Il Calamaio Bianco

Tra le righe dell'Albania

Intervista allo scrittore Tom Kuka

mar 132021

Tom Kuka, alias Enkel Demi, autore de L'Ora del male (Besa Muci, 2021), è uno scrittore decisamente interessante, che ama esprimersi in maniera diretta e chiara. Il suo stile, carico di armonia e buona musicalità, dona al libro un'autenticità senza pari e consegna al lettore un testo avvincente e pregno di profondi significati. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui, lasciandoci con l'impegno di ritrovarci per un più lungo e proficuo confronto. Buona lettura 

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Perché decidi di scrivere L'Ora del male?

Sono due le cose mi hanno ispirato. Il personaggio che perde la vita all'inizio del libro è una grande figura storica. Una vecchia canzone albanese, un canto di morte, mi ha in qualche modo spinto ad approfondire lo studio di questo protagonista storico. La canzone di Çelo Mezani: così si intitola uno dei canti più celebri in Albania ed è un componimento nato durante il periodo del risveglio nazionale albanese. La cantica esprime il dolore e il lamento della madre di Çelo, un noto rivoluzionario albanese Cham del villaggio di Arptisa, la moderna Perdika. Çelo Mezani ha vissuto durante la fine del XIX secolo ed è stato un kaçak, uno dei combattenti che hanno lottato contro il potere ottomano. Insieme ad altri, ha partecipato alla rivolta albanese anti Tanizmat nel 1847. Non è ancora chiaro cosa gli sia successo, ma si pensa che gli ottomani siano riusciti a ucciderlo grazie all'aiuto di un traditore. Una canzone lunghissima quella di Çelo Mezani, in cui la donna chiede notizie del figlio e le risposte arrivano crude e aspre, trasmettendo un grande senso di angoscia e di malessere. L'Ora del male non vuole essere solo l'Ora del malessere e dei problemi legati alle negatività della vita,  ma anche un riferimento a quelle condizioni di turbamento che sono particolarmente radicate nel profondo della nostra mentalità. 

Il tuo stile è lineare e asciutto. É una scelta fatta per la stesura de L'Ora del male, oppure è la tua forma di scrittura?

Io scrivo sempre in maniera asciutta e lineare. La mia scrittura è libera da superflui ornamenti. Sono affascinato da miti, da vecchie storie, dai racconti dei nonni, da tutta quella fetta di cultura popolare che da sempre mi appartiene. Ho espressamente deciso di narrare il sapere dei miei avi, decidendo di essere un albanese vero, di quelli senza scrupoli. Quando riporto nei miei testi il racconto delle narrazioni popolari, lo faccio oltrepassando spesso il confine tra la vita e la morte. Amo esplorare questi mondi così lontani e misteriosi attraverso la mia scrittura; mi piace arrivare e addentrarmi nell'universo della morte, ed è da lì che voglio cominciare. Queste sono le mie radici.

Affermi di voler essere un albanese senza scrupoli: cosa significa esattamente?

Io voglio essere un albanese che non ha bisogno di raccontare una storia non sua. Ho compreso una cosa importante: per essere liberi, è fondamentale essere se stessi. Faccio l'esempio del grande Andrea Camilleri, uno scrittore che ha sempre narrato della realtà siciliana senza compromessi. Io ho deciso di scrivere per quello che sono e per come so farlo, non per piacere ai lettori italiani, che spero possano apprezzare la mia scelta e la mia genuinità. Sono più che convinto che un italiano abbia necessità di leggere il libro di uno scrittore albanese, che esprima realmente il suo modo di essere, per capire la bellezza e la meraviglia del posto e del popolo. Io voglio essere come i miei nonni e i miei parenti. Solo in questo modo posso essere realmente compreso dalla platea dei lettori italiani. 

                                                                                                                                                                               U Calamaru

 

 

 

La ragazza dagli occhi di cenere di Vule Žurić

mar 092021

"...Quest’ultimo, appena arrivato, aveva scorto una ragazza che si era fermata all’entrata del mercato. Da capo a piedi avvolta in un panno non più tanto bianco, di tanto in tanto allungava il collo per riuscire e vedere meglio ciò che stava succedendo presso l’alta palizzata. I suoi occhi color cenere aspettavano di scorgere colui che attendevano con tanta impazienza per potergli offrire un sorriso; Schraud pensò che sarebbe stata quella l’immagine con cui, se solo avesse potuto, avrebbe dato inizio al suo resoconto..."

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Quando ho intervistato Vule Žurić a Pančevo in Serbia, tra le tante cose, mi disse che la sua predilezione é per i racconti brevi:

"Il racconto è una “prova di mestiere”, se non riesci a scrivere un racconto di tre o quattro pagine e a non inserire tutto il mondo in queste poche pagine, credo che mai potrai essere uno scrittore. D’altra parte, per me, il romanzo è un raccoglitore di idee, soprattutto di quelle che si formano nel mondo linguistico di un racconto... Quando scrivi un racconto breve, è importante il ritmo, la melodia della lingua, sapere da quale punto della storia si deve cominciare e avere sempre un giudizio obiettivo. Senza tutte questi elementi, non si può scrivere un buon racconto corto. Non bisogna dimenticare che anche il titolo ha la sua importanza..."

Il ritmo, la melodia e la lingua sono alla base della scrittura di Žurić, che in questo La ragazza dagli occhi di cenere, non smentisce la sua buona capacità narrativa. Siamo alla fine del 1700 e ci ritroviamo nel distretto di Srem in Serbia, dove una terribile peste si abbatte sulla popolazione. La convinzione radicata tra i cittadini è che a portare il terribile morbo, che miete quotidianamente vittime, sia stata una bellissima ragazza dagli occhi di cenere, che gira avvolta in un lungo scialle bianco. Sarà così davvero? Oppure il pregiudizio fa la sua parte?

Un romanzo avvolgente e coinvolgente, la cui narrazione viaggia su un armonioso equilibrio tra storia, finzione narrativa e credenza popolare. La penna dello scrittore serbo si muove abilmente tra le descrizioni dei personaggi che non mancano di dovizia di particolari e quelle delle emozioni derivanti spesso dagli atteggiamenti dettati dal folclore e dalle convinzioni radicate di un popolo. 

Di forte impatto emotivo il prologo, che prende per mano il lettore e lo trascina nella storia, non in punta di piedi, ma in modo quasi irruento. Andelija piange la morte della sorella. Le persone intorno sembrano senza vita a loro volta e quello che emerge è un senso di vuoto e nel contempo di mistero. La ragazza avverte un senso di angoscia che attribuisce al dolore che prova, per rendersi poi conto che si tratta unicamente di paura. Ed è la paura che fa da sfondo a tutto il racconto: una paura dettata dalle più becere convinzioni, che vengono consegnate al lettore senza giudizio alcuno.

Dalla trama compatta e interessante, questo La ragazza dagli occhi di cenere eleva all'ennesima potenza l'importanza dei rapporti umani e in un momento storico come quello che stiamo vivendo, in cui ogni certezza vacilla, arriva ad hoc, per urlare al mondo che quel legame forte e indissolubile che lega ogni umano a un altro, non può essere spezzato da nulla, nemmeno dal male. 

Žurić scrive un libro carico di significato, capace di offrire grandi spunti di riflessione e di donare a chi legge una lettura scorrevole e appassionante. 

 

La vedova innamorata di Virgjil Muçi

mar 082021

«Come mi aveva raccomandato la sera prima, alle sei e mezza la chiamai per svegliarla, ma Diana, la centralinista, disse che in quella stanza non rispondeva nessuno. Le chiesi di non interrompere la chiamata, pensando che la signora potesse avere il sonno pesante, ma dopo due, tre minuti Diana tagliò corto: non c’è nessuno, punto. Lasciai quindi alla reception Kujtim, il manutentore dell’ascensore, nel caso in cui qualche ospite fosse sceso per consegnare la chiave, e salii di corsa verso la stanza 304. Bussai, ma non percepii alcun segnale di vita all’interno. Bussai di nuovo e questa volta più forte, senza tuttavia ricevere risposta. Appoggiai l’orecchio alla porta, ma oltre al mio respiro affannato per la corsa, non sentii nulla. Tutto a un tratto, appoggiando il gomito alla maniglia, a dire il vero senza farlo apposta, la porta si aprì. Restai un attimo in preda all’indecisione: entrare o no? Qualcosa di spaventoso mi attraversò la mente: che vada come deve andare, mi dissi. Trovai la signora stesa sul lato del letto con una gamba penzolante, come se si stesse preparando ad alzarsi, con gli occhi talmente spalancati da non riuscire a capire la direzione, mentre, dalla bocca socchiusa, come in una smorfia, fuoriusciva una goccia di sangue ormai raggrumato. Ero disorientato. Era la prima volta che mi capitava di trovarmi faccia a faccia con un cadavere, anche se tutto sommato mi
ripresi subito. Mi venne in mente all’improvviso che non si poteva toccare nulla…»

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Così si apre La vedova innamorata di Virgjil Muçi (Besa Muci 2021), in libreria dal 25 Marzo. Un delitto? Una morte naturale? Il lettore scoprirà presto di cosa si tratta e cosa ha tolto la vita a Maria Luisa, (in una camera d'albergo a Tirana), l'indiscussa protagonista del romanzo. Quello che il lettore scoprirà più tardi, sarà il filo conduttore del libro, che ruota intorno ai segreti della donna, ai suoi sentimenti, alle sue più intime emozioni e al suo essere legata a una vita che fondamentalmente non le appartiene più. E ancora ai suoi discorsi, ai suoi pensieri, alla sua potente lucidità, al suo essere...Maria Luisa. Insomma, Muçi ha dato i natali a una protagonista unica nel suo genere, che non mi sento di paragonare ad nessun'altra. Il suo profilo è disegnato con dovizia di particolari, il suo dolore e la sua sofferenza si nascondono dietro il suo trucco e le sue unghie laccate, ma i suoi movimenti e il suo porsi, tradiscono un'Anima assorta nei più turpi pensieri. Bellissimi gli excursus della protagonista (non solo suoi: le digressioni sono una caratteristica dello scrittore), carichi di sentimento e pathos. 

Maria Luisa parla con Ilir, la guida turistica, che diverrà il suo più intimo confidente: un giovane attento ed educato, che prende a cuore l'urgenza della forestiera, senza sapere il perché. Ilir che non rispecchia il giovane d'oggi, ma quello di trent'anni fa, con i suoi dubbi e le sue certezze, ma con un'accoglienza senza eguali. Ilir si muove, cerca, trova. Sì, Maria Luisa chiede di una persona persa di vista tanti anni prima. Il ragazzo si arabatta, senza sapere...Senza sapere che quella signora non gli sta raccontando tutto, che quella donna ha il cuore smontato, lacerato, che infondo, ha misteri irrisolti che condizioneranno il suo stesso giudizio.

La narrativa di Virgjil Muçi è potente, di una potenza che non si avverte subito. Il racconto non parte in quarta, ma è un crescendo di fatti, di colpi di scena, di emozioni. Ecco, queste ultime non mi sono mai mancate durante la lettura. La trama si snoda su due piani temporali differenti; una parte si svolge nel presente e una parte è di flash back. Tutte le volte che ho pensato di essermi fatta un'idea dell'andamento dei fatti, mi sono ritrovato di fronte a una sterzata data dall'autore. Colpi di scena e gradevoli intromissioni.

Il romanzo è stato redatto trent'anni fa in albanese e questo lo si intravede, sia nel linguaggio, che non è certo quello odierno e sia nello stile dello scrittore, decisamente più fresco e più dinamico rispetto a quello conosciuto ne La Piramide degli spiriti (Besa Muci 2019). Personalmente ho molto apprezzato la forma del precedente romanzo, ma apprezzo ancor di più questa, che ci fa conoscere un Muçi che non ha paura di ferire, che crea un personaggio protagonista atto a rompere gli schemi del regime. 

Pensateci. Maria Luisa è una donna innovativa per quei tempi. Viaggia in un paese che pochi conoscono, (si reca in Albania con un gruppo selezionato di turisti), all'epoca del regime, e vuole ritrovare un passato perduto. A un certo punto si ritrova anche a fare la "civetta" con un turista...

Un bel romanzo La vedova innamorata, che fa ancor di più apprezzare Virgjil Muçi e la sua grande capacità narrativa, nella quale si intravede la cultura di fondo che caratterizza lo scrittore, la sua precisione nel non lasciare nulla al caso, la sua dedizione alla scrittura, che rimane semplice e lineare, nella sua eleganza.

Un ottimo lavoro dello scrittore e di chi ha contribuito alla realizzazione di questo romanzo, di chi ha fatto il lavoro di traduzione e l'affetto e la stima professionale, mi spingono ad apprezzare il notevole e valido contributo dato dalla cara collega e amica Anna Lattanzi, a un'opera che merita di essere letta, vissuta, diffusa, premiata. 

                                                                                                                                                                          Mariella Sgarbi

                                                                                                                                                                           U Calamaru

 

L'Ora del male

mar 042021

"Un colpo secco squarciò il silenzio, che si frantumò ai suoi piedi come schegge di vetro, quasi avesse nevicato. Çelo Mezani sbarrò gli occhi, simili a bottoni neri, che gli stavano uscendo davvero dalle orbite. L’uomo che gli stava davanti gli entrò dritto in testa attraverso quelle due fessure. La fustanella era bianca come la brina di quel limpido mattino, le opinga avevano in cima due pompon rossi come il sangue che gli aveva scaldato il petto, le calze bianche sparivano all’interno del gonnellino che gli ricopriva le ginocchia. Sulla camicia dalle ampie maniche indossava uno xhamadan nero carbone, come i capelli della figlia che lasciava a casa senza un marito. Tra le maniche larghe dello xhamadan, alcuni fili d’oro strisciavano come serpenti. Il cinturone scuro, arricchito da fili argentati, si raccoglieva intorno alla vita di quello spilungone. Dall’interno del cinturone faceva capolino soltanto l’impugnatura di una rivoltella, sulla quale vi era incisa la testa di un toro. L’altra arma la teneva nella mano destra che, indebolita dallo sparo, penzolava in basso, mentre il sudore grondava a terra, aprendo piccoli solchi nella polvere. Era un bell’uomo, con un paio di grossi baffi che riposavano sulle guance non rasate da giorni, ricoperte da spine grigie. I lunghi capelli, simili a sterpi, gli ricadevano sulle spalle. Da tempo si erano ingrigiti. Sulle labbra carnose vi era un naso dal dorso sporgente."undefined

L'epoca che fa da sfondo a questo L'Ora del male di Tom Kuka, (Besa Muci 2021) non ha tempo. Sembra essere quasi sospesa, in un periodo senza inizio e senza fine. Armi e vendetta sono le caratteristiche dominanti del periodo storico e Sali Kamati, nobile e ricco ereditiero, si vede costretto a redimere il sangue del fratello ucciso per difendere la propria onorabilità e quella della sua famiglia. Dirja, sua moglie, sente che molto presto, terribili fatti funesti si abbatteranno sulla sua famiglia. "Gli uccelli del malaugurio, appollaiati sul platano del giardino, proiettano un’ombra oscura sul protagonista che si prepara a morire non prima di aver messo in ordine i suoi affari".

Le cose, in verità, non andranno proprio così. Il fato si evolverà in maniera completamente differente: l’arrivo di Tusha, la “merla di
montagna”, porterà scompiglio, ossessione, vergogna e maldicenza che si diffonderanno come la più terribile delle pandemie. 

L'atmosfera che avvolge il romanzo di Kuka è pura magia. I personaggi, tutti ben disegnati, devono fare i conti non solo con l'oggettività degli avvenimenti, ma anche con quella che è la loro parte più intima e i propri demoni interiori. 

Bella la penna dell'autore, che nella sua elegante linearità, consegna al lettore un libro pregno di significato, di grandi spunti di riflessione e di ottima leggibilità.

"Un’epopea eroica che unisce toni cupi e delicate sfumature liriche restituendo al lettore un affresco dell’animo umano nelle sue pieghe più insondabili e nascoste".

                                                                                                                                                                   U Calamaru

Intervista allo scrittore Ardian - Christian Kyçyku

mar 042021

Ardian-Christian Kyçyku o Kuciuk (Pogradec, 23 agosto 1969), scrittore di espressione albanese e rumena, autore poliedrico di oltre 50 opere originali (romanzi, prose brevi, drammi, sceneggiature, traduzioni e saggi). Pluripremiato per i suoi romanzi, in Albania, Kyçyku è anche un profondo conoscitore dei Balcani (co-fondatore dell’Istituto di Studi balcanici “Hæmus” e dell’omonima rivista, di cui è anche direttore e redattore). La sua prosa visionaria può essere accostata a quella di Kafka, Kadarè, Buzzati o Murakami, attinge a un immaginario più balcanico che albanese ma aspira chiaramente all’universalità. Autore de L'anno in cui fu inventato il cigno (Besa Muci 2021), in questa interessante intervista, si racconta e ci racconta. Buona lettura. 

Parliamo de L'anno in cui fu inventato il cigno. Perché decidi di scrivere questo libro?
 
È il mio primo libro scritto direttamente in romeno. Sono passati 25 anni da allora. L'ho scritto tra il 7 ed il 18 febbraio 1996, a Bucarest. Ha avuto un'accoglienza straordinaria, non soltanto perché "figlio" di un autore straniero. Dopo questo libro ho scritto Il dolce mistero della follìa (33 prose), Una tribù gloriosa e morente - l'epopea di un oblìo. Sono tutti romanzi autoconclusivi che possono essere letti separatamente, ma anche come una trilogia, definita dalla critica "la nuova mitologia balcanica". Non si tratta di una decisione propriamente detta, ma di una reazione naturale a una scintilla di ispirazione. Di solito circolano due tipi di libri sul periodo della dittatura: una parte trasmette eventi che vanno oltre la letteratura, un'altra tratta le cose con un umorismo dubbioso che, invece di ravvivare il naturale, minimizza la sofferenza ed il male causato dall’uno all'altro. Entrambe le opzioni sembrano togliere il diritto di parlare e di testimoniare a coloro che non hanno sofferto gravemente, non hanno torturato nessuno, e nonostante tutto non hanno vissuto tranquillamente. Da qualche parte questi ultimi li ho chiamati "sofferenti di seconda linea", considerati dalla stessa collettività odierna come esseri di seconda mano. Queste persone, in verità, rappresentano la maggioranza taciturna, spesso riconosciuta nel popolo. E poiché nel tempo si è creata la psicosi, di quella meritocrazia che consiste nell'essere ricompensato tanto quanto hai sofferto, quelli di seconda linea sono emarginati, come se non esistessero, non avendo diritto di dire nulla. Ma se tacessero sempre, come potrebbero mai vedersi  le grandi sofferenze di alcuni ed il profitto di altri?! Non bisogna dimenticare che “il popolo”, oltre alle sofferenze provocate dalla dittatura, ha affrontato più direttamente le sofferenze immutate, eterne dell'esistenza, nonché le sorprese a volte amarissime dell'amore, della povertà, dell'anonimato, dei traumi delle mutazioni,  dell’ età, dell'ansia di essere arrestati, distrutti, ecc. Ovviamente non ho parlato a loro nome, ma ne ho descritto la situazione. Vivendo nell'ombra, la sofferenza li ha scelti per capire più di chi era direttamente in conflitto. Non erano indifferenti, ma vivevano in un destino comune. E spesso la sofferenza inaspettata si trasformava per loro in un'iniziazione. Il tormento del corpo  li ha spinti nei misteri dell'anima. Oggi sono rimasti gli stessi: non pretendono nessun favore, nessun diritto, nessun colpevole, nessuna ricompensa.

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Gli spazi temporali contenuti nel romanzo, sono diversi e indefiniti, pur rimanendo ben collocati in un unico mondo. Questo, in parte, permette al protagonista di assumere una concreta consapevolezza dello status del proprio paese. Pensi che sia necessario perdersi nei tempi e nelle epoche per fare pace con la propria storia?
 
Il protagonista è troppo giovane per divenire un essere politico. Forse geneticamente non ha fretta di entrare nella vita della “città”. In un paese in cui i bambini, come si diceva, prima sillabavano parole Partito-Enver, poi Padre-Madre, vuole innazitutto amare ed essere amato. È intrappolato nelle reti uniformizzanti del sistema, e viene catturato proprio al confine tra l’amore e la società. Viene arrestato, accusato di voler abbandonare la Patria (rischia di essere condannato a molti anni di carcere per alto tradimento). Così finisce la fuga in cui viveva. Nella cella, riceve un colpo ai genitali, probabilmente un avvertimento del tipo “Se non obbedisci, sarai lasciato non solo senza amore, ma anche senza prole. La tua razza scomparirà e da te uscirà solo l' ultimo respiro. Non essendo coinvolto nella nostra politica visionaria, che ispira tutto il proletariato mondiale, sarai come se non fossi mai nato". Il giovane cade dall'anima nel corpo, per così dire; dalla poesia vissuta istantaneamente e spontaneamente, forse ancestrale, di un mondo come Dio lo ha creato, in una vita quotidiana composta e guidata da persone, la maggior parte atee. Anche se strombazzano di aver creato un mondo nuovo, diverso da tutti gli altri, non credono in un altro mondo e quindi sono spietati e insaziabili. Sono convinti che, avendo il potere, abbiano il diritto di avere tutto. Diventano così schiavi della forza e gradualmente finiscono per lacerarsi tra di loro ferocemente. La cosa peggiore sotto una dittatura è la convinzione di molti che il passato sia stato sconfitto, il presente sia nelle mani più sicure possibili e il futuro non possa che essere luminoso. Sembra quasi di essere  costretti a vivere tre volte nello stesso presente. La caduta apre al protagonista gli spazi del passato che dimostrano come un’epoca gravemente malata, più agisce contro l'uomo, indipendentemente dalla sua durata, più diventa banale. Il personaggio di un altro libro dice ai potenti del giorno "Mi dispiace che vi scorderà la gente e non l'inferno". Personalmente avevo vissuto un'esperienza simile, chiarita dopo essermi recato in esilio (culturale, non economico o politico). Sono stato espulso dalla vita quotidiana del mio Paese in uno spazio conosciuto solo da libri e testimonianze, con molto tempo a disposizione. Il primo periodo di esilio è, infatti, un grido nel deserto, come un canto del cigno lasciato senz'acqua. Il mio grido è stato ascoltato e, libro dopo libro, sono stato accolto nella sfera della memoria, dove i tempi si combinano e rivelano all'anima cose senza le quali non si potrebbe sopravvivere. Ho descritto questa mia condizione in numerosi libri, in albanese e/o in romeno. Sente che non appartiene più a sè stesso, diventa testimone, ma solo per trasmettere ad altri certe essenze o domande. Fortunatamente, più le domande diventano globali, più le risposte rimangono individuali.

Simbolo enigmatico e spettrale della rivelazione è il cigno del titolo, fragile, ma irriducibile sfida alla mostruosità della Storia e alla degradazione dell'umano. Non è una sfida tra buoni e cattivi, ma più un estremo tentativo di riscatto. Sbaglio?
 
La letteratura autentica e devota può raggiungere l'area delle sfumature superiori e definitive, dove si può vedere chiaramente la differenza tra un ruolo ben definito e le qualità soggettive. Le persone si muovono in una profonda ignoranza di se stessi, più grave della cecità, e molto spesso non capiscono o rifiutano di accettare perché hanno agito in un modo o in un altro. Il cambiamento sociale, tutto di breve durata, modifica spesso la nostra percezione della contemporaneità e dell'esistenza. Il male, in realtà, esiste, sia come funzione che come verità, a seconda della realtà di un ruolo e del ruolo di una realtà. Un esempio, potrebbero essere gli attori, siano essi di talento o mediocri, che hanno interpretato testi completamente dannosi del realismo socialista e che hanno contagiato le coscienze di diverse generazioni di spettatori. Il declino si ottiene principalmente attraverso l'uso dei simboli. Di solito, le persone indossano una certa avidità primitiva, per lo più biologica, in abiti di alti ideali, qualcosa del tipo: "La città era abitata da rettili velenosi, ma sullo stemma aveva l'aquila, la tigre, il piccione, il leone, ecc." Quindi i simboli vengono imposti proprio con l'aiuto della parte biologica degli individui che, nel loro profondo, difficilmente possono attendere un ideale e, soprattutto, la traduzione dei bisogni primari del corpo come ideali. Un simbolo è preso come verità, realtà – e chiunque può vedere, anche vivere, ora o più tardi, ciò che segue.
 
Mi interessa sapere la tua opinione sulla situazione in Albania oggi
 

La mia Albania è spirituale, composta da numerosi strati di epoche e di testi. Ho lasciato l'Albania quasi trent'anni fà - un’intera vita ormai. A trent'anni molti scrittori sono già morti. Forse ti deluderò, ma non credo che lo scrittore debba esprimersi su temi che si evolvono sotto un'altra stella, diversa da quello della letteratura. Abbiamo visto più di una volta come il coinvolgimento degli autori nella politica del giorno, - ricordiamo solo i rappresentanti del realismo socialista, - non solo decima l'autorità dello scrittore, ma può portare ad una società che fa tutto il possibile per prendere in ostaggio la vera letteratura. Questo è anche il caso di alcune delle letterature balcaniche e oltre. Grandi opere sono scritte e pubblicate in condizioni quasi altrettanto difficili, se non più difficili, che sotto la dittatura. Dato che l'idolatria, sostenuta da una complessa rete di inerzie, è, di fatto, una dittatura di altre proporzioni e anche più longeva. In questo contesto, l’attività della vostra casa editrice merita tutta la gratitudine degli scrittori e dei lettori devoti. Vado in Albania ogni volta che posso e ogni viaggio è una rivelazione per me. Non vengo accolto come un figlio perduto, ma come un prescelto. Con tenerezza, senza parole o gesti descrittivi, forse per non essere grato per l'obbligo. È come se non me ne fossi mai andato. Non è un gioco di parole, se dicessi: ogni volta che torno, non me ne sono andato. Sono anche imbarazzato nel dire quanto mi sento fortunato. E scrivo.

              Intervista tradotta dal romeno da Kopi Kyçyku                                                                                                                                                                                                                                                                              U Calamaru

L'anno in cui fu inventato il cigno di Ardian-Christian Kyçyku

mar 042021

"L’ultimo avvenimento rumoroso a pungere il cuore invecchiato della città, da tanto tempo esausto, era stato uno sparo: un proiettile impaurito, uscito dal primo fucile – il fucile era stato appena inventato – serpeggiò in aria come un pensiero raggelato e fece inaspettatamente un terzo occhio a uno dei nostri ubriaconi apolitici, uscito a vedere come se ne andavano, trascinandosi stancamente, i nemici. Erano venuti avvolti in un’orgia di colori e metalli rilucenti, con dei cannoni giganteschi, che avevano mandato all’aria le case sul limitar del lago; c’erano stati per quasi mezzo millennio, in città; avevano portato con sé i loro cibi inebrianti, i loro canti, le loro puttane, finché non avevano seminato un po’ di tutte queste cose anche nelle nostre anime, avide di comunicare con qualunque cosa venisse da fuori. Più tardi, quelle difficoltà profondamente umane – e che, nella maggioranza dei casi, è bene condividere proprio con coloro con cui niente hai in comune – resero possibile che non si distinguesse più chi era del posto e chi “l’antico nostro fratello venuto di lontano”.

 

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L'anno in cui fu inventato il cigno di Ardian Christian Kycyku è ambientato a Ocrida (si pensa possa essere Pogradec, città natale dello scrittore), si apre con l'omicidio misterioso di un uomo durante il dominio turco in Albania. La città, le sue caratteristiche e in particolare i suoi corsi d'acqua costituiscono gli elementi principali del racconto. 

La fascia di ambientazione temporale cambia: uno studente, dopo una notte passionale va a rinfrescarsi, ma la polizia pattuglia il lago e in seguito a un illegittimo sconfinamento a nuoto di chissà chi, arresta chiunque passi da quel posto. Così, il giovane si ritrova in una buia cella, con la pesante accusa di tradimento e tentativo di espatrio. La prigionia è molto evocativa: la cella rappresenta la metafora sia della città, che dell'Albania durante il regime dittatoriale, vissuta come prigione, terra martoriata e fonte di grande oppressione. In questa posizione di prigioniero, il protagonista assume la piena consapevolezza della situazione - condizione della sua terra e la acquisisce ancora di più grazie alla "sfasatura temporale" in cui si ritrova. Ed è proprio in questa condizione che si riaffaccia la necessità e l'urgenza di riscatto, che emerge la voglia di una reinvenzione del mondo e della stessa Albania. Il cigno diventa il simbolo di una sfida lanciata all'insensatezza della Storia e alla degradazione dell'umano. 

L’anno in cui fu inventato il cigno (Anul în care s-a inventat lebăda, 1997) è il primo romanzo scritto in rumeno da Ardian-Christian Kyçyku o Kuciuk (Pogradec, 23 agosto 1969), scrittore di espressione albanese e rumena, autore poliedrico di oltre 50 opere originali (romanzi, prose brevi, drammi, sceneggiature, traduzioni e saggi). Pluripremiato per i suoi romanzi, in Albania, Kyçyku è anche un profondo conoscitore dei Balcani (co-fondatore dell’Istituto di Studi balcanici “Hæmus” e dell’omonima rivista, di cui è anche direttore e redattore). La sua prosa visionaria può essere accostata a quella di Kafka, Kadarè, Buzzati o Murakami, attinge a un immaginario più balcanico che albanese ma aspira chiaramente all’universalità.

Kycyku consegna al lettore un romanzo forte e potente nella sua interezza, che offre grandi spunti di riflessione sulla situazione dell'Albania presente e passata e soprattutto sulla voglia di redenzione di un paese martoriato. Lo stile dell'autore albanese, che vive ormai da anni a Bucarest, è armonico e l'equilibrio tra le parole e i concetti espressi è di altissimo spessore. Kycyku narra, senza paura di ferire e senza essere mai giudicante. Quest'ultima caratteristica nasce dalla convinzione dell'autore di dover lasciare al lettore la possibilità di chiudere il cerchio e di dare una libera interpretazione ai fatti. Perché, come lo stesso scrittore dice "la letteratura è libertà".

                                                                                                                                                                            U Calamaru

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