Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Fortuna e/o merito, partendo da Victor Hugo, Seneca, Woody Allen, Vecchioni..

ott 192023

 

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Victor Hugo parla di successo nel 1862 ne “I Miserabili”, volume I, cap. XII:

 

“Riuscire: ecco l’insegnamento che cade, a goccia a goccia, a strapiombo dalla corruzione. Sia detto di sfuggita, il successo è una cosa abbastanza odiosa. La sua falsa somiglianza con il merito inganna gli uomini. Per la folla, la riuscita ha quasi lo stesso profilo della supremazia. Il successo, questo sosia del talento, ha un solo zimbello: la storia. Ai nostri giorni una filosofia quasi ufficiale è entrata in dimestichezza con il successo. Riuscite: è teoria. Prosperità presuppone capacità. Vincete alla lotteria: siete un uomo abile. Chi trionfa è venerato. Nascete con la camicia: tutto vi sarà dato. Abbiate fortuna, avrete il resto; siate felice, vi crederanno grande. L'ammirazione contemporanea non è che miopia”.

 

 

 

 

Per gli indiani esiste il karma: se sei povero e malato, è semplicemente perché ti sei comportato male nelle vite precedenti. Per i calvinisti se hai denaro e successo, è perché sei in grazia di Dio, perché sei un eletto. Gli antichi greci credevano fermamente nel Fato, che sovrastava il volere e le capacità degli uomini.

Si pensi al valorosissimo Aiace che difese il cadavere di Achille, ma Ulisse con la sua furbizia riuscì ad avere le armi del defunto; Aiace impazzì e massacrò un gregge di pecore, credendole soldati nemici, e poi si suicidò per la vergogna. Roberto Vecchioni negli anni Settanta scrisse appunto un'ironica canzone su Aiace, di cui riporto il testo:

 

"E non sembravi più nemmeno quello

che dalle porte esce guardando il cielo

gridava a Dio con tutta la sua voce

"Sterminaci se vuoi, ma nella luce..."

E il mare grande quando vien la sera

e Dio è lontano per la tua preghiera

qui c'è chi parla troppo e c'è chi tace

tu sei di questi, e al popolo non piace

Chi ha vinto è là che che vomita il suo vino

e quel che conta in fondo è l'intestino

 

la la la la la la Aiace la la la la la la

la la la la la la Aiace la la la la la la

la la la la la la Aiace la la la la la la

la la la la la la Aiace la la la la la la

 

E il coro degli Achei che si diletta

hai perso e questo è il meno che ti aspetta

ti stanno canzonando mica male

vai un po' a spiegare quando un uomo vale

Dovevi vincer tu, lo sanno tutti

tu andavi per nemici e lui per gatti

ma il popolo è una pecora che bela

gli fai passar per fragola una mela

Chi ha vinto è là che che vomita il suo vino

e quel che conta in fondo è l'intestino

 

la la la la la la Aiace la la la la la la

la la la la la la Aiace la la la la la la

la la la la la la Aiace la la la la la la

la la la la la la Aiace la la la la la la

 

E tu fai fuori mezzo accampamento

ne volano di teste cento e cento

salvo far l'inventario e veder poi

che non sono i tuoi giudici, son buoi

Allora per un mondo che è un porcile

ti val bene la pena di morire

dimmi cosa si prova in quel momento

con la spada sul cuore ed intorno il vento

Fa grande sulla tenda le ombre il fuoco

ma dai, che è stato solamente un gioco

 

la la la la la la Aiace la la la la la la

la la la la la la Aiace la la la la la la

la la la la la la Aiace la la la la la la

la la la la la la Aiace la la la la la la"

 

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Si apre con questa riflessione il film del 2005 Match Point di Woody Allen: “Chi disse ‘Preferisco avere fortuna che talento’ percepì l’essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no, e allora si perde.“ 

E ancora si pensi che avere talento è una dote innata, quindi una fortuna, anche se il talento va saputo coltivare. Ma bisogna che qualcuno valorizzi e riconosca il talento e qui rientra in gioco la fortuna! 

Per Machiavelli il principe deve avere virtù e fortuna. Per alcuni cattolici secoli fa la peste era una punizione divina, un flagello di Dio! Ma quanto è importante la fortuna nella vita degli uomini? Alcuni credono così tanto nel libero arbitrio, nel merito, nel sacrificio, nell'impegno da sottovalutare il ruolo determinante della fortuna. Costoro non pensano a quanto siamo fortunati quando abbiamo salute. Non pensano che basta una cellula del corpo impazzita a scatenare un tumore. E non dipende da noi. Oh certo dipende anche dallo stile di vita!?! Ma ci sono persone che hanno un cattivo stile di vita e non si ammalano, mentre altre hanno un buon stile di vita e si ammalano! Non pensano costoro -chiamiamoli pure coloro che si credono padroni della loro sorte e artefici del loro destino- a quanto siano casuali gli incontri e gli avvenimenti di ogni vita. Non pensano che siamo insignificanti gocce nel mare. No. Non esistono i self made man. Oh certo bisogna saper sfruttare le occasioni! Non bisogna perdere i treni giusti! 

Oh lo so?!! Le persone che si sentono arrivate non fanno che citare la frase di Seneca: "La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione”. Ma quante cose sono andate bene e che non dipendevano da lei nel destino di una persona di successo? Ai fattori esterni e la casualità queste persone così sicure di sé non si soffermano mai a pensare. In fondo nascere in un paese ricco invece di uno povero, nascere da genitori benestanti e che ti amano invece che da genitori poveri e che ti maltrattano, nascere sani invece che malati, nascere intelligenti invece che stupidi, incontrare le persone giuste nei primi anni di vita invece che le persone sbagliate, essere ricambiati dalla persona di cui si è innamorati o meno non sono tutte cose che rientrano nella fortuna? Purtroppo ci si accorge del ruolo determinante della fortuna solo quando ci manca. Ma questo non significa che esistano anche il merito, il sacrificio, l'impegno. C'è chi crede che tutto dipenda dalla fortuna o dal merito. I pareri sono spesso così polarizzati. No. Non esiste una dicotomia, un aut aut impietoso: non è questione di merito o fortuna, ma di merito e fortuna quando uno riesce. Le due cose non sono mutuamente esclusive. Spesso dipende da entrambe le cose, ma nessun uomo può valutare la vita propria o altrui obiettivamente: lo può fare solo Dio, se esiste. Spesso quando uno riesce nella vita è perché ha fatto tutto bene ma anche perché gli è andato tutto bene. È difficilissimo valutare quanto in ogni vita pesino il merito e la fortuna. Ci sono gli arrivati presuntuosi che pensano che tutto sia merito loro, ma ci sono anche invidiosi e maligni che pensano che un uomo abbia avuto successo solo perché fortunato. Per la psicologia chi ha un locus of control interno, cioè chi pensa che la vita dipenda dalla sua volontà più che da fattori esterni, ha una maggiore autoefficacia e raggiunge più frequentemente gli obiettivi prefissati. Ma la psicologia ha anche scoperto l'errore fondamentale di attribuzione, cioè la tendenza sistematica delle persone di attribuire la causa di un'azione all'individuo invece che a fattori esterni, anche quando oggettivamente non è così. Ci sono molte ricerche che lo confermano e sembra che l'errore fondamentale di attribuzione sia più frequente nelle culture individualistiche, come in quelle occidentali ad esempio. Ancora una volta abbiamo casualità versus causalità! Però dobbiamo smetterla di pensare che sia esclusivamente colpa sua se a qualcuno le cose nella vita vanno male! Insomma i fattori in gioco, sia interni che esterni, nella vita sono tanti. Ecco perché Darwin non era un darwinista socioeconomico a differenza di Galton e altri. 

 

"Il maestro di Vigevano" di Mastronardi in estrema sintesi...

ott 042023

 

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Torno di nuovo su “Il maestro di Vigevano” di Mastronardi, a cui ho accennato più volte nei miei scritti, ma che non ho mai trattato pienamente. Innanzitutto questo romanzo è potente perché tocca le corde del cuore, entra nel profondo dell’animo. È una disamina accurata, oserei dire uno studio chirurgico delle convenzioni, delle regole, della mentalità piccolo-borghese, che il protagonista, per l’appunto un maestro di provincia, chiama “catrame”. La questione principale è che per togliere il catrame si finisce per togliere la pelle, dato che la mentalità piccolo-borghese è l’essenza stessa di certe persone, che si identificavano e che ancora oggi si identificano in essa, al punto che il discostarsi un minimo da essa è considerata una minaccia alla loro identità psicosociale.

Viene da chiedersi se il protagonista del libro sia un alter ego di Mastronardi, anche lui maestro, che fu un tipo alquanto singolare, un caratteriale e venne addirittura condannato perché aveva offeso un ferroviere su un treno, dandogli del “terrone”. La trama del romanzo è nota a molti perché è stata fatta una trasposizione cinematografica dal regista Elio Petri, mentre Alberto Sordi impersonava il maestro Mombelli. Comunque in poche righe, il maestro ha una moglie e un bambino piccolo. Vive a Vigevano, dove c’è il boom economico e molti si arricchiscono a fare scarpe. La moglie quando i due vanno in paese elenca al marito tutti quelli che, partendo dal niente, si sono arricchiti.

Il meccanismo psicologico è quello della deprivazione relativa: moglie e marito pensano che gli altri abbiano ingiustamente un benessere che loro non hanno e ritengono che questi arricchiti non abbiano nessuna qualità interiore o intellettiva superiore a loro. Il grande scrittore fa la distinzione tra “chi sa” e “chi guadagna” e non sempre le due cose corrispondono, soprattutto se si ha una formazione culturale umanistica. Alla fine la moglie lo convince a mettersi in proprio. Così i due osano, come se mettersi in proprio fosse solo questione di avere una certa propensione al rischio. Lui si licenzia e coi soldi della buonuscita apre un’attività. Ma parla troppo a una cena con gli ex colleghi. Viene registrato, mentre parla delle irregolarità che commette in azienda.

Insomma ha spifferato tutto in piazza. I tre soci vengono convocati dall’avvocato e l’ex maestro deve andare a Canossa e cospargersi il capo di cenere. Insomma è tutta colpa sua. Lui che faceva l’impiegato nella sua ditta ora è costretto a ritornare di nuovo a scuola. Sua moglie muore e mentre sta morendo confessa di averlo sempre tradito, che quello che considerava suo figlio è di un altro. Il figlio inoltre viene sorpreso a commettere atti osceni in luogo pubblico con un pederasta e viene anche denunciato per aver percosso un anziano. Tutto va a rotoli. Il decoro di quest’uomo viene distrutto, annientato, annichilito. La genialità di Mastronardi si vede non solo per come mette in scena la borghesia di quegli anni (il libro uscì nel 1962, ma è ancora attuale), ma anche per come vengono descritte le passeggiate del maestro, le sue sensazioni, la descrizione del fiume Ticino.

Però questo romanzo non è solo il resoconto di un tracollo morale ed economico, è anche la rappresentazione di un uomo, un piccolo intellettuale di provincia, che è troppo lucido e disincantato; forse il suo dramma è tale non solo per la sua sconfitta sociale ma anche per la presenza di una coscienza sempre attenta e vigile. La fine del romanzo è probabilmente un nuovo inizio, più che l’inizio della fine, poiché il maestro è pronto a risposarsi e a ricadere, a ripiombare di nuovo nel mondo piccolo-borghese. Insomma non c’è via di uscita, dato che chi è borghese, a meno che non venga arrestato, resta borghese per tutta la vita. Quel mondo chiuso e angusto, diremmo oggi in modo più moderno, è troppo rassicurante, è una comfort zone, una sicurezza, a cui pochi vogliono rinunciare. Un libro da leggere assolutamente. Un capolavoro, senza se e senza ma.

 

Scrittori e Nord-Est

ott 022023

 

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Innanzitutto non sappiamo neanche chi ha creato l’espressione Nord-Est: forse il giornalista Meccoli, forse lo scrittore Carlo Sgorlon. Insomma la paternità del termine è incerta! A livello letterario il Nord-Est è i Colli Euganei in cui vive i suoi ultimi anni Petrarca; è Goldoni; è "Le confessioni di un italiano" di Nievo, "Le ultime lettere di Jacopo Ortis" del Foscolo, la Trieste di Svevo, Joyce, Saba, i libri di Meneghello, Rigoni Stern, Parise, Berto, Commisso, Buzzati, David Maria Turoldo, Mauro Corona, Tiziano Scarpa, etc etc. Comunque il Nord-Est veniva definito anni fa come la locomotiva d’Italia, come il Giappone d’Italia. Alcuni intellettuali snob lo vedevano come un’area di arricchiti, che si erano dannati per il benessere. Alcuni vedevano questa zona, una delle più ricche della penisola, come una massa di alcolizzati ignoranti, che davano l’anima per la loro "fabbrichetta". È vero che questa zona è passata da essere una roccaforte democristiana a essere un feudo leghista dopo Tangentopoli. È vero che parte della popolazione del Nord-Est odia Roma e il meridione, che vede come una massa di assistiti e mangiapane a tradimento da cui si vorrebbe separare (alcuni gridavano anni fa: "Roma ladrona! Secessione!"), e l’antipatia è ricambiata. In realtà però oltre a un reddito pro capite elevato ad esempio i veneti possono vantare alti punteggi nelle prove Invalsi, molto superiori a quelli della media nazionale, e una percentuale di laureati del 32%, più alta, tanto per dire, del 4% della civile e colta Toscana. Inoltre il Nord-Est si contraddistingue per una grande mobilità sociale: qui meglio che da altre parti l’ascensore sociale esiste e vi sono pochi disoccupati. In quest’area il dipendente può licenziarsi e poi diventare imprenditore. I Benetton e i Del Vecchio sono solo la punta dell’iceberg, perché dietro c’è una realtà industriale consolidata di distretti, di piccole imprese, di artigiani. A onor del vero negli ultimi anni un poco di crisi economica ha investito anche il Nord-Est: si pensi ad esempio anni fa a piccoli imprenditori che scoperchiavano i loro capannoni per non pagare l’Imu. Come si spiega comunque questo miracolo economico? Per molti il lavoro duro dà i suoi frutti a lungo termine. Alcuni scrittori e saggisti, come Giuseppe Genna, ritengono che la Lombardia e il Veneto siano stati influenzati dalla dominazione asburgica e parlano di calvinismo per questa zona. Si riferiscono al legame tra etica protestante e capitalismo studiato da Max Weber. In parole povere le persone cercherebbero a tutti i costi di arricchirsi per sentirsi dei predestinati, degli eletti. Insomma uno lavora, guadagna e per questo si ritiene un prescelto, pensa di essere in grazia di Dio. Non a caso l’economista Giorgio Roverato ha definito l’industriale Pietro Marzotto un "imprenditore calvinista", considerando anche il suo senso di responsabilità e di etica negli affari. Il calvinismo però è una dimensione soggiacente, un influsso segreto e antico, secondo questa scuola di pensiero, che condiziona la mentalità dei veneti ad esempio. Secondo quest’ottica potremmo affermare che in queste zone la popolazione è inconsciamente calvinista per certi tratti, mentre si professa cattolica praticante. Non vi tragga in inganno il romanzo "Va’ dove ti porta il cuore" di Susanna Tamaro, che tratta anche della facoltà di psicologia di Padova negli anni Settanta: una realtà particolare e a sé stante nel mondo veneto. Non vi traggano in inganno le memorie di chi ha studiato a Padova: la realtà studentesca goliardica è una goccia nel mare del pragmatismo e dell’efficientismo veneto. Non vi traggano in inganno le feste dei ricchi di Cortina, né il microcosmo letterario del premio Campiello, né i nobili veneziani che vivono di rendita: il Nord-Est è lavoro duro, ricerca di guadagno a tutti i costi, è gente che fa il doppio e anche il triplo lavoro per arricchirsi! Il miracolo del Nord-Est è dato in gran parte dalla fatica e allo stesso tempo dall’odore di miseria, che veneti e friulani hanno sentito per secoli: basta ricordare che in passato è stato un popolo di emigranti, diffusi in tutto il mondo; basta ricordare le venete che facevano le balie nel Sud o a quante famiglie d’origine veneta ci siano a Latina! Basta ricordare le vicissitudini dei poveri contadini narrate dal Ruzzante! Per lo psichiatra Vittorino Andreoli bisogna però stare attenti, perché il benessere produce anche emarginazione, che a sua volta causa follia. Questo circolo vizioso benessere-emarginazione-follia, teorizzato nel saggio "La violenza", spiega perché nel Nord-Est ci sono tanti giovani fin dagli anni Novanta che muoiono all’alba dal ritorno delle discoteche per incidente stradale, di solito dopo essersi ubriacati e drogati, e spiega anche perché da trent’anni ci sono auto-pirata, che uccidono passanti. Ma perché i figli di industriali, di agiati commercianti e liberi professionisti si drogano? Il Nord-Est si è arricchito molto rapidamente, i genitori sono troppo indaffarati e troppo occupati sul lavoro per pensare ai figli, il brusco passaggio da una società contadina a una realtà industriale ha lasciato alcuni giovani senza valori. Il Nord-Est negli anni Novanta, nonostante fosse una delle zone più ricche d’Italia, era anche caratterizzata da un alto tasso di suicidi tra giovani. Perché giovani che apparentemente avevano tutto finivano per autodistruggersi? Perché nonostante avessero agi, macchine costose, immense comitive, amori facili si suicidavano? A cosa era dovuto questo smarrimento, questo disagio esistenziale, questo senso di vuoto? Il grande poeta Andrea Zanzotto parlava di "progresso scorsoio", di come la corsa agli schei abbia determinato la distruzione del paesaggio e abbia fatto scomparire quella comunità di persone propria della civiltà contadina.

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Eppure il Nord-Est è anche cultura, tradizione; questa zona è anche un luogo dell’anima, un’entità metafisica. Altri profondi conoscitori di quest’area a ogni modo pongono l’accento sulla mancanza di solidarietà e sull’impoverimento delle relazioni umane di questi ultimi decenni. Per lo scrittore Massimo Carlotto, che tramite il noir affronta le problematiche della sua regione con crudo realismo, dietro il benessere del Nord-Est si cela anche la criminalità organizzata. Lo scrittore Vitaliano Trevisan in "Works" tratta anche lui della cruda realtà del Nord-Est, ci racconta dei tanti mestieri fatti per tirare avanti, tra cui anche quello dello spacciatore. Trevisan racconta di come sia stato mandato da suo padre da adolescente a lavorare in fabbrica per lavorare e guadagnare. Ci narra ancora una volta dell’illegalità diffusa. Sempre Trevisan ci spiega quanto sia difficile scegliere di fare lo scrittore in Veneto, mentre tutti pensano a produrre. Ancora una volta gli scrittori odierni dissacrano il sogno del Nord-Est e mettono in evidenza che qualcosa è stato perduto in questo sviluppo così rapido. Da ricordare anche il film di Antonio Padovan "Finché c’è prosecco c’è speranza" che scandaglia certe magagne, certe dinamiche economiche e psicosociali del ricco Veneto. Ah gli schei! Croce e delizia! L’arricchimento smodato e il capitalismo selvaggio in fondo sono un male antico di quest’area: basta vedere il grande monologo civile sul disastro del Vajont di Marco Paolini per farsene una ragione!

Sull'io e sulla poesia di ricerca...

set 202023

 

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Per secoli e secoli i poeti seguivano gli stessi canoni estetici. Rispettavano le regole della metrica. Scrivevano endecasillabi canonici. Talvolta li alternavano con dei settenari. Da Lucini in poi ci fu la diffusione del verso libero. Oggi la stragrande maggioranza dei poeti scrive in versi liberi, va a capo quando vuole. Nel Novecento abbiamo visto molte rivoluzioni copernicane nell'ambito della lirica. Hanno creato nonsense, calligrammi, montaggi. È comparsa anche la poesia concreta (a sua volta suddivisibile in poesia visiva e poesia sonora). Poi nell'epoca del postmoderno hanno pensato anche a delle sperimentazioni multimediali come la poesia elettronica (videopoesia e computer poetry). Da un lato, qui in Toscana, sembrava esserci la riscoperta dell'oralità con l'organizzazione di serate di poesia estemporanea, dove i poeti improvvisavano in ottava rima. Si sono diffusi, in tutta la penisola, anche gli slam poetry, importati in Italia dal poeta Lello Voce. Dall'altro lato sembrava che il virtuale avesse preso il sopravvento sui media tradizionali. Negli ultimi tempi sembra che sia sempre più difficile incasellare la poesia in una definizione, visto e considerato che ogni decennio nasce una nuova forma di poesia. 

I poeti di ricerca sperimentano. Uno dei padri nobili di questa sperimentazione fu Burroughs con il cut-up, che consisteva nel tagliare parole dai quotidiani, mischiare e creare poesie. Oggi i poeti di ricerca utilizzano l'eavesdropping, cioè l'intercettazione di una frase di una conversazione origliata. In questo caso non c'è alcuna autorità autoriale. I poeti di ricerca italiani si rifanno spesso al Flarf, movimento di avanguardia, creato da Gary Sullivan. Quest'ultimo utilizzava Google per scrivere poesie, assemblava i materiali verbali più eterogenei e definiva infatti il Flarf "un PC fuori controllo". Anche i poeti di ricerca nostrani si dilettano nel googlism, cioè nel comporre poesie, assemblando i risultati su un determinato argomento, chiedendo quindi a Google. In questo caso utilizzano l'intelligenza collettiva del web. Ricordo che il primo ad utilizzare il computer, un IBM della Cariplo, fu Nanni Balestrini nel 1962. Il poeta ideò un algoritmo e il computer generò una poesia, che sembra scritta da un poeta umano[1]. I poeti di ricerca si cimentano anche nel New Sentence, ovvero in frasi "paradossali", spesso pseudoaforismi, pseudosentenze. All'estero alcuni autori creano poesie con i messaggi spam di posta elettronica. Sempre all'estero è diffuso il "found poem", che nasce prelevando materiali da varie fonti (discorsi di politici, frasi di film, discorsi di star, eccetera eccetera), talvolta elaborandoli e altre volte no, e mischiandoli assieme. Esistono anche la micropoesia, ovvero un tipo di poesia brevissima al massimo di 140 parole, come i cinguettii su Twitter, e la poesia captcha, in cui estrapolano il testo scaturito dall'omonimo software. Recentemente in Italia il fotografo Silvio Belloni ha ideato la poesia dorsale, che consiste nel creare liriche, connettendo i titoli dei libri. Però la poesia dorsale, per ora, è praticata a livello, diciamo così, dilettantesco. Qualcuno ha sollevato dei dubbi sulla correttezza di questi metodi. Si tratterebbe di parole prese in prestito. D'altronde non esistono regole ferree nella "Fantastica" della poesia: è ammessa qualsiasi tecnica in quella che Rodari chiamava "Grammatica della fantasia". 

Il gruppo 63 voleva ridurre l'io, ma non eliminarlo perché è impossibile. Alfredo Giuliani scriveva nel 1961, introducendo l’antologia de Novissimi, che “La ‘riduzione dell’io’ è la mia ultima possibilità storica di esprimermi soggettivamente“. I motivi di questa riduzioni erano plausibili. Infatti Giuliani continuava così: "Io credo si debba interpretare la ‘novità’ anzitutto come un risoluto allontanamento da quei modi alquanto frusti e spesso gravati di pedagogia i quali perpetuano il cosiddetto Novecento mentre ritengono di rovesciarlo con la meccanica dei ‘contenuti’. Ciò che molta poesia di questi anni ha finito col proporci non è altro che una forma di neo-crepuscolarismo, una ricaduta nella ‘realtà matrigna’ cui si tenta di sfuggire mediante schemi di un razionalismo parenetico e velleitario, con la sociologia, magari col carduccianesimo". I futuristi volevano eliminare l'io lirico[2], usando i verbi all'infinito. La poesia di ricerca[3] vorrebbe escludere l'io lirico. Alcuni autori si lasciano scappare la frase "va eliminato l'io". Siamo sicuri che si tratti solo dell'io lirico? Nutro dei seri dubbi e in questo mio scritto esporrò tutte le mie perplessità. Mi auguro di sbagliarmi. Voglio spiegare i potenziali danni di una eliminazione non solo dell'io lirico ma dell'io freudiano: questo è il grande rischio. Forse alcuni rimarranno delusi per il razionalismo e le verità "lapalissiane" di questo scritto. Mi scuso quindi per le volgarizzazioni e le semplificazioni. D'altronde non sono un addetto ai lavori. La premessa implicita di questo saggio breve è che a mio avviso i poeti di ricerca potrebbero fare meglio, vista e considerata la loro levatura intellettuale e la loro ricchezza di contenuti. In queste righe cercherò di valutare le loro dichiarazioni di intenti e alcuni aspetti della loro poetica. Forse per alcuni filosofeggerò troppo, ma la poesia contemporanea è caratterizzata dall'estrema concettualizzazione. Sicuramente va preso atto che questi autori hanno trovato un nuovo modo di fare poesia. Ma andiamo al nocciolo della questione. Franco Fortini in "Verifica dei poteri" parlava di "mare dell'oggettività" per Calvino e di "cosismo" per Vittorini. Gli stessi termini, a mio avviso, si potrebbero adoprare per la poesia di ricerca, che riduce ai minimi termini la soggettività autoriale. L'io però è una metafora, alla fine: è un contenitore che contiene molte voci. Anche questo bisogna tenerlo presente. La poesia italiana degli ultimi secoli, secondo Guido Mazzoni[4], è figlia dell'egocentrismo, a causa dell'individualismo borghese. Insomma c'è troppo io. Non discuto dell'autorevolezza e della grande competenza del Mazzoni, ma non fidiamoci troppo però di chi usa pronomi diversi dall'io in poesia. Gli altri, il mondo possono essere frutto delle capacità allucinatorie, anche se l'autore può sembrare di primo acchito aperto al mondo. Oppure la narrazione degli altri può essere influenzata in modo determinante da proiezioni ed essere quindi un meccanismo di difesa di un io in crisi. 

Per Marx l'io è determinato dalla formazione economico-sociale, ovvero dalle relazioni sociali, dalla struttura economica, dalla sovrastruttura ideologica. Per Freud l'io ha la centralità nell'adulto, anche se "non è padrone a casa propria" perché subisce l'influsso dell'inconscio e del Super-Ego: è tra l'incudine e il martello. Esiste anche la psicologia dell'io, che è una branca della psicanalisi. Più recentemente è nata anche la psicologia del Sé[5]. Non cito le moderne neuroscienze perché come scrisse Maurice Merleau-Ponty: "L'intero mondo della scienza è costruito sulla vita, eppure la scienza non è stata per nulla capace di illuminare la natura dell'esperienza soggettiva"[6]. 

La poesia di ricerca addirittura tenta con l'asemico[7] di azzerare il significato e di estendere paradossalmente il polisemico. Diciamo che la scrittura asemica è Test di Rorschach per antonomasia. Regna l'inconscio. La coscienza, l'io viene relegato ai margini. Un'altra caratteristica della poesia di ricerca è quella di considerare impoetica l'assertività. Ma ciò non è forse anche esso assertivo? I poeti di ricerca - mi si scusi il gioco di parole - sostengono di non essere assertivi, ma affermando ciò lo sono: si verifica quindi il paradosso del mentitore. Diciamo, più seriamente, che non saranno assertivi nelle loro poesie, ma lo sono troppo nella loro poetica. Inoltre mi sembra che un'altra caratteristica di questo genere di poesia sia la ricerca di provocare lo shock, lo straniamento nel lettore. A mio modesto avviso il pregio della poesia di ricerca è quello di essere un fattore di rottura rispetto alla tradizione, ma non si può imporre come paradigma dominante. Un altro pregio è quello di aver gettato un poco di scompiglio nel panorama asfittico della poesia italiana. Un altro pregio ancora di questi autori è il gusto del divertissement. Mi auguro quindi che non si prendano troppo sul serio e non finiscano nell'accademismo. Il problema è che resta poco, quando prevale il gioco combinatorio dell'autore e scompare l'autore: resta solo l'arte combinatoria e forse è ben poco per rinnovare la poesia contemporanea. 

Apro una parentesi. A Firenze nel 2010 è nata una nuova comunità artistica o aspirante tale: il mep (movimento di emancipazione della poesia). Hanno un loro sito internet e una loro pagina facebook. Fanno volantinaggio. Affiggono le loro poesie sui muri dei vicoli dei centri storici di diverse città. Il mep non sporca i monumenti e gli edifici storici. Per il resto lascia le poesie nei posti più disparati: sui cofani delle macchine, nelle biblioteche, nei bar. Nessuno si firma. Tutti utilizzano un codice sia perché vogliono una poesia spersonalizzata sia perché le affissioni sono abusive. Perciò l'anonimato è un obbligo. Il movimento è formato da universitari, ma non mancano gli studenti delle scuole medie superiori e giovani post-universitari. È nato a Firenze, ma si sta diffondendo in molte città italiane. Staremo a vedere in futuro come si evolverà questo movimento. I giovani del mep non si firmano. In questo caso viene eliminato l'io empirico. Sono anche loro i poeti-massa di cui scrive Ennio Abate. 

Torniamo ai poeti di ricerca, che non si contano certo sulle dita di una mano. In questa definizione possono essere compresi tutti coloro che fanno poesia sperimentale. Sono il contropotere rispetto agli autori Einaudi o Mondadori, ma non è detto che domani siano loro il potere. Sono quindi molti di più di quelli che sono stati canonizzati, ovvero antologizzati dai critici. I migliori in Italia sono quelli antologizzati dal volume "Prosa in prosa", che è un libro divertente, ironico, autoironico, spassoso, caratterizzato da un notevole spessore culturale. Consiglio a tutti di acquistarlo per farsene una idea. Il merito maggiore di questi autori è di aver trasceso lo storytelling così in voga in Italia, come ha evidenziato Paolo Giovannetti[8]. Ma cosa è "la prosa in prosa"? Potremmo, semplificando un poco, definirla come una scrittura che non va a capo e che viene percepita lo stesso da gran parte dei critici e dei lettori come poesia. Tra questi artisti sperimentali ci sono sicuramente delle eccellenze, ma qui vorrei trattare delle loro premesse teoriche. Non voglio lodare nessuno (è innegabile comunque che la qualità letteraria di questa corrente è molto elevata, anche se talvolta di nicchia. I capiscuola di questa corrente sono talentuosi e scrivono magistralmente. Entreranno a pieno diritto nella storia della letteratura) e neanche stroncare nessuno; non ne avrei l'autorità. Vorrei ad ogni modo disquisire sui presupposti teorici senza fare un processo alle intenzioni. D’altronde riflettere su di essi è legittimo, perché nell’arte bisogna sempre valutare la poetica, anche se è la gestalt finale che conta. Vorrei quindi analizzare concettualmente questo tipo di poesia.

A mio avviso i poeti in questione hanno almeno tre cose in comune: il voler sminuire l’io, l’essere raffinati letterati e il raro pregio di essere intellettuali non cortigiani, ma spesso militanti. Direi che questi nuovi poeti cercano un rimodernamento in seno alla “tradizione del nuovo”. Per alcuni la maggior parte della poesia italiana di questi anni è caratterizzata dall'”epigonismo lirico”, ma anche tra i poeti di ricerca e la neoavanguardia c'è una parentela. Anche per il gruppo 63 si parlò di neooggettualismo, ma questo gruppo considerò anche l’arte come “fabbrica di antislogan” e demifistificò la civiltà consumistica, ritenuta alienante e mercificante. Non solo: la Neoavanguardia rifletteva la crisi della società neocapitalista e la crisi dell’uomo moderno. Tutto ciò allora era innovativo. Una cosa che non mi convince nella poesia di ricerca è la considerazione negativa della poesia lirica, in quanto espressione dell’io. A mio avviso la poesia lirica è anche ricerca di corrispondenze, uso di figure retoriche, ritmo e immagini. È possibile che i poeti di ricerca vogliano delegittimare le impressioni, le sensazioni e i sentimenti? Uno scrive poesie per cercare un poco di libertà e invece a conti fatti non ha nemmeno più la libertà di scrivere il pronome “io”! Personalmente trovo del tutto legittima la poesia come espressione dell’io: anche quella più incentrata tutta sulla capacità introspettiva, a costo che non sia troppo egocentrica e troppo prigioniera dell'io. La lirica può essere considerata conoscenza anche per la descrizione degli stati interiori dell’individuo. La poesia lirica può avere come limite quello di riguardare una dimensione privata e risentire troppo della personalità dell’autore. È ovvio che bisogna guardarsi bene dagli eccessi del lirismo, come il narcisismo e il compiacimento. Su questo hanno ragione i poeti di ricerca, che sono salutari quando contrastano l'ipertrofia dell'io di diversi poeti lirici. Però, secondo il più recente approccio post-razionalista, ogni individuo, tramite la propria esperienza, cerca di dare un senso al mondo. Nessun autore può giungere a una rappresentazione oggettiva perché nessuno è privo di condizionamenti e pregiudizi. L'oggettività è sempre pretesa. Ogni poeta ha un suo sguardo sul mondo e come sostiene Vittorio Sgarbi “la bellezza è oggettiva. La visione è soggettiva”[9]. Il rispecchiamento fedele e imparziale non esiste. Direi che nella poesia lirica prevale l'io, invece nella poesia di ricerca gli oggetti e l'inconscio. E del noi chi se ne occupa? 

C’è chi rispetto alla poesia di ricerca ha parlato di “annichilimento dell’io”. Forse è per raggiungere l'oggettività? Mi sembra quasi che questi nuovi poeti vogliano riprendere l’impersonalità del naturalismo francese e del verismo di Verga. Oggettivare il mondo è solo un’espressione. Si può anche dire “oggettivare uno stato d’animo”, che significa solo esprimere uno stato di coscienza. La realtà è la nostra costruzione logica e non solo: dipende anche da fattori psichici ed esistenziali. Per gli esistenzialisti ognuno ha la sua intuizione del mondo.

Ho l’impressione che i poeti di ricerca non stimino coloro che vengono definiti poeti lirici. Eppure qualsiasi tipo di poesia è una interazione tra io e mondo. Bisogna ricordarsi a tale proposito del criticismo kantiano (si pensi allo schematismo trascendentale) e di Schopenhauer, secondo cui il mondo è sempre una rappresentazione del soggetto e quindi della coscienza. Per Schopenhauer tutto quello che conosciamo si trova nella coscienza. Qui non si tratta di ritornare a essere platonici o idealisti in senso assoluto. Il soggetto non può determinare tutta la realtà. Non si tratta neanche di subordinare l’oggetto al soggetto o viceversa. Si tratta invece di considerare la continua correlazione tra soggetto e oggetto. L’oggettività in poesia è solo supposta. Possono certamente criticare l’introspezione e la ricerca di interiorità perché possono ritenere che uno in questo modo guardi il proprio ombelico. Però il mondo è una nostra percezione. Niente altro. Un tempo si diceva che l’idealista pensa e il realista conosce. Oggi invece in ambito scientifico si sta sempre più affermando il costruttivismo[10]. Non si può essere realisti a tal punto da mettere tra parentesi l’io. Il mondo là fuori non ci viene dato in base alle proprietà intrinseche dei fenomeni. Noi conosciamo le cose sia perché abbiamo una coscienza, sia perché esse sono intellegibili.

Potremmo affermare filosoficamente che la ricerca della verità umana è basata sulla compartecipazione di soggetto e oggetto. In psicologia si usano altri termini e si dice che esiste una interdipendenza tra osservatore e realtà osservata. Il concetto comunque è lo stesso. Naturalmente bisogna considerare che l’osservatore modifica sempre ciò che osserva e che l’osservatore fa a sua volta parte di quel che osserva. La poesia di ricerca quindi, al di là del talento dei suoi rappresentanti, mi sembra fondata su presupposti e su premesse errate. La realtà sensibile non può essere una cosa a sé stante. La coscienza è un flusso continuo, una continua interconnessione tra soggetto e realtà. Non si può fare a meno dell'io nella poesia.

La poesia, anche oggi, può essere sperimentale, può cercare di rinnovare il linguaggio come le avanguardie; può essere satirica, didascalica, religiosa (come fu quella di Turoldo, Rebora), aforistica, spirituale; può essere poesia sociale, può descrivere epifanie, può ricercare “corrispondenze”, può esprimere un sentimento amoroso; un poeta può scrivere anche metapoesia. In caso di metapoesia o poesia didascalica non mi sembra che un poeta esprima solo sentimento, come si intende per la poesia lirica. Trovo in molti giovani poeti la ricerca di originalità a tutti i costi. Spesso l’innovazione è cercata utilizzando l’inconscio o una cosiddetta poesia degli oggetti. Per la Neoavanguardia bisognava compiere “una riduzione dell’io”. Molti allora pensarono che essere “oggettuali” significasse essere oggettivi. A mio avviso c’è il rischio di fare una elencazione di oggetti più che scrivere una poesia. Non si può far parlare solo l’inconscio che si relaziona agli oggetti. Anche in Sanguineti l’io è presente. Il professor Romano Luperini in “Il Novecento (apparati ideologici ceto intellettuale sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea)” riguardo a Sanguineti parla di “autocommiserazione ironico-patetica” (pagina 838). Nemmeno Sanguineti è riuscito a “destituire l’io”. A mio modesto avviso sarebbe meglio se molti cercassero un equilibrio tra conscio e inconscio, tra io e oggetti. Infine manca forse qualcosa alla poesia di questi ultimi anni: il Noi, gli altri soggetti, gli altri insomma a cui relazionarsi. Manca anche la capacità di vivere la poesia in modo totalizzante, come fecero Adriano Spatola e Giulia Niccolai negli anni Settanta al mulino di Bazzano, fondando "la Repubblica dei poeti"[11]. Il problema, a mio modesto avviso, è che viviamo in una società asociale. I nostri io sono quasi delle monadi. Eppure la psicologia insegna che nelle prime fasi della vita l'interpsichico determina l'intrapsichico. Dimostrazione di questo è il fatto che i bambini che crescono nei primi anni di vita nella foresta, in modo selvaggio, senza altri umani, non riescono più a parlare e non sanno più interagire dignitosamente con altri, anche se vengono educati successivamente da degli scienziati[12]. Ritornando a questa società, da una parte c'è l'omologazione descritta da Pasolini, ovvero l'uniformazione dei modi di essere, di pensare e dei gusti. Ogni mutazione avviene tramite variazione (stabilita ad esempio nei consigli di amministrazione delle multinazionali) e fissazione (tramite l'affermazione della novità con la pubblicità). Non a caso Pasolini aveva mutuato il termine dalla biologia. L'omologazione avviene in gran parte, per ora, tramite la TV. Dall'altra parte c'è la bolla di filtraggio su internet, la cosiddetta filter bubble. Ognuno è chiuso quindi nella sua storia, nella sua bolla. La tecnologia ci isola. Ognuno appena ha un momento di tempo libero si isola e sta a smanettare al telefonino. Oppure in casa ogni familiare sta chiuso nella sua camera a guardare la TV. Insomma siamo sempre più isolati. Ma questo non significa che si è in grado di essere autenticamente sé stessi. La risultante di queste due forze (omologazione e bolla di filtraggio), apparentemente contrapposte, è l'immobilismo sociale. Abbiamo individualismo e "de-individuazione" (qui da intendersi come perdita della propria identità ed interiorità. Non come la intendeva Zimbardo) allo stesso tempo. La società di massa è spersonalizzante e ci condanna all'anonimato, all'appiattimento, al livellamento. Abbiamo tutte le libertà tranne quella di pensare, come cantava Gaber. Siamo liberi, ma dobbiamo muoverci in un certo raggio di azione. Non possiamo deragliare dai binari stabiliti. Altrimenti diventiamo devianti! Ad ogni modo essere noi è sempre più difficile. Per dirla in termini sociologici siamo in una società con uno scarso senso della comunità. È avvenuto un netto depotenziamento dell'io. È avvenuta la disgregazione dell'io. Siamo quasi tutti prodotti in serie. È avvenuta anche la disgregazione sociale. È avvenuta anche la disgregazione del noi. Si guardi ai giovani. Gli unici luoghi di aggregazione sono i vari divertimentifici, che talvolta stordiscono. Abbiamo quindi anche il tempo libero "alienato". L'interpsichico è ridotto ai minimi termini. È sempre più arduo pensarsi, dirsi ed essere noi. Ma è altrettanto difficile riappropriarsi dell'io ed essere veramente sé stessi. La poesia, in mancanza del noi, dovrebbe almeno essere espressione autentica dell'io. Dovrebbe affermare la nostra unicità e irripetibilità. Ma spesso questo non avviene. 

 

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Inoltre cosa è veramente l'io? Cosa è la coscienza[13]? L’io per Freud è quella parte della psiche che media tra le pulsioni dell’Es e il Super-Ego. Senza l’io non c’è quindi oggettività, ma un essere in balia delle altre due forze. Ridurre l’io significa sottrarre una parte a noi stessi. Forse ridurre l’io significa eliminare qualche problema, ma aggiungerne molti altri in più. Per secoli si voleva rimuovere l'inconscio. Un tempo in poesia si voleva rimuovere il Super-Ego (poeti maledetti, Scapigliati) . Ora si vuole rimuovere l’io. Invece non bisogna cercare di rimuovere nessuna di queste tre istanze psichiche. Queste istanze psichiche vanno tutte affrontate. Se non affrontiamo noi stessi non possiamo affrontare degnamente neanche gli altri. A mio avviso il rischio della poesia di ricerca è quello di iniziare con l'eliminazione dell'io lirico e di finire quasi con l'eliminare l'io freudiano. Secondo alcuni bisognerebbe scegliere tra l’io e il mondo e lo dicono/scrivono come se non si dovesse privilegiare l’uno piuttosto che l’altro, ma come se ci si trovasse di fronte ad un aut aut impietoso. In realtà l’uno non esclude mai l’altro. Non si tratta di giocare a biliardo e mandare in buca l’io, come vorrebbero in molti oggi in poesia, anche se capisco il disprezzo di fronte all’ipertrofia dell’io e alle persone egoriferite. Ad onor del vero la realtà umana è un quadro di riferimento, che include sia l’io che il mondo. L’io e il mondo fanno parte del medesimo circuito. C’è una interazione continua tra io e mondo. Ogni io, anche quello più alienato, si specchia nel mondo. Il mondo ritorna sempre in ogni io. Ci sono dei dati oggettivi nella percezione del mondo, che fanno in modo che possiamo condividere la realtà e comunicare tra di noi. Ci sono verità evidenti per i sensi (quella è una sedia, quella è una mela); altre apodittiche a livello logico; altre basate su delle convenzioni e sul senso comune; altre invece sono attendibili, come ad esempio le informazioni che formano la conoscenza scientifica e sono inconfutabili fino a quando degli esperimenti non le falsificano[14]. Non tutto comunque è opinabile e in questa realtà siamo provvisti di alcune certezze. C’è ad ogni modo un significato condiviso e comune del mondo. Ci sono anche molti altri elementi particolari che costituiscono l’unicità e l’irripetibilità della visione del mondo di ognuno. Come si suol dire, siamo per certe cose tutti uguali e per certe altre tutti diversi. Inoltre, come sosteneva Popper[15], osservare non è un verbo intransitivo. Si osserva sempre qualcosa e questo qualcosa lo si sceglie in base a delle aspettative precedenti. Ognuno conosce in base alla sua esperienza. Nessuno è tabula rasa. Ciò può essere un pregio o un difetto a seconda dei casi: più semplicemente è così che siamo fatti. Ognuno, ancora una volta, conosce a modo suo. È per questa ragione che in poesia chi aspira all’oggettività può ottenere soltanto l’oggettualità. In realtà ognuno ha la sua visione del mondo, formata anche da una quota parte imprescindibile di soggettività.

Secondo il filosofo Goodman[16] i modi di “fare” (interpretare/rappresentare/descrivere) il mondo sono tanti quanti gli uomini. Sono tanti quante le menti umane perché ogni mente è diversa: i gemelli omozigoti sono uguali in tutto, ma le loro menti invece sono diverse. Secondo lo psicologo George Kelly noi adattiamo continuamente il mondo alla nostra personalità e ai nostri schemi cognitivi. Questa raffigurazione/testualizzazione del mondo avviene ogni giorno ed è quindi dinamica. Neanche chi delira è fuori da questo circolo ermeneutico perché secondo gli psichiatri il delirio è una interpretazione del mondo, anche se errata o meglio non condivisa/condivisibile (si pensi soltanto alla pericolosità sociale e alla desiderabilità sociale). La comunità si dà quindi delle regole e delle restrizioni nell’interpretazione. Secondo Nietzsche “non esistono fatti ma solo interpretazioni”. Ognuno ad onor del vero ha la sua “versione” del mondo e nessuna è onnicomprensiva; nessuno può dire l’ultima parola sul mondo: ecco perché abbiamo sempre bisogno di scambiarci informazioni, parlarci, relazionarci. Ognuno aggiunge una tessera al mosaico dell’altro. Noi interagiamo con il mondo di fuori e alcune cose le percepiamo esattamente, come tutti gli altri esseri umani, mentre invece altre le percepiamo soggettivamente. Ci sono alcuni elementi in comune con il modo con cui le altre menti percepiscono il mondo. Altre cose invece le vediamo in modo diverso. Descrivere come percepiamo il mondo è estremamente complesso. Ci poniamo mille domande, ma non abbiamo nessuna certezza. Il mondo naturalmente esisterebbe anche senza di noi (sostengono i realisti). La realtà non è prodotta dalla mente cosciente, ma l’io è l’unica modalità in grado di distinguere io e non io, di percepire, di descrivere e nominare il mondo. Senza l’io il mondo non sarebbe più oggetto di indagine. Non ci sarebbe più nessuna indagine. Ecco perché l'io, ovvero la coscienza è importante!

Ma passiamo ad altro. Cito testualmente: "La prosa in prosa è letteralmente letterale vuol dire quello che dice nel momento in cui lo dice dopo averlo detto e la prosa in prosa come poesia dopo la poesia se esistesse avrebbe letteralmente, propriamente, l'unico stupidissima senso che sta dicendo cos'è." (Jean-Marie Gleize. La traduzione è di Michele Zafferano. Da" Prosa in prosa"). Gli autori di "Prosa in prosa", come sottolineato da Paolo Giovannetti, vogliono raggiungere "il grado zero della connotazione", teorizzato da T. Todorov. Per i poeti di ricerca molto probabilmente "una rosa, è una rosa, è una rosa"[17], come scriveva Gertrude Stein. A mio modesto avviso invece in poesia una rosa non è solo una rosa perché può avere diverse connotazioni (che possono essere anche considerate delle sfumature emotive. Anche la nominazione più precisa può avere quindi una sua vaghezza), può provocare le più svariate “corrispondenze” tra l’io e l’oggetto (più banalmente risonanze interiori). Inoltre ogni oggetto può essere suggestivo, può ispirare l’artista. Joyce ha insegnato che qualsiasi cosa può essere rivelatrice e chiarire l’esistenza. L’arte anche per questo motivo dimostra di essere ineffabile. Le “corrispondenze” tra gli stati d’animo e il mondo non solo variano da individuo a individuo ma anche di giorno in giorno e di istante in istante. Cambiamo continuamente noi. Cambia continuamente il mondo. Di conseguenza cambiano continuamente le corrispondenze. Ogni artista quindi deve sempre cogliere le occasioni perché le corrispondenze hanno carattere episodico. I pensieri sono casuali, come le gocce di pioggia sull’asfalto. Sta al poeta mettere ordine tra i suoi pensieri. Una rosa non solo può suscitare diverse sensazioni, ma anche portare ai più svariati simbolismi. A essere più puntigliosi il poeta rappresenta più che descrivere e ogni rappresentazione possiede deformazioni e approssimazioni. Eludere l’io, occultarlo per avere uno sguardo diretto ed oggettivo è impresa impossibile. Tutto ciò è paradossale. Invece bisogna considerare che esiste sempre una componente emotiva dell’artista: la sua soggettività. C’è sempre un quid mentale e parziale, così come è innegabile che esiste una realtà in certa parte comune e condivisibile. Spesso viene stimato grande poeta colui che riesce a descrivere sensazioni, emozioni o pensieri, che la maggioranza delle persone fino ad allora non vedevano, come il fanciullino del Pascoli. Cercare di eludere l’io per vedere meglio le cose, per distanziarle, per vederci più chiaro è impresa vana a mio avviso. In questo senso nessun artista può registrare oggettivamente il suo inconscio. È impossibile. Deve esserci sempre la mediazione della coscienza. Inoltre l’inconscio è per gran parte inattingibile e la coscienza non può accedere totalmente ad esso: molte zone restano inesplorate. Infine Gian Luca Picconi ha parlato di "soggettivazione di gruppo" per gli autori di "Prosa in prosa". Questa "soggettivazione di gruppo" può andare bene in una antologia, ma di che cosa se ne fa un lettore comune, quando legge la silloge di uno di questi poeti? Forse ben poco. Ogni poeta in definitiva, grazie alla sua soggettività, è unico. È anche grazie alla soggettività che un poeta inventa un linguaggio o rinnova il linguaggio. Ognuno, anche il più mediocre, ha la sua angolatura e da questa scaturisce la sua particolare prospettiva. Si usa dire che un artista apre un mondo quando trova un nuovo filone di cose, ovvero rappresenta un mondo che fino ad allora non era stato rappresentato[18]. Per Claudio Magris il poeta è “un nessuno che parla per tutti”[19]. Un poeta lavora per intuizioni verbali, piccole rivelazioni gnomiche, illuminazioni liriche. È efficace quando le sue parole riescono ad essere evocative, quando riesce a esprimere il fluire di immagini nella sua mente e anche quando riesce ad accostare cose lontane tra di loro. Un artista può rappresentare una nuova realtà oppure se è della Neoavanguardia può cercare di trovare un nuovo linguaggio, cercando di dare forma all’informe. L’artista è tale quando fa diventare universali i suoi pensieri e le sue percezioni.

 

 

Note

[1] Ecco la poesia in questione:

NANNI BALESTRINI

(Da Almanacco Letterario Bompiani – Bompiani, 1962)

 

TAPE MARK I

 

La testa premuta sulla spalla, trenta volte

più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno

finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine

delle cose accade, alla sommità della nuvola

esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono

la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.

 

I capelli tra le labbra, esse tornano tutte

alla loro radice, nell’accecante globo di fuoco

io contemplo il loro ritorno, finché non muove le dita

lentamente, e malgrado che le cose fioriscano

assume la ben nota forma di fungo, cercando

di afferrare mentre la moltitudine delle cose accade.

 

Nell’accecante globo di fuoco io contemplo

il loro ritorno quando raggiunge la stratosfera mentre la moltitudine

delle cose accade, la testa premuta

sulla spalla: trenta volte più luminose del sole

esse tornano tutte alla loro radice, i capelli

tra le labbra assumono la ben nota forma di fungo.

 

Giacquero immobili senza parlare, trenta volte

più luminosi del sole essi tornano tutti

alla loro radice, la testa premuta sulla spalla

assumono la ben nota forma di fungo cercando

di afferrare, e malgrado che le cose fioriscano

si espandono rapidamente, i capelli tra le labbra.

 

Mentre la moltitudine delle cose accade nell’accecante

globo di fuoco, esse tornano tutte

alla loro radice, si espandono rapidamente, finché non mosse

le dita lentamente quando raggiunse la stratosfera

e giacque immobile senza parlare, trenta volte

più luminoso del sole, cercando di afferrare.

 

Io contemplo il loro ritorno, finché non mosse le dita

lentamente nell’accecante globo di fuoco:

esse tornano tutte alla loro radice, i capelli

tra le labbra e trenta volte più luminosi del sole

giacquero immobili senza parlare, si espandono

rapidamente cercando di afferrare la sommità.

[2] L'io lirico è la voce interiore nella poesia. Non è detto che coincida sempre con l'io empirico, ovvero con l'autore in carne ed ossa. L'io lirico può essere anche in un certo qual modo fittizio. Si veda ad esempio Pessoa ed i suoi eteronimi. L'io lirico può essere anche un alter ego.

Un saggio sull'io lirico: http://www.leparoleelecose.it/?p=20689

[3] Sulla poesia di ricerca: http://www.leparoleelecose.it/?p=34663

https://www.glistatigenerali.com/letteratura/mappa-poesia-italiana-26082017/

https://www.versanteripido.it/prosa-o-poesia-di-francesco-di-lorenzo/

https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/21/humpty-dumpty-e-poesia-di-ricerca-in-italia/688793/

[4] "Sulla poesia moderna" di Guido Mazzoni (Il Mulino, Bologna, 2005)

[5]https://www.treccani.it/enciclopedia/io-se_(Enciclopedia-Italiana)/#:~:text=Il%20concetto%20di%20Io%20diviene,cio%C3%A8%20psicologia%20dell'Io)

[6] "Fenomenologia della percezione" di Merleau-Ponty (Bompiani, Milano, 2003) 

[7] https://www.alfabeta2.it/tag/enciclopedia-asemica/

[8] "Prosa in prosa" (Tic edizioni, Roma, 2020)

[9] "Lezioni private 2" di Vittorio Sgarbi (Mondadori, Milano, 1997)

[10]https://it.m.wikipedia.org/wiki/Costruttivismo_(psicologia)

[11] "La repubblica dei poeti. Gli anni del mulino di Bazzano. Con DVD" di D. Rossi (cur.) e E. Minarelli (cur.) (Campanotto, Udine, 2010)

[12]https://www.focus.it/ambiente/animali/le-vere-storie-dei-ragazzi-selvaggi

[13] In letteratura esiste il flusso di coscienza. Basta leggere la Woolf, H. James, W. Faulkner, Joyce. Gli scrittori inseguivano i loro pensieri senza punteggiatura. La loro scrittura registrava i dati psicologici, la loro interiorità; descriveva la loro mente, che vagava da una idea all'altra. Allora la mente non era ancora considerata esclusivamente un insieme di processi fisico-chimici. Naturalmente da allora è innegabile che siano stati fatti dei passi in avanti perché non si parla più di spirito e sappiamo che, privati del sistema limbico, non sapremmo più provare emozioni. Secondo la psicologia la coscienza è innanzitutto autoconsapevolezza. È allo stesso tempo consapevolezza del vissuto e responsabilità delle proprie azioni. Per Jaspers è "la vita psichica di un dato momento". È autoriconoscimento, memoria di sé, percezione di sé, conoscenza di sé, senso di sé; recentemente i neuroscienziati hanno parlato di sé autobiografico, ovvero conoscenza del proprio passato e presente. Coscienza significa accorgersi anche degli stimoli esterni. Coscienza è attenzione. È consapevolezza della propria identità. È organizzazione psichica di attenzione, memoria, linguaggio, desideri, intenzioni, emozioni, valori, stati mentali. Secondo il cognitivismo è anche metacognizione, ovvero conoscenza delle proprie operazioni mentali. Tutto ciò risulta in parte labile ed ineffabile. A tal riguardo dobbiamo ricordarci che il Sé è sempre sfuggente ed elusivo. Molte cose che sappiamo della coscienza le sappiamo grazie all'introspezione. La coscienza è ancora oggi un mistero.

[14] Dopo il principio di complementarietà di Bohr e il principio di indeterminazione di Heisenberg la scienza dipende non più da un rapporto di causa-effetto, ma da leggi di tipo statistico-probabilistico. 

[15] "Congetture e confutazioni" di K. Popper (Il Mulino, Bologna, 2009)

[16] "Vedere e costruire il mondo" di Nelson Goodman (Laterza, Bari 2008) 

[17]https://en.m.wikipedia.org/wiki/Rose_is_a_rose_is_a_rose_is_a_rose

[18] La rappresentazione non è mai totalmente fedele. La realtà è una commistione di drammaticità, tragedia, comicità, erotismo, mistero, etc etc. Noi non possiamo immagazzinare tutti gli stimoli del reale e ne selezioniamo solo alcuni per un puro fatto di economia cognitiva e per i nostri limiti mentali. Nella rappresentazione ne scegliamo solo alcuni da mostrare. La realtà ha moltissime sfaccettature e noi ne evidenziamo solo alcuni aspetti salienti. Sono illimitati i rapporti che un fatto, una cosa o un soggetto può avere con altri fatti, cose o soggetti. È impossibile prendere in esame l'immensa eterogeneità del reale e l'enorme casistica degli eventi. Gadda scriveva dello "gnommero". Montale a tal riguardo scrisse della "matassa da disbrogliare". Per Vincenzo Gioberti la verità è "un immenso poligono" dai lati infiniti. L'immaginazione umana è anche essa un immenso poligono dai lati infiniti. Quindi anche i più alti ingegni umani non possono che rappresentare tutto ciò in modo parziale. La realtà è un enorme caos. Noi possiamo solo cercare di fare dei modelli del reale. Possiamo solo dare una forma al caos. Ogni opera subisce perciò una deformazione in base al punto di vista e alla prospettiva dell'autore. La realtà umana è costituita da una illimitata molteplicità di eventi e di stati mentali. La realtà umana in fondo è una continua interazione tra io e mondo. È un continuo feedback. La realtà non esisterebbe senza i fenomeni neurochimici del nostro cervello, che ci permettono di rappresentarla. Quella che alcuni chiamano oggettività è solo una conoscenza condivisa. L'arte è un impasto di oggettività e soggettività. Anche gli artisti più realisti, che vogliono dare una visione il più possibile impersonale e distaccata della realtà, non possono mai essere totalmente oggettivi. In definitiva l'arte non dipende solo dalla verosimiglianza e dal realismo raggiunti. Una scoria di soggettività resta sempre. Per Picasso in fondo "l'arte è la menzogna che ci permette di conoscere la verità".

[19] "Alfabeti" di Claudio Magris (Garzanti, Milano, 2008)

 

 

Giovinezza e maturità, ripensando ad alcuni versi di Patrizia Cavalli...

set 092023

 

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(Nella foto io a sinistra con l'amico Emanuele Morelli)


Quando si è giovani si vive un dramma per una storia d'amore finita male o per un innamoramento non corrisposto. Ci sembrano così importanti i nostri amori, fortunati o meno, quando sono fattarelli inessenziali per il resto del mondo. Spesso la nostra ragione e la nostra memoria funzionano in modo molto "fazioso": pensiamo e ricordiamo per molto più tempo quando siamo stati lasciati, traditi o non corrisposti rispetto a quando noi abbiamo lasciato, tradito e rifiutato. La nostra mente - almeno nella giovinezza - è masochista. Così una ragazza comune, che gli ha detto "no", diventa la musa di un aspirante poeta. Molti giovani vogliono rendere partecipi tutti del loro amore, delle qualità, della bellezza della loro amata e allora lo scrivono su tutti i muri della loro città. Non è forse così? Non trovate che sia così? Qualcuno dirà che sono solo generalizzazioni. Io rispondo che senza generalizzazioni non ci sarebbe conoscenza e nemmeno si camperebbe! Ogni giorno facciamo delle generalizzazioni. Continuiamo allora con le generalizzazioni. Da giovani si vuole cambiare il mondo. È più difficile invece trovare persone mature che vogliano farlo. La giovinezza, secondo statistiche e ricerche, è anche la fase più creativa della vita; i geni hanno fatto scoperte o creato capolavori spesso da giovani. Ciò nonostante la maggioranza dei giovani non sfrutta queste potenzialità perché affaccendata in tutt'altro. A ogni modo nella giovinezza si è maniaco-depressivi, come non mai. Basta poco per toccare il cielo o vivere in un inferno terreno. Ci sono degli errori giovanili che determinano, decidono il resto della nostra vita e che finiamo per pagare vita natural durante, come scrive Mario Luzi. Ci sono persone che immolano la giovinezza sull'altare dello studio o del successo e finiscono per rimpiangerla per tutta la vita. Beato è chi ha vissuto la giovinezza da giovane e non chi ha avuto una giovinezza posticcia in là con gli anni! Di alcuni si dice non a caso: "non è mai stato giovane". Bisogna essere giovani da giovani, che non è una tautologia, come potrebbe sembrare. Gli studenti non vedono l'ora di laurearsi e lavorare. I fidanzati non vedono l'ora di sposarsi e fare figli. E non sanno che quello è il periodo migliore della loro vita! È molto difficile vivere pienamente la giovinezza, ma quasi impossibile è saperla apprezzare proprio quando si è giovani. Le Nazioni Unite hanno stabilito che si è giovani dai 15 ai 24 anni, ma la giovinezza oggi è una fase che si protrae spesso più a lungo. Se chiediamo quando hai smesso di essere giovane, i più non rispondono a una certa età ma pensando a quando è finito un amore, a quando hanno iniziato a lavorare, a quando è morta una persona cara. La giovinezza è quindi percepita soprattutto interiormente più che anagraficamente, ma ciò non toglie che possa essere una percezione errata. Un altro problema, anche se è vero che non si può essere giovani per tutta la vita, è che si invecchia troppo presto. La maturità comunque è anche l'approdo di equilibrio e di un minimo di stabilità per i più. Alcuni sostengono che la gioventù è il periodo più bello della vita. Altri come lo scrittore Nizan sostengono l'esatto contrario. Io ritengo che sia una stagione molto altalenante dal punto di vista degli umori. Comunque nella giovinezza diamo un'importanza esclusiva a quel che chiamano amore sia per una questione ormonale che per la nostra insofferenza alla solitudine. Dobbiamo accoppiarci e non possiamo stare soli. Nella giovinezza possiamo vivere sia gli amori platonici che il sesso sfrenato. La giovinezza è una mistura esplosiva di idealismo, materialismo, sentimentalismo, spesso mal assortiti e mal combinati. Da giovani si è innamorati delle idee, dell'amore e si è dipendenti dal sesso. La nostra psiche e il nostro organismo difficilmente ci consentono di ripetere queste cose in altre stagioni della nostra vita. Con l'avvento della maturità non è che ristrutturiamo cognitivamente ed emotivamente tutto ciò: è solo che abbiamo meno energie, siamo più esperti e pensiamo molto meno alle nostre questioni sentimentali perché incombono altri problemi più pratici come i soldi, la salute, la famiglia, etc etc. Nella maturità non abbiamo più la forza, la fantasia e l'ingenuità di idealizzare una donna. Alcuni potrebbero obiettare e sostenere che non è vero e che ci sono milioni di anziani nel mondo che si innamorano di donne molto più giovani. La maturità però non è solo un fatto anagrafico. La maturità è anche rassegnazione e accettazione; è anche assennatezza. Non si può vivere in un ridicolo infantilismo cronico. C'è scritto anche nell'Ecclesiaste che esiste per ogni cosa un suo momento. Ogni stagione della vita ha la sua bellezza e tutto sta a saperla cogliere. A mio avviso è un'illusione quella di sentirsi "forever young" per tutta la vita. No. Non si può fare i giovanotti a vita. Eppure, come si suol dire, al cuore non si comanda. Innamorarsi, almeno inizialmente, è un vero toccasana a tutte le età: è il miglior antidepressivo naturale, ma ha anch'esso le sue controindicazioni e le sue ripercussioni negative, perché è bello finché dura, fino a quando si spera di essere corrisposti o fino a quando si è corrisposti, ma poi? Poi bisogna raccogliere i cocci e farlo a cinquant'anni o a sessanta è molto più difficile e più gravoso. A una certa età è più difficile riprendersi da una delusione; è più impegnativo recuperare le forze. In più innamorarsi significa talvolta lasciarsi con la moglie e sorbirsi la separazione con addebito: non tutti possono permettersi la separazione o il divorzio, perché rischiano di diventare padri poveri. Inoltre si potrebbe vedere tutto da un'altra ottica: Hölderlin ad esempio sosteneva che solo quando è passata amiamo e rimpiangiamo la giovinezza. È molto meglio rassegnarsi perché a mio avviso è la miglior forma d'amor proprio e di rispetto per sé stessi piuttosto che inseguire elisir di eterna giovinezza. La maturità, almeno quella interiore, è consapevolezza dei nostri limiti e rinuncia. Lo so. Molti storceranno il naso, perché nella nostra società domina incontrastato il giovanilismo. E a questo punto come non fare una citazione abusata e ricordare della Magnani, che diceva ai truccatori: "Non toccare le mie rughe. Le ho pagate care". La presa di coscienza di qualcosa che volge al termine è espressa magistralmente in questi versi della grande poetessa Lamarque: "A vacanza conclusa dal treno vedere/ chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna/ la loro vacanza non è ancora finita:/ sarà così sarà così/ lasciare la vita ?"
Non sono versi illuminanti?

"Il giovane Holden" di Salinger...

set 012023

 

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Quel lunatico e schivo di Salinger ha piazzato uno dei più grandi romanzi americani con “Il giovane Holden”. Di sé ha sempre fatto sapere poco al mondo. Ha sempre fatto vita ritirata ed appartata. E’ sicuramente il più schivo e riservato dei grandi scrittori americani del ‘900. Tempo fa su un settimanale vidi una sua foto, o meglio un suo mancato ritratto fotografico: infatti il fotografo era riuscito a riprendere la sua figura, ma Salinger era riuscito a tapparsi il volto con la mano. La foto quindi non permetteva una completa lettura del suo viso. Ma veniamo al romanzo. Il giovane Holden innanzitutto è innovativo per la continuità impressionante del gergo giovanile. Dall’inizio alla fine del romanzo Salinger utilizza sapientemente un linguaggio nuovo, che realizza uno scarto significativo con la tradizione letteraria americana. L’originalità di questo suo linguaggio è sbalorditiva, se si pensa che fu scritto negli anni ’50. Un’altra caratteristica saliente del libro è la sincerità allarmante del protagonista nei confronti di sé stesso e degli altri. Di solito chi scrive cerca sempre di dare una buona impressione ai lettori. Un’alta percentuale delle persone che scrivono infatti per dare un’ottima immagine di sé stessi agli altri cadono nel sentimentalismo, nella retorica, oppure in leziosismi e virtuosismi. Salinger invece mette in gioco tutto sé stesso. Si cala in Holden, suo alter ego, e scrive nello stile più essenziale possibile per arrivare al nocciolo della questione. Questa sua sincerità, questa incessante ricerca di un brandello di verità umana, che a tratti sconfina nel disincanto e nel cinismo, permette a Salinger di riportare alla luce quella parte di ognuno di noi, che prima di questo romanzo non era mai stata scandagliata a dovere. Salinger infatti riesce a mettere sulla pagina bianca tutte quelle piccole idee banali e superficiali, che vengono in mente a tutti; tutti quei pensieri brevi e sconnessi, che releghiamo nel subconscio. Ci sono ad esempio operazioni cognitive, come quelle per guidare una macchina, talmente automatiche e ripetitive, che dopo un minimo di esperienza non raggiungono più la soglia di coscienza. Salinger è riuscito a far venire fuori dalla sua testa queste piccole idee quotidiane, talvolta banali, qualche volta addirittura assurde. Ad esempio di fronte a un laghetto Holden si chiede dove vadano i cigni, quando il lago è gelato. A leggere questo libro si rimane stupefatti, se si è letto qualche libro di filosofia di tanto in tanto. Non c’era bisogno di quelli che Ricouer chiama “i maestri del sospetto” (ovvero Marx, Nietzsche, Freud) per dimostrare al mondo la fallacia della ragione umana e i limiti del razionalismo. Era sufficiente soltanto saper cogliere questi piccoli pensieri banali, automatici, quotidiani. Infine un altro aspetto fondamentale del libro è la messa a fuoco del disagio giovanile. Holden è il classico bravo ragazzo, che frequenta un collegio con regole ferree. E’ il classico ragazzo della borghesia americana. Ma non si trova a suo agio nei suoi panni. A scuola è svogliato. Non gli vanno i professori. Non gli vanno i suoi compagni di scuola. Non gli va bene nessuna delle cricche e delle comitive del suo collegio. Non trova un senso in quel che fa. E’ diffidente nei confronti degli altri. E’ insofferente verso le regole e i paletti imposti dal mondo dei grandi. E’ spietato verso il grigiore della quotidianità. Il rapporto del protagonista con gli altri è sempre problematico, conflittuale, ambivalente. Holden vuole ripagarli con la stessa moneta dell’indifferenza con cui pensa che gli altri lo paghino. La sua è una sensibilità offesa. Quando si ha questo disagio nei confronti degli altri e della società una persona può reagire in tre modi differenti: diventare asociale, misantropo o addirittura antisociale (è forse una coincidenza il fatto che l’assassino di Lennon aveva in tasca una copia di questo libro? Forse si identificava con Holden? Apprezzava forse la sua apparente anaffettività?). Per tutto il romanzo qualsiasi sentimento e qualsiasi tipo di affetto nei confronti delle persone a lui vicine è rimosso. Ma Holden non può rimuovere totalmente ogni emozione. Deve pure investire affettivamnte su qualcuno o su qualcosa. Ecco allora che si innamora del linguaggio. Schifato dal mondo esterno e perfino dai suoi schemi mentali si aggrappa ingenuamente alle parole. Così utilizza le sue parole per mentire. Infatti di sé stesso dice:” Io sono il più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato in vita vostra”. Alle menzogne e alle falsità del mondo degli adulti quindi contrappone le sue menzogne ingenue, mai dannose per gli altri. Ad esempio quando incontra la madre di un suo compagno di scuola in treno mente spudoratamente, ma lo fa a fin di bene e per quieto vivere. Dice alla madre quello che vuole sentirsi dire di suo figlio. Holden dice alla madre che quel collegio è un’ottima scuola, anche se in realtà gli fa schifo: ma d’altra parte cosa dovrebbe dire a una madre, che paga una retta salata per mantenere suo figlio in collegio? Dice alla madre che suo figlio è un ragazzo sensibile, quando invece pensa che sia il più grande bastardo della scuola. Mente anche sulla sua vera identità, tant’è che, quando si presenta, usa il nome e il cognome del bidello della scuola, per non mettersi a raccontarle la sua vera storia. Ma d’altronde perché non dovrebbe mentire? La conversazione avviene in un contesto sociale, che i sociologi moderni definirebbero “un non-luogo”. E nel non-luogo di uno scompartimento di un treno si possono raccontare tutte le balle che si vogliono. Poi la madre del suo compagno di collegio è una bella donna e il dialogo tra i due è infarcito di luoghi comuni. Perché mai non dovrebbe mentire? Solo alla fine del romanzo Salinger si concilia con gli altri e con il mondo esterno. Infatti scrive: “Io, supergiù, so soltanto che sento un pò la mancanza di tutti quelli di cui ho parlato. Perfino del vecchio Stradlater e del vecchio Ackley, per esempio. Credo di sentire la mancanza perfino di quel maledetto Maurice. E’ buffo. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti”. Il senso di questo libro di Salinger sta tutto nel titolo originale. Il titolo originale è “The catcher in the rye”, che si potrebbe tradurre “il pescatore nella segale”. Il titolo deriva da un’espressione modificata di una poesia di Robert Burns. La poesia in verità dice: “se scendi tra i campi di segale e ti viene incontro qualcuno”. Invece Holden crede che dica: “E ti prende al volo qualcuno”. E quando se ne accorge capisce anche il motivo per cui ha modificato questo verso della poesia. Lui infatti si è immaginato migliaia di ragazzi, che giocano in un immenso campo di segale. Ma questi ragazzi sono incoscienti ed ingenui, non tengono affatto conto che esiste un dirupo in cui possono cadere. Holden-Salinger scrive allora che la cosa che gli piacerebbe fare di più è quella di acchiapparli e di salvare coloro che inavvertitamente stanno per cadere nel dirupo. Fuor di metafora: il giovane Holden può ancora salvarsi e tramite le sue parole salvare altri adolescenti dalle brutture e dalle ipocrisie del mondo dei grandi. Quell’assurdità e quello squallore del mondo degli adulti se non vengono affrontati nell’adolescenza possono portare al gesto estremo più avanti, come il protagonista del racconto “Un giorno ideale per i pesci banana” dell’opera successiva di Salinger “I nove racconti”, che si spara un colpo alla tempia. Infatti lo scrittore americano nel giovane Holden è cinico nei confronti degli altri, perché il disagio deve affrontare brutalmente lo schifo. Invece ne “I nove racconti”, in cui prende in esame il mondo degli adulti, usa la pietà umana: oramai non può fare più niente per loro, le loro vite sono già compiute, le loro persone sono già gestalt finale. “Il giovane Holden” è stato terapeutico per lo scrittore americano. Salinger è riuscito a fare i conti con il proprio disagio. Ed è proprio per questo motivo che questo libro è stato letto da generazioni di giovani americani. E’ per questo motivo che Salinger è diventato una sorta di compagno di strada dei giovani americani e non solo. E se oggi pochi lo leggono, non sanno che cosa si perdono, perché questo libro diverte e fa riflettere.

Considerazione pessimista, partendo dallo stupro di gruppo di Palermo...

ago 222023

 

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Uno degli indagati per lo stupro di gruppo di Palermo così scriveva nella chat: "Eravamo cento cani su una gatta, ma la carne è carne". Nel 2022 in Italia gli omicidi sono stati 314 e ci sono stati 126 femminicidi. Fino al 18 agosto i femminicidi nel 2023 erano 75. Che cosa non ha funzionato e non funziona? La responsabilità è individuale, ma la cultura dell'odio ha la meglio sugli agenti di socializzazione (famiglia, parrocchia, scuola). E cosa può la letteratura su questi giovani? Al bando le belle parole da anime belle, i giri di parole, le elucubrazioni mentali degli intellettuali! No. Cari e care insegnanti, la vostra letteratura impartita come un obbligo, un'imposizione può fare davvero pochissimo per i giovani. Forse ha una ricaduta positiva solo per un'esigua minoranza, una ristrettissima cerchia, per cui l'umanesimo diventa una passione. L'umanesimo è troppo inattuale, troppo antiquato. No. Insegnare il dolce stil novo, la donna angelicata, Dante e Petrarca non ha più presa sui giovani. I giovani non sentono questa grandezza e la avvertono come troppo lontana. No. Cari insegnanti, non vi illudete per dei bei temi, perché la maggioranza ripete come pappagalli le nozioni, ma non assimila i valori che cercate di trasmettere loro. Non vi illudete: anche l'educazione civica e l'educazione sessuale potrebbero pochissimo o nulla. Forse alcuni di voi diranno: "cerchiamo di fare poco per quei pochi che è già molto. Non essere apocalittico. Non essere catastrofico". Ma la sottocultura che viviamo ogni giorno ha sempre la meglio. Per assimilare un poco di cultura ci vuole un minimo di sforzo e di sacrificio. Assimilare sottocultura è facile e automatico. Non richiede sforzi. Poi il bombardamento della sottocultura è ripetitivo, ossessivo, ossessionante. La sottocultura usa a meraviglia il condizionamento classico e anche quello operante. La maggioranza silenziosa approva e dà ricompense a chi assimila sottocultura, perché essa stessa è sottocultura diffusa. E poi è sempre più difficile distinguere la cultura dalla sottocultura! Una maggiore scolarizzazione non necessariamente comporta una maggiore educazione. C'è però sempre meno rispetto per la dignità umana e le regole del vivere civile. No. Cari filosofi e care filosofe, Kant, Spinoza, etc etc non servono più. No. Cari poeti e care poetesse, non potete nulla contro questo mondo e discutete pure di assertività, rimozione dell'io lirico, oggettività, sentimentalismo, giusta distanza e giusto distacco da cose e persone. Non potete nulla contro la massa omologata e informe. Forse è chiedere troppo alla letteratura, alla poesia, considerate dai più sempre più ornamentali, accessorie, pleonastiche, insomma inutili. La mentalità comune, quella la fanno una televisione generalista per nulla pedagogica, i mass media sempre più bombardanti, sensazionalistici e qualunquisti, il porno di massa, il gruppo dei cosiddetti pari, i bar, le discoteche, le curve degli stadi. Niente ci può salvare da questo bestiario. La poesia che rispecchia un mondo troppo impoetico non è vera poesia e la vera poesia è cosa da folli. Il rischio è troppo elevato. Potreste rimetterci reputazione, salute, forse la pelle.

Sventolate bandiera bianca, anzi ammainatela proprio la bandiera. La sconfitta è inesorabile. La letteratura non è più incisiva. Non plasma più le coscienze della maggioranza e se è sempre stata elitaria, oggi lo è molto di più. La letteratura non è più formativa. Educa il gusto di pochissimi. Un tempo gli stessi poeti maledetti vivevano la letteratura e la poesia come degli anticorpi contro la barbarie diffusa. Dario Bellezza in "Invettive e licenze" scriveva: "Ignoro il corso della storia. So solo/ la bestia che è in me e latra". La poesia era quindi autoconoscenza della propria Ombra, della parte più oscura e rimossa. Prenderne consapevolezza era già un primo passo importante per migliorare, per evolvere. No. Cari umanisti, non siete più assediati. Arrendetevi. Non potete niente all'atto pratico. Rischiereste solo la vostra incolumità per niente. La Fortezza Bastiani è stata già conquistata. Il nemico ha così vinto che è dentro ognuno di noi e noi siamo nemici di noi stessi. La colpa è della società? E allora è anche nostra. La barbarie si è già annidata ovunque. Noi stessi siamo i Tartari e non sappiamo neanche riconoscerci come tali.

 

Siamo tutti un pochino Elkann e siamo tutti molto lanzichenecchi!!!

lug 282023

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Alain Elkann qualche giorno fa ha scritto un racconto sul suo viaggio in treno verso Foggia. L'ha pubblicato su "la Repubblica". Ha dato dei lanzichenecchi (soldati mercenari, barbari e feroci, responsabili del sacco di Roma) a dei ragazzi settentrionali che parlavano di ragazze e di dove e come rimorchiare (al night oppure sulla spiaggia). È diventato il tormentone di questo luglio. Sui social si sono sbizzarriti con le offese allo scrittore, con i meme, etc etc. I quotidiani sono andati a nozze con le polemiche. Il racconto è stato divisivo: alcuni giornalisti l'hanno difeso a spada tratta, dicendo che la maleducazione oggi dilaga, mentre altri opinionisti l'hanno definito snob, elitario, classista. Alcuni hanno fatto da avvocati difensori, perché lui è un giornalista e uno scrittore affermato, oltre al fatto di essere il padre dell'editore. Altri lo hanno attaccato per invidia sociale. Insomma c'è stata poca obiettività e su tutto ha prevalso l'emotività. C'è chi si è identificato in Elkann e chi nei "lanzichenecchi". Certo a passare da intellettuale raffinato a radical chic con la puzza sotto il naso il passo è breve. Elkann ha delle scusanti: 1) probabilmente non si mischia con gli italiani. Non è avvezzo. Vive nell'alta società 2) i letterati sono spesso snob. 

Inoltre va dato merito a Elkann di averci messo la faccia e di aver avuto il coraggio di manifestare la sua insofferenza. Certe cose molti le pensano ma non le dicono! Elkann ha avuto il coraggio di risultare impopolare. Però mi chiedo io: su "la Repubblica" uno può scrivere tutto ciò che gli passa per la testa? Classista poi? Quei ragazzi, come lui del resto, erano in business class. Io che faccio parte del volgo non ho mai viaggiato in business class. Quei ragazzi erano quindi di buona famiglia e con molti soldi; erano agiati, forse ricchi. Certo forse un pochino classista lo scrittore a ogni modo lo è stato e oltre che essere una cosa di cattivo gusto è anche anacronistico, dato che oggi le classi sociali non esistono più; esistono le differenze culturali, di istruzione; esistono le varie fasce di reddito e le differenze di patrimonio, ma le classi sociali oggi non più. E poi erano nordici! Che dire allora delle esternazioni antisiciliane di anni fa del pur bravo, meritevole e umano Roberto Vecchioni? Certo viene da chiedersi cosa avrebbe scritto e quali strali sarebbero venuti fuori se Elkann si fosse trovato a viaggiare sul treno rapido Taranto-Ancona in seconda classe nel bel mezzo degli anni Settanta come Rino Gaetano (mi riferisco a "Mio fratello è figlio unico").

Cosa sarebbe successo se Elkann si fosse imbattuto la mattina dell'ultimo dell'anno sul diretto Pisa-Firenze negli anni Novanta in gruppi di giovani ubriachi che offendevano tutti e molestavano le ragazze, totalmente ubriachi e fumati? Cosa avrebbe scritto Elkann se si fosse trovato nello scompartimento un gruppo di ultras facinorosi in trasferta, che spaccavano mezzo treno, pronti a menare le mani, comportandosi come fossero impuniti e intoccabili? Posso dire che a Elkann è andata bene, perché non era solo, aveva dei compagni di viaggio e su certi treni quasi deserti in Italia le ragazze vengono anche stuprate e i viaggiatori possono essere aggrediti e rapinati. Ci sono stati addirittura dei casi di controllori feriti con l'accetta o con il coltello solo perché volevano far pagare la multa a chi non aveva biglietto! E poi quei giovani che hanno passato tutto il tempo a parlare di ragazze e di calcio avevano un grande pregio: parlavano di cose futili, ma non se ne stavano per tutto il viaggio con i telefonini, immersi totalmente nel mondo virtuale. E poi mi chiedo io cosa ha trovato di così grossolano nei discorsi di quei ragazzi? È una topica degli italiani di tutte le età parlare delle donne, raccontandosi fin nei minimi dettagli in modo boccaccesco le avventure. Dottor Alain (so bene che non mi leggerà)  ma lei in quale mondo edulcorato e ovattato vive? Un conto è vivere nell'Iperuranio o quantomeno in una torre eburnea e un altro è la realtà quotidiana di molti! Oh lo so in casa sua i suoi figli non hanno mai parlato di ragazze in quel modo, anche perché essendo milionari (o forse miliardari) le ragazze cadono ai loro piedi e non devono certo conquistarsele. Ah come sono volgari dottor Elkann questi nostri (non suoi) "amori ancillari" per dirla alla Guccini! E poi sarà vero che le cose sono andate veramente come raccontate? Se dei ragazzi si mettessero a parlare di ragazze, oggi che a 11 anni iniziano a guardare Youporn, ebbene lo farebbero in modo molto osceno. Insomma lo scrittore si è scandalizzato davvero per poco, se così sono andate le cose, e si dovrebbe scandalizzare per ben altro, ma gli stessi italiani dovrebbero scandalizzarsi per gli incendi dolosi, la cattiva gestione del dissesto idrogeologico, della cosa pubblica, etc etc. Un grande critico e italianista ha difeso Elkann scrivendo che non sempre l'io lirico coincide con l'autore. E allora è pura finzione? È tutto uno scherzetto? Non c'è niente di autobiografico? Su…via…non nascondiamoci dietro a un dito! E poi in letteratura non esistono opere molto più "sboccate" di quei discorsi di quei lanzichenecchi? Se quei ragazzi erano lanzichenecchi, vorrei sapere cosa ne pensa Elkann de "I ragionamenti" dell'Aretino? Non dico di fare come Pasolini che viveva gomito a gomito con i ragazzi di borgata, ma ogni tanto al Nostro scrittore famoso stare in mezzo alla gente, quella vera e che non arriva alla terza settimana del mese, farebbe bene! Certo ho guardato da ragazzo molto spesso la trasmissione televisiva condotta da Elkann e mi sarei aspettato qualcosa di meglio da una persona sobria, elegante, intellettuale, educata come lei. Mi sarei aspettato un altro aplomb. E poi "la Repubblica" non è uno sfogatoio. Ma a onor del vero oggi noi nip (not important person) possiamo scrivere ogni fesseria sui social, quasi impuniti, e al contempo i vip, che non hanno più paura di nessuno, possono dire, scrivere, fare ciò che vogliono (salvo poi bollare noi, il popolo come degli hater patologici). In definitiva oggi, nip o vip, si prendono licenze poetiche, che decenni fa sarebbero state impensabili.

Io porrei l'accento comunque sul fatto che lo scrittore sia ipersensibile e abbia un limite di sopportazione molto basso. E poi vorrei far ricordare a tutti che stare in società significa sopportarsi a vicenda. Invece di leggere il Financial Time consiglierei allo scrittore di rileggere "Il trattato sulla tolleranza" di Voltaire e poi anche quello di Locke. Bisognerebbe prima di misurare la disumanità e l'ignoranza altrui fare i conti con la propria: discorso valido per tutti. Inoltre bisognerebbe ricordare il concetto di non-luogo di Augè. Il treno è un non-luogo, dove per alcune ore bisogna convivere forzatamente con degli sconosciuti, nostro malgrado. Ma essendo un non-luogo ha anche dei vantaggi, specialmente se il viaggio è a lunga percorrenza: si può conoscere gente nuova, si può raccontare a sconosciuti la nostra vita, confidandoci totalmente, oppure si può inventare vite immaginarie. E vorrei concludere scrivendo a coloro che danno addosso a Elkann che chiunque nella sua vita ha apostrofato il prossimo con brutte parole (non siamo ipocriti), attribuendogli gli epiteti di gentaglia, rozzo, incivile, troglodita e peggio ancora. Anzi dare del lanzichenecco non è una grave offesa, non è troppo volgare e dispregiativa. Ma allo stesso tempo bisogna ricordare che siamo sempre i lanzichenecchi di qualcuno, come ha ricordato lo scrittore Paolo Di Paolo. E chissà…forse lo stesso Elkann era un lanzichenecco per il suocero Gianni Agnelli! 

 

80 buone, semplici ragioni per non stroncare libri di poesia...

lug 212023

 

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Non bisognerebbe mai stroncare libri di poesia italiana

PERCHÉ …

se vendono come i libri di Andrew Faber, Guido Catalano, Franco Arminio, Gio Evan, allora sono manna per le case editrici che possono fare cassa. Quindi non bisogna rompere gli zebedei, anche se forse quella non è vera poesia.

se non vendono certi libri, non bisogna far "piovere sul bagnato", per usare un'espressione di Montale. 

i poeti, veri, aspiranti, sedicenti se la prenderanno personalmente con voi, in quanto la stroncatura è per loro una ferita narcisistica.

molto raramente una stroncatura insegna davvero qualcosa a un poeta o ai lettori.

stroncando si suscita timore reverenziale ma non si cucca. 

tra tutta la poesia pubblicata solo una minuscola parte raggiunge il livello minimo di decenza. Se si dovesse stroncare tutto ciò che non è decente, non si finirebbe più. Stroncare solo qualcuno significa avercela con lui o fare comunque un'operazione faziosa o ingiusta. O si stronca tutti i pessimi poeti o non si stronca nessuno. Portare uno sfortunato come exemplum è ingiusto. 

bisogna considerare la buona fede e la buona volontà di chi scrive versi. Ci vuole pazienza, umana comprensione, un minimo di sopportazione.

 in quest'epoca dominano incontrastati il narcisismo e l'esibizionismo. I poeti non sono da meno. Quindi bisogna tollerare questi disturbi psicologici, che il nostro tempo slatentizza. 

anche scrivere brutti versi è una passione innocente. Che male vi hanno fatto i cattivi poeti in fondo? 

si rischia sempre più spesso di stroncare per puro gusto personale. 

 

i poeti, veri o presunti, credono molto in quello che scrivono. Lasciamoli credere in ciò che vogliono. Anche nelle loro pessime cose. 

non è colpa dei poeti se le persone in genere considerano grandi poeti coloro che sanno semplicemente andare a capo.

anche chi stronca si può sbagliare.

stroncare è una pessima azione.

stroncando si fa del male al poeta più che del bene.

 ogni poeta ha bisogno di essere incoraggiato e non demoralizzato. 

stroncando si uccide un sogno.

si può sempre criticare i punti deboli e i difetti di un libro in modo privato, comunicandoli solo al poeta.

non vale la pena di stroncare.

una stroncatura potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso di un poeta depresso e indurlo al suicidio.

stroncare è un modo letterario di menare le mani.

solo pochi hanno davvero l'autorevolezza per stroncare.

ma non vi fanno un poco di tenerezza i pessimi poeti? 

oggi l'epiteto di poeta è un contentino che danno a molti. 

i poeti, veri o presunti, nella maggioranza dei casi pubblicano a pagamento e criticarli negativamente dopo che si sono accollati certe spese editoriali è un piccolo atto sadico, di cattiveria, questa volta gratuita.

la stroncatura non cambia il mondo della comunità poetica, né il mondo editoriale.

la stroncatura è un genere datato, ormai finito.

la stroncatura in Italia non è quasi mai obiettiva, è sempre faziosa. Il critico prende di mira i suoi nemici giurati e poi osanna i suoi amichetti, i suoi sodali e naturalmente ha un occhio di riguardo per gli amici degli amici. Purtroppo, diciamocelo francamente, è davvero così.

la critica letteraria non può essere per niente obiettiva, perché mancano canoni estetici, metri di giudizio con cui valutare e ismi in cui incanalare gli autori, come un tempo.

la stroncatura è un opinione molto discutibile, che viene presentata come un dogma o quantomeno come una certezza assoluta.

bisogna valutare anche le conseguenze psicologiche e la sofferenza interiore di chi viene stroncato.

 chi stronca si mette su un piedistallo e si considera superiore.

non è detto che il critico abbia ragione a tutti i costi. 

siamo tutti fallibili, sia chi scrive versi, sia chi li critica.

ci vuole bonaria indulgenza, poiché siamo tutti esseri umani.

 la letteratura non è una scienza esatta. Nemmeno nessuna scienza oggi è esatta.

per quieto vivere è meglio non stroncare. Stroncare significa farsi dei nemici. 

alcuni poeti sono convinti di essere grandi poeti. Lasciateli pure vivere delle loro albagie, delle loro illusioni.

 alcuni estimatori di questi poeti si sentirebbero feriti o considerati degli idioti.

il mondo poetico italiano è già in una condizione desolante. Non affossiamolo ulteriormente. 

i poeti italiani hanno già tantissimi detrattori.

ci penseranno i posteri, se ci saranno, a distinguere il grano dal loglio.

la poesia è marginale e stroncando a ogni modo non si desta l'interesse.

stroncare è pura partigianeria, intesa nel senso più deteriore del termine, spacciata spesso per militanza. 

stroncando si dà troppa importanza alla vittima.

la vittima potrebbe farvi una causa civile.

meglio il silenzio, l'indifferenza al clamore che suscita una stroncatura.

al mondo d'oggi chiunque trova il diritto di replica e finirebbe tutto con una rissa sui social o sui blog letterari senza esclusione di colpi o quasi.

stroncare non è più pedagogico 

stroncare è una perdita di tempo.

la poesia italiana è una piccolissima torta in cui troppe persone vogliono una fetta. 

ci possono essere poeti, veri o presunti, che potranno perseguitarvi e diventare vostri troll, hater, stalker.

 stroncare può essere considerato un atto di bullismo o cyberbullismo.

stroncare spesso significa partire lancia in resta, accusare per partito preso senza ragionare con equanimità.

stroncare è manifestazione di puro livore.

dei punti di forza ci sono in ogni libro e nella stroncatura vengono omessi, dimenticati, totalmente rimossi.

chi lo dice che dietro a una stroncatura ci sia dietro una questione personale, una ripicca, un'antipatia, un'idiosincrasia, una vendetta? 

nessuno sa più stroncare come una volta.

uno si fa terra bruciata nella comunità poetica.

dietro a ogni libro c'è una persona che merita rispetto della sua dignità umana.

anche la pubblicità negativa è pur sempre pubblicità. 

si rischia di essere divisivi.

si rischia di non finirla più. Il poeta stroncato passerà alla controffensiva. Alcuni lettori commenteranno, dicendo che non sono d'accordo. La discussione potrebbe tirare per le lunghe. 

stroncando non si controbilancia la moltitudine di elogi e di endorsement fatta da tanti recensori ai poeti. 

la stroncatura viene ritenuta un atto di lesa maestà.

ci sono cose molto peggiori di scrivere brutti versi: ad esempio criticare malamente brutti versi, sentendosi superiori. 

una bugia innocente è meglio di una verità amara.

anche i migliori intellettuali e le migliori menti possono scrivere brutti versi. Nessuno ne è immune.

tanto i poeti comunque continueranno a scrivere ostinati e non si autocensureranno. 

spesso il critico, giunto a una certa età, intraprende l'attività poetica e allora le stroncature potrebbero ritorcerglisi contro.

la comunità poetica potrebbe esercitare una damnatio memoriae da morti.

certi pessimi libri di poesia sono davvero sotto la soglia del giudizio critico di un qualsiasi recensore onesto e allora non bisogna scriverne.

chiunque al mondo d'oggi pensa di avere diritto a una buona reputazione di poeta. 

la stroncatura suscita gli stessi bassi istinti sadici e voyeuristici di chi guardava bruciare Giovanna d'Arco.

chi lo dice che in futuro quei brutti versi non  saranno ritenuti dei capolavori? 

le stroncature non vanno più di moda.

le agenzie letterarie non vi pagano se scrivete stroncature.

una stroncatura tira l'altra e troppe stroncature creano il deserto.

prima di stroncare i libri di poesia gli stessi critici dovrebbero fare molte denunce sociali per questioni molto più importanti.

è meglio parlare bene dei migliori che male dei peggiori.

facendo un'analisi costi/benefici, uno ci guadagna di più a non stroncare.

 

 

Sull'innamoramento (pillola di psicologia)

lug 142023

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L'Innamoramento è qualcosa che proviamo tutti nella vita. Lo hanno provato anche santi e assassini, orgiastici e casti, papi, milionari e barboni. Hanno un bel dire certi/e che dicono agli altri: "tu non sai cos'è l'amore", come se fosse qualcosa di esclusivo, qualcosa che riguarda solo loro, perchè hanno nobiltà d'animo, perché gli altri sono incapaci d'amare. In realtà è un sentimento universale, la cui fisiologia (si pensi alla descrizione che ne fa Stendhal) e la cui neurochimica sono ben noti (l'ho già scritto in un altro articolo, ma lo ribadisco, dato che tanti faticano ad accettare questa cosa). Secondo studi recenti sappiamo che negli innamorati si registra un aumento di dopamina e una diminuzione di serotonina. Ogni innamorato è euforico, ossessivo e se viene rifiutato cade spesso in una fase depressiva. Ogni innamorato "impazzisce". Non a caso nella letteratura Tristano e Isotta bevono un filtro d'amore che fa loro trasgredire le regole sociali e l'Orlando furioso perde il suo senno sulla luna. Ma se qualcuno vi dice che non avete mai provato la comunione delle anime, la fusione dei corpi, perché non siete mai stati ricambiati quando eravate innamorati, voi canticchiategli la canzone di Madame "Il bene nel male", dove dice: "L'amore è di chi prova amore e non di chi lo riceve". Ma perché ci innamoriamo sempre dello stesso tipo di persone oppure sempre di persone diverse? C'è chi dice che cerchiamo sempre una persona opposta per completarci meglio e quindi spiega tutto con la complementarità, mentre altri dicono che cerchiamo una persona simile ("chi si somiglia, si piglia"). In realtà la questione è mal posta. Secondo Freud ci sono solo due tipi di innamoramento, ovvero due tipi di scelta dell'oggetto "pulsionale": l'innamoramento narcisistico (in cui si proietta spesso la miglior parte di noi sull'altra persona, idealizzandola) oppure l'innamoramento anaclitico (deriva dal greco, significa appoggiarsi a, in cui si fa riferimento agli archetipi parentali, ovvero alle figure genitoriali, ci si appoggia quindi a una figura genitoriale; ci si ricordi ad esempio del complesso di Edipo, in cui il bambino si innamora della madre).

 

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(tramonto alla Sozzifanti. Foto di Emanuele Morelli)

 

 

 

Secondo Freud quando scegliamo un (s)oggetto d'amore lo possiamo fare solo in due modi: trovando il nostro io nell'altra persona (innamoramento narcisistico) o trovando una figura genitoriale nell'altra persona (tipico è l'esempio della donna che cerca il padre negli uomini). Ma a mio avviso, e qui vado contro Freud, esistono anche uomini che si innamorano molto anti-edipicamente di donne che sono opposte e inverse rispetto alle caratteristiche della madre. Può accadere comunque che una persona abbia nella sua vita tre innamoramenti narcistici e cinque innamoramenti anaclitici oppure dieci innamoramenti narcisistici oppure dieci innamoramenti anaclitici e questo spiegherebbe di volta in volta la grande somiglianza o la grande varietà delle persone amate: capite che non è proprio la stessa cosa della complementarità, mentre è vero che nell'innamoramento narcistico troviamo una persona che ha dei tratti simili a noi, anche e soprattutto perché ci siamo rispecchiati in lei. Invece chi ha sofferto di depressione anaclitica nell'infanzia, dovuta alla perdita di un genitore, di entrambi oppure dell'abbandono di uno o entrambi tenderà ad avere da adulto/a degli innamoramenti anaclitici. A ogni modo di solito le persone nella vita tendono a innamorarsi solo in un modo (narcisistico o anaclitico). Che tipi di innamoramenti erano quelli di Dante e Petrarca? Forse narcisistici, ma nessuno può dirlo con esattezza. Inoltre esistono anche altre due teorie: ci sono psicologi che ritengono che l'innamoramento sia dovuto a una scelta autonoma, quasi razionale, non credendo al colpo di fulmine, e ci sono studiosi che riprendono il concetto di desiderio mimetico di R.Girard, secondo cui i nostri desideri prendono come riferimento i desideri altrui e noi imitiamo gli altri anche nel desiderio, detto in parole povere, noi desideriamo, secondo questa teoria, ciò che desiderano gli altri. In questi tempi di omologazione di massa e di conseguenza di omologazione dei gusti il concetto di desiderio mimetico è sempre più importante. Comunque la scelta del (s)oggetto d'amore in buona parte dei casi è eterodiretta, anche se si dice che si è liberi d'amare. Come vedete la faccenda è complicata, articolata, controversa, di non facile interpretazione.

Due parole di numero sul dolore...

lug 052023

 

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Lo scriveva già Schopenhauer: "La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia". E Leopardi scriveva che la morte "ogni gran dolore, ogni gran male annulla". Una delle più importanti domande che si fa la filosofia dalla notte dei tempi è la seguente: "Perché l'uomo soffre?"
La prima domanda della teodicea (cosa si può dire di Dio) è la seguente: "perché, se esiste Dio, esiste anche il male?", cioè ci si chiede quale sia il senso ultimo, escatologico, finale del male. In medicina ci sono state diverse teorie del dolore: dal localizzazionismo, alla teoria del cancello (che, nonostante alcune lacune, aveva il merito di dare la priorità della percezione del dolore al midollo spinale e al sistema nervoso centrale), ad altre più recenti. Si usa distinguere il dolore fisico da quello esistenziale. Ogni volta che proviamo dolore ci chiediamo: "perché proprio a me?"
Spesso non riusciamo a trovare un senso, una ragione. Consideriamo quasi sempre il nostro dolore di primo acchito un'ingiustizia o una cosa assurda, che sfugge alla nostra comprensione. Ma dovremmo chiederci anche "perché proprio a me?" quando ci toccano delle cose belle nella vita.
Noi esistiamo anche per assorbire, comprendere il dolore altrui. Gli altri sono importanti per noi non solo perché ci possono aiutare a ridurre o a eliminare il nostro dolore, ma perché con gli altri possiamo condividerlo e gli altri possono capirlo, rincuorandoci, sollevandoci. Stare in società significa anche alleviare le pene altrui e farsi alleviare le pene proprie. In una società decente il dolore si rispetta e si condivide. In una società un minimo umana la partecipazione al dolore supera l'indifferenza generale. C'è chi sostiene che esista il dolore perché esiste il male. Eppure si cerca sempre di trovare un senso al dolore, una sua utilità, un insegnamento e mille risvolti positivi. Insomma non tutto viene per nuocere. Eppure molto spesso quando soffriamo ci chiediamo che ce ne facciamo del nostro dolore, in definitiva a quale pro? La risposta non sempre è facile e immediata, spesso non è portata di mano. Il fatto che il dolore non venga distribuito equamente lo consideriamo una grande ingiustizia e viene subito da pensare che a molte brave persone vengono date sofferenze atroci, mentre noti farabutti se la spassano e si godono una bella, lunga vita. Insomma la constatazione che non è uguale per tutti è sempre molto amara, a volte rabbiosa. I moralisti e la Chiesa, stessa secoli fa, pensavano che la peste fosse una punizione divina. Eppure la Bibbia con la storia di Giobbe ci avverte che anche gli uomini giusti possono avere tutte le sfortune e le afflizioni di questo mondo. La stessa Chiesa ha considerato spesso più tardi il dolore come un'espiazione su questa Terra dei propri peccati. Questa nostra società è edonista, ovvero c'è una ricerca smodata di ricerca del piacere, ed è anche biopolitica, come ci insegna Foucault, ovvero cerca di eliminare il dolore e rimandare sempre più in là la morte di ognuno. Eppure c'è in ognuno di noi un lato sadomasochistico, più o meno pronunciato, che ci fa provare piacere a causare dolore agli altri e a noi stessi (si pensi ai comportamenti autodistruttivi, agli atti autolesionistici, ai cattivi stili di vita). A onor del vero nessuno sa con certezza se il dolore è maestro di vita. Secondo la psicologia consideriamo il dolore una fonte inesauribile di insegnamento per ridurre la nostra dissonanza cognitiva. Eschilo e i tragici greci erano dell'idea che il dolore aumentasse la conoscenza, la consapevolezza esistenziale. Cristianamente parlando il dolore è una prova a cui ci sottopone Dio e che ci fa crescere e maturare. A leggere attentamente Epicuro ci accorgiamo che riteneva già l'assenza di dolore un piacere. A conti fatti potremmo pensare che, una volta passato un dolore, non provarlo più è già un grande piacere, un grande sollievo, un'enorme fortuna. Ma purtroppo l'uomo, ogni uomo, dà per scontato il fatto di stare bene, non si rende conto che l'assenza di dolore è una manna dal cielo, a meno che non incappi nel dolore fisico, esistenziale, nel lutto, nella malattia, in un trauma, in una perdita affettiva. Nel dolore si scoprono le cose veramente importanti e prioritarie della vita, si eliminano quelle superflue: il dolore probabilmente ci rende davvero più umani, più saggi, più veri. Il dolore è il più efficace rasoio di Occam: ci fa vedere gli altri sotto una luce nuova, ci fa tagliare molti rami secchi inutili della nostra vita. Per Leopardi il patimento,  ovvero soprattutto il dolore fisico, rende l'uomo più umano e meno insensibile ai problemi altrui. L'uomo però non accetta il dolore, soprattutto il proprio, perché siamo tutti biologicamente e ontologicamente molto egoisti nel nostro intimo. E perché? Perché, come ha scoperto la psicanalisi il dolore è l'anticamera della morte e l'uomo inconsciamente si ritiene immortale. Il nostro inconscio si considera immortale e questo è il motivo per cui ci svegliamo di soprassalto ogni volta che sogniamo di morire. Noi inconsciamente non accettiamo il dolore non solo per un fatto di sopportazione e di resistenza fisica e/o psicologica ma perché non accettiamo la nostra morte. Da giovani il nostro inconscio ha il predominio sulla rassegnazione della ragionevolezza: si considera la morte un evento talmente improbabile da pensarci immortali. Emblematico è il capolavoro "La morte di Ivan Il'ič" di Tolstoj. Il protagonista, il sillogismo "Cesare è un uomo. Tutti gli uomini sono mortali. Cesare è mortale" poteva accettarlo e capirlo perfettamente ma non riferito a sé stesso. Per Heidegger l'esistenza dell'uomo contemporaneo è inautentica, perché si perde nella curiosità, nell'equivoco, nella chiacchiera, nel "si dice". Ecco allora che per il filosofo tedesco l'unico modo per essere autentici è essere per la morte, cioè pensare alla morte come "possibilità di non esserci". Eppure l'uomo secondo Pascal trova qualsiasi escamotage, qualsiasi divertissement per non pensare alla morte. Rimuovere il dolore e la morte fanno parte della natura umana, perché fanno molta paura sotto ogni punto di vista. Vivere in superficie, con grande leggerezza ci viene così spontaneo e immediato. Oggi molto più che in passato. L'ars moriendi di conseguenza è ormai oggi scomparsa.

Moravia, Freud e soprattutto Marcuse...

lug 022023

 

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Consideriamo il rapporto tra Moravia e Freud. Per Dominique Fernandez in “Il romanzo italiano e la crisi della coscienza moderna” Freud va considerato un garante intellettuale di Moravia. Secondo la Fernandez Moravia si è incamminato da solo autonomamente sulle stesse tematiche, scandagliate da Freud. Moravia come Freud considera la sessualità un’esigenza dell’essere umano. Per il cattolicesimo invece il sesso è considerato un peccato. Moravia è freudiano anche nella sua concezione dell’amore. Per lo scrittore l’amore è come Freud un investimento oggettuale da parte di pulsioni sessuali, in vista di un puro e immediato soddisfacimento sessuale. Per Freud nella mente di ogni individuo esistono tre istanze psichiche: Io, Es, Super-Ego. Ma questa struttura tripartita della mente ha una sua precisa cronologia secondo Freud. Alla nascita e nei primi anni di vita è presente solo l’Es. Successivamente si forma l’Io. Quindi per ultimo il Super-Ego (verso i 3-5 anni). La dottrina di Freud è stato spesso accusata di pansessualismo. Tutto dipende e scaturisce dal sesso. Per Freud la sessualità riveste un’importanza fondamentale nell’eziologia della nevrosi. Il disagio della civiltà dell’uomo moderno per Freud si gioca tutto sul rapporto tra esigenze naturali innate (quindi anche sessuali) e civiltà. Anche per Moravia tutto ha inizio dall’Es. Anche Moravia mette in primo piano la libido nei suoi romanzi. Anche per Moravia libido e nevrosi sono strettamente connesse. Inoltre Freud non accenna nel suo lavoro a quelle che chiamiamo oggi subpersonalità e neanche Moravia lo fa nei suoi scritti.

 

“L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse compare in Italia nel 1967. E’ una delle opere preferite dai sessantottini. Il sociologo marxista Marcuse diventa uno dei maestri di pensiero del’68. Non riesco a capire come mai la critica letteraria non abbia mai rilevato non dico l’influenza diretta di Marcuse sul pensiero di Moravia, ma perlomeno dei richiami, delle somiglianze, delle analogie. Marcuse nel terzo capitolo de “L’uomo a una dimensione” tratta della DESUBLIMAZIONE REPRESSIVA, ovvero della desublimazione imposta dal Potere. In parole povere un popolo sublimante può cambiare le cose, può fare anche la rivoluzione. Un popolo desublimato invece non può niente. La desublimazione avviene nell’arte moderna ad esempio, con lo sfruttamento commerciale delle espressioni artistiche e con la fruizione semplicistica di grandi opere dei maestri di pensiero. Faccio un esempio dello sfruttamento commerciale dell’arte: mettere Mozart come sottofondo di una pubblicità, mettere le frasi dei poeti o gli aforismi dei letterati nei cioccolatini eccetera eccetera. Entrambi questi processi tolgono il carattere rivoluzionario delle opere artistiche. Ma esiste per Marcuse anche una desublimazione repressiva sessuale nella società. Intendiamoci bene: il piacere non è solo sessuale. Ci sono svariate fonti di piacere, di cui il sesso è la più popolare e il più intenso. Altri piaceri sono: il vino, il fumo, il cibo, viaggiare, vedere film, leggere libri , etc, etc. Ma secondo Marcuse il Potere cerca di canalizzare tutta la libido dell’uomo moderno nella sessualità. La razionalità tecnologica ad esempio ha permesso all’uomo diverse comodità, però allo stesso tempo gli ha tolto il piacere del contatto con la natura. Marcuse fa un esempio preciso: nella società moderna i fidanzati o gli sposi fanno l’amore in macchina oppure in camera da letto. Non certo come nella società contadina, in cui potevano fare l’amore in un campo. Ma nel campo esisteva il contatto con la natura, nell’abitacolo di un automobile no. Marcuse scrive che nel caso del far l’amore in un prato “l’ambiente partecipa all’investimento libidico” e di conseguenza “la libido si effonde al di là delle zone erogene immediate, in un processo di sublimazione non repressivo”, nel caso del farlo in macchina no. La società industriale secondo Marcuse è più permissiva: il sesso viene permesso anche sul luogo di lavoro ad esempio, i richiami sessuali possono essere proposti anche in televisione. Secondo Marcuse anche i movimenti dei lavoratori nella catena di montaggio sono un richiamo al piacere genitale. Secondo Walker infatti “i movimenti ritmici interdipendenti” generano soddisfazione erotica. E Marcuse inoltre cita anche Sartre che ne “La ragione dialettica” scrive: “nei primi tempi delle macchine semiautomatiche, certe inchieste hanno mostrato che le operaie a cottimo si lasciavano andare, lavorando, a fantasticherie d’ordine sessuale, rivedevano nella mente la camera, il lume, la notte…..”. Però il piacere viene incanalato solo e soltanto verso la genitalità, di conseguenza la quantità di piacere è minore. Per dirla alla Brel esiste la passione (erotica), ma tra i due sessi è scomparsa la tenerezza. Il rafforzamento dell’erotismo inoltre secondo Marcuse causa una minore energia aggressiva: la coscienza infelice dell’uomo moderno sarebbe perciò fermata dall’attuazione della rivolta tramite questo processo di desublimazione repressiva. Allo stesso tempo per gli esseri umani di quest’epoca l’erotismo sarebbe l’unica fonte di piacere e l’unica valvola di sfogo. Ecco allora che al momento dell’amplesso l’uomo ci mette non solo il piacere, ma anche tutta la sua disperazione, la sua infelicità per come stanno le cose. L’orgasmo nella società consumistica è l’unica via di uscita per tutte le frustrazioni e le oppressioni subite. Ecco perchè ne “L’uomo che guarda” di Moravia le amanti del padre del protagonista sono capaci di “un coraggio diabolico”. Ecco perché gli amanti non lo fanno con delicatezza, con tenerezza, ma con violenza, brutalità, con istinto animalesco. Ecco perché nella stragrande maggioranza dei romanzi di Moravia i personaggi fanno spesso sesso in camere d’albergo, macchine, camere da letto, etc etc…..ma raramente in aperta campagna. Resta però da stabilire quale sia il rapporto tra Marcuse e Moravia. Sono arrivati alle stesse intuizioni da soli? Marcuse ha subito l’influenza di Moravia o viceversa? È un'analogia forzata quella tra Moravia e Marcuse? Mi sono avventurato troppo? Tutto questo è da stabilire.

 

"La noia" di Moravia, il possesso e il desiderio...

lug 022023

 

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Moravia, la noia e il desiderio:
Ci sono tre modi per combattere e vincere la noia: fare le stesse cose in modo diverso, fare cose nuove, cambiare il rapporto tra la propria coscienza e le cose. Cercare di analizzare questo terzo modo significa scandagliare l'insondabile. E' quello che Moravia fa nel suo romanzo-saggio: l'analisi dell'ontologia della noia. Come ha rilevato la critica Moravia scrive in "prima persona intellettuale": l'io narrante è lo stesso autore. Moravia inizia questo viaggio metafisico interminabile con quella che nell'epilogo definirà "un'ambizione insostenibile". Nel primo capitolo il protagonista confessa che si annoia sin dall'adolescenza. Addirittura una volta ha cercato di interpretare la storia universale sulla base della noia. La noia è dovuta ad una mancata conciliazione tra la coscienza e il desiderio. Flaiano diceva che per essere felici bisogna desiderare quello che si ha. Ma -ahimè- è cosa ardua, dato che raggiunto un obiettivo, posseduto un oggetto, il nostro desiderio si sposta e si proietta verso altre mete. Moravia vuole smontare questo meccanismo, cercare di carpirne le leggi. Vuole scoprire un modo per chiamarsi fuori da questo circolo vizioso. Moravia nel corso della narrazione ci dà molteplici definizioni della noia. Me le sono annotate: "la noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità nei confronti della realtà", "una malattia degli oggetti", "incapacità di uscire da me stesso", "malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l'avvizzimento degli oggetti", "specie di nebbia nella quale il mio pensiero si smarrisce". Per analizzare la noia Moravia abbandona qualsiasi tipo di sovrastrutture e qualsiasi tipo di schemi precostituiti: niente Marx, niente Freud e nessun altro maestro di pensiero che sé stesso. Le sue considerazioni sono del tutto personali: dall'inizio alla fine del romanzo. Il pittore protagonista, dopo aver distrutto a coltellate un quadro, smette di dipingere. Fino ad allora dipingeva per cercare di instaurare un rapporto autentico con la realtà. Incontra Cecilia, la modella dell'anziano pittore Balestrieri, suo vicino di casa. Successivamente verrà a sapere che Balestrieri è morto, mentre stava facendo l'amore con Cecilia. Essendo un dongiovanni Balestrieri, il protagonista si chiede che cosa mai avesse Cecilia per aver fissato il desiderio nell'ultimo periodo della sua vita unicamente su di lei. Cecilia diventa quindi lo strumento per analizzare la noia. Il protagonista Dino ne diventa l'amante; però a questo punto scopre che non ha niente di speciale. Non sa baciare. Nel dialogo tra il protagonista e la ragazza regna l'incomunicabilità. Nelle conversazioni tra i due le risposte della ragazza sono sempre superficiali ed evasive: non lo so, uffa, non ti capisco, non ho niente da dire, non saprei, niente, etc etc (queste espressioni sono ricorrenti nelle sue risposte). Il protagonista si chiede se è lei ad essere noiosa o è lui che si annoia. Ma il viaggio metafisico continua. Cecilia ormai è il simbolo della realtà, tant'è che Moravia scrive "volevo ignorare e conoscere Cecilia, ossia la realtà". Il tentativo che compie il protagonista è quello di disfarsi totalmente della realtà. Cerca di farlo prima con ripetuti e ossessivi possessi fisici, pensando che questo possa portare alla fine al possesso mentale su Cecilia e di conseguenza sulla realtà. Ma nonostante i numerosi amplessi il protagonista si accorge che talvolta Cecilia è altrove, in certi momenti addirittura chiude gli occhi: si estranea, è distante. Allo stesso modo gli oggetti per quanto possono essere comprati ed essere posseduti (usati e logorati), rimarranno sempre per ogni uomo circondati da un alone di mistero e di impenetrabilità. A questo proposito mi vengono in mente i versi di una poesia breve di Auden: "Tavoli e sedie e sofà di casa/sanno cose di noi/ che i nostri amanti ignorano". Inoltre Borges a riguardo scrive: "Quante cose: atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi; ci servono come taciti schiavi senza sguardo, stranamente segrete. Dureranno più in là del nostro oblio, non sapranno mai che ce ne siamo andati." Il possesso insomma ha i suoi limiti sia con gli oggetti che con le persone: è un vicolo senza uscita. Allora il protagonista per distruggere "l'autonomia e il mistero" di Cecilia (e anche della realtà) utilizza il moralismo, ossia giudicarla significa possederla e disfarsene. Allora indaga sui rapporti tra la ragazza e l'attore Luciani. La pedina, la spia. Ma qui il discorso si complica. Fino a quando Dino riteneva che Cecilia fosse innamorata di lui la relazione era scontata. Quando invece si accorge che la ragazza non lo ama, allora il desiderio di lei aumenta. Si comporta come se fosse un innamorato geloso. In un certo senso è geloso: la sua però non è una gelosia dovuta ad angoscia di separazione, ma è una gelosia determinata soltanto dal possesso esclusivo che credeva di avere nei confronti della ragazza. Deve ancora tentare altre strade, come quella della mercificazione (Cecilia diventa Danae…stessa mitologia de "La vita interiore"). Ma Cecilia non accetta la proposta di matrimonio né di instaurare un rapporto puramente mercenario. E' ancora una volta autonoma e lo dimostra andando a Ponza con l'altro suo amante Luciani. Il protagonista ha l'incidente in macchina. Dopo l'incidente ha la rinascita e trova il modo per chiamarsi fuori dal meccanismo del desiderio inconciliabile (dato che l'animo umano è insaziabile): ecco la contemplazione disinteressata dell'albero. Può così finalmente "amare in modo nuovo Cecilia" e questo vuol dire " ricominciare a dipingere".

Ma ora vorrei lasciare il romanzo di Moravia e fare delle considerazioni a largo raggio.
La presenza del desiderio è la dimostrazione che non siamo monadi isolate, che nessuno è un’entità a sé stante. Necessitiamo dell’alterità, dell’altro da noi. Ci sarà sempre una parte di noi, anche una minuscola regione subcosciente, che brama qualcosa che è altro da noi: oggetto o persona, talvolta ridotta a oggetto. Per non rendere ancora più equivoco il concetto di desiderio dovremmo attuare una netta distinzione tra questo e l’aspirazione (altrimenti finiremo in un ginepraio): aspirare all’uguaglianza, alla libertà, alla prosperità di tutti sono sentimenti più nobili e più alti dell’impulso che muove il semplice desiderio rivolto a un oggetto o a una persona. Se così non facessimo dovremmo trattare del legame tra desiderio e valore e ciò implicherebbe necessariamente valutare che un valore è difficilmente classificabile e che talvolta questo nasce da una problematica di carattere generale, talvolta è una norma o un codice morale. Finiremo inevitabilmente per trattare di soggettivismo e di relativismo di valori e non finiremo più. Diciamo piuttosto che concordiamo con chi ritiene che il valore sia “un fine desiderabile”, ma noi tratteremo solo di desideri superficiali e semplici, che hanno oggetti del desiderio definiti. E’ un’impresa ardua giungere a una fenomenologia del desiderio. Non mi risulta che qualche filosofo sia riuscito a dare una definizione esaustiva. Il desiderio infatti si confonde con la memoria. Memoria e desiderio attingono sia dal mondo sensibile che dall’immaginazione. Memoria, desiderio, immaginazione, realtà: si finisce quindi in un circolo vizioso della ragione. Ad intuito possiamo ritenere - semplificando un po’- che il desiderio si situi tra vedere e pensare, tra soggetto e oggetto, tra reale e immaginario, tra fatto e rappresentazione mentale, tra dimensione intrapsichica e dimensione intersoggettiva, tra assenza e possesso, tra essere e poter-essere. Etica e morale pongono dei limiti e dei freni al nostro desiderio. Ma non vorrei dilungarmi oltre riguardo alla genealogia della morale. Perfino i nostri stessi sogni risentono di una censura psichica, che sposta e condensa. I sogni non sempre hanno un contenuto manifesto, ma possono rivelare i nostri desideri repressi, trasformati dal lavoro onirico. Grazie a Nietzsche e a Freud abbiamo appreso qualche informazione utile su desiderio, morale e sogno. Per le religioni orientali l’uomo per eliminare la sofferenza deve eliminare il desiderio e annichilire l’io. Deve acquisire la consapevolezza che ciò che desidera è effimero, è pura illusione. Semplificando potremmo affermare che viene svalutato sia il soggetto che l’oggetto del desiderio. In Oriente il desiderio è considerato un fattore limitante per la libertà umana. Ma per noi occidentali è sinonimo di libertà. Noi occidentali lo consideriamo come inesauribile e ineludibile. Noi occidentali abbiamo anche cercato nel corso dei secoli di conciliarci con il desiderio. Gli stoici ad esempio cercarono di dominare le passioni. Flaiano sosteneva che bisognava desiderare ciò che si aveva. Ottimo aforisma, che però non contiene altro che un imperativo categorico irrealizzabile. Si desidera solo ciò che non si è mai avuto o ciò che si è avuto e si è perduto. L’orizzonte del desiderio comprende solo l’assenza e la perdita. Desiderare in fondo significa volere il possesso e/o la presenza di una determinata cosa o persona. Una volta raggiunto l’obiettivo nella maggioranza dei casi diminuisce (a volte addirittura scompare) il desiderio e subentra l’abitudine, la noia, l’incomunicabilità (se si tratta di una persona). E’ difficile rinnovare continuamente il desiderio verso lo stesso oggetto o la stessa persona. Il desiderio è dovuto molto spesso alla novità o ad una separazione non ancora elaborata. Probabilmente nasce da un impasto di realtà e immaginazione e tende a diminuire (e spesso a scomparire) quando il desiderante instaura una relazione con il proprio oggetto del desiderio. Esiste quindi una relazione di inversa proporzionalità tra desiderare ed avere quell’oggetto del desiderio. Una persona poi - una volta ottenuto ciò che desiderava- continua a desiderare ancora: non è mai paga. Un racconto sufi è un’ottima metafora del desiderio incessante dell’uomo. Narra di un mendicante, che chiede a un imperatore di riempire la sua ciotola. Ma l’impresa si rivela impossibile perché il mendicante aveva adibito a ciotola il teschio di un uomo. Infatti era impossibile riempire quel cranio perché voleva sempre di più. L’avere implica riflettere sui limiti del rapporto tra noi e l’oggetto posseduto. Il desiderare invece ci porta a meditare su uno dei maggiori problemi della filosofia: le nostre rappresentazioni mentali della realtà non sempre coincidono con la realtà stessa. In parole più povere a tutti può accadere di essere vittime di un desiderio non realistico o addirittura irrealizzabile. Il desiderare implica necessariamente anche ricercare una spiegazione della ragione per cui abbiamo scelto quel determinato oggetto del desiderio. Spesso si desidera ciò che è bello. Quindi noi abbiamo selezionato tra i tanti quell’oggetto del desiderio perché soddisfa certi canoni e criteri estetici individuali e/o collettivi. Ma potremmo anche aver scelto il nostro oggetto del desiderio perché ci è utile, ci dà piacere o provoca in noi uno stato di benessere interiore.

Direi quindi che nella maggior parte dei casi il desiderio cessa con il possesso. Il possesso è spesso la morte del desiderio. E questo non accade solo e soltanto con gli oggetti, che un tempo ambiti finiscono spesso per essere dimenticati in un angolo remoto della casa, ma anche in quel che chiamano amore. La donna desiderata una volta, diventata moglie non è più desiderabile quanto prima. L’eros diventa allora una formalità da sbrigare o talvolta un’esigenza fisiologica da soddisfare. Diventa solo una pulsione sessuale da completare per ripristinare l’equilibrio. L’abitudine soggioga allora la passione. E’ un problema che l’uomo si porta nell’animo dalla notte dei tempi quello del riuscire a conciliarsi con il proprio desiderio. E’ sempre accaduto che l’uomo cercasse di appropriarsi di più oggetti possibili per avidità e per vanità. In entrambi i casi però gli oggetti devono considerarsi come protesi mal riuscite del proprio ego o come tentativo goffo di rafforzarlo. Freud parlava di principio di realtà. Secondo il celebre psicanalista viennese nei soggetti maturi il principio di piacere deve sempre essere supervisionato dal principio di realtà. Ciò assicurerebbe dei limiti alle frustrazioni che potrebbero derivare nel prefiggersi degli obiettivi irraggiungibili per l’individuo. Nonostante il principio di realtà freudiano che esamina le nostre aspirazioni e le nostre mete, la noia di ciò che abbiamo e di ciò che possediamo è sempre in agguato. Il rapporto con gli stessi oggetti familiari ci annoia. Eppure abbiamo una contraddizione interna riguardo agli oggetti, ancora più accentuata da questa epoca consumistica: desideriamo gli oggetti, li andiamo a visionare nei negozi, ci facciamo prendere dall’istinto di acquisizione o da qualcosa del genere, li compriamo, ci sentiamo rassicurati perché avremo qualcosa di nuovo a cui dedicare attenzione per i prossimi giorni, facciamo in modo che gli oggetti occupino sempre più gli spazi vuoti della nostra casa, come se invece degli spazi vuoti della nostra abitazione potessero riempire gli spazi vuoti del nostro animo, il nostro senso di solitudine. Alcune persone hanno un bisogno compulsivo di fare shopping. A costo di lasciare debiti devono fare acquisti. Comprano libri che non leggeranno mai, dischi che non ascolteranno mai, oggetti che non hanno per loro nessuna utilità pratica né nessuna utilità. Eppure sono momentaneamente appagati. Il guaio è che il giorno dopo sono punto e daccapo. Come se non bastasse si è consumatori non solo perché compriamo continuamente secondo i nostri bisogni reali, i nostri desideri ed i dettami della pubblicità, ma anche perché i prodotti hanno vita breve e sono stati studiati per rompersi a breve termine. Si chiama obsolescenza programmata. Nel giro di poco tempo gli oggetti comprati si rompono e quindi siamo costretti a portare ad aggiustare o a ricomprare. Quanto dura uno stereo, un computer, un’automobile? Ogni quanto le portiamo ad aggiustare? Ogni quanto li ricompriamo perché non vanno più? I prodotti sono fatti perché si rompano nel giro di pochi anni, altrimenti tutto il sistema produttivo andrebbe in crisi. Se il problema di conciliarsi con il proprio desiderio è un problema antico per l’umanità, a mio avviso questa società lo ha aumentato esponenzialmente, dato che l’industria (avvalendosi del marketing e della pubblicità) cerca continuamente di creare nuovi bisogni. Viene allora da interrogarsi su quale significato dare alla parola bisogno perché secondo alcuni questa muta al mutare del contesto storico, sociale, civile, scientifico. Qualche decennio fa non era necessario il bagno nelle case, mentre oggi nessuno ne farebbe a meno e nessuno andrebbe ad evacuare quotidianamente nel campo vicino a casa. Oggi viene considerato necessario possedere un cellulare, quando fino a pochi anni tutti vivevano senza. Alcuni studiosi sostengono che si tratta in ogni caso di bisogni: prima i bisogni era fisici, oggi invece bisogna rilevare un aumento dei bisogni psicologici. A mio avviso invece il rischio della società odierna è quello di confondere i bisogni primari con le comodità ed i comfort. Marx parlava di creazione di falsi bisogni nella società capitalistica. La pubblicità cerca continuamente (e spesso ci riesce) di convertire le comodità in bisogni primari o quantomeno vuole che i comfort acquistino nell’ordine simbolico dei consumatori la stessa valenza dei bisogni primari. Con questo non voglio essere apocalittico, non voglio configurare scenari inquietanti; è sufficiente solo avere presente la netta linea di demarcazione tra bisogno e comodità. Anni fa effettuando un blind test i ricercatori scoprirono che per la maggior parte delle persone la Pepsi era più buona della Coca-Cola. Il dottor Montague scoprì, studiando l'attività cerebrale di 67 soggetti, che quando le persone vedevano ciò che bevevano allora ritenevano più buona la Coca-Cola. Quest'ultima era la più venduta e considerata la più buona perché nelle pubblicità aveva associato il proprio marchio ad immagini di felicità. Questo è uno degli esperimenti di neuromarketing più famosi. Ci sono già le suggestioni dei singoli individui che possono essere potenti. Immaginiamoci i condizionamenti dei mass media e la pressione esercitata dal conformismo! La merce comunque è sempre più una "astrazione". Si pensi a quanto valore aggiunto può dare un marchio, al di là del costo effettivo del prodotto. Si pensi a tanti vestiti, prodotti a basso costo nel terzo mondo, che poi diventano costosi perché i loro marchi sono famosi e ritenuti esclusivi. In definitiva abbiamo la crisi dell’oggetto, la crisi del soggetto e la crisi del rapporto tra oggetto e soggetto a causa di questo tipo di società. A questo riguardo è significativo un racconto di Moravia, intitolato “Palocco”. Un’infermiera a domicilio supplisce alle proprie carenze affettive idolatrando un cane di nome Palocco, che viene investito ed ucciso da una macchina. Da allora la donna considera Palocco una sorta di spirito guida, un’entità astratta con cui parlare quando è da sola a casa. In realtà Palocco non è altro che una proiezione psichica della donna, una parte di se stessa, che ad esempio le vieta di convincere il signor Gesualdo a comprarle una pelliccia ecologica, che ha sognato. In questo racconto scabro, scarno ed essenziale di Moravia viene rappresentata in modo efficace la dinamica del desiderio della protagonista in contrasto con il suo senso di solitudine e la sua crisi psicologica. Non c’è solo la crisi del rapporto tra soggetto ed oggetto, c’è anche la crisi del soggetto. La donna ingenuamente cerca di stringere un patto con il signor Gesualdo ed un suo amico per avere la pelliccia, ma dopo una discussione capisce che per averla deve umiliarsi di fronte a loro, deve fingere di essere un cane. Deve quindi snaturarsi per avere l’oggetto del proprio desiderio. Ma istintivamente -questione di un attimo- capisce che non può snaturarsi e fingere di essere un animale e scappa via. Moravia tramite un caso-limite, una situazione paradossale evidenzia una condizione sempre più frequente dell’essere umano in questo tipo di società, e cioè di chi si snatura a costo di perdere la propria identità per avere degli oggetti. Ma forse nel fondo della propria interiorità resta un residuo di ragionevolezza…

 

 

Sono davvero solo canzonette?

giu 202023

 

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 (Nella foto Alice, al secolo Carla Bissi)

La musica, dal punto di vista sociale, è un linguaggio universale, emoziona chiunque, può abbattere barriere invisibili tra le persone e può veicolare messaggi importanti. A livello individuale sono ormai accertati i benefici della Musicoterapia[1]. Io ascolto spesso su radio Vintage[2] e su YouTube[3] rock progressive italiano e cantautori italiani. Per quanto riguarda il rock progressive ascolto Pfm, Eugenio Finardi, Alan Sorrenti (mi piacciono in particolare i brani remastered[4] "Vola", "Le tue radici", "Figli delle stelle", "Vorrei incontrarti"), Claudio Rocchi ("La realtà non esiste", "La tua prima luna"). Il rock progressive era caratterizzato da testi elaborati e mai banali, da musiche complesse e sofisticate. Non capisco come mai ci siamo fatti colonizzare così tanto musicalmente dagli americani. La nostra esterofilia, a mio avviso, sfiora l’imbecillità. Forse non potevamo ribellarci ai diktat del mercato? Intendiamoci: è sempre preferibile l’America che ci ha colonizzato culturalmente e sottoculturalmente a quella che vuole esportare con l’esercito la democrazia in alcune nazioni povere. Le radio passano esclusivamente musica straniera, molto spesso anglofona. È dai tempi dei Beatles che è così, anche se ai tempi dei tempi pochi sapevano l’inglese; lo stesso Shel Shapiro quando venne in Italia, si sentì un pesce fuor d’acqua perché pochi conoscevano la sua lingua. Attualmente l'industria discografica è in crisi. Molti ascoltano la musica gratis su internet. Molti collegano il tablet o il cellulare allo stereo della automobile. È il cosiddetto Bluetooth[5]. Chiunque lo può fare ormai gratis. C'è spazio solo per la musica commerciale, soprattutto straniera. Negli anni settanta i giovani guardavano all’America, ma buscavano anche ad Oriente. In quegli anni c’era molto fermento. I giovani riflettevano su tutto. Basta pensare alle radio libere, che portarono una ventata d’aria nuova e fecero un quarantotto, ebbero il merito di scoperchiare le carte. Poi tutto è ritornato come prima. Probabilmente peggio. Oggi il mercato in Italia è determinato dall’oligopolio delle major[6]. La musica indie[7] si sta facendo conoscere, ma soccombe ancora rispetto alle major. È tutto un business. Ogni canzone è soprattutto un prodotto commerciale da canticchiare e ballare. Insomma panem et circenses. Un piacere immediato e indiscriminato per tutti. C'è chi la pensa come Adorno. "Il concetto di gusto – scriveva il filosofo - è superato in quanto non c’è più una scelta: l’esistenza del soggetto stesso, che potrebbe conservare questo gusto, è diventata problematica quanto, al polo opposto, il diritto alla libertà di una scelta che non gli è più empiricamente possibile. […] Per chi si trova accerchiato da merci musicali standardizzate, valutare è diventata una finzione"[8]. Per Adorno dietro ogni acquisto di disco e dietro ogni gusto musicale c'è la pressione e la massificazione della cosiddetta industria culturale, di cui la musica leggera fa parte. Il pubblico gode acriticamente della musica, che è totalmente mercificata. Una delle ragioni per cui Nietzsche criticava Wagner era quella di essere istrionico, populista, folcloristico. La stessa cosa potremmo dirla della musica leggera, che è nazionalpopolare. C'è chi dice che la musica leggera sia satanica[9] e che le star siano diseducative per i loro eccessi. A questo proposito Vecchioni in un articolo di giornale, anni fa, scrisse che dovrebbero essere invertite le parti tra insegnanti e rockstar: ai primi grandi ricchezze e onori, ai secondi che vivono di eccessi, per qualche illuminazione interiore e per avere l'ispirazione, degli stipendi come tanti. La critica al sistema di Vecchioni era ironica ma sacrosanta. Le canzoni, insomma, oggi fanno parte del divertimentificio[10] e non devono più far riflettere. Anzi talvolta ho la vaga impressione che più sono banali i ritornelli e più entrano nella testa delle persone. Non solo ma c’è da dire che spesso i fruitori della musica leggera sono ragazzi di età compresa tra i 15 e i 25 anni: ciò spiega molte cose. Oggi il mondo è Spotify[11], almeno per i millenials e la generazione z (i cosiddetti nativi digitali). Forse sono io che appartengo alla generazione x (sono del 1972)[12] e sono rimasto indietro, troppo ancorato ai miei tempi. Oppure più probabilmente tutti noi italiani imitiamo sempre le mode americane con ritardo; in fondo in Italia rapper e trapper[13] sono comparsi dopo anni e anni di ritardo rispetto all’America, così come nel secondo Novecento si diffuse con ritardo da noi la controcultura americana. Noi importiamo continuamente generi musicali, come è successo anche per il reggaeton[14]. Eppure gli autori italiani non hanno niente da invidiare a quelli stranieri. È vero che De André subiva l’influsso di Brassens agli esordi, De Gregori quello di Bob Dylan e Vecchioni musicalmente quello di Bruce Springsteen. Ma nessuno si ricorda che Bob Dylan voleva cantare “Jodi e la scimmietta” di Venditti negli anni settanta e che Vasco Rossi non volle fare il suo show nel 1990 assieme ai Rolling Stone, declinando l’invito. Così come nessuno si ricorda che Alice (Carla Bissi) non volle mai cercare l’avventura americana, nonostante ripetuti solleciti dell’industria discografica. Si ricordano invece tutti soltanto che Lucio Battisti tentò con esito infausto il successo oltreoceano. In America i cantanti italiani che riscuotono più successo sono Laura Pausini, Andrea Bocelli, Eros Ramazzotti, Zucchero, Il Volo, Adriano Celentano, Mina, Al Bano, Toto Cutugno. Senza nulla togliere alla bravura di questi ultimi c’è da osservare che il genere dei cantautori italiani forse è troppo di nicchia per piacere negli Stati Uniti. Inoltre due sono le pecche del nostro cantautorato, nonostante la dignità letteraria dei suoi testi: non avere musiche molto orecchiabili (spesso in un disco di otto canzoni solo tre o quattro sono musicalmente valide) e non avere grande presenza scenica sul palco. A tal proposito spesso ai concerti dei nostri cantautori si respira soprattutto un’atmosfera intimista e di raccoglimento. Ma probabilmente questa è stata una precisa scelta artistica. Basta ricordarsi cosa scriveva Pierangelo Bertoli in “A muso duro”: “Adesso dovrei fare le canzoni/ con i dosaggi esatti degli esperti/ magari poi vestirmi come un fesso/ e fare il deficiente nei concerti”. Oppure sempre a tal proposito basta citare anche Battiato: “Non è colpa mia se esistono spettacoli/ con fumi e raggi laser/ se le pedane sono piene/ di scemi che si muovono/ up patriots to arms, engagez-vous”. Bisogna anche aggiungere che per gli italiani è molto facile farsi ammaliare dai miti americani, mentre per i cantori di una nazione così periferica e poco importante come la nostra è molto difficile esportare le loro cose artistiche. Infine va detto che i nostri cantastorie, i nostri novelli bardi probabilmente non rispecchiano gli stereotipi dell’italiano: abbiamo nella nostra penisola forse un cantautorato troppo elitario e intellettuale. Eppure è pacifico che le creazioni del nostro cantautorato, secondo la critica musicale, non siano intrattenimento, ma vera espressione artistica e talvolta sinonimo di impegno civile e politico. Forse non sono solo canzonette. Devo dire però che i giovani non devono neanche idealizzare troppo i cantanti, che non hanno nessun rapporto privilegiato con la verità.

 

 

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(Nella foto il cantautore livornese Piero Ciampi)

Resta da stabilire se le canzoni di autore siano poesia o meno. Forse sono espressione di poesia popolare, ma questo lo decideranno gli italianisti a venire. Alcune però assomigliano senza ombra di dubbio alla poesia. Per il poeta Milo De Angelis i cantautori scelgono sempre la via più facile, quella più comunicativa. Il grande Mario Luzi invece sosteneva che alcune canzoni di autore fossero poetiche, mentre non sempre tutte le poesie lo erano. Per il poeta Valerio Magrelli la musica avvantaggia e facilita i cantautori rispetto ai poeti. Per il poeta Maurizio Cucchi le canzoni di Guccini non sono assolutamente poesie. Per il poeta Lello Voce spesso i testi delle canzoni, letti senza musica, non reggono da soli e non sono poesie. Per De Gregori i cantautori non sono poeti e non devono avere alcun ruolo educativo. Per Vecchioni le canzoni sono poesie e cita il fatto che anticamente le poesie venivano accompagnate da delle musiche. C’è anche tra gli addetti ai lavori chi pensa che Bob Dylan sia un grande poeta visionario e chi solo un cantante semicolto. C’è chi ritiene che i musicisti siano più avvantaggiati perché il feto sente da subito il battito della madre. C’è chi pensa che sia solo questione di educazione e cultura. Insomma il dibattito è ancora aperto. Oggi i cantanti vengono idolatrati. Il panorama musicale è mutato completamente dagli anni '70, almeno qui in Italia. Erano anni caldi quelli. Le polemiche erano al vetriolo. Chiunque poteva essere messo alla berlina. De Gregori venne "sequestrato" per poco tempo da dei contestatori ad un concerto. Altro che qualche hater sui social![15] Per il cantautore romano fu traumatico. Si rimproverava ai cantautori di arricchirsi facilmente e di essere schiavi del sistema, nonostante fossero compagni. Tra gli stessi cantautori c'erano anche invidie, cattiverie, gelosie[16]. Era una cosa umana. I cantanti, soprattutto i cantautori, negli anni settanta si trovavano tra l'incudine della censura e il martello dei contestatori. Intendiamoci: c'erano le bombe e le p38. Lo stesso Stato era violento. Negli anni di piombo venne minato lo stato di diritto. La polizia sparava alle manifestazioni. Cossiga, allora ministro, dichiarò più volte che faceva mettere una busta di droga pesante nelle giacche di estremisti, ritenuti particolarmente violenti ma incensurati, per farli arrestare. La maggioranza silenziosa non scendeva in piazza. In compenso però andava ai concerti di Claudio Baglioni, figlio e fidanzato modello, eterno cantore dei buoni sentimenti democristiani. La censura era negli anni settanta un modo per difendere la morale comune e controllare accuratamente i messaggi sociali e politici veicolati nelle canzoni. Le canzoni con la rima amore e cuore non erano assolutamente pericolose per l'ordine costituito. La censura era basata su questa grande ipocrisia di fondo. Ci si poteva scannare in piazza tra giovani, ma si doveva salvare l'apparenza, la forma. Niente poteva intaccare il buon gusto in prima serata. Faccio una breve digressione sulla censura in quegli anni.
Innanzitutto per quanto riguarda la musica straniera va ricordato lo scandalo suscitato da "Je t'aime... moi non plus", che era del musicista francese Serge Gainsbourg e dell'attrice britannica Jane Birkin, pubblicata nel 1969. Ma anche la satira non se la passava bene. Non tutti gli sketch comici andavano a buon fine. Dario Fo e Franca Rame vennero oscurati per sedici anni dalla RAI di Ettore Bernabei, allora dirigente organizzativo di Saxa Rubra. I due drammaturghi erano rei in Canzonissima di aver trattato un argomento allora tabù come le morti sul lavoro. Lo stesso premio Nobel ha dichiarato che, nonostante l'apparente morigeratezza e il timore di Dio, Bernabei per lui era un autentico "satanasso". Nel 1959 Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi avevano preso in giro l'allora presidente della Repubblica Gronchi, che era cascato da una sedia vicino a De Gaulle. La trasmissione televisiva, condotta dai due, nonostante la grande popolarità, venne bruscamente interrotta. Per quel che concerne la musica italiana venne censurata "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones" perché criticava l'America e parlava della guerra nel Vietnam. Invece "Dio è morto" cantata dai Nomadi e scritta da Guccini venne censurata dalla RAI, ma trasmessa dalla radio vaticana. La stessa "Bocca di rosa" fu censurata, ma non mi risulta che venne censurata nessuna canzone dell'album "La buona novella", in cui De André si rifaceva ai Vangeli apocrifi e in cui c'era addirittura "Il testamento di Tito" che criticava tutti i comandamenti e che provocò solo accese discussioni tra cattolici e qualche proposta di dibattiti tra teologi. Anche "Albergo ad ore" di Herbert Pagani, "4/3/1943" di Lucio Dalla, "Luci a San Siro" di Vecchioni (un aneddoto curioso riguarda il fatto che "Donna felicità, scritta sempre da Vecchioni e cantata dai Nuovi angeli, non venne censurata dalla RAI ma solo dalla commissione del festival di Sanremo. Probabilmente l'ironia e l'erotismo velato di questa canzone non vennero considerati scurrili e neanche offensivi della morale), "Questo piccolo grande amore" di Baglioni, "Il gigante e la bambina" di Ron, "Io se fossi Dio" di Gaber, "Bella senz'anima" di Cocciante, "Luna" di Loredana Bertè e "Coca Cola" di Vasco Rossi vennero censurate e modificate. Un intero album interpretato da Gaber, intitolato "Sexus e politica" venne interamente oscurato dalla RAI nel 1970. Anche il mitico Enzo Jannacci venne censurato più volte. In particolare va ricordata "Ho visto un re", che denunciava il potere ed esprimeva il dissenso giovanile della contestazione. Il cantautore milanese proprio per questo motivo si allontanò per un certo periodo dalle scene. Non mi risulta però che Jannacci subì censura per "Veronica". Venditti con il brano "A Cristo" si prese una condanna 6 mesi per vilipendio alla religione. Lo stesso De Gregori fu censurato. Non piacquero i versi "Giovanna faceva dei giochetti da impazzire" in "Niente da capire" e "il mendicante arabo ha un cancro nel cappello, ma è convinto che sia un portafortuna" in "Alice", perché all'epoca non si poteva trattare neanche di tumori. La censura era quindi uno spauracchio ed era molto arbitraria[17]. Oggi i cantanti possono cantare qualsiasi cosa o quasi. Niente fa più scandalo.
Ma passiamo ad altro. Veniamo ad oggi.
Oggi la poesia contemporanea non vende. Eppure la poesia, a mio avviso, esprime a livello esistenziale e gnoseologico meglio della canzone il mondo, la vita e l'io (compresi i suoi vuoti e le sue fratture). Oggi i giovani preferiscono i cantanti ai poeti contemporanei, anche perché questi ultimi sono più difficili da comprendere e trattano molto meno di tematiche amorose. Veniamo al primo punto.
Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall'osservazione o dalla trasfigurazione. Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva, ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel Novecento tutto forse diventa più complesso. Basta pensare a Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio . Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del Novecento l'ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l'orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli e analogie. Negli anni sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l'ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anch'essi non erano di facile comprensione. La neoavanguardia ad esempio era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l'egemonia culturale e l'estetica dominante, contro la mercificazione dell'arte. Però spesso spiazzava i lettori per il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi. Infine la poesia degli anni settanta con il neorfismo cambiava di nuovo le carte in tavola perché prendeva le distanze sia dalla neoavanguardia che dal neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico era sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: "La parola innamorata" e "Il pubblico della poesia". Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C'è anche troppa creazione, ma è scarsa la fruizione. È una poesia talvolta autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio spesso non è chiaro. Il gradimento del pubblico è scarso. I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. I libri di poesia nella stragrande maggioranza dei casi finiscono al macero. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori. Comunque oggi i poeti viventi sono sconosciuti al grande pubblico. Come sono cambiati i tempi da quando Vico scriveva che i poeti sono i primi storici delle nazioni! Oggi è innegabile che la poesia di questi anni sia in crisi e alcuni critici, appunto, l'hanno definita minimalista. La lirica di questi tempi è spesso illeggibile e non memorabile. Comunque non bisogna essere ottimisti né apocalittici. Veniamo alla questione della tematica amorosa. Petrarca è diventato anche egli uno dei più noti poeti italiani per le sue opere in latino oppure per quel Canzoniere in volgare in cui trattava dell'amore per Laura? La maggioranza dei grandi poeti deve la propria fama non tanto al proprio impegno civile o alla propria figura intellettuale quanto alla descrizione nelle opere delle loro vicissitudini amorose. Spesso c'è una figura femminile. Nei casi di Dante e Petrarca l'amore non è corrisposto, le donne muoiono e vengono idealizzate. Ma si potrebbero fare esempi in cui le cose vanno diversamente. Lo scrittore von Sacher-Masoch è diventato famoso non certo per essere un intellettuale asburgico, ma soprattutto per il suo amore per la sua moglie Wanda. Salinas non diventò noto per essere un esule spagnolo ai tempi della dittatura franchista oppure per essere un professore universitario, ma per aver scritto soprattutto "La voce a te dovuta". Nessuno sa con certezza se le muse furono all'altezza della fama alla quale arrisero. Ma in fondo non è questo l'importante. La cosa più importante è il sentimento amoroso. Ci sono anche esempi altissimi di poesia d'amore omosessuale: ai nostri tempi Pasolini, Dario Bellezza, Sandro Penna, Auden (i primi che mi vengono in mente): amori che in certe epoche potevano essere considerati diversi e quindi fonte di contrasti. Ma in poesia vengono descritti anche amori per prostitute oppure per le passanti. In letteratura tutto è possibile e niente fa scandalo. La più bella poesia di amore a mio avviso è questa: "Il più bello dei mari/ è quello che non navigammo./ Il più bello dei nostri figli/ non è ancora cresciuto./ I più belli dei nostri giorni/ non li abbiamo ancora vissuti./ E quello/ che vorrei dirti di più bello/ non te l’ho ancora detto." (Nazim Hikmet). Ma mi piace moltissimo anche il verso di Cesare Pavese: "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi". Ma nel secondo Novecento e nei primi anni del duemila pochi poeti hanno trattato in modo memorabile l'amore, a differenza dei cantautori, che descrivono da sempre i loro sentimenti amorosi senza alcun pudore. Mi vengono in mente alcuni versi riusciti di canzoni. Ad esempio De Andrè: "È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati". Oppure mi viene in mente una vecchia canzone di Vecchioni: "Io ho le mie favole e tu una storia tua". Oppure Guccini: "Io non credo davvero che quel tempo ritorni, ma ricordo quei giorni". Discorso a parte per Lolli. La generazione bolognese del '77 è l'ultima in Italia che si è posta collettivamente nei confronti della realtà. Ne va preso atto. E la colonna sonora di quel movimento del '77 era la musica di Claudio Lolli. Ecco perché Lolli, oltre al fatto di essere un poeta prestato alla canzone, è importante da ricordare. Certo era anche malinconico, ma poeta. Fin da giovanissimo scriveva ottimi testi. Ha scritto delle poesie in musica fino alla sua fine. Dispiace che non sia stato compreso e riconosciuto a sufficienza. Era visto come troppo cantautorale, troppo di nicchia. Personalmente mi piace ascoltare la musica che non è intrattenimento ma espressione artistica e Claudio Lolli nel corso di tutta la sua vita ha saputo dimostrare di essere un artista. Le canzoni di Lolli sono soprattutto politiche, ma ce ne sono alcune come "Donna di fiume" oppure "Vorrei farti vedere la mia vita" che sono belle poesie d'amore. Claudio Rocchi era mistico, però sapeva anche scrivere canzoni di amore. Piero Ciampi sapeva descrivere certe zone morte della coscienza, come ha sottolineato Maurizio Cucchi, ma sapeva anche cantare d'amore. A ogni modo molto spesso i testi delle canzoni sono stucchevoli e sdolcinati.

 

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(Nella foto il cantautore bolognese Claudio Lolli)

 

Per fare una panoramica "ampia" sulla musica leggera italiana bisogna trattare anche di Sanremo.

Su Sanremo:
Ci sono canzoni eccellenti che non hanno vinto Sanremo e che a mio avviso avrebbero meritato la vittoria come "Ciao amore, ciao" di Tenco; "Ma che freddo fa" , cantata da Nada; "Le mille bolle blu" , cantata da Mina; "Nata libera" di Leano Morelli; "4/3/1943" e "Piazza Grande" , cantate da Lucio Dalla; "L’uomo che si gioca il cielo a dadi" di Vecchioni; "Montagne verdi" , cantata da Marcella Bella; "Vita spericolata" di Vasco Rossi; "Almeno tu nell'universo" , cantata da Mia Martini; "Gianna" di Rino Gaetano; "Quello che le donne non dicono" , cantata da Fiorella Mannoia; "Il ragazzo della via Gluck" di Celentano; "Un'avventura" di Lucio Battisti; "L’Italiano" di Toto Cutugno; "Ancora" di Eduardo De Crescenzo; "Cosa resterà degli anni 80" di Raf; "Signor tenente" di Giorgio Faletti; "E dimmi che non vuoi morire" , cantata da Patty Pravo; "Timido ubriaco" di Max Gazzè; "Spunta la luna dal monte" di Bertoli e Tazenda; "Maledetta primavera" , cantata da Loretta Goggi. Mi scuso per averle citate alla rinfusa. È pacifico dire che molte di queste canzoni siano state vere e proprie vincitrici morali del festival e successivamente siano diventate dei grandi successi. Naturalmente non bisogna sopravvalutare Sanremo, che è una grande kermesse canora e non certo il “Premio Tenco”: la stragrande maggioranza delle canzoni sono semplici, commerciali e trattano quasi tutte di amore nel modo più strappalacrime possibile. Insomma è una grande gara nazionalpopolare e non bisogna aspettarsi di più. Le canzoni sono fatte soprattutto per “arrivare” subito alla gente e non hanno molto spesso la pretesa di essere poesia e talvolta nemmeno di essere espressione artistica. Il rapporto tra canzone d’autore e poesia comunque è problematico e controverso. In America non vengono fatte distinzioni tra Bob Dylan, Lou Reed, Leonard Cohen, Jim Morrison e i poeti della beat generation. In Francia cantautori come Brassens, Brel e Ferrè sono considerati dei veri poeti. In Italia cantautori come De Andrè, Edoardo De Angelis, Enzo Jannacci, Guccini, Battiato, Dalla, Paolo Conte, Edoardo Bennato, Vecchioni, De Gregori, Piero Ciampi, Claudio Lolli, Alice, Ivano Fossati, Giorgio Gaber, Enrico Ruggeri, Tenco, Ivan Graziani, Mario Castelnuovo, Vinicio Capossela, Ligabue sono riusciti a scrivere testi che hanno una certa dignità letteraria. Però non vengono considerati poeti a tutti gli effetti da parte dei critici letterari. D’altra parte in Italia il pubblico della poesia è inesistente e sono gli italianisti a decidere chi deve finire nelle antologie scolastiche. I cantautori invece godono di un grande seguito e il popolo conosce a memoria le canzoni e non le poesie: come già ho avuto modo di scrivere sono i cantanti i surrogati dei poeti al mondo di oggi. Facendo una considerazione a largo raggio ritengo che oltre alla razionalità tecnologica imperante ci sia anche una sorta di irrazionalismo strisciante, che porta tanti a credere agli oroscopi, ai maghi, alle fake news e naturalmente anche ai cantanti.
Comunque, sempre in Italia, in passato sono state fatte cose interessanti per quel che riguarda il rapporto tra poesia e musica. Baglioni ad esempio ha musicato una poesia di Trilussa ("Ninna nanna" ) e Guccini una poesia di Gozzano ("L’isola non trovata" ). Inoltre la canzone "Le passanti" di De Andrè è un testo di un poeta francese. "Il cantico dei drogati" l’ha scritta assieme al poeta Riccardo Mannerini. Lo stesso cantautore genovese ha scritto "Una storia sbagliata" in memoria di Pasolini. "Le lettere d'amore" di Vecchioni si riferisce al grande poeta portoghese Pessoa. Va ricordata anche la collaborazione tra Roversi e Dalla, durata 7 anni. Personalmente ritengo che la canzone, anche quella d’autore, possa essere considerata al massimo poesia popolare e spesso il testo, letto senza musica, non possa essere considerato a tutti gli effetti poesia. Spesso il testo della canzone non è eufonico. Inoltre quando si fanno dei raffronti tra un poeta e un cantante bisogna sempre paragonare non un singolo testo di canzone e una poesia, ma un album ad esempio di dieci brani e una intera raccolta poetica. In due o tre anni circa infatti un cantautore pubblica un album e nello stesso arco di tempo un poeta pubblica una raccolta. Una singola canzone o una singola lirica sono sempre troppo poco per giudicare. Bisogna invece considerare la totalità delle creazioni di un determinato periodo di tempo. Bisogna considerare non solo il testo ma anche l’unità macrotestuale. Ritorniamo però al festival. La stragrande maggioranza di noi spesso si dimentica chi ha vinto a Sanremo, mentre invece si ricordano di più certi piccoli scandali, verificatesi nell’evento, come ad esempio la vista del seno di P. Kensit e la farfallina di Belen Rodriguez. Sanremo è anche gossip e varietà. Sanremo non è solo cultura pop, ma anche un fatto di costume. I mass media di solito considerano la riuscita o meno di un festival dallo share e in base a questo valutano il conduttore e il direttore artistico, che talvolta sono la stessa persona. Dicevo prima che le canzoni di Sanremo peccano troppo di sentimentalismo. La poesia contemporanea oggi considera invece le questioni amorose come banale autobiografismo e stucchevole diarismo. A mio avviso la verità sta nel mezzo. Non bisognerebbe edulcorare troppo i propri sentimenti come accade nelle canzoni, che sono pensate e scritte per un pubblico adolescente o comunque giovane. Non bisognerebbe però razionalizzare, intellettualizzare troppo la poesia di oggi. La poesia infatti è la più alta forma di intelligenza verbale ma anche emotiva. Anche grandissimi poeti come Saffo, Catullo, Dante, Petrarca, Montale, Neruda e Salinas hanno scritto poesie d’amore. Molto spesso alcuni poeti e alcune poetesse hanno raggiunto la fama imperitura grazie a canzonieri in cui venivano descritte le loro pene e i loro sentimenti amorosi. Nella poesia odierna forse non si trattano più i sentimenti amorosi perché ancora pesa uno stilema neoavanguardista, ovvero quello di “riduzione dell’io”, come se la poesia dovesse essere sempre neo-oggettuale e ogni componimento poetico non dovesse essere la risultante equilibrata di una interazione tra io e mondo. Nella poesia odierna forse non viene trattato il sentimento amoroso perché sempre per la neoavanguardia bisognava evitare ogni intimismo. Nel frattempo la poesia è sempre più un genere marginale e non è certo colpa della neoavanguardia. Cosa fare allora? Quale è il rimedio? Per il poeta Giovanni Raboni bisogna evitare «l’idea della poesia come valore alto se non addirittura supremo, come sinonimo e emblema di nobiltà, di superiorità, d’eccellenza»[18]. Nel Novecento invece la poesia è diventata una signorina algida, fredda, snob e troppo intellettualistica. La poesia per essere tale deve cercare di “toccare il nadir e lo zenith” della sua “significazione”, per dirla alla Luzi, deve cioè descrivere i meandri più oscuri della psiche e nominare il mondo. Ma è anche vero che «niente è così facile come scrivere difficile», come scriveva il filosofo Karl Popper. Chi ha una visione del mondo dovrebbe riuscire sempre a semplificare senza essere semplicistico. Molto spesso invece nella poesia contemporanea vengono complicate persino le cose semplici e rese incomprensibili le cose complesse. I poeti di oggi snobbano Sanremo, ma avrebbero bisogno di piccole dosi omeopatiche di questo festival. Gli farebbe bene ascoltare qualche canzone. Sappiamo che la scrittura a differenza dell’oralità è, per dirla con Vygotskij[19], «un linguaggio per un interlocutore assente» ed è un atto “fonologico”, maggiormente articolato e privo di intonazione. Inoltre la poesia è una forma particolare di scrittura perché già con il Pascoli ad esempio veniva privilegiata la conoscenza alogica e analogica. Insomma i poeti cercavano una strada prerazionale. È altrettanto vero però che molti oggi imitano Zanzotto e Amelia Rosselli, scrivendo più per sé stessi che per gli altri; scrivono infarcendo le loro poesie di citazioni colte; scrivono per una ristrettissima cerchia di eletti. Il loro è un linguaggio per allusioni. È un linguaggio criptico. La lirica invece dovrebbe ricercare la validità universale. Per Nietzsche uno solo ha sempre torto e soltanto con due persone inizia la verità. Sempre per il grande psicologo russo Vygotskij «la verità è un’esperienza socialmente organizzata». Da soli si delira. Bisogna rivolgersi agli altri per avere una presa di coscienza. Le canzonette di Sanremo, a differenza di molte poesie di oggi, forse sono scritte da autori furbastri; però hanno una notevole capacità comunicativa, anche se forse la maggioranza di esse non sono arte. Insomma il mattone non è più un investimento. I soldi non sono più sicuri in banca. I cittadini chiedono più sicurezza. La crisi ha impoverito molti. Un titolo di studio umanista talvolta è un ostacolo per trovare un posto di lavoro. Alle elezioni il primo partito è senza ombra di dubbio quello degli astensionisti e la vittoria è decisa invece da coloro che nei sondaggi si dichiarano indecisi, che solitamente appartengono all’elettorato moderato. I politici, nonostante tutto, continuano a promettere l’impossibile. Milioni di italiani però, nonostante tutti questi problemi, si fermano e si incollano davanti ai televisori per cinque serate per commentare le canzoni. La comunità poetica invece lo snobba totalmente: eppure tutti avremmo bisogno ogni tanto di essere riportati all’essenziale. I poeti in definitiva devono scegliere se mettere un poco di ordine o aggiungere disordine a una letteratura come quella attuale già troppo confusionaria, caotica e dispersiva. Non chiedo certo di dare una definizione esaustiva della poesia o dell’arte, che sarebbe come assiomatizzare l’ineffabile. A tal proposito ho una unica certezza a proposito dell’arte, ovvero ‒ come scrisse Henry Miller ‒ che «non dovrebbe insegnare nulla, tranne il senso della vita»

 


Note
[1] Ecco un articolo divulgativo di uno specialista sulla Musicoterapia:
https://www.psicologo-milano.it/newblog/musicoterapia-peculiarita-e-ambiti-di-applicazione/
[2] Le radio Vintage sono stazioni radio, che trasmettono musica dei decenni passati, di solito dagli anni sessanta agli anni novanta. Per radio Vintage si può anche intendere (ma non è questo il caso) degli apparecchi radio dei decenni passati.
[3] Guardare video di canzoni su YouTube non è reato. Lo diventa se il materiale viene diffuso e commercializzato. Se il materiale su YouTube è protetto da diritto di autore a pubblicarlo sul proprio canale YouTube o a diffonderlo via social si può incorrere come minimo in un reclamo o al massimo in un illecito civile. Non sono assolutamente un esperto. Ho fatto però delle ricerche. Per capire se un video è protetto da copyright ecco un link:
https://www.aranzulla.it/come-capire-se-un-video-e-coperto-da-copyright-1165602.html
Se si vuole convertire il video musicale di YouTube in file mp3 ecco la consulenza di uno studio legale:
https://www.studiocataldi.it/articoli/24102-scaricare-musica-da-youtube.asp
[4]https://it.m.wikipedia.org/wiki/Rimasterizzazione#:
[5] https://www.wireshop.it/magazine/bluetooth-cos-e/
[6] Per major si intendono le principali case discografiche (o etichette discografiche), che promuovono e distribuiscono musica leggera nel mondo. Il mercato mondiale discografico è concentrato in poche mani.
[7] Per musica indie si intende la musica alternativa, indipendente, prodotta dalle case discografiche più piccole. Ecco un elenco di artisti italiani indie:
http://www.musicaindieitaliana.com/lista-incompleta-delle-band-e-cantautori-indie-italiani/
[8] Il saggio breve si intitola "Il carattere di feticcio in musica" in "Dissonanze" di Adorno (Feltrinelli, Milano, 1990)
[9]https://www.losbuffo.com/2018/03/22/canzoni-contrario-satana-droga-illusione/
[10] A proposito di divertimentifici, ho letto che le discoteche erano in crisi, già da prima del Coronavirus. Prima ancora che venissero chiusi per il Coronavirus, i locali notturni erano in crisi in Italia per i problemi/costi legati alla sicurezza e per la tassazione. Ma forse il loro vero problema è che non vanno più di di moda. Sembra che i social network e YouTube abbiano colonizzato gran parte del tempo libero giovanile e secondo gli esperti abbiano mutato radicalmente i concetti di aggregazione e amicizia. Un tempo le discoteche erano l'unico luogo di ritrovo della mia generazione. I giovani sfogavano le frustrazioni della settimana nelle discoteche. Molti giovani nutrivano grandi aspettative per il sabato sera. In quel mondo contavano soprattutto le belle auto, l'aspetto fisico e l'abbigliamento, visto e considerato che qualsiasi forma di dialogo era soffocata dalla musica. Tutti in pista a fare quattro salti per cuccare la bella di turno. Non potevi non andare in discoteca perché altrimenti eri un emarginato. Per gli altri eri uno sfigato. Ti toccava anche fingere di gradire quella musica. Ti dovevi far piacere quel mondo per non passare male.
[11] https://it.m.wikipedia.org/wiki/Spotify
[12] https://www.argoserv.it/generazione-x-y-z-c
[13] I trapper, in parole povere e semplificando, sono rapper che usano un linguaggio più crudo. Per alcuni sono diseducativi. Talvolta trattano tematiche di attualità e nei loro testi talvolta ci sono sprazzi poetici. In ogni modo, come per la musica indie, anche i trapper riescono ad avere una certa genuinità. I più conosciuti trapper italiani sono Sfera Ebbasta, Ghali e la Dark Polo Gang.
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Trap_(genere_musicale)
[14]https://www.agi.it/spettacolo/musica/che_cosa_ilreggaetone_qual_il_segreto_del_suo_successo-2123231/news/2017-09-05/
[15] Per showbiz si intende il mondo dello spettacolo, il mondo del business ma anche il web. C'è un elite di influencer e una gran massa di influenced: questo è il mondo ad esempio dei social media. Sono poche le voci critiche, che vengono sopraffatte dal marasma dei vip, degli hater, dei troll. Non esistono più sfumature di grigio. Si ama o si odia senza riserve senza discernimento. I vip però non dovrebbero lamentarsi troppo degli hater. Grazie allo stesso sistema possono guadagnare grandi cifre su Instagram senza fare niente. Anni fa era peggio. Perfino Tonino Carino fu attenzionato dalle Br. E che dire delle contestazioni ai cantautori negli anni settanta? Oggi va molto meglio ai vip. Gli italiani si sono impoveriti, ma i vip guadagnano belle cifre senza particolari meriti. Oggi essere vip è come essere nobili un tempo: si gode di molti privilegi, che vengono ereditati dai cosiddetti figli d'arte. I figli d'arte ad esempio hanno centinaia di migliaia di follower su Instagram senza aver alcun merito e senza aver fatto alcun sacrificio. Non si lamentino troppo i vip. Non solo ma va detto che talvolta il mondo dello spettacolo etichetta/categorizza come hater persone che fanno critiche negative e ostili senza essere offensive. È vero che su internet non dovrebbe essere garantito l'anonimato. È vero che ci sono anche stalker che perseguitano per anni i vip. È vero che ci sono persone disturbate psicologicamente ossessionate dai cosiddetti vip. Ma è altrettanto vero che anche lo showbiz oltre allo Stato stabilisce il suo ordine del discorso per dirla alla Foucault. Detto in termini semplici, chi critica talvolta i vip viene talvolta considerato un invidioso, un poveretto, un megalomane, un pazzo, un hater oppure un molestatore a prescindere e non è assolutamente detto che lo sia. Chi critica i vip è automaticamente out. Non si guarda alle qualità delle argomentazioni del critico. Lo si attacca subito in modo destabilizzante. Gli si fa causa penale e civile. Ma chi sono i vip? Per Galeazzi i vip sono quelli che stanno nel vippaio. Per lo showbiz i vip sono le vallette e i calciatori. Sono personaggi pubblici coloro che hanno avuto passaggi televisivi. Ma è solo una strategia da parte di chi dirige i mass media per distrarre le persone e non fargli sapere cosa accade nelle stanze dei bottoni. Ci sono persone molto potenti, che sono poco conosciute al grande pubblico. Lo showbiz stabilisce il suo ordine del discorso. Stabilisce cosa è giusto e cosa no, cosa è lecito e cosa no. Lo show business, intriso come è di darwinismo sociale, narra i sacrifici di chi ce l'ha fatta e si dimentica i sacrifici di chi non ce l'ha fatta. Certe showgirl dicono che fare sacrifici sia trasferirsi a Roma o Milano, andare in palestra, tenersi a dieta. Altri personaggi televisivi affermano che non si può criticare negativamente le loro trasmissioni perché in questo modo non si rispetta tutte le persone che vi lavorano dietro le quinte. Seguendo questo principio non si potrebbe criticare neanche Hitler o Stalin, che come si sa davano lavoro a molte persone. Infine la ciliegina sulla torta: viene diffusa l'idea che chi è vip ha qualità straordinarie, quando invece spesso i vip sono tali perché il pubblico si rispecchia nella loro mediocrità. Anche questa è una mistificazione della realtà. Anche questo tipo di narrazione deformata rientra nella istituzione di un ordine del discorso. Lo showbiz pensa per noi. È vietato pensare con la propria testa. Stabilisce i gusti, le mode, gli stili i tormentoni. Personalmente ce l'ho con le idee fisse e contro lo strapotere dei vip, che ancora oggi talvolta si comportano da lestofanti. I vip, ad esempio, spesso non pagano al ristorante ed allo stadio.
[16] Venditti ha dichiarato che talvolta De Gregori e De André andavano ai suoi concerti per criticarlo sommessamente in quanto i suoi testi erano considerati dai due meno letterari e più commerciali. Vecchioni prese in giro De André in “Belle compagnie” (“Chi è il più anarchico del reame?"), anche se poi diventarono amici. E che dire di ciò che cantava in “Via Paolo Fabbri 43” Guccini? In quella canzone prendeva in giro i testi di altri cantautori. Cito testualmente: “La piccola infelice si è incontrata con Alice a un summit per il canto popolare. Marinella non c’era, fa la vita in balera e ha altro per la testa a cui pensare, ma i miei ubriachi non cambiano soltanto ora bevon di più e il frate non certo la smette per fare lo speaker in TV”. Malignità oppure ironia e anche autoironia? Jannacci in fondo criticava l'intera categoria in "I poveri cantautori". Senza ombra di dubbio niente però a che vedere con le cattiverie e l’ostracismo che il mondo dello spettacolo riservò a Mia Martini.
[17] Allo stesso tempo sono sfuggite alla censura canzoni come “Il triangolo” di Renato Zero, “Il Kobra” di Donatella Rettore, “Colpa d’Alfredo” di Vasco Rossi, “Pensiero stupendo” di Patty Pravo, “Comprami” di Viola Valentino, “America” di Gianna Nannini, “Disperato, erotico stomp” di Lucio Dalla. Una canzone reazionaria come “Chi non lavora non fa l’amore”, cantata da Celentano e Claudia Mori, naturalmente vinse Sanremo e suscitò polemiche politiche, ma non venne mai censurata da nessuno.
[18] "La poesia che si fa. Critica e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004" di Giovanni Raboni (Garzanti, Milano, 2005)
[19] "Pensiero e linguaggio" di Lev S. Vygotskij (Giunti, Firenze, 2007)

 

 

 

 

Diari e crisi (Pavese, Flaiano, Fitzgerald, Morselli)...

giu 072023

Vorrei prendere in rassegna alcuni diari di scrittori e fare una considerazione a largo raggio. Ho scelto dei diari perché per me sono al contempo sguardi di dentro, testimonianza e memento mori.

 

 

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"Il mestiere di vivere":
I più conoscono Pavese per essere stato l'autore di romanzi come "La luna e i falò", "Il compagno", "La bella Estate". Meno conosciute invece le sue riflessioni sulla vita, sulla poesia, sulla letteratura, presenti nel suo diario, costituito da annotazioni che vanno dal 1935 al 1950. Nemmeno i colleghi dell'Einaudi si immaginavano la sua disperazione, il suo feroce senso di solitudine. Questi aspetti li conobbero con la pubblicazione postuma di questo diario, dopo il suo suicidio nel 1950 a Torino in una camera d'albergo. Solo allora ebbero modo di leggere attentamente nelle pieghe più scure del suo animo e comprendere la sua paura di vivere, il suo terrore per il sesso e per le donne. Italo Calvino, che era uno degli amici, non aveva mai presentito nulla a riguardo. Quest'opera è permeata da un pessimismo di fondo, da una sfiducia continua verso gli altri. L'uomo Pavese non coltivava la speranza e questo si legge a chiare lettere. Forse la speranza la perse definitivamente dopo essersi innamorato, senza essere corrisposto, dell'attrice americana Costance Dowling. Però l'intellettuale -come ha intuito felicemente Sergio Solmi- si ribellava all'uomo e con questo diario si difendeva dall'idea del suicidio. Infatti pochi giorni prima di uccidersi scriveva sul suo diario: "Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più". Questa è l'ultima frase di Pavese ed è una grande testimonianza del valore terapeutico della scrittura. Leggendo questo diario, si possono trovare considerazioni illuminanti sulla letteratura. Ne riporto alcune. Il 10 novembre 1938 annota: "La letteratura è una difesa contro le offese della vita". Il 22 marzo 1947 scrive a riguardo dei grandi temi della letteratura moderna: "Hemingway ha la morte violenta, Levi il confino, Conrad la perplessità dei mari del Sud, Joyce lo stereoscopio delle parole-sensazione, Proust l'inafferrabilità degli istanti, Kafka la cifra dell'assurdo, Mann il ripetersi mitico dei fatti". Allo stesso tempo si possono trovare riflessioni cariche di delusione, massime pervase da un sentimento di estraneità nei confronti della vita. Il 17 novembre del 1937 scrive: "È incredibile che la donna adorata venga a dire che i suoi giorni sono vuoti e tormentosi ma che di noi non vuole saperne". Il 21 novembre dello stesso anno troviamo: "No, non sono pazzi questa gente che si diverte, che gode, che viaggia, che fotte, che combatte, tanto è vero che vorremmo farlo anche noi".

"Il diario degli errori":
Nel “Diario degli errori” ci troviamo di fronte a una raccolta di scritti, che vanno dal 1950 ai primi anni settanta. Flaiano dipinge quell’Italia con pennellate colorate di ironia e pessimismo. Per capire di più dello scrittore bisogna ricordare che i rapporti con Fellini non erano sempre idilliaci e che l’unica figlia Luisa soffriva di problemi mentali, dovuti a una grave encefalite. Apparentemente il tema predominante di questi scritti è il viaggio. Ma questo può andare bene solo a chi vuole restare in superficie. In realtà Flaiano lo scrive subito, all’inizio del libro, che la noia e la malinconia ci perseguitano, ovunque andiamo. Ce lo dice subito che è meglio non viaggiare. I viaggi sono solo un pretesto per pensare ai paradossi dell’Italia. Flaiano elimina le mezze bugie e ci presenta mezze verità intaccate di scetticismo. Nei suoi scritti riflette totalmente l’essenza della sua personalità. È polemico, sarcastico, a tratti cinico, sempre disincantato. È un individualista, al di fuori di ogni logica di partito. È avverso al conformismo e all’impegno politico, in cui intravede sempre scaltro opportunismo. Intendiamoci: ha un orientamento politico, è antifascista ed anticomunista allo stesso tempo. Però non si schiera. Le sue annotazioni, i suoi divertenti calembour mettono alla gogna i malcostumi diffusi dell’epoca, svelano la pochezza dei falsi miti e delle false coscienze. L’Italia è un Paese in cui prevale l’idealismo. I politici non parlano chiaro. Gli intellettuali scrivono spesso libri poco comprensibili per chi non ha un bagaglio umanistico. Le leggi possono essere decifrate solo dagli avvocati. E Flaiano riassume questo atteggiamento culturale scrivendo che in Italia non esiste la verità perché la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Non c'è speranza. Non c'è via di fuga. Non c'è ancora di salvezza. Flaiano non salva nessuno, neanche se stesso. Il suo pessimismo a mio avviso è sintomatico di una sua crisi interiore. Ma ecco un suo pensiero di questo “Diario degli errori”: “Italia, paese di porci e di mascalzoni. Il paese delle mistificazioni alimentari, della fede utilitaria (l’attesa del miracolo a tutti i livelli), della mancanza di senso civico (le città distrutte, la speculazione edilizia portata al limite), della protesta teppistica……”. Infine Flaiano ci ricorda che "vivere è una serie ininterrotta di errori, ognuno dei quali sostiene il precedente e si appoggia sul seguente. Finiti gli errori, finisce tutto”.

"L'età del Jazz":
Avevo letto la raccolta di saggi di Cioran, intitolata “Esercizi di ammirazione”, ed ero rimasto favorevolmente colpito dal commento che il filosofo aveva fatto su “The crack up” (in italiano"Il crollo") di Fitzgerald. All’improvviso una sera in una libreria mi imbatto in un Oscar Mondadori, intitolato “L’età del Jazz”. Mi metto a sfogliarlo e lo compro subito. Questo libro raccoglie annotazioni di diario, lettere, taccuini e quel che mi interessava più di tutto “La trilogia del fallimento”, tre saggi brevi in cui il grande scrittore descrive la sua condizione esistenziale e svela i suoi fallimenti. Fitzgerald aveva subito bruciato le tappe, raggiungendo il successo con “Di qua dal Paradiso” e con “Il grande Gatsby”. Negli anni '20 con la moglie Zelda era nel vortice della mondanità di New York. Stanchi della vita frenetica di New York, andarono a vivere sette anni in Costa Azzurra. Tuttavia non approdarono alla serenità. Fitzgerald diventò alcolizzato; alla moglie Zelda venne diagnosticata la schizofrenia. La parola Jazz è stata sinonimo di tre cose in quegli anni: sessualità, danza e musica. Erano gli anni del proibizionismo. Le ragazze si tagliavano i capelli e andavano a bere alcol nei locali clandestini insieme ai ragazzi. Ma alla fine Fitzgerald scopre che è stato tutto vano, che niente è restato di quegli anni. Le illusioni sono crollate. Il grande sogno è stato perduto per sempre. Questi li definisce i colpi che vengono dall’esterno. Ma esistono - come lo scrittore sa - anche i colpi che vengono dall’interno ed è questo lato Freud, che personalmente ritengo interessante. Alla base di tutto c'è un blocco psicologico, una sensazione di scacco matto esistenziale. Ho avuto l'impressione netta che tante conoscenze e tante amicizie con personaggi importanti, ricchi e colti non l'abbiano arricchito interiormente ma svuotato. Fitzgerald ritorna in sé. Scrive della propria inettitudine, del proprio torpore, della propria apatia. Con la mondanità aveva cercato di costruirsi invano un’ampia rete sociale, ma alla fine si accorge della perdita della sua identità. Si rende conto di non aver mai fatto scelte autentiche. Con questi scritti riconosce il fallimento e descrive addirittura che il proprio mondo interiore si è decostruito. Tutto inizia con l’insonnia. Ma la notte insonne diventa successivamente metafora della sua condizione esistenziale perché – secondo lo scrittore - nella notte dell’anima sono sempre le tre del mattino. L’autore chiarisce a sé stesso ed al pubblico la sua crisi, paragonando la sua esistenza a un piatto incrinato. Racconta di essersi ritirato dal mondo per due anni allo scopo di catturare silenzi interiori. Per due anni non ha vissuto nel mondo comune, ma in un mondo strettamente intimo e privato. La sofferenza interiore lo costringe a pensare e a scavare dentro sé stesso. Nonostante la crisi, Fitzgerald si interroga e cerca nessi logici, ma la cosa più interessante è che lo scrittore all’improvviso scopre il lato oscuro della sua personalità. Lì scorge contraddizioni ed enigmi: in una parola sola intravede l’abisso.

 

 

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(Nella foto Morselli)

"Diario" di Guido Morselli:
Morselli proveniva da una famiglia agiata. Si laureò in legge. Lavorò per un breve periodo come impiegato. Fece la guerra. Poi scelse di non lavorare. Il padre, obtorto collo, accettò il volere del figlio e gli dette una modesta rendita. Per tutta la vita fu "un eterno dilettante". Tutte le case editrici rifiutarono i suoi romanzi. Eppure oggi è riconosciuto come un grande scrittore e un maestro di ucronie[1]! Anche Italo Calvino rifiutò i suoi lavori[2]. Eppure Calvino è stato anche un talent scout di scrittori come Daniele Del Giudice e Andrea De Carlo! Dopo il suicidio Calasso ebbe il merito di pubblicare le sue opere con Adelphi. Attualmente Morselli è letto dalla comunità letteraria. Diciamo che è un autore di nicchia. Giovani studiosi come Gilda Policastro, Alessandro Gaudio e Linda Terziroli si sono occupati di lui. Nel suo diario si dimostra un intellettuale a tutto tondo, capace di spaziare su vari rami dello scibile. Troviamo speculazioni filosofiche, considerazioni letterarie, riflessioni sulla vita. Riporto fedelmente una annotazione del suo diario, datata 6 novembre 1959: "Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella medesima maniera. Ho pregato, non ho ottenuto nulla. Sono stato egoista, sino a dimenticarmi dell'esistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né attorno a me. Ho amato, sino a dimenticarmi di me stesso; nulla è cambiato né in me né attorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. Tutto è ugualmente inutile". Qualcuno potrebbe pensare che Morselli vedesse Dio come una entità suprema lontana, che si interessava pochissimo dell'uomo. In realtà lo scrittore, a onor del vero, considerava Dio addirittura "una psicosi". Tuttavia, seppur schivo e appartato, non era misantropo. Come scrive il 22 febbraio 1947: "Ieri sera prima di dormire ho riveduto me stesso (...), tornando a casa. Non avevo mai sentito così profonda pietà degli uomini come rivivendo l'immagine di quest'uomo che attraversava piazza del Mercato". Morselli alla fine non scriveva che per pochi amici intellettuali. Non ebbe mai il riscontro del pubblico. Il suo dramma era quello di non avere un ruolo. Per il mondo non era niente e non si occupava di niente. Per i suoi concittadini era solo un tipo stravagante e bislacco. Forse si suicidò perché sentì che tutto era "vanità di vanità", come scritto nell' "Ecclesiaste", oppure per "troppo amore della vita", come ebbe modo di scrivere. Nel mondo di oggi (in cui esistono una comunità letteraria online, i lit-blog, gli ebook e l'editoria a pagamento) ci saranno altri Morselli? Oppure il talento è destinato ad emergere sempre? Lo sapranno solo i nostri posteri.

 

Conclusioni:

"Le confessioni" di Sant'Agostino e "Le confessioni" di Rousseau sono opere di autoanalisi salvifiche per gli autori, dato che sono espiatorie. I "Saggi" di Montaigne hanno il merito di scoprire l'io dinamico e si contraddistinguono per il relativismo culturale, per il rispetto della dignità della propria persona oltre che di quella altrui. Invece le opere di Pavese, Fitzgerald, Morselli, Flaiano sono testimonianze della crisi di coscienza, ma non la risolvono. I loro autori sono messi alla prova e fanno naufragio. A mio avviso erano tutti troppo orgogliosi per chiedere aiuto. Accenno solo brevemente a "L'ombra e la grazia" di Simone Weil. In questi pensieri, estratti dal suo diario, la mistica dichiara che bisogna "accettare il vuoto", "distruggere l'io", "desiderare senza oggetto": obiettivi quasi impossibili per raggiungere alla fine la grazia di Dio. Mi chiedo se non c'è salvezza allora per coloro che non hanno la fede. Nelle opere di Pavese, Fitzgerald, Flaiano, Morselli c'è "l'ombra" senza "la grazia". Forse è per questo motivo che i loro nodi non si sciolgono e noi li sentiamo "nostri fratelli" per dirla alla Baudelaire. Simone Weil e Sant'Agostino sono encomiabili, ma quasi inarrivabili. Allo stesso tempo viene da chiedermi se si può rinsavire e salvarsi solo grazie all'altro, come vi riesce Pirsig grazie al figlio[3]? Ma quale è poi la causa della crisi di questi scrittori? Era solo la loro vita inautentica o quella di tutti? La loro crisi era psichicamente endogena oppure sintomo del declino della civiltà occidentale? Dipendeva da una interazione? Era esclusivamente loro il cupio dissolvi o era rappresentativo di una intera società? Difficile dirlo. Le loro crisi a mio avviso sono emblematiche riguardo alla condizione umana. A livello esistenziale siamo tutti unici e irripetibili. Dal punto di vista ontologico siamo una infinitesima parte del tutto. L'uomo nei secoli dei secoli è rimasto in conflitto tra queste due forze antagoniste, tra la sua grandezza e la sua miseria, tra il considerarsi un miracolo oppure una nullità. Con la contemporaneità le cose sono ulteriormente peggiorate. Le tragedie delle due guerre mondiali, la recente massificazione e burocratizzazione, una società consumistica e tecnologica hanno spersonalizzato ancora di più l'uomo contemporaneo, facendolo sentire sempre di più una nullità. Si è compiuta oggi la disantropomorfizzazione. Sono state molte le critiche al nostro mondo occidentale, definito "società opulenta" (da J. K. Galbraith), civiltà dell'immagine, società dei consumi, società di massa, "società dello spettacolo" (da Debord), etc etc. Per Marx la causa di tutti i mali è il capitalismo, per Nietzsche e i suoi epigoni il nichilismo, per Max Weber la razionalizzazione, per i cattolici la secolarizzazione, per Husserl "la crisi delle scienze europee"[4], per gli esistenzialisti l'angoscia della scelta, per gli anarchici lo Stato e l'autorità, per Freud la repressione degli istinti, per Camus l'assurdo, per positivismo e neopositivismo la metafisica, per McLuhan i condizionamenti dei mass media, per Jonas la mancanza di un'etica della responsabilità[5], per altri l'individualismo, per altri ancora la tecnocrazia, etc etc. Inoltre per Fromm nella contemporaneità è aumentata l' "aggressività maligna"[6] dell'uomo. Allo stesso tempo l'uomo occidentale ha sempre vissuto una grande conflittualità tra carnalità e spiritualità. Ci si ricordi del mito dell'auriga di Platone. Spesso l'uomo occidentale è un mistico bloccato, come Cioran, e allo stesso tempo un "pornografo inibito"[7], come si definiva in una sua poesia Sanguineti. Sono queste le concause che hanno portato alla crisi Pavese, Fitzgerald, Morselli, Flaiano? Forse avevano avvertito tutto questo? Difficile stabilirlo. Psichiatri come Krapelin, K. Jamison, L. Bretagna, Cassano, P. Duke, G. Hochman hanno stabilito un legame tra nevrosi e creatività. Ma se ciò fosse dovuto ad una causa esogena? In questa sorta di Repubblica di Licurgo è forse più probabile che gli artisti sviluppino delle nevrosi? Forse la stessa razionalità tecnologica ha complicato le cose agli scrittori. Tutto al mondo d'oggi deve essere fatto in nome dell’efficienza e del progresso.Tutti devono avere una utilità pratica. Non a caso due importanti scuole di pensiero americane contemporanee sono il pragmatismo e l'utilitarismo. Per dirla alla Moravia l'uomo oggi è un mezzo e non più un fine. La civiltà vuole costruire strade dovunque e fabbricare macchine sempre più veloci. Dell’evoluzione civile, etica, artistica e spirituale poco importa. Però Jung dichiarò che era più facile andare su Marte o sulla luna che penetrare nel proprio io. La scuola non può permettersi il lusso di educare all’autonomia di pensiero. Eppure è stata proprio l'obbedienza acritica all'autorità, lo spirito gregario, l'eseguire ordini imposti dall'alto a fare diventare molti tedeschi dei criminali nazisti (gli psichiatri la chiamano "sindrome di Norimberga" e la Arendt la chiamava "banalità del male")! Insomma gli umanisti sono dei falliti. In fondo sono sempre più coloro che disprezzano l'arte e la poesia come Bazarov in "Padri e figli". Vince in questo sistema antiumanista chi guadagna soldi. Vince chi si integra socialmente, chi arriva e si adegua al conformismo. Però anche chi scrive libri di successo e si realizza come artista non è detto che si realizzi come uomo: lo dimostrano Pavese, Fitzgerald, Flaiano. Oggi le cose sono degenerate; molti bestseller (la maggioranza sono bestseller di consumo) sono frutto di un mix di furbizia, marketing, ricerca grossolana di intrattenimento. Ci sono anche molti lettori, che pensano che i libri di Fabio Volo, Moccia, Susanna Tamaro siano dei capolavori. I lettori sono in fondo consumatori come altri. Seguono le mode e molto spesso fanno scelte eterodirette perché come sosteneva Gillo Dorfles si è ridotto l'elemento proiaretico[8]. Forse però, oggi come non mai, si può assistere al superamento di concezioni come quelle di cultura alta e di cultura bassa. Forse oggi anche gli intellettuali più raffinati sono Midcult[9]. Forse anche loro sono contaminati dalla cultura di massa. Quindi forse non c'è alternativa. Oggi sono pochi contro il sistema e l'ideologia del mercato, l'unica che è rimasta. Spesso con la scusa che il sistema si combatte dall'interno si finisce per accettare qualsiasi compromesso. Scrivere oggi significa adeguarsi ai dettami della società, cioè diventare commerciali, oppure fallire. Non c'è niente di nuovo sotto il sole: Eco aveva già distinto tra apocalittici ed integrati. Cercare di approdare al cosiddetto nervo delle cose, a una verità umana, per quanto parziale, significa fallire. Per la filosofia l'arte contemporanea dovrebbe provocare shock, straniamento, spaesamento: insomma un rovesciamento di prospettiva nei lettori. Spesso però gli scrittori di oggi non sono più impegnati. Ho sempre pensato che attualmente un'opera d'arte per essere tale richieda la presa di coscienza di una problematica e debba fornire una nuova chiave interpretativa del mondo. Però anche i creatori di opere d'arte non è detto che si affermino commercialmente né che si realizzino come uomini. Inoltre quanto dolore c'è talvolta anche nell'integrarsi socialmente! L'argomento viene trattato anche nel romanzo "Fiorirà l'aspidistra" di Orwell. Ogni artista dovrebbe scegliere idealisticamente se essere in o out dallo show-business. Invece oggi molti scelgono opportunisticamente, ma c'è sempre un prezzo da pagare quando si vende l'anima al successo o alla gloria postuma. Pavese, Fitzgerald, Flaiano non sembravano avere bisogno di niente ed invece non riuscivano a rapportarsi al mondo. Si adattavano al mondo, snaturandosi. Scrivevano capolavori e avevano successo, ma non riuscivano a trovare un senso. Come scriveva Pavese: "In genere è per mestiere disposto a sacrificarsi chi non sa altrimenti dare un senso alla propria vita". Ognuno in gioventù idealizza persone, mitizza luoghi e si pone aspirazioni irrealizzabili. Vivere significa spesso anche resistere e continuare, prima del definitivo rien ne va plus. Perdere significa talvolta maturare, crescere. Come scrive Guccini in "Canzone di notte n°3" anche "perdere ogni tanto ci ha il suo miele". Forse per uno neuropsichiatra riduzionista[10] questi scrittori erano solo depressi. Forse oggi psicofarmaci efficaci riducono l'ideazione di molti artisti, ma li salvano dal suicidio. Oppure i veri artisti sono destinati comunque a fallire a livello esistenziale, metafisico, commerciale. In fondo l'editoria fa parte anche essa dell'industria culturale e non guarda in faccia nessuno; non riserva un trattamento di favore a nessuno, neanche ai più talentuosi. Forse è sempre stato così. Forse la caratteristica precipua e intrinseca dello scrivere oggi è il fallimento. L. F. Celine era molto lucido a riguardo ed affermò: "I posteri saranno i cinesi e quelli se ne fregheranno altamente della mia letteratura fessa”. Sono memorabili anche le parole di Beckett, che valgono in senso lato: "Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio"[11].

Note
[1] Ucronia è un'opera di fantasia, spesso di fantascienza, in cui l'autore si immagina un fatto immaginario e lo sostituisce a un reale fatto storico. Gli autori di ucronie si chiedono cosa sarebbe successo se la storia fosse andata diversamente. Ogni ucronia si basa su una ipotesi controfattuale. Morselli ne scrisse due. In "Contro-passato prossimo" si immagina che la prima guerra mondiale sia stata vinta dagli Imperi centrali. In "Roma senza Papa" si immagina che il Papa si ritiri a Zagarolo.
[2] Potete trovare la corrispondenza tra Calvino e Morselli al seguente indirizzo:
http://mvl-monteverdelegge.blogspot.com/2013/03/caro-morselli-caro-calvino-il-no-di.html
[3] "Lo Zen e l'arte della manutenzione della bicicletta", Milano, Adelphi, 1988. Non è un diario ma un romanzo in parte autobiografico. Il figlio di Pirsig morì accoltellato a 23 anni.
[4] Per Husserl la società occidentale è in crisi perché le scienze oggettivano e quantificano tutto. In fondo già Galileo aveva stabilito la matematizzazione delle scienze. Husserl è stato profetico, se si pensa al fatto che il dottor Duncan MacDougall ha pesato l'anima. Secondo quest'ultimo le persone, morendo, perderebbero 21 grammi.
[5] Per Jonas dovremmo agire, mostrando responsabilità anche verso i posteri e l'ambiente.
[6] Fromm in "Anatomia della distruttività umana" scrive che l' "aggressività benigna" è quella necessaria per la sopravvivenza ed è quindi biofila. Invece l' "aggressività maligna" è quella ad esempio del sadico, finalizzata al piacere di opprimere l'altro, ed è necrofila. Secondo Fromm la competizione esasperata, la ricerca ossessiva di produttività, le frustrazioni della società hanno aumentato la distruttività umana. L'uomo in fondo è l'unico primate che non uccide i propri simili per sopravvivenza ma per altri motivi.
[7] Sanguineti usa questa espressione in "Reisebilder 16", pubblicata in "Wirrwarr", Milano, Feltrinelli, 1972.
[8] proiaretico, ovvero in estetica che riguarda una scelta autonoma, fatta in base alla propria inclinazione e al proprio gusto. È sempre attuale "La ballata della moda" di Tenco, che è morto nel 1967.
[9] Mi riferisco al libro "Masscult e Midcult" del sociologo Macdonald. Per quest'ultimo, il Midcult era "un terzo livello [...], una cultura media rappresentata da prodotti d'intrattenimento che prendevano a prestito anche stilemi dell'avanguardia, ma che era fondamentalmente Kitsch".
[10] Secondo il riduzionismo delle neuroscienze i disturbi dell'umore e i nostri stati mentali sono determinati dalla quantità di neurotrasmettitori. La depressione sarebbe causata esclusivamente da un deficit di serotonina. Saremmo quindi molto più determinati biologicamente di quello che si riteneva un tempo. Secondo la fenomenologia invece è l'esperienza vissuta che determina la visione del mondo di un individuo. Secondo la psicanalisi gli psicofarmaci inibiscono i sintomi, ma non possono niente sul disagio interiore di cui sono espressione.
[11] Citazione tratta dalla novella "Worstward Ho" (1983), che in un’edizione italiana è stato tradotta con il titolo "Peggio tutta", pubblicata in "In nessun modo ancora", Torino, Einaudi, 2008.

 

Neosentimentalismo contro intellettualismo: Susanna Tamaro e i suoi epigoni...

giu 052023

 

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(Nella foto Sanguineti)

Si diceva e si scriveva anni fa che i bestseller erano fatti di "sesso e/o sangue e/o soldi". Difficile dire quali siano gli ingredienti o il filone giusto per fare un bestseller. Più si va avanti e più mi accorgo che sta prendendo piede il sentimentalismo. È vero che ci sono i gialli che vanno sempre di moda (Carlo Lucarelli, Maurizio De Giovanni, Loriano Macchiavelli, etc etc). Ma domina su tutto la retorica dei buoni sentimenti, che non ha a niente a che vedere col sentimentalismo etico, che permette la sana empatia, l'immedesimazione nella sofferenza e nel dolore altrui. Prevale su tutto un sentimentalismo deteriore e ricattatorio, che istiga alla lacrima facile. Il sentimentalismo è la via più facile per avere successo. È in voga quello che definirei un neosentimentalismo, raramente condito con un poco di dandismo estetizzante, talvolta condito con un certo neocrepuscolarismo alla buona. È di moda sia in prosa con ottimi successi di vendite, sia in poesia, dove prevalgono soprattutto soggettività e l'emotività. D'altronde cosa volete sperare? Negli anni di piombo sparavano e mettevano bombe, ma poi si commuovevano per le canzoni amore/cuore. La canzone italiana del secolo è "Piccolo grande amore" di Baglioni e non "Rimmel" di De Gregori. Oggi se guardi i profili social dei più ci sono le frasi sdolcinate d'amore, le foto degli animali domestici, i video youtube di canzonette sentimentali acchiappa like. È il modo più semplice per avere seguaci e consenso quello di essere sdolcinati, anche se falsi e ipocriti come Giuda. Il sentimentalismo è da sempre un tratto stilistico, definiamolo così, socialmente accettato. È quello più socialmente accettato di tutti. Le Liale vincono sempre. Ma ci sono anche degli intellettuali che vedono del sentimentalismo anche dove non c'è. Mi dispiace dirlo ma questo fu il caso anche del grande Sanguineti che vide in Bassani e Cassola delle "Liale del nostro tempo" e fu una critica a mio avviso troppo negativa e fuori luogo. Ma Sanguineti era un genio a cui molto si poteva perdonare e infatti lo stesso Cassola andava a braccetto con lui ed era suo amico.  La filosofa Ilaria Gaspari è controcorrente e su "Domani" scrive un articolo riabilitando il romance, i romanzi rosa, affermando che finalmente ci siamo liberati dei pregiudizi su di essi. Un conto a mio avviso è oggettivare un sentimento. Un conto è sfruttare commercialmente l'ingenuità delle persone. Un conto è disprezzare ogni moto del cuore. Un conto è essere strappalacrime. Un conto è con la giusta motivazione di mettere distanza tra sé stessi e le passioni eliminare ogni residuo di emozione. Un conto è oggettivare un sentimento. Un conto è cercare di rimuovere dalla poesia e dalla letteratura ogni traccia di sentimento. Un conto è disapprovare e criticare a ragion veduta il sentimentalismo e un altro è avere una reazione spropositata, fare un fallo di reazione, che nel calcio porta spesso all'espulsione. In questo caso alcuni letterati vengono espulsi dal mercato. Ci sono ancora oggi dei critici che se vogliono attaccare qualcuno per partito preso o idiosincrasia, scrivono che è un sentimentale. È vero che chi è sentimentale di solito non è impegnato politicamente, socialmente, culturalmente. È vero che spesso chi scrive di sentimenti lo fa per non scrivere d'altro, perché scrivere d'altro è più problematico, scomodo, difficile e meno remunerativo. È vero che De Amicis insegnava qualcosa, formava le coscienze e oggi questo neosentimentalismo non è affatto didascalico, educativo, propedeutico. Insomma il neosentimentalismo di oggi non porta a niente, non è istruttivo, è fine a sé stesso. Così da un lato c'è chi vende molto con il neosentimentalismo e dall'altro c'è chi utilizza come discrimine per stabilire cosa è o non letteratura l'assenza o meno di sentimento. Sono due scuole contrapposte: da una parte questo neosentimentalismo commerciale, dall'altra l'intellettualismo freddo ed elitario. Non ci sono mezze misure, pochissimi trovano un'armonia, un connubio tra ragione e sentimento, tra intelletto e passione. Ecco così facendo una narrativa e una poesia a compartimenti stagni. Nei primi anni del duemila ci avevano provato a rompere gli schemi le cosiddette pornoromantiche, ovvero Carolina Cutolo (un suo libro per l'appunto si intitolava "Pornoromantica"), Pulsatilla ("La ballata delle prugne secche"), Gisela Scerman ("La ragazza definitiva"), ma oggi pochi parlano di queste scrittrici: allora c'era chi puntava sulla grande novità di ragazze che scrivevano sia dei loro sentimenti che delle loro esperienze sessuali, come le vecchie generazioni non avevano mai fatto, ma poi sono arrivati youporn, la diffusione del porno di massa, anche amatoriale, e sono molte le ragazze che fanno sesso e parlano di sesso, cosicché oggi è stato abbattuto qualsiasi senso del pudore. Insomma le pornoromantiche non fanno più scalpore. Così abbiamo romanzi commerciali che emozionano ma non sono letteratura e opere che sono letteratura ma non emozionano più i lettori. Abbiamo così romanzi di intrattenimento che fanno piangere e una letteratura che è troppo fredda, che non sa interessare più, se non gli addetti ai lavori. Così finiamo per avere degli scrittori facili che vendono molto e pretendono che le loro cose vengano ritenute letteratura per il solo fatto che vendono molto e dei letterati che non vendono e si arrogano il diritto di ritenere ciò che è letteratura e ciò che non lo è. Con questo non voglio criticare totalmente chi scrive bestseller sentimentali, perché non è semplice, altrimenti molti professori di letteratura scriverebbero, come si suol dire, bestseller sotto pseudonimo e i più non ne sono capaci (è anche vero che i più non vogliono arricchirsi in questo modo perché lo considerano una furbata scorretta). Insomma anche per scrivere dei bestseller sentimentali  bisogna essere in sintonia con i gusti nazionalpopolari degli italiani o saper intercettare il pubblico, studiando tutto a tavolino. Bisogna cioè essere nazionalpopolari o fingere bene di esserlo. D'altronde anche un grandissimo scrittore come Flaubert, che voleva scrivere un romanzo sentimentale, finì per scrivere "L'educazione sentimentale", che è tutto, fuorché un romanzo sentimentale.

Due parole sulla mafia a trent'anni dalla strage dei Georgofili...

mag 272023

 

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Alcuni servitori dello Stato sono costretti a vivere sotto scorta e a spostarsi con auto blindate. Negli anni Novanta abbiamo assistito alle stragi mafiose. Io e mio padre siamo passati dopocena esattamente una settimana prima della bomba scoppiata in via dei Georgofili. Potevamo essere noi le vittime. Molti sanno e non parlano perché hanno paura di ritorsioni, di rimanere uccisi. Fino a qualche decennio fa molti sostenevano addirittura che la mafia non esistesse. Nessuno sa come e perché siano nate le mafie. Nessuno sa con certezza se le mafie siano state determinate dalla povertà, dal familismo amorale, dal fatto che ognuno tiene famiglia, dallo scarso civismo oppure no. C'è chi dice che la mafia sia dovuta alla particolare storia del Sud: a una pessima unità di Italia, alla repressione del brigantaggio (anche se diversi studiosi tendono ad escluderlo oggi). C'è chi dice che la mafia si respiri come l'aria. C'è chi dice che sia stata causata dalla mancanza di acqua. C'è chi dice che tutto nasca dai gabellotti. C'è chi dice che la colpa è dello Stato che è assente e latita. Nessuno sa con certezza. Molti studiosi hanno fatto molteplici ipotesi e dato le più svariate interpretazioni. Una cosa che bisogna tener presente è che i cosiddetti uomini di onore non sono mostri di malvagità. Non sono assolutamente altro da noi. Non sono un corpo estraneo. Sono assolutamente come noi. Sono italiani esattamente come noi e noi non siamo esattamente meglio, perché che siamo meglio è tutto da dimostrare. Se non teniamo presente ciò non andiamo da nessuna parte. I cosiddetti uomini d'onore hanno solo una mentalità differente. Non cercate in loro una personalità antisociale, perché loro hanno solo una mentalità mafiosa: né più, né meno. Nella loro testa conciliano codice cavalleresco (Osso, Mastrosso, Carcagnosso) e imprenditorialità spregiudicata. Sono atavici e moderni allo stesso tempo. A mio avviso alcuni mafiosi hanno una loro singolare forma di religiosità. Molti hanno un loro codice "etico". Nell'immaginario di alcune persone i mafiosi un tempo difendevano i più deboli e rispettavano le mogli degli altri. Non so esattamente. Forse è così anche oggi. Molti uomini di onore ancora oggi pregano e hanno fede, nonostante fin dalla tenera età siano stati abituati a trasgredire le leggi dello Stato. Molti appartengono a una famiglia mafiosa e sono stati affiliati da ragazzini. Per molti di loro è difficile uscire dalla mafia e fare come ha fatto a sue spese Peppino Impastato. Infatti fin dalla tenera età sono stati costretti a credere in certe regole. Fin dalla giovinezza sono costretti a crescere in fretta, a estorcere denaro, a rapinare, a rubare, a spacciare ed altro. Alcuni diventano mafiosi perché si ritrovano disoccupati. Se ci fosse meno disoccupazione nel Sud saremmo già a più di metà dell'opera! Ma che dire comunque di chi nasce mafioso? Quanto è difficile dire no alla mafia per loro? In fondo vorrebbe significare dire no ad un sistema che ha dato e riesce a dare da mangiare alle loro famiglie. Vorrebbe significare rinnegare tutti i propri famigliari. Pochissimi riescono a pentirsi. Come fanno a ribellarsi se hanno ricevuto una certa educazione e se appartengono a un determinato contesto? Alcuni allora compiono azioni illegali e nonostante ciò cercano di mantenere un cuore apparentemente puro. Vorrebbero cambiare, ma la loro vita procede per inerzia. Direttamente dire no alla mafia vorrebbe dire sfuggire ai propri amici che vorrebbero uccidere i pentiti. Con questo non voglio giustificare alcunché. Lo so bene che il vero dramma è quello delle vittime di mafia e dei loro famigliari. Voglio comunque solo cercare di capire. Non voglio assolutamente fare una apologia dei mafiosi perché alcuni di loro uccidono senza rimorso. Molti mafiosi però sono amorevoli padri di famiglia e premurosi mariti. Se non accettiamo questo non si può capire il consenso sociale di cui godono le mafie. Bisogna sapere veramente perché piacciono alla gente, oltre al fatto che la mafia è un sistema che purtroppo dà lavoro a tante persone, anche ai parcheggiatori abusivi e ai contrabbandieri di sigarette. Spesso anche le loro donne sono pie e devote. Pregano per il marito ininterrottamente. Eppure nonostante la loro morigeratezza sono sempre a fianco del marito mafioso, trasmettono ai figli i codici mafiosi, condividono e rispettano tutte le scelte del congiunto. Che cosa può spezzare questa catena? Apparentemente niente sembra efficace. Forse bisogna sperare che domani i mafiosi riescano a riciclare tutto il denaro (pecunia non olet...dicevano gli antichi) e diventino a tutti gli effetti imprenditori, che rifiuteranno di usare i loro antichi metodi? Dobbiamo forse sperare in questo? Sarebbe giusto forse per coloro che sono sempre stati onesti? Dobbiamo sperare che lo Stato intervenga con un esercito di maestre elementari (come sosteneva Bufalino), con dei grandi investimenti al Sud e con una repressione efficace delle forze inquirenti? Oppure è già troppo tardi perché le mafie hanno già inquinato l'economia di tutto il mondo e quello che possiamo fare è assistere impotenti alla loro proliferazione? Lo Stato riuscirà a vincere il controllo del territorio delle mafie? Qualcuno riuscirà a distruggere gli intrecci tra mafie, politica, economia, apparati dello Stato? Qualcuno riuscirà a denunciare tutti i compromessi della società civile con le mafie? Qualcuno riuscirà a rompere il rapporto con la buona borghesia e la mafia? Qualcuno incarcererà tutti i colletti bianchi, i cosiddetti cravattari mafiosi? Bisognerà aspettare grandi eventi storici che determineranno una nuova struttura sociale ed economica? Alcuni dicono che basta andare nel Sud per avere dei contatti episodici con i mafiosi e citano il fatto che vip e politici spesso a loro insaputa si trovano a fare le foto ricordo con i mafiosi. La verità è che una frequentazione casuale e occasionale non pregiudica niente se il politico o il vip non fa favori ai mafiosi, né si fa fare favori dai mafiosi. La realtà è che spesso c'è un legame così profondo tra politica e mafia che questi contatti non sono episodici ma frequenti e rappresentano solo la punta dell'iceberg. Un'altra cosa che dobbiamo tenere presente è che ogni volta che parliamo di mafia non dobbiamo assolutamente puntare l'indice, ma farci tutti un esame di coscienza. Non dobbiamo pensare solo ai Mafiosi con la M maiuscola, ma anche a tutti i comportamenti mafiosi con la m minuscola che abbiamo noi persone apparentemente oneste. La Mafia uccide, ma anche i piccoli abusi di potere e i piccoli comportamenti illegali o anche solo illegittimi creano ingiustizia e sofferenza. Anche spaccare la faccia a qualcuno, tagliare la strada a qualcuno con la macchina, diffamare qualcuno, costringere a un compromesso di qualsiasi natura o accettarlo è un comportamento mafioso con la m minuscola. Con questo non voglio fare di tutta l'erba un fascio. Al di là della retorica (inveire astrattamente contro la mafia non serve a niente) bisogna però vedere concretamente nel nostro piccolo cosa ognuno di noi può fare per combattere la mafia. Facendo una breve analisi di abusi di potere italici così diffusi scopriremo che gran parte del Paese è malato. Resta da stabilire se sia un malato incurabile o meno. Cosa si vuole sperare però da una nazione in cui i concorsi per professori universitari talvolta sono truccati? Cosa dobbiamo sperare se si comporta così chi dovrebbe dare agli altri innanzitutto l'esempio? Concludendo, nessuno ce l'ha fatta a sconfiggere la mafia. Non ce l'hanno fatta il prefetto Mori, il generale Dalla Chiesa e neanche i giudici Falcone e Borsellino. Spesso c'è stata anche la complicità degli apparati dello Stato. Diciamocelo onestamente a Portella della Ginestra non erano solo i mafiosi probabilmente a sparare. Gli americani per paura del comunismo nell'immediato dopoguerra appoggiavano uomini di onore come candidati sindaci in Sicilia. Diciamocelo senza retorica lo Stato ha spesso cercato di convivere con la mafia piuttosto che debellare il fenomeno. Cosa dobbiamo sperare se nel corso della storia di Italia è mancata la volontà politica di combattere la mafia? È forse invincibile oppure anche questa forma di criminalità organizzata avrà una fine? La mafia oggi è ancora molto potente. Una cosa però è certa: da qualsiasi punto di vista lo si guardi questo è un fenomeno con cui "rompersi la testa", come scriveva Sciascia.

 

Due parole su amicizia e stima tra letterati e poeti, veri o presunti

mag 202023

 

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Nel mondo letterario si parla tanto di mafia culturale ed è a mio avviso un termine inappropriato perché la vera mafia si spartisce grandi quantità di soldi e tanto potere, mentre la comunità letteraria ad esempio si spartisce solo le briciole e sono tantissimi i galli nel pollaio. Non è quindi tanto la modalità o la tipologia ma lo scarso giro di affari e il mercato di vacche magre a rendere la cultura poco mafiosa. A essere malevoli si può parlare di mafia culturale, intendendo una mafia con la m minuscola (che non uccide le persone ma la vera cultura), quella dei favoritismi, degli abusi di potere, delle ingiustizie, dei privilegi, delle cattedre per nepotismo, clientelismo, etc etc. Insomma la mafia culturale è una mafia non solo da colletti bianchi ma anche da innocui dilettanti, che però dovrebbero dare per primi il buon esempio e invece non lo danno. Non solo ma il circolo virtuoso d'un tempo non esiste più, perché non necessariamente il prestigio culturale dà prestigio sociale e il prestigio sociale dà soldi. C'è chi sostiene che l'amicizia tra poeti o tra letterati, quella vera, non esista, ma esista solo quella interessata (insomma scambi di favori, do ut des, etc etc). I letterati dovrebbero stimarsi e poi diventare amici, mentre accade spesso che prima diventano amici e poi si stimano, ma poi è vera stima? Ancora una volta viene da chiedersi se esiste la stima disinteressata o soltanto nell'Iperuranio. L'importante, realisticamente parlando, non è la stima effettiva ma quella percepita: ricordate l'immanentismo di Berkeley, ovvero l'essere è essere percepito? Anche qui la stima è la stima percepita e così l'amicizia. Che poi si può stimare chi non si dimostra amico veramente? Si può stimare chi non ci stima e nutre un'idiosincrasia nei nostri confronti? Quanto sforzo ci vuole? Ci vorrebbe un'invidiabile obiettività e imperturbabilità d'animo, che pochissimi hanno francamente. Allo stesso tempo ci vuole imperturbabilità d'animo, stoicismo, grande correttezza nello stroncare un amico o dirgli anche solo privatamente che non ci piace il suo libro. Di solito uno non stronca e non esprime giudizi negativi per quieto vivere, per evitare rappresaglie e vendette. Poi ci sono le alleanze non solo tra sodali apparentemente disinteressati, ma anche tra letterati della stessa città, della stessa casa editrice, dello stesso partito, della stessa università. Quanti attestati di stima sono falsi e inautentici? Quanta disistima viene taciuta per interessi di ordine superiore, per cause di forza maggiore? Viene naturale per amor proprio stimare chi dimostra di stimarci, ma è molto difficile, quasi impossibile il contrario. Se qualcuno ci dimostra stima, finiamo per vedere di primo acchito solo i suoi punti di forza e i suoi lati positivi. Allo stesso modo se un genio ti critica finisci per cercare difetti, per trovare il pelo nell'uovo e sminuirlo. Ci vuole molta umiltà, assennatezza, modestia per accettare serenamente delle critiche, anche perché purtroppo anche nel mondo letterario a pensare male si fa peccato ma ci si indovina sempre e dietro a delle critiche o a delle stroncature c'è quasi sempre un motivo personale o ideologico, perché di solito i letterati non cercano guai e hanno un atteggiamento conciliante. Di solito il meccanismo è semplice. Queste sono le tattiche messe in atto dai letterati: se tu mi stimi, io ti stimo; se tu non mi stimi, io non ti stimo; se tu mi attacchi, io ti attacco; se tu non mi pesti i piedi, io non ti pesto i piedi. Di solito viene evitato l'attacco fine a sé stesso, la polemica sterile. Al contempo nessuno fa niente per niente, quasi niente viene fatto gratuitamente, a meno che a uno non gli importi niente di fare carriera letteraria (come me del resto), e chi fa un piccolo favore vuole essere ricompensato prima o poi. Esiste inoltre la polemica a distanza senza fare i nomi (si dice il peccato ma non il peccatore e anche si dice a nuora perché intenda suocera). Come se non bastasse l'amore e il sesso complicano tutto terribilmente. È tutto semplice fino a quando un genio come Giovanni Raboni si mette con un genio come Patrizia Valduga e scrivono poesie immortali, ma come la mettiamo con i compromessi sessuali o anche con le aspiranti poetesse sopravvalutate, proprio perché amate da un grande letterato? Come saggiamente cantano i Baustelle: "Perché l'amore rende ciechi se c'è e non distingui Sylvia Plath da un parassita". Tutte queste cose facevano dire alla Merini che il mondo dei poeti non è poi così male, ma è terribile il sottobosco poetico. Concludendo, sono due le scuole di pensiero a riguardo della mafia culturale: 1) c'è sempre stata, c'è, ci sarà ed è universale 2) è un male, un malcostume prettamente italico.
Nel frattempo la psicologia e la sociologia di poeti, scrittori, letterati italiani è molto semplice, quasi elementare, a tratti pavloviana procede per riflessi condizionati, a tratti risente del condizionamento operante con rinforzi positivi e negativi, e soprattutto è fatta di una buona dose di egocentrismo, vanagloria e meschinità, ma qualcuno obietterà che funziona così in tutti i settori e fa parte della natura umana. Basta lisciare il pelo o infastidire il letterato per vedere reazioni spropositate. L'ego dei poeti infine è ipertrofico, vuoi spesso per disturbo di personalità di base, vuoi per per troppe frustrazioni; basta davvero poco per essere amati oppure odiati, con l'aggiunta di un piccolo particolare da tener presente: se lodi un poeta lo ritiene un atto dovuto e dopo qualche giorno si scorderà di te, se invece lo critichi negativamente ti odierà a vita e se la legherà per sempre al dito (basta togliere un'amicizia o bloccare qualcuno su Facebook per essere odiati a vita per lesa maestà e queste ragioni prettamente personali non hanno niente a che vedere con la poesia né con la letteratura). Che poi niente è certo nel mondo letterario. Chi può davvero stabilire con certezza se tizio o caio è un poeta? Lo stabiliranno solo i posteri. In matematica di un un insieme si può stabilire con certezza se un certo elemento ne fa parte oppure no. In letteratura è men che meno in poesia questa certezza non c'è. Ogni autore, ogni poeta subisce un processo. Ai contemporanei spettano solo le indagini preliminari, ma la vera corte di cassazione sono i posteri, se i posteri ci saranno.

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