Il Blog di Anna Stella Scerbo

Uomini e donne del Mezzogiorno: mito, letteratura, storia

Leggende di Calabria appese al filo della Storia ( seconda parte)

dic 282021

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Chista è a storia do Re Niliu
chi ppe amure e na cotrara
allu sule si squagghiau cumu la cira

A regina ppe a cotrara nun vulia.
Ma Niliu, nnamuratu, ull'ascultau
e a mamma mbelenata u smalediu.

Smaledittu mu si, si iddra ti pigghi
cumu a cira mu ti squagghi
quandu u sule ti cogghe.

E Niliu nummu u sule l'adducia
a na cambera scura si stapia
alla marina a cotrara sinde jiu
e ddra nu picciuliddu partoriu. […]

Niliu, era un gran bel ragazzo, soprattutto era figlio di re. Soprattutto non poteva, proprio non poteva, innamorarsi di fanciulla che non fosse del suo rango. E invece, come capita, e non solo nelle leggende, il bel rampollo si perse d’amore per una giovane popolana. Per lei sfidò le ire della famiglia e, cosa terribile, sfidò la maledizione della mamma: “Ti scioglierai come cera sotto i raggi del sole”.

 

                                                                                    ***

 Ancora una leggenda della nostra terra. E questa volta, un filo tenace con il mito. Siamo nella terra del popolo dei Feaci, fascia centrale della Calabria, compresa tra i golfi di Squillace e di S. Eufemia. Capitale di questa terra è Tiriolo. Qui vissero, nel loro palazzo delle meraviglie, re Alcinoo e sua moglie Arete. Qui Ulisse fu loro ospite e qui Demodoco, cantore della corte, cieco per volere divino, si immagina abbia cantato di Niliu all’ospite perché ne fosse rallegrata la serata, una delle tante che l’Odisseo trascorse a Tiriolo.

Di leggenda però si tratta e pensate, che nonostante le determinazioni del professore Armon Wolf, dell’Università di Francoforte, ancora oggi, Tiriolo e Marcellinara si contendono la verità, quella storica naturalmente, e pare addirittura che la capitale dei Feaci, non sia stata né più in alto, né più in basso delle sedi animate dal contenzioso.

                                                                        ***
Torniamo al nostro Niliu. Dunque, il giovane principe, innamorato e infelice, incontrava la sua amata, in un cunicolo dentro al monte Tiriolo che era una via naturale e nascosta per arrivare al mare, nei pressi della fonte del Corace. Era il canto del gallo ad avvertire Niliu del sole nascente. Il principe tornava alla corte prima che potesse correre il rischio di sciogliersi ai raggi dell’astro. La storia d’amore continua, nasce un bambino. Qualche maligna divinità fa tacere il gallo in una mattina di morte. Niliu esce dal cunicolo. Le sue membra si indeboliscono, si deformano in masse molli e gelatinose. Ha appena il tempo, disperato e col fiato stanco a dire al suo servo di voler lasciare le sue ricchezze al diavolo che del giovane possente e bello resta una larga chiazza molle sul terreno.

                                                                               ***

Grande verdeggia in questo e d’ampie foglie
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe
La temuta Cariddi il negro mare.
Tre fiate il rigetta, e tre nel giorno
L’assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi
Non t’accostar mentre il mar negro inghiotte;
Ché mal saprìa dalla ruina estrema
Nettuno stesso dilivrarti.

 

Questo è scritto nel XII canto dell’Odissea. La traduzione è di Ippolito Pindemonte. Ad Ulisse non mancavano certo le emozioni forti e una la visse quando fu costretto a salvarsi, sulla punta dello stretto di Messina, da Cariddi.

Creatura mostruosa, figlia della terra e di Poseidone, voracissima al punto da divorare le mandrie di Gerone quando il malcapitato si trovò a passare da lì. Zeus, che in quanto a fulmini non si faceva pregare, ne scagliò uno a Cariddi per punirla. La voracità non le passò, ma, una volta trasformata in mostro, tre volte al giorno ingurgitava enormi masse d’ acqua con tutto quello che sull’ acqua si trovava, navi e marinai compresi. Ulisse, che già una volta era scampato al pericolo, si aggrappò ad un albero di fico, maestoso e forte all’ ingresso della spelonca del mostro, ed ebbe salva la vita.

 

                                                                       ***

Dall’altra parte havvi due scogli: l’uno
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge
Né su l’acuto vertice, l’estate
Corra o l’autunno, un puro ciel mai ride.
Montarvi non potrebbe altri, o calarne,
Venti mani movesse e venti piedi:
Sì liscio è il sasso e la costa superba.
Nel mezzo, volta all’occidente e all’orco,
S’apre oscura caverna[…]
Scilla ivi alberga, che moleste grida
Di mandar non ristà. La costei voce
Altro non par che un guaiolar perenne
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce
Mostro, e sino ad un dio, che a lei si fesse,
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo.
Dodici ha piedi, anterïori tutti,
Sei lunghissimi colli, e su ciascuno
Spaventosa una testa, e nelle bocche
Di spessi denti un triplicato giro,
E la morte più amara in ogni dente.
Con la metà di sé nell’incavato
Speco profondo ella s’attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que’ mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.

 

Scilla viveva in Sicilia, e in quel clima dorato di sole, fare il bagno sulla spiaggia di Zancle, era per lei, diletto grande. Erano i tempi in cui dalle onde era facile che apparisse un qualche dio dalle fattezze strane. E così fu.

Una sera, mentre la ninfa era sulla spiaggia, vide apparire dalle onde, Glauco, figlio di Poseidone, dio marino metà uomo e metà pesce. Scilla, ne rimase terrorizzata e si rifugiò sulla vetta di un monte appena dietro alla spiaggia. Il dio, invece, rimase  infatuato da Scilla. La implorò, le urlò il suo amore ma niente, la ninfa continuò a fuggire, lasciando il povero Glauco piangente. Piangente ma non rassegnato anzi, deciso ad averla vinta sul testardo rifiuto di Scilla.

Si recò all'isola di Eea, presso la maga Circe e volle da lei un filtro d'amore. Circe, (cosa non messa in conto dal dio) era innamorata persa proprio di lui. -  “ Prendi il mio amore, Scilla non ti merita”- è lei che voglio, non te”- Non si è mai saputo di una donna, maga o non maga, che se ne sia stata buona dopo avere incassato un rifiuto d’amore. Circe preparò una pozione per vendicarsi dell’affronto s e si recò alla chetichella, presso la spiaggia di Zancle, versò il filtro in mare e ritornò alla sua dimora.

Scilla, ignara, entrò nell’ acqua. Mostruose teste di cani sorsero intorno a lei, fuggì al largo, i cani la seguirono. Quale orripilata meraviglia essere  ancora ninfa fino al bacino ma al posto delle gambe, attaccati al resto del corpo con un collo serpentino, vedere spuntare sei musi feroci di cani.

Scilla andò a vivere nella cavità di uno scoglio che da lei prese il nome. Questa è la versione che va per la maggiore. Secondo altri, a volere infierire su Scilla era stata Anfitrite che rifiutata da Poseidone, innamorato invece di Scilla, aveva chiesto a Circe la pozione malefica, causa dell’orrenda trasformazione della ninfa. Sempre di vendette d’amore si tratta. E Scilla

Con la metà di sé nell’incavato
Speco profondo ella s’attuffa, e fuori
Sporge le teste, riguardando intorno
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote
Di que’ mostri maggior che a mille a mille
Chiude Anfitrite nei suoi gorghi e nutre.
Né mai nocchieri oltrepassaro illesi:
Poiché quante apre disoneste bocche,
Tanti dal cavo legno uomini invola.
                                                        ***

L’intreccio tra leggenda e mito è fuori discussione. Per quanto possano essere netti i confini tra di essi, per quanto la definizione di ognuno di essi abbia caratteri propri e incontrovertibili, a noi piace pensare che a tenerli insieme siano la narrazione, il rimandare e il tramandare il senso profondo di ciò che è stato raccontato.

 

 

 

 

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