alla crudeltà nazista, ma in merito a quella fascista, l'elevamento all'ennesima potenza della malvagità delle leggi razziali mussoliniane, manca quasi sempre. Quello che molto spesso si dice è che, certo, la politica antisemita è stata largamente adottata in Italia, ma inizialmente non aveva lo scopo di far scorrere sangue ebraico. Questo è accaduto con l'arrivo dei nazisti. Quella italiana voleva "solo"?! essere discriminazione, poi i tedeschi hanno peggiorato le cose. Quindi colpa loro, non nostra. Se io fossi il Ministro dell'Istruzione, dedicherei sempre l'apertura dell'anno scolastico al giorno in cui furono promulgate le leggi razziali, il 5 settembre del 1938, semplicemente per ricordare ai giovani, che chi era ebreo, non ha potuto godere di quel primo giorno.

undefined

Come si fa a sensibilizzare realmente i giovani verso la shoah?

A tal proposito, si incontrano e si scontrano idee differenti e contrastanti. La memoria non è un semplice tentativo di far rivivere il passato, opponendosi al senso di caducità dovuto al trascorrere del tempo. Quando io dico che è sbagliato affidarsi ai giorni della memoria, è perché fondamentalmente tutto diventa usuale e contribuisce ad allontanare dal punto di vista temporale, le stesse vicende dalla storia. Quello che urge far comprendere ai giovani, è che quegli eventi, non sono stati una sorta di eclissi della civiltà, ma l'esito di precisi momenti storici, e che quegli esiti continuano a incombere su di noi e sulle nostre scelte. Le epoche passano, trascorrono e non fanno sconti a nessuno e tutto sommato è anche giusto che gli eventi si allontanino nel tempo. L'importanza risiede nella capacità di non trasformare la storicizzazione in banalizzazione, ma allo stesso tempo non va considerata la shoah come una sorta di sacrario-braciere sempre acceso e il compito della memoria come quello di alimentare perennemente questa fiamma. Bisogna imparare a contestualizzare, perché l'orrore non ha confini. Auschwitz non deve essere considerato un'unità di misura per disegnare i limiti delle atrocità. Una tragedia è la deportazione ebraica, altrettanta tragedia è la gente che annega nel Mediterraneo. Non dobbiamo fare paragoni, altrimenti il rischio di banalizzare è altissimo. Io non sono stato una vittima diretta della crudeltà antisemita, ma tramite mio padre, sopravvissuto ai campi di concentramento, ne ho avuto comunque un'esperienza profonda. Un uomo uscito vivo da quell'orrore, bloccato in Italia da una tubercolosi ereditata appunto dalla terribile esperienza e che comunque ha trovato il coraggio di rifarsi una vita o di tentare di rifarsi una vita. Purtroppo, però, lo spettro delle atrocità viste e subite lo hanno sempre accompagnato e io avevo appena dodici anni, quando lui ha avuto il suo primo reale crollo, con una depressione che lo ha seguito fino alla morte. Non ci sono confini, non ci sono misure, non c'è un inzio, non c'è una fine.

MARCELLO KALOWSKI, nato a Roma nel 1954, ha lavorato a lungo per la Hebrew Immigration Aid Service, organizzazione ebraico-americana che fornisce assistenza ai profughi ebrei. Ha esordito in narrativa con il romanzo Il silenzio di Abram. Mio padre dopo Auschwitz, edito da Laterza.

 



Beate Baumann presenta E in mezzo: io di Julya Rabinowich, prossimamente in libreria

gen 032021

E in mezzo: io di Julya Rabinowic

Da dove vengo? Non importa. Potrebbe essere da qualsiasi luogo…

Madina ha 15 anni, è fuggita insieme alla sua famiglia dalla guerra ed è arrivata a Vienna, dove finalmente inizia a sognare un futuro migliore. L’integrazione però non è cosa facile e a lei tocca assumere il ruolo di mediatrice tra la famiglia, che vive in un centro profughi e la vita sconosciuta fuori. Le notti inquiete e il rapporto tormentato con il padre, che non vuole lasciarsi il passato alle spalle, non fermano Madina, che grazie alla sua compagna di scuola Laura troverà accoglienza in terra straniera.

undefined

 “Potrei usare due parole per definire il romanzo: voce e ponte. Julya Rabinowich ha voluto dare voce a chi non ce l’ha, a persone costrette ad abbandonare la propria terra e i propri cari. Lo fa attraverso la protagonista, fuggita dalla guerra, ritrovandosi così, in un nuovo mondo. La voce di Madina racchiude un po’ tutto; da un lato la delicatezza e l’ingenuità straordinariamente sincera, dall’altro la chiarezza e la determinazione. I due punti, inseriti nel titolo, stanno a simboleggiare proprio quel ponte, dato dalla voce che funge da collegamento. Madina si trova nel mezzo, tra il mondo occidentale e quello orientale, tra l’universo degli adulti e quello dei ragazzi. La lingua diviene lo strumento, che trasforma la voce in una sorta di ponte, che permette a Madina di approdare nella nuova terra, sviluppando le proprie radici e le propria identità. La giovane incarna una voce contemporanea, una di quelle voci silenziose molto presenti nella nostra società, che gli altri faticano a sentire, perché, infondo, sono di persone trasparenti. E in mezzo:io, è un libro che sottolinea la sensibilità della Rabinowich nei confronti delle problematiche dei profughi. Julya ha lavorato presso un centro di accoglienza per rifugiati ceceni, dove ha ascoltato e dato voce a racconti scioccanti e angoscianti. Direi che la figura dell’interprete si identifica con il ponte tra le lingue.”

                                                                                           Beate Baumann

                                                                                                                 

"Ho voluto narrare della società italiana". Leonard Guaci racconta il suo Ottanta infinito, prossimamente in libreria

gen 022021

Ottanta infinito è il nuovo libro di Leonard Guaci, edito da Besa Muci Editore, prossimamente in libreria. In una breve chiacchierata a tu per tu con lo scrittore, gli abbiamo chiesto di parlarci apertamente del suo romanzo.

Come e perché nasce Ottanta infinito?

Nelle mie precedenti pubblicazioni, ho trattato approfonditamente di tematiche legate all'Albania e ai quei Paesi, dove il comunismo ha condizionato tutto il sistema, da quello della pura quotidianità, a quello sociale e culturale. A un certo punto, mi sono reso conto che forse la mia missione in tal senso era finita e che sentivo fortemente l'urgenza e la necessità di narrare altro. Vivendo da tanti anni in Italia e avendo uno spirito d'osservazione molto acuto, ho pensato di mettere a frutto tutto quello che ero riuscito a carpire nel tempo. Sin da bambino, pur vivendo in Albania, ho sempre seguito le vicende italiane attraverso la televisione della Penisola, nonostante le problematiche legate alla lingua e ricordo di essere rimasto particolarmente colpito dalla questione del Banco Ambrosiano. Certamente all'epoca, non ne comprendevo proprio il senso, ma era impresso in me il volto di Roberto Calvi, i suoi baffetti, il suo sguardo così triste. Crescendo ho avuto modo di studiare e approfondire le vicende legate a questi fatti, che secondo il mio parere, hanno costituito uno dei più grandi scandali del sistema italiano del dopoguerra. undefined

In che modo ti sei documentato?

Innanzitutto leggendo due libri che mi hanno illuminato su quanto accaduto. Il primo è La storia di Roberto Calvi di Gianfranco  Piazzesi e Sandro Bonsanti (Longanesi 1984) e il secondo si intitola Poteri forti di Ferruccio Pinotti (Feltrinelli, 2017). Sono stati utili entrambi e in particolare la biografia di Calvi, che mi ha aiutato a conoscere il personaggio e i fatti che tanto da bambino mi avevano impressionato. Molto preziosi sono stati anche gli articoli su internet, i ritagli di giornale che ho recuperato e tutto quello che sono riuscito a ritrovare.undefined

Una parte della trama si fonda sul rapimento della sorella del protagonista. Ha un senso preciso questa scelta?

Onestamente no. Il rapimento è il pretesto che permette al protagonista d'indagare e di entrare in uno scenario di situazioni poco chiare e piuttosto torbide. Nessun riferimento a episodi autobiografici o di vita personale. Un'altra scelta ben ponderata è stata quella di rimanere sopra le parti. Ho voluto narrare senza esprimere la mia opinione, anche perché sarebbe stata insensata e priva di fondamento. Forse, mai si avrà una soluzione definitiva della vicenda. 

Leonard Guaci nasce a Valona nel 1967. Inizia la sua attività letteraria con numerosi scritti sui giornali albanesi. Nel 1990 si trasferisce a Roma e avvia la collaborazione con i periodici "Lo Stato" e "Il Borghese" e con il TG1. Con Panciera Rossa vince il Premio internazionale di letteratura "Antonio Sebastiani". Per Besa ha già pubblicato I grandi occhi del mare nel 2017.

 

Le Streghe secondo Virgjil Muçi

set 012020

                          Tra incanto e realtà, nel vagabondaggio del non senso

undefined

In una notte illuminata dalla Luna Piena, alla vista del mare di Durazzo, uno scrittore fa scivolare la sua magica penna sul foglio e lasciando una fievole scia di stelle, da vita a un giovane intrepido, gagliardo e talmente sicuro di sé, tanto che nessun nome sembra essere adatto a lui. Il Ragazzo senza Nome non sa cosa sia la Paura e questo suo tormento lo spinge lontano, in un viaggio senza meta, in un vagabondaggio del non senso. Un percorso lungo, con poche soste, in cui il giovane da prova della propria abilità e di una superbia prepotentemente altezzosa. Che delusione per lui! Non riesce proprio a provare la sensazione che dona la Paura: cosa potrà mai dire questa strana emozione? Ed ecco le porte di una città, un posto che sembra abitato da fantasmi, dove aleggiano strani spiriti pronti a far perire sotto la propria scure, chiunque si offra come guardiano della ricca casa dell’uomo passato a miglior vita. Quale occasione ghiotta si presenta al suo cospetto! Finalmente avrà Paura, finalmente saprà cosa vuol dire. Ed eccolo nelle vesti dell’intrepido guardiano, nell’attesa del nulla, con la prontezza di chi ha voglia di accogliere tutto. Inizia così la sua traversata negli Inferi, tra spiriti che narrano, insospettabili streghe e uomini dalla disarmante semplicità e salvifica saggezza. Il Ragazzo non ha Paura quando le anime inquietanti gli parlano di quelle strane donne chiamate Streghe, che vendono la propria anima alla notte, sconfitte dalla purezza di altre anime, che mai si abbandoneranno al male. Allora cos’è la Paura? Quanto è necessaria nella nostra esistenza? Se lo chiede Virgjil Muçi nel suo Streghe, una fiaba adatta a grandi e fanciulli, domandandolo anche al lettore e ponendolo di fronte al quesito di tutti i tempi: quanto è importante la paura? Soprattutto, quanto è necessaria nella nostra vita? Provare tale emozione può metterci al riparo da situazioni di pericolo e aiutarci a reagire nel migliore dei modi in contesti di scarsa sicurezza. Nello specifico, però, il Ragazzo senza Nome conquista una fetta di mondo senza la paura: ci sarebbe riuscito lo stesso se avesse provato questa potente e viva sensazione? Allora qual è il giusto equilibrio? Esiste? undefined

Nella bella fiaba di Muçi non è solo il Ragazzo a non provare paura, ma anche tutti coloro che con la solo ingenua saggezza sconfiggono le Streghe. Lo scrittore disegna magistralmente queste figure di donne della quotidianità, pronte, spesso a loro stessa insaputa, a trasformarsi in anime perdute, che volteggiando nelle buie notti, mietono terrore. Si è parlato tanto di streghe nella storia: basti pensare che nel folclore popolare occidentale, le incantatrici sono sempre state circondate da un alone di negatività. Donne colpevoli e additate come usurpatrici della comunità, in possesso di malefici poteri magici. Figura antichissima quella della strega, i cui albori risalgono a prima del cristianesimo, ma è solo nel Medioevo che si individuano le fattucchiere come donne eretiche e pericolose. Non è un caso che la tristemente nota “caccia alle streghe”, conosca il suo culmine nel 1486. Donne accusate di stregonerie, le cui confessioni molto spesso vengono estorte, con modi che nulla hanno a che vedere con i canoni più elementari di umanità. Ed è proprio partendo da questi concetti, che la letteratura rende protagonista la strega in diverse opere, in diversi secoli. Le Streghe di Virgjil Muçi richiamano in qualche modo quelle della credenza popolare, con l’unica differenza che le sue, sono donne del focolare, ai cui corpi, la notte ruba l’anima. È la loro essenza a circolare tra uomini e donne ignari, travolti da fatti stranamente inspiegabili. Anime le loro, rapite dal male oscuro, quello indecifrabile, che spesso ci è accanto e che non riconosciamo. Muçi, però, ci ricorda che le disoneste magagne possono sempre essere sconfitte e la purezza d’animo può rappresentare un’arma potentissima. Lo scrittore offre il cuore incontaminato da ogni sozzura, come utile lente di ingrandimento contro il male. Quel male che sembra puramente fiabesco, in realtà identificabile con una delle sofferenze che maggiormente affligge la società: la non identificazione dell’altro. Le cronache quotidiane insegnano quanto sia difficile a volte individuare il marcio, quello che potenzialmente potrebbe viverci accanto, invadere la nostra vita, soffocare la nostra libertà. Quella corruzione dell’anima che veste i panni della violenza, che a volte si circoscrive troppo tardi, per colpa di pochi e responsabilità di tanti. Come questa fiaba insegna, l’intuizione e l’azione della genuinità, di chi è pronto a stare accanto, sono delle valide alternative alla “paura” e al “cavarsela da soli”. Questo Streghe, dall’essenza prettamente fiabesca, incastonata in uno stile armonico ed equilibrato, dalla lettura piacevole e divertente, è un libro di poche pagine, che si legge tutto d’un fiato. Una favola che può essere letta come tale, o una breve lettura, capace di offrire insegnamenti e spunti di riflessione molto forti.                                                                                                      Anna Lattanzi

Amalia Guglielminetti, la poetessa affascinante

lug 212019

TORINO. "L'unica poetessa che abbia oggi l'Italia..." Così la definisce  D'Annunzio nel 1912, mentre la attende in un hotel della città. Una donna carismatica la poetessa, che si ritrova a vivere in un'epoca e in una Torino, che non guarda più alla bellezza delle donne, ma al loro carattere e alle loro capacità intellettive.undefined

Amalia Guglielminetti nasce nel 1881, nel capoluogo piemontese, quella che sarà sempre la sua città e dove sarà nota, specialmente tra quegli intellettuali che come lei frequentano il "Circolo della Cultura". Prima di lei, diviene noto ai più il suo bisnonno, l'inventore della borraccia di legno, che però, non aveva certo i capelli corvini della bella nipote e i suoi occhi meravigliosamente magnetici e terribilmente incantatori. Bella donna, brava poetessa, i cui versi vengono così commentati dal critico letterario Arturo Graf:

"La sua ispirazione è viva, schietta, delicata quanto più si possa dire, e l’arte la seconda a meraviglia. Quelle sue figure di fanciulle e donne son cose di tutta gentilezza, e molti sonetti son di squisita fattura. E il tutto par che le venga così spontaneo"undefined

Amalia è un'ammaliatrice, non solo con la sua penna, ma anche con la sua sensualità, capace di affascinare e attirare a sé la curiosità di uomini e altre donne, incentivata dagli abiti liberty indossati, sfoggiando velette da femme fatale, e apparendo sfacciata con i bocchini delle sigarette che fuma. La parte più trasgressiva di lei, come i versi dei suoi componimenti Vergini Folli, Seduzioni, L’amante ignoto, L’insonne, è in realtà la parte più recondita dell’anima e di un cuore temerario e audace.

Il temperamento vivace e la voglia di libertà, fanno in modo che nessun amante riesca a starle dietro. Ed è così che la poetessa rimane sola e sola va avanti nella vita, nonostante gli amori tutti irrimediabilmente falliti.

undefined

Non le mancano gli apprezzamenti, non solo degli uomini, ma anche da parte della stampa. Tante sono le copertine che le vengono dedicate: si narra che ne abbia avute di più di famose attrici. La sua bellezza e la sua eleganza spesso sono protagoniste delle foto che la ritraggono. Moderna e perbene, fasciata in eleganti abiti in seta, fissata per orchidee e fiori esotici, amata dalle giovani donne ribelli, non amata dagli  uomini torinesi, spaventati da quella forza femminista che la contraddistingue. Tutte queste caratteristiche definiscono Amalia  Guglielminetti.

undefinedIl suo motto è «Ama e godi», la sua filosofia di vita è assaporare il momento: dopo aver tentato la carriera giornalistica a Roma e aver conosciuto il mondo della meravigliosa Parigi, Amalia muore nel 1941, a causa di complicazioni dovute alle ferite riportate durante un raid aereo di cui rimane vittima. Muore da sola Amalia Guglielminetti, nello stesso modo in cui ha condotto la sua vita. 

Dieci giorni in manicomio, il libro denuncia di Nellie Bly

lug 072019

Elizabeth Jane Cochran, (1864-1922), conosciuta come Nellie Bly, è stata la prima giornalista investigativa e la più grande cronista infiltrata della storia. Statunitense, fu protagonista di coraggiose inchieste a fianco dei più deboli - donne, bambini, carcerati - e di un importante servizio giornalistico sulla I Guerra Mondiale. Una grande donna, in un lavoro all'epoca considerato da uomini.
Celebre il suo viaggio da cronista intorno al mondo — ispirato al libro di Jules Verne Il giro del mondo in 80 giorni — con partenza da New York il 14 novembre del 1899 per percorrere 40.000 chilometri in 72 giorni.

undefined

La sua prima inchiesta, se non una tra le più famose, fu quella da infiltrata, che nel 1887 a ventitré anni la portò nel manicomio femminile dell’Isola di Blackwell — oggi isola di Roosevelt — nell’East River di New York. Elizabeth si finse malata di mente e vi fu prontamente portata, cosa per niente difficile per le donne dell'epoca. Qui la reporter rimase chiusa per ben dieci giorni.  

Da questa terribile esperienza nacque un grande e interessante articolo, che in seguito divenne un libro  Ten Days in a Mad-House - Dieci giorni in un manicomio -. Il servizio, fu dato alle stampe, per andare incontro alle richieste dei lettori, a oggi ancora numerose. 

undefined

La sua inchiesta non fu vana: ne scaturì, infatti, un'indagine giudiziaria e furono presi seri provvedimenti affinché la gestione del manicomio garantisse una buona permanenza alle pazienti. La città di New York, viste le condizioni denunciate dalla giornalista, decise di stanziare   un milione di dollari in più all’anno per la cura e l’assistenza alle persone affette da disturbi mentali.

"Così ho avuto almeno la soddisfazione di sapere che i poveri sfortunati saranno curati meglio grazie al mio lavoro."

Non che le condizioni del manicomio di Blackwell non fossero note, per carità, già si sapeva qualcosa, già qualche grido di denuncia c'era stato. Ma era fondamentale essere sul posto, serviva una testimonianza reale: per questo motivo, il direttore del quotidiano di New York World chiese a Elizabeth Cochran di infiltrarsi e documentare fedelmente le sue esperienze. Nellie Brown, così si sarebbe chiamata in manicomio e avrebbe poi firmato l'articolo con lo pseudonimo di Nellie Bly.

undefined

Piacere e rimpianto diceva di provare Elizabeth al suo rilascio: il piacere per la ritrovata libertà e il rimpianto per aver lasciato nella sofferenze donne altrettanto sane. 

Nel ruolo di Nellie Brown, la giornalista riuscì a simulare atti tipici delle persone con problemi mentali: una volta raggiunto l'obiettivo e quindi rinchiusa tra le quattro mura del manicomio, iniziò ad avere atteggiamenti normalissimi, ma più si comportava normalmente e più veniva considerata pazza. 

Certi è che Nellie non improvvisò nulla: tante e davvero tante furono le prove fatte dalla donna davanti allo specchio, dove trasformava il suo volto in quello di una vera pazza. Le prime escandescenze decise di averle nella casa di accoglienza per donne lavoratrici, dove chiese di pernottare. Qui con atteggiamenti sconclusionati, riuscì a turbare la cena e la notte di tutte le altre ospiti, tanto da indurre la responsabile a chiamare la polizia. Così i due poliziotti portarono la donna davanti al giudice, che ordinò per lei una visita medica immediata, che naturalmente la dichiarò malata di mente. Così sotto gli occhi incuriositi dei passanti, Nellie fu trasferita in ospedale. Quella però non fu l'unica visita a cui la donna fu sottoposta, tutt'altro. Appena ricoverata, insieme ad altre pazienti sicuramente sane quanto lei, fu sottoposta a un'altra visita medica, in seguito alla quale fu dichiarata positivamente demente, un caso disperato e bisognoso di assistenza. Questa seconda diagnosi la condusse direttamente al manicomio Blackwell.

undefined

A Blackwell un’ulteriore visita medica avrebbe confermato la malattia mentale e decretato l’internamento a vita di Nellie Brown e di altre quattro compagne di viaggio, tra le quali la signora Schanz, che non ebbe modo di intendere le domande o di fornire spiegazioni dal momento che conosceva solo il tedesco.
Fu all’ora di cena che Nellie Brown si rese conto della situazione. Nell’aria gelida che arrivava dalle finestre aperte, le altre residenti livide per il freddo piangevano, parlavano da sole o sedevano rassegnate sulle panche a cercare di mandar giù una specie di tè rosato, dei pezzi di pane con sopra del burro nauseabondo e delle prugne mezze marce. Naturalmente Nellie Brown non poté mandare giù nemmeno un boccone quella sera.

Arrivò così l'ora del bagno: la stanza riservata al lavatoio era fredda e umida, le donne venivano spogliate con la forza e gettate in una vasca di acqua sporca e fredda. A Nellie Brown sembrò di annegare, rimase senza fiato. Poi, sotto gli sguardi terrorizzati delle altre che attendevano il loro turno, tra i brividi che le scuotevano tutto il corpo scoppiò in una risata tipica di una persona instabile.

undefined

Ancora bagnata le infilarono una camicia  con la scritta “Lunatic Asylum, B. I., H. 6”: manicomio per lunatici, isola di Blackwell, Padiglione 6.

Nella sua cella c’era qualcosa di molto lontano da un letto, sul quale Nellie provò a sdraiarsi per riposare, con i capelli gocciolanti e la camicia completamente bagnata. Naturalmente fu vana la richiesta di avere una camicia asciutta. secondo l'infermiera di turno, era già tanto che avesse addosso qualcosa, visto che si trovava in un istituto pubblico.

“I cittadini pagano per mantenere questi posti”, disse piuttosto stizzita Nellie Brown, “e pagano perché le persone siano gentili con le sfortunate residenti”.
“Non deve aspettarsi alcuna gentilezza qui perché non l’avrà”, fu la risposta fulminante dell'infermiera.

Quella che trascorse fu una notte da incubo: non chiuse occhio ed era terrorizzata all'idea che potesse scoppiare un incendio, perché le 1600 degenti sarebbero tutte morte. Sveglia ore 5.30, furono accompagnate ai bagni per lavarsi ed essere energicamente pettinate. 

Seguì la colazione, che aveva lo stesso tè, lo stesso pane e lo stesso burro della cena. Finita la colazione, alle degenti vennero assegnate diverse mansioni, come pulire, fare il bucato e fare i letti. Quindi non erano le assistenti a tenere in ordine gli ambienti, bensì gli stessi poveri pazienti.

Dopo aver terminato le faccende, le degenti corsero tutte verso il cortile, per la consueta passeggiata, anche se c’era freddo. Nellie Brown poté vedere anche le donne alloggiate in altri padiglioni: c’era chi si muoveva in modo ripetitivo, chi aveva uno sguardo smarrito, alcune facevano smorfie, c’erano giovani e anziane, altre erano legate con cinghie o imprigionate nelle camicie di forza.

“...una massa senza senso. Nessun destino potrebbe essere peggiore”.

undefined

Quello che colpì ancora di più Nellie fu la bellezza dei prati di Blackwell e aveva ingenuamente creduto che potessero dare ristoro alle povere pazienti: in realtà le donne non potevano calpestarli, ma solo guardarli. Se si fossero azzardate a camminarci su, piuttosto che a raccogliere un fiore, sarebbero state punite severamente.
Quando rimanevano per ore nella sala comune, le residenti provavano a muoversi ma se si alzavano veniva loro ordinato di sedersi, se si sedevano di fianco o su una gamba di stare dritte, se parlavano o cantavano di stare zitte. Non erano ammessi libri, né quaderni o matite. Il blocchetto dove Nellie Bly aveva iniziato a scrivere le sue osservazioni fu subito sequestrato. Una serie di atroci trattamenti che avrebbero portato anche lei alla malattia mentale, molto presto.
Cibo che scarseggiava e di pessima qualità, trattamento disumano, percosse, faceva del manicomio un posto da dove uscire solo da morte.

Dopo dieci giorni la giornalista fu rilasciata e scrisse un articolo di forte impatto socio-emotivo e legale. Per questo fu invitata a comparire davanti al Gran Giurì e convinse i giurati con il suo racconto, tanto da far partire un'ispezione, durante la quale furono raccolte prove sufficienti a conferma di quanto detto dalla donna. Le prove furono raccolte a dispetto della furberia di chi aveva provveduto ad avvisare per tempo il direttore, che fece allontanare chi aveva ricevuto i peggiori trattamenti e cercò di introdurre una qualche miglioria dell'ultimo minuto.

undefined

Non mi aspettavo che il gran giurì mi credesse,” — scrisse Elizabeth Cochran — “dopo aver trovato condizioni del tutto diverse da quelle nelle quali mi ero trovata io. Eppure è andata così e il rapporto inviato alla corte consiglia di attuare tutti i cambiamenti che avevo proposto. La mia consolazione è che grazie alla mia storia sarà destinato un milione di dollari in più all’anno, a beneficio dei malati di mente”.

Dal libro è stato tratto un film, decisamente fedele al racconto, quindi molto impressionabile, viste le scene particolarmente cruente per richiamare la realtà dei fatti.

Atom

Powered by Nibbleblog per Letteratour.it