Il Calamaio Bianco

Tra le righe dell'Albania

Lettera d'amore, la poesia di Sylvia Plath

apr 012019

Non è facile dire il cambiamento che operasti.

Se adesso sono viva, allora ero morta

anche se, come una pietra, non me ne curavo

e me ne stavo dov’ero per abitudine.

Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no-

e lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo

di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,

di comprendere l’azzurro, o le stelle.

Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente

mascherato da sasso nero tra i sassi neri

nel bianco iato dell’inverno-

come i miei vicini, senza trarre alcun piacere

dai milioni di guance perfettamente cesellate

che si posavano a ogni istante per sciogliere

la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,

angeli piangenti su nature spente,

Ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.

Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.

E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.

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La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,

e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada

limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte

pietre stolide e inespressive,

Io guardavo e non capivo.

Con un brillio di scaglie di mica, mi svolsi

per riversarmi fuori come un liquido

tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante

Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.

Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.

La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.

Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:

un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.

Da pietra a nuvola, e così salii in lato.

Ora assomiglio a una specie di dio

e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima

pura come una lastra di ghiaccio. E’ un dono.

 

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