Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Sul conflitto delle interpretazioni di un testo letterario

gen 192025

 

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Le cosiddette scienze esatte possono spiegare e rintracciare le cause di un fenomeno tramite la logica e gli esperimenti. Ma resta il problema se le scienze umane debbano solo interpretare o anche spiegare. Il dibattito è ancora aperto e ci sono due punti di vista a riguardo: l'approccio positivista, sperimentale, basato sul fatto e quello antipositivista. Ma la letteratura non può dare una spiegazione matematica e fattuale: si deve basare solo sull'interpretazione.
A seconda del posizionamento, della visione del mondo, del retroterra culturale, della personalità di base ogni individuo interpreta un testo. Tutti questi elementi interagiscono tra di loro nell'interpretazione di un testo. Gadamer parla di precomprensione: le cose sopracitate sono tutti i fattori dei nostri “pregiudizi” quando leggiamo un testo. Ma un testo è composto da una parte conscia e da una parte inconscia. Anche il lettore recepisce il testo sia consciamente che inconsciamente. Il circolo ermeneutico è dato dall'interazione tra inconscio e conscio dell'autore e tra inconscio e conscio del lettore. Ma a livello fenomenologico il circolo ermeneutico è dato da come l'autore esprime il suo vissuto e da come il lettore con il suo vissuto interpreta l'espressione del vissuto dell'autore: ci sono quindi da un lato l'empatia dell'autore che deve saper scrivere cose in cui i lettori si riconoscono e dall'altro l'empatia del lettore. Leggere e scrivere migliora quindi la comprensione empatica o almeno la fa esercitare in quei frangenti. Un testo è composto dal significante e dal significato. Però il significato risente della soggettività perché esistono la polisemia e la connotazione. Da un punto di vista ontologico per Heidegger il linguaggio è manifestazione, rivelazione dell'essere. Il filosofo scrive che il linguaggio è “la casa dell'essere”. Ma Aristotele scriveva che l'essere si dice in molti modi e aggiungo io che si recepisce in molti modi. Non solo ma Zanzotto scrive: “Hölderlin: siamo segni senza significato”. E qui la faccenda si complica! Secondo gli strutturalisti però il linguaggio è anche manifestazione, talvolta sintomo dell'inconscio. Il problema è che un sintomo può diventare simbolo che può essere vissuto dall'interpretante come un nuovo sintomo. La letteratura, la filosofia, la creatività artistica non devono subire censure. Però questo problema resta. Ci sono libri che rovinano individui e popoli. Nel “Mein Kampf” di Hitler c'era la follia di Hitler, che ha slatentizzato la follia di molti altri individui. Forse questo è un caso unico? E allora ricordatevi quanti suicidi ha provocato “Il giovane Werther” di Goethe! Un autore dovrebbe sentirsi responsabile dei propri scritti e a questo proposito l'autocensura dovrebbe essere molto più auspicabile della censura, anche se è molto difficile sapere come sarà recepito e quali effetti avrà un libro. A proposito di interpretazione di un testo letterario c'è un parametro oggettivo (il canone) e un quid soggettivo. Ogni critica letteraria è un impasto di queste due cose. Per quanto riguarda l'interpretazione letterale, stilistica e allegorica di un'opera esiste in un certo qual modo l'oggettività. Ad esempio la parafrasi di un testo contemporaneo è quella, salvo un piccolo margine di ambiguità. Ma per l'interpretazione morale e quella anagogica (o spirituale) di un'opera la questione è molto più arbitraria e perciò più complessa, anche di un'opera di cui si conosce personalmente l'autore. In letteratura ogni interpretazione è comunque possibile. In un certo senso dal punto di vista del suo senso profondo ogni opera è aperta a qualsiasi interpretazione. Dobbiamo lasciare questa apertura. Il senso di un'opera non è mai definitivo: esiste sempre qualcosa di indeterminato e perciò di ambiguo, contraddittorio, non risolto, come vuole il decostruzionismo. Teoricamente uno vale uno e da qui scaturisce l'assolutismo del relativismo, il nichilismo interpretativo. È quello che accadeva anni fa in certi commenti di literary blog. C'è chi dice a riguardo che un tempo il canone lo stabilivano i letterati, gli accademici, mentre oggi il canone lo fa il pubblico comune, che diventa fan di Gio Evans o di Andrew Faber. Insomma un tempo Pasolini nasceva come poeta grazie al consenso critico di Gianfranco Contini, Daniele Del Giudice diventava scrittore grazie a Calvino e oggi Gio Evans viene considerato poeta perché ha migliaia di follower sui social e perché Elisa Isoardi a una trasmissione televisiva nazionalpopolare molto seguita ha citato i suoi versi quando si è lasciata con Matteo Salvini. Insomma mala tempora currunt! La verità non esiste in letteratura. Per cercare di avvicinarsi all'obiettività si usano due criteri: l'autorevolezza, basata sulla competenza, e la maggioranza nella comunità letteraria. Il poeta e professore Valerio Magrelli in un'intervista rilasciata al sito letterario “Le parole e le cose” il 24 dicembre 2012 dichiarava: “Ma arrivo al punto: il mio problema verso i blog è l’equivoco che alimentano nell’interpellare il lettore. A mio avviso, il lettore – voglio essere molto drastico – non deve avere voce in capitolo, come si diceva un tempo nelle abbazie. Durante il capitolo, l’assemblea, il lettore non ha il diritto parlare perché parlano gli specialisti, i competenti. Come si creano queste competenze? Attraverso un sistema di selezione che un tempo funzionava: laurea, biennio, dottorato, ricercatorato, etc. Quando questo non funziona, ci sono comunque altre forme di formazione: conosco varie persone di valore che non sono nell’accademia. Ecco, io proporrei il sistema delle ore di lettura, come i piloti d’aereo. Quando si può pilotare un jumbo? Quando, per ricorrere a un’iperbole, si sono fatte 8000 ore di volo. Quando puoi scrivere il tuo parere su un libro? Quando hai letto 8000 libri di teoria, di narrativa, di poesia; altrimenti non puoi parlare. Io non voglio sapere i pareri dei lettori, non mi interessano: deve essere vietato al lettore di parlare…”. Per quanto riguarda l'autorevolezza è chiaro che il giudizio critico di Andrea Cortellessa riguardo a un poeta contemporaneo è più importante del mio. Il parere del miglior critico letterario vale quindi di più di quello del lettore comune. Però sorge un problema: anche i critici letterari più colti e acuti possono “sbagliare”. Inoltre un lettore comune può dare un'interpretazione molto originale di un libro e può dimostrare un senso critico e un senso estetico fuori dal comune. A mio avviso anche il senso critico è una forma di intelligenza e ci sono differenze individuali a riguardo. E quindi si dovrebbe valutare le argomentazioni e le controargomentazioni dei vari giudizi critici della comunità letteraria riguardo a un autore o a un libro. A questo punto è importante la maggioranza dei pareri della comunità. Se ad esempio il Tommaseo interpreta in un modo dei versi di Dante e gli altri dantisti si trovano d'accordo nel dare un'interpretazione completamente diversa, è chiaro che Tommaseo è in errore e la maggioranza ha ragione. Ma ne siamo così sicuri? Chi può dire veramente chi ha ragione? Non solo ma chi fa parte della comunità letteraria? Gli accademici, i critici letterari, gli autori di grandi case editrici? Oppure anche gli appassionati? Chi è in in e chi è out? Da una parte c'è l'oligarchia degli addetti ai lavori, mentre dall'altra c'è la democraticità dei lettori comuni. Inoltre anche la cosiddetta formazione letteraria è fatta soprattutto di conoscenze di secondo grado: durante un corso di laurea in lettere non fanno leggere tutto Montaigne, ma fanno studiare nozioni e interpretazioni riguardo allo scrittore e filosofo francese. Cos'è in fondo la formazione umanistica se non una sommatoria, quando va bene un corpo organico di interpretazioni? Che differenza c'è allora tra un letterato e un lettore comune? Che talvolta il lettore comune dà ignorantemente il suo parere, basato esclusivamente sulla sua soggettività e il suo gusto personale, e il letterato ha una visione molto più ampia, ma il suo giudizio può rivelarsi un'interpretazione conformistica delle precedenti interpretazioni di studiosi e critici. Certamente è assodato che se i critici fanno il canone, le opere letterarie considerate pregevoli hanno qualità e complessità elevata. Se il canone lo fanno i social, la qualità, la complessità, la bellezza di un'opera si riducono notevolmente. In questi ultimi decenni si è registrato uno scadimento generale dei libri più venduti. Un tempo c'erano i bestseller di Calvino, Bassani, Cassola, etc etc. E oggi? Moccia, Fabio Volo, Bisotti, etc etc…però Arbasino ricordava a tutti che un bestseller non è il migliore dei libri perché è tra i più venduti, come il McDonald's non è il migliore dei ristoranti al mondo. A ogni modo il bello della letteratura è che ognuno in un testo ci vede cosa vuole e che lo stesso testo riletto più volte a distanza di tempo acquisisce un nuovo significato perché la ricezione di un testo è anche dovuta a uno stato d'animo, a quel momento, a quello stato mentale. Il genio o il talento artistico hanno a ogni modo una grande valenza sociale. Il talento deve essere riconosciuto. Tante soggettività dei critici creano un’unanimità di giudizio e quindi la cosiddetta fortuna o sfortuna critica di un autore. Tante soggettività compongono in letteratura l'oggettività. Ma anche i giudizi critici successivi si basano su quelli precedenti e li condizionano fortemente. La maggioranza e l'autorevolezza possono essere viziate da idiosincrasie, faziosità ideologica, simpatia, etc etc. Basta citare a riguardo il caso Silone.

Sul neorealismo...

dic 212024

 

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D'Annunzio con il suo superomismo, la sua vita inimitabile aveva causato danni. La cultura italiana non aveva bisogno di Capponcina, Vittoriale, lusso sfrenato, Fiume. I futuristi avevano aderito al fascismo e avevano proposto la guerra come sola igiene del mondo, seppur pagando di persona, con la vita o con i rimorsi. I crepuscolari erano di fatto borghesi o piccoloborghesi, non erano andati oltre le buone cose di pessimo gusto, seppur avendo coscienza del loro tempo, come notarono i critici. La poesia dell'ermetismo non era alla portata di tutti con le sue analogie complesse. Le filosofie irrazionaliste, il romanticismo, il classicismo, il decadentismo, l'idealismo di Croce e Gentile e soprattutto il fascismo con i suoi orrori non potevano che trovare come unica alternativa il neorealismo: era una scelta obbligata, fatte queste premesse, tenuta presente la situazione storica e il contesto culturale. Fu così che cinema, pittura, letteratura diventarono neorealisti, rivalutando Gramsci, riprendendo il realismo di Tolstoj, Balzac, Zola. La letteratura del ventennio si era distaccata troppo dalla realtà e il neorealismo con la sua denuncia sociale non poteva che essere la legittima reazione. L'intenzione, già di per sé nobile e meritevole, era quella di fare un’epopea del popolo, soprattutto degli sfruttati, dei poveri. Non più quindi gli Andrea Sperelli, ma entrarono in scena le persone umili in carne e ossa, come nel Metello di Pratolini. Il neorealismo per tesi e per prassi fu l'antidoto efficace del romanzo borghese. Certamente nonostante le nobili intenzioni, come osservava Carlo Muscetta, il neorealismo non ebbe un grande laboratorio critico, mancò il dibattito teorico. C'è chi criticò il neorealismo per il suo populismo. Chi come Walter Pedullà notò la dimensione mitica e memoriale di alcuni autori (il mito delle Langhe in Pavese, il mito dell'infanzia magica in Alvaro, il carattere a tratti privato di Conversazione di Vittorini ad esempio). Ma tutto ciò è umano: un'aura mitica che circonda le cose è presente in ogni essere umano, che mitizza ora una cosa, ora un'altra. Non c'è letteratura in fondo senza capacità simbolica, senza simboli e miti. Altra critica che si potrebbe fare al neorealismo è quella di non essere stato veramente realista perché la mimesi del parlato non corrispondeva effettivamente al reale o perché per censura, autocensura, buon gusto certi particolari reali del popolo venivano omessi: detto in parole povere le mondine piemontesi lottavano anche con le bisce nelle risaie e questo in Riso amaro non c'era. Ma il neorealismo innegabilmente restituì alla letteratura sia “il fastidio di essere vivi” (espressione di Alvaro) che il materialismo marxista, ovvero all'atto pratico la descrizione e lo studio della classe sociale più povera. Poi anche il neorealismo fece il suo tempo, dopo aver caratterizzato un'epoca. Calvino nel suo saggio “Il mare dell'oggettivitá” scrisse che dalla letteratura dell'oggettività bisognava passare alla letteratura della coscienza. Ma la coscienza con il suo flusso cosa poteva rappresentare? La crisi delle scienze descritta da Husserl, la crisi dell'umanesimo, la morte di Dio di Nietzsche, la morte dell'uomo per lo strutturalismo, l'oblio dell'essere di Heidegger, l'essere identificato con il Nulla come Sartre, insomma il tramonto dell'Occidente. Aldo Busi in un suo romanzo scriveva che nella narrativa ci voleva meno New Age e più neorealismo. Insomma bisognerebbe ritornare ad esempio a Lorenzo Viani, con la sua vena folle, con le sue metanoie, vere o presunte, con il suo neorealismo a tinte espressioniste, con la sua cultura autodidatta ed enciclopedica, con la sua “gentugliora” e i suoi “vàgeri”, con la sua dissacrazione della Parigi da cartolina. Le cose sono due, mutuamente esclusive: prendere la strada della letteratura come menzogna del grande Manganelli e quindi alla dissimulazione di Accetto (“si simula quel che non è, si dissimula quel che è”) e perciò aderire all'immaginazione oppure aderire quanto più possibile alla realtà, sperando che essa contenga, includa, ingloba maggior contenuto di verità, anche se ogni analisi del reale è data dall'osservazione ma anche dell'interpretazione, che può essere relativa e molto soggettiva. 

 

È online, scaricabile gratuitamente, il romanzo breve "Una verità qualunque" di Davide Morelli

nov 242024

 

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Questo romanzo breve di sole 326 pagine di Davide Morelli è stato meditato a lungo, ma è stato scritto solo in un mese e mezzo. Quest’opera è un impasto di realtà e fantasia (alcune cose sono inventate di sana pianta). Il protagonista è un disoccupato cinquantaduenne, che vive nella sua comfort zone. Ma come dichiarava Paolo Crepet la comfort zone può rovinare molte vite. Davide, il protagonista, un anarchico anticomunista e antifascista ma apartitico, per vari motivi non può partire, emigrare, lasciare sua sorella, che non vuole trasferirsi in alcun modo. È un’opera su chi resta, nonostante tutto. Davide, il protagonista, è un inetto del 2024, suo malgrado. Continua a vivere a Pontedera, nonostante la mancanza di vita sociale, nonostante quella che lui definisce la banda del keu, nonostante alcuni lo odino perché le azioni della banca, di cui suo padre è stato consigliere, si siano svalutate, e nonostante le voci di paese. Il protagonista vive di ricordi (la vita universitaria padovana, il servizio civile a Este, le scorribande nella bassa padana). È un romanzo breve dove sono condensate la noia del vivere in provincia, l’alienazione, la solitudine, la mancanza di amore e di lavoro. È un romanzo breve sulla vita, sulla maturità, sulla morte. Ci sono salti di tempo. Dei 44 capitoli alcuni sono stati scritti usando l’imperfetto e il passato remoto, 1 capitolo è stato scritto usando il passato prossimo, pochi altri capitoli sono stati scritti al presente perché passato, e presente si mischiano continuamente nella vita. Il futuro non c’è perché il protagonista è no future. Vengono riportate anche alcune pagine del diario del protagonista e la narrazione così è in prima persona in quei capitoli. Anche se ci sono cose inventate, il protagonista è di fatto l’alter ego dell’autore. Quest’opera è stata scritta, partendo dal fatto che l’io è una pura convenzione grammaticale, come scriveva Nietzsche. Il romanzo breve è ambientato nel 2024, ma è come se fosse un’epoca ormai lontana. Tutto questo perché la narrazione per quanto lineare dal punto di vista stilistico comprende lo gnommero gaddiano, la matassa che non si sbroglia di Montale, il fatto che tutto sia inutile, come scriveva Guido Morselli nel suo diario. Il narratore stesso talvolta si contraddice (Pontedera è amata e allo stesso tempo odiata, il protagonista viene talvolta descritto come uomo risolto e talvolta assolutamente no) perché la realtà è sempre sfaccettata e contraddittoria. Alcune cose vengono ripetute e talvolta cambiate perché per Davide Morelli oggi tutto è riscrittura. L’autore senza tanti fronzoli e infiorettature ha cercato di creare un piccolo congegno narrativo, che esprimesse tutte le sue contraddizioni e le contraddizioni del suo tempo, tutto il suo disagio esistenziale e la sua condizione. Scriveva Simenon che la verità umana (non quella divina) fosse qualunque, mischiata in mezzo a tante altre. Forse c’è un poco di verità anche nella vita qualunque, in parte reale e in parte immaginata, di un uomo qualunque in una cittadina qualunque. Sullo sfondo Pontedera, il quartiere Sozzifanti e alcuni suoi luoghi. È scaricabile gratuitamente.

N.B: quest’opera è stata scritta con un tablet economico, è costituita da poco più di 67000 parole, per cui c’è qualche refuso, ma l’autore non vuole ritoccarla più, ha deciso di licenziarla definitivamente.

Così scrive Karla Lorena Castillo Rodriguez, esperta legale e studiosa: “Il romanzo “Una verità qualunque” di Davide Morelli è un’opera scorrevole e coinvolgente che, con grande semplicità, racconta la storia di un ragazzo di provincia, profondamente riflessivo e intelligente. Il protagonista è caratterizzato da tratti che, se da un lato lo rendono speciale, dall’altro non sono sempre apprezzati dai grandi gruppi sociali, trovando accoglienza in un cerchio ristretto di relazioni. Proprio attraverso una certa solitudine è portato a conoscere sé stesso e accettare la propria autenticità. Il testo non si limita a raccontare la vita del protagonista, ma è arricchito con riflessioni filosofiche, psicologiche e sociologiche che offrono spunti interessanti per il lettore. La vita, nel suo fluire, è rappresentata come un viaggio che inevitabilmente conduce alla sua naturale conclusione: la morte.”

 

 

 

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Annotazione su un racconto di Maupassant...

nov 242024

 

 

 

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Nella letteratura italiana contemporanea ci sono i narratori, come Pavese, e i descrittori come Calvino. Ma Pavese non ha influito molto sugli scrittori contemporanei. Lo si cita a sproposito spesso per il suo gesto estremo, per qualche pagina del suo diario. I narratori veri non hanno lasciato eredi.

Mi sembra invece che abbiano influito molto Calvino e quella che lui stesso chiamava l'ossessione descrittiva. Mi sembra che in questo senso molti siano epigoni di Calvino. Un altro scrittore che ha influenzato molto gli scrittori (sto parlando di quelli bravi) di oggi è Gadda, con la sua prosa barocca. Anche Umberto Eco ha influenzato molto gli scrittori di oggi. Ma gli italiani sono un popolo di descrittori. Chi vuole scrivere un romanzo deve cercare di dimostrare le sue abilità verbali, descrivendo minuziosamente e noiosamente ambienti, luoghi, personaggi. Ma siamo sicuri che questa ricerca della descrizione della molteplicità fenomenica sia giusta? Se scrivere è ricercare quello che Mario Luzi definiva lo zenit della significazione, perché cercare di rappresentare solo ed esclusivamente cose e paesaggi e non esclusivamente l'accadere, il cuore umano, la vita, la morte? Rimbaud in “Una stagione all'inferno” scriveva: “Scrivevo silenzi, notti, annotavo l'inesprimibile. Fissavo vertigini". Ci siamo formati con “I promessi sposi”, ma il romanzo di Manzoni sarebbe poca cosa se fosse solo la descrizione di quel ramo del lago di Como delle prime pagine. Manzoni è genio immenso perché tratta da par suo la redenzione etica e religiosa di Renzo nella notte sull'Adda, la conversione dell'Innominato, il fatto stesso che l'idillio totale non esista come nelle ultime pagine. Manzoni affronta i temi esistenziali e metafisici, indaga nell'animo umano. Mi sembra invece che molti scrittori si siano fermati a quel ramo del lago di Como. Oggi hanno più senso certe descrizioni molto particolareggiate? Bastano una foto o un video con il telefonino per rappresentare cose e fattezze umane. Il significante degli scrittori è ben poca cosa rispetto alle nuove tecnologie. Di più: oggi se uno vuole scrivere un romanzo ambientato a Milano, può documentarsi facilmente su luoghi e ambienti e poi descriverli. Forse hanno senso solo romanzi ambientati in quartieri, che non si possono trovare su Wikipedia (io ad esempio sto alla Sozzifanti di Pontedera e non si trova niente nel web della zona in cui vivo). Oggi le descrizioni molto spesso non sono questione di bravura, talento, ma solo di documentazione e di diverse stesure. Cari scrittori, inseguite invece il fluire inarrestabile della vita. Siate più narratori, magari con uno stile più lineare e meno letterario. Calvino, Gadda, Eco non erano mai noiosi perché erano dei geni, ma diversi libri di scrittori contemporanei lo sono. Imparate piuttosto a narrare in modo scorrevole come Pavese, Bukowski, Carver, Maupassant, Capote, Tondelli, Cassola. In questi giorni leggevo un racconto breve di Maupassant, intitolato “La solitudine”. Ebbene in poche e semplici pagine quanta verità! Due amici discorrevano dell'impenetrabilità del pensiero altrui, del fatto che non sappiamo mai veramente cosa pensino gli altri, che vivere con gli altri è un immenso atto di fiducia reciproca (gli altri devono sperare che noi diciamo loro la verità e viceversa): la società intera è basata sulla fiducia e su un patto di verità. E Maupassant però citava il suo maestro Flaubert, che scriveva: “Nessuno capisce nessuno”. Poi un personaggio in questo breve racconto diceva che la vita intera è una disperata ricerca di rompere la solitudine. Quante verità in queste pagine scritte in modo lineare, ma che si caratterizzavano per una profondità d'animo e di pensiero davvero notevoli, rarissime. Non credo proprio che quel racconto di Maupassant si potesse scrivere oggi documentandosi su Google oppure chiedendo all'intelligenza artificiale perché c'era racchiuso un possibile significato dell'esistenza.

Sui giovani che vogliono cambiare il mondo...

set 202024

 

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Guardavo in questi giorni su Youtube vecchi filmati sui giovani sessantottini e sui giovani contestatori del'77. Ascoltavo i commenti dei giornalisti Rai. Ascoltavo le interviste. Ascoltavo le loro critiche alla società dei consumi, al capitalismo, alla politica di allora. Ma cos'è rimasto a distanza di decenni di quei sogni, di quella voglia di cambiare il mondo? Ben poco, forse niente. Mi chiedevo che fine avessero fatto quei giovani e quale fosse stato il loro destino. Oh certo quei filmati d'epoca sono Storia ormai…nient'altro che un semplice “come eravamo”. Ma i loro contenuti? Le loro utopie? Sono rimaste lettera morta. Nient'altro che questo. Mi ricordo ancora nel 1993 quando anche io contestavo il sistema, protestavo contro l'aumento delle tasse universitarie. Ricordo la facoltà occupata. Ricordo le amicizie, gli amori tra quelle aule, in quelle piazze. E ora? Cos'è rimasto a distanza di trent'anni? Ognuno ha preso la sua strada. Ci siamo tutti persi di vista. E quei sogni? Quella voglia di cambiare? Sono rimasti solo ricordi sbiaditi e forse qualche foto d'archivio dei quotidiani di allora. La verità è che sono un uomo attempato e solo. Che impatto pratico e tangibile hanno avuto quei giovani nella società di oggi? Oggi contano i numeri, le immagini, i soldi, i fatti. Oggi nella televisione generalista ci sono talk show feroci e falsi, varietà futili, trasmissioni basate sul gossip e sulla cronaca nera. Questi signori ci dicono oggi cos'è il bene e cos'è il male, ci indicano la via, ci dicono cosa e come pensare. E su Internet la musica non cambia, il canovaccio è lo stesso: ci sono opinion leader e influencer che assolvono la stessa identica funzione di guida. Questi sono i miti odierni. Questi sono i modelli. Non pensate quindi con la vostra testa: rischiereste incomprensioni, difficoltà, solitudine. Seguite il gregge. Non c'è posto per coloro che vogliono combattere contro le ingiustizie! Aveva ragione Debord: viviamo nella società dello spettacolo. Oggi ciò che non viene spettacolarizzato non esiste. Per esistere un gruppo di persone più che essere rappresentativo deve essere rappresentato mediaticamente. Se qualcuno lotta contro il sistema, i mass media non lo rappresentano o lo rappresentano solo in chiave negativa. Non se ne esce da questo vicolo cieco. Guardate ad esempio i giovani di Ultima Generazione. Parlano di loro solo quando commettono azioni vandaliche. Quello è l'unico modo che hanno per far parlare di loro. Non c'è soluzione. La civiltà dell'inibetimento massmediatico è al suo vertice, parafrasando Quasimodo. Tutto ciò che è contro il sistema non viene rappresentato e perciò è invisibile oppure viene ridicolizzato, storpiato, ne viene fatta una parodia. E quei giovani contestatori di quei filmati d'epoca? Saranno vecchi o morti. Saranno finiti disadattati o imborghesiti. Ormai ci sono sulla scena i loro figli e nipoti, che neanche ascolteranno le loro storie. Su via non è tempo di belle idee e di anime belle! I giovani diventano maturi, si integrano nella società, fanno figli, lavorano. Le generazioni si disperdono così in mille e più rivoli. Altri giovani si mettono in testa di cambiare il mondo e rarissimamente lo cambiano. È storia vecchia quanto il mondo, quanto gli uomini! 

 

È online e leggibile gratuitamente il mio ebook "SU FONDAMENTA INSTABILI"

ago 092024

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È online e leggibile gratuitamente il mio ebook di versi liberi,  aforismi,  racconti brevissimi,  riflessioni sulla vita, sulla poesia,  sul mondo. Molto probabilmente scrivo meglio recensioni, articoli e saggi brevi. Però ci tengo molto a questo ebook,  in cui ci sono cose e problematiche che mi toccano da vicino. Se volete potete leggerlo senza alcun bisogno di iscrizione qui:

 

IL MIO EBOOK GRATUITO "SU FONDAMENTA INSTABILI"

Su "Sottobosco letterario" di Domenico Nodari, ricordando Vittorio Sereni

lug 252024

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Leggevo in questi giorni “Sottobosco letterario” di Nodari, un libro del lontano 1978. È una raccolta di lettere di aspiranti scrittori e poeti alle case editrici. Allora il fenomeno dell’editoria a pagamento esisteva, ma non era così diffuso ed esteso come oggi. Quindi molti di questi aspiranti artisti erano colmi di frustrazione, di rabbia, che si tramutava spesso in megalomania. Probabilmente la megalomania in gran parte derivava anche da un narcisismo smodato, fondato su un’ignoranza di fondo. C’è da dire che oggi il livello di scolarizzazione si è alzato e probabilmente ora ci sono più aspiranti, ma anche il livello di letterarietà si è elevato. Forse oggi c’è più decenza e nessuno oggi forse propone storie universali della stupidità e trattati sulla masturbazione (ma ci sono anche, ad onore del vero, saggi ben scritti sul rapporto tra masturbazione e anarchismo individuale). Questo libro fu oggetto di critiche per l’operazione non proprio corretta: alcuni sostenevano che venivano messe alla berlina le aspirazioni, talvolta legittime, di persone in buona fede. Molte di queste lettere fanno ridere perché rivelano il lato folle di molti aspiranti dell’epoca tra smanie di grandezza, ricatti, lusinghe, arrufianamenti, etc etc. Più che letteratura è uno spaccato sociologico e psicologico su chi voleva fare letteratura in Italia negli anni ‘70: circoscriviamo e delimitiamo bene il campo di indagine. Però non sappiamo veramente il valore letterario di queste opere, quindi ci manca un tassello importante per giudicare o meno se erano scriventi da strapazzo o meno. In quegli anni l’unico modo per essere riconosciuti era la pubblicazione di un libro. Non c’era Internet. O si pubblicava o si rimaneva dei carneadi a vita. I destinatari appartenevano a ogni fascia di età, a ogni classe sociale. C’erano autori colti e naif. Adesso libri come questo non se ne pubblicano più. Adesso chi vuole pubblicare scrive mail con allegati curriculum e opera inedita. Un tempo costava molta fatica e denaro inviare un manoscritto a trenta case editrici. Oggi la stessa identica cosa si fa in tre quarti d’ora. Alda Merini diceva che il sottobosco letterario è terribile. Sicuramente aveva le sue ragioni per affermarlo. Ma oggi dove inizia e dove finisce il sottobosco? E perché si scrivono ad esempio ancora poesie e romanzi? Flaubert stesso ne “Le memorie di un pazzo” si chiedeva cosa lo tratteneva a scrivere nella sua stanza invece di godersi il mondo, la vita. Brecht scriveva che lo tratteneva alla scrivania l’orrore per l’imbianchino (perché Hitler da giovane era stato un aspirante pittore). In fondo sia i grandi geni che gli aspiranti sacrificano una buona parte della loro vita e di sé stessi per l’arte, vera o presunta. Ne vale davvero la pena? Peirce spiegava così quel che definiva abduzione (che non va confusa con un particolare tipo di sillogismo): 1) si scopre un fenomeno speciale A, insolito 2) si pensa che l’ipotesi B possa spiegare quel fenomeno 3) si ritiene a rigor di logica che l’ipotesi B sia vera. Ebbene, facendo un’abduzione, l’unico modo per spiegare che si scrive ancora è ritenere la scrittura in gran parte terapeutica, pur vivendo in un’epoca povera per l’arte. Non solo ma esistono scuole di psicoterapia come la psicosintesi che si fondano sulla scrittura. È vero: la scrittura può comunque portare insoddisfazione e disagio e come ogni scelta di vita ci sono pro e contro. Vittorio Sereni ne “Gli strumenti umani” scriveva:

 

“I versi”

Se ne scrivono ancora.

Si pensa ad essi mentendo

ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri

l’ultima sera dell’anno.

Se ne scrivono solo in negativo

dentro un nero di anni

come pagando un fastidioso debito

che era vecchio di anni.

No, non era più felice l’esercizio.

Ridono alcuni: tu scrivevi per l’arte.

Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.

Si fanno versi per scrollare un peso

e passare al seguente. Ma c’è sempre

qualche peso di troppo, non c’è mai

alcun verso che basti

se domani tu stesso te ne scordi.

Pasolini ci avrebbe odiato tutti!

giu 092024

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Voi leggete, studiate, citate, amate Pasolini, ma non considerate un piccolo particolare fondamentale alla comprensione delle opere del poeta friulano. Pasolini ci avrebbe odiato tutti. L’aveva previsto che la televisione ci avrebbe reso tutti piccoloborghesi. Quindi se Pasolini fosse vivo, ci odierebbe in quanto piccoloborghesi, in quanto non comunisti o in quanto non autenticamente comunisti, visto che lui aveva fatto del comunismo una religione, la religione del suo tempo. E voi donne non pensate di salvarvi. Pasolini vi avrebbe visto come delle predatrici temibilissime dei suoi ragazzi di vita! Pasolini stesso odiava Pasolini in quanto di estrazione piccoloborghese. Pasolini mi avrebbe odiato, come un’insegnante d’italiano, che una volta ebbe a dire di me, guardandomi con disprezzo: “quel piccolo borghese arricchito” (per la cronaca ora non sono neanche più arricchito e ho appena i soldi per tirare a campare!)

 

 

Quando leggete Bukowski e amate i suoi racconti, i suoi versi ricordatevi che anche lui vi avrebbe odiato e ci avrebbe odiato. Ci avrebbe odiato e avrebbe odiato le nostre vite tranquille, le nostre comfort zone. Ci avrebbe odiato perché la stragrande maggioranza delle persone che si dedicano alla poesia, alla letteratura hanno lo stomaco pieno, il riscaldamento, il ventilatore o il condizionatore. Tutte cose che Bukowski ebbe solo alla fine della vita. Bisognerebbe chiedersi: cosa ne avrebbero detto e scritto Pasolini e Bukowski di me medesimo? E ancora: io cosa posso dire o scrivere di nuovo su di loro, che non è ancora stato detto o scritto? Ma la realtà è che Pasolini e Bukowski ci avrebbero odiato. E che dire del grande poeta meno noto Luigi Di Ruscio? Personalmente, se lo avessi incontrato, forse mi avrebbe picchiato. E che avrebbe fatto il grande scrittore Mastronardi? Probabilmente mi avrebbe preso a male parole e mi avrebbe dato del terrone, come fece con un ferroviere e per questo venne condannato penalmente. E Carlo Levi? Per lui saremmo stati dei Luigini, che hanno avuto la possibilità di andare all’università. E Don Milani? Per lui saremmo stati dei potenziali corruttori intellettuali dei suoi ragazzi di Barbiana! E il cantautore e poeta Piero Ciampi? Ci avrebbe preso a pugni ubriaco in qualche viuzza poco illuminata di Livorno. E Montale? Probabilmente mi avrebbe considerato un “baccalare di nulla” e mi avrebbe detto di “stracciare i fogli”, come scriveva nella poesia “La caduta dei valori”. E Umberto Eco, di cui abbiamo letto romanzi e saggi? Ci avrebbe davvero apprezzato, lui grande genio? Sono molto pessimista a riguardo. Ad esempio del grande scrittore Tondelli, Eco ebbe a scrivere: “Quel 29 che non sarà mai 30” (riferendosi al voto che gli aveva dato all’esame al Dams di Bologna). Chissà quindi cosa avrebbe detto e scritto di noi?!? Tutti questi grandi sarebbero stati contro di noi, ma noi non possiamo permetterci di essere contro di loro. Per la cronaca io non posso neanche permettermi di essere contro quell’insegnante d’italiano, ormai anziana, che, a onor del vero mi ha insegnato qualcosa. La realtà è che dobbiamo amare questi grandi intellettuali, nonostante le loro idiosincrasie, il loro odio nei confronti di ciò che noi stessi rappresentiamo. Tutti loro ci avrebbero odiato perché noi abbiamo una vita incredibilmente più comoda, più facile della loro e infinitamente meno talento di loro. Noi non dobbiamo però fare come Salieri che odiava il genio di Mozart. Oscar Wilde scriveva che il successo causa invidia o ammirazione. La stessa identica cosa vale per il genio quando siamo capaci di riconoscerlo. Non ci resta che mettere da parte l’invidia e lasciare il posto all’ammirazione. Di artisti grandi e veri ne nascono davvero pochi nell’arco di ogni generazione. A volte ne nasce uno ogni secolo. La stima non deve essere per forza reciproca. Le persone decenti stimano anche chi non le stima o chi probabilmente non le avrebbe mai stimate. Bisogna anche saper accettare di essere delle comparse. Se siamo onesti intellettualmente e nel cuore, dovremmo lasciare da parte l’ideologia. l’antipatia, l’invidia e riconoscere l’originalità, la grandezza di questi grandi autori. E se proprio non ci riuscite, ritrovatevi in questi versi di Pasolini:

 

“Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere”

Per un possibile senso delle cose...

apr 222024

 

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Ho dei momenti non dico di obnubilamento totale, ma di lieve rassegnazione, di sconforto leggero, pervaso dal nichilismo. Cammino per le strade, guardo la gente e penso. Mi dico che ognuno porta a giro sé stesso, che ognuno gira a vuoto, che ognuno parla a vuoto ma mai del suo vuoto, che ognuno è preda della noia, che ognuno non è alla fine sicuro di niente, anche se si convince di avere certezze. Come si dice in Toscana, l'unica certezza è la morte, se  si escludono le verità della scienza e le ovvietà. Ma a livello esistenziale e metafisico non c'è nulla di certo… parlo di certezze assolute. E le persone fanno gruppo per passare il tempo, ammazzare la noia e talvolta si amano, talvolta si detestano. Annotava Pavese nel suo diario che le persone si incontrano, fanno l'amore, si amano e che anche lui avrebbe voluto fare come loro. Forse l'unica via di uscita, l'unica ancora di salvezza è proprio l'amore, anche una parvenza o l'illusione dell'amore. Leggevo qualche giorno fa che degli studenti avevano chiesto a un grande antropologo qual era il primo segno di civiltà della specie umana. Tutti pensavano all'opponibilità del pollice, alla stele, alla ruota, alla scoperta del fuoco, allo sviluppo della corteccia frontale, al culto dei morti, alla fabbricazione dei primi utensili. No. Lui rispose che il primo segno di civiltà era un femore rotto e poi guarito. Quindi essere curati e curarsi delle persone: questa è l'essenza della civiltà umana. E però io non amo, né sono amato da una donna. La mia vita sociale è prossima allo zero. E io sono out, fuori dal giro. Sono solo, ma mi perdo qualcosa o qualcuna veramente? Sarà questo il senso di sfinimento di cui parla Franco Arminio? Eppure lui ha successo, case, moglie, figli, fan. Oppure è solo una posa la sua? Mi dico che qui e ora l'importante è fare soldi, apparire, scopare: il soggetto cartesiano è stato spodestato e ora dal cogito ergo sum siamo passati al coito ergo sum. E io, sia ben inteso, non faccio soldi, non appaio, non scopo. Non ho nemmeno un ruolo definito. Vogliamo tutti possedere, consideriamo tutto e tutti come merce, guardiamo alla praticità e all'utilità di ogni cosa, di ogni persona e finiamo per essere impossessati dal vuoto, dalla noia, dal non senso. Come ben nota Andrea Inglese su Nazione Indiana per Freud pulsione di morte e coazione a ripetere sono strettamente connessi. Tutti fanno, sono sempre in azione, senza capire che questa società è intrisa dal cupio dissolvi. C'era il mio professore di storia della filosofia, Accame, che scriveva in un suo libro, già negli anni ‘90, che tutti avevano sempre da fare, che anche chi non aveva niente da fare sembrava indaffarato. Non è forse questo il modo migliore per riempire il vuoto esistenziale e non pensare? Mi chiedo io: ma dove correte? Per arrivare dove? Dove correte, se vi aspetta la morte? Eppure l'etologo e scrittore Giorgio Celli, che aveva fatto anche parte del gruppo '63, ci aveva già avvertito: "Il cervello ha tradito la specie umana". L'ingegno e la scienza sono al servizio di governi che fanno guerre sanguinarie. Al progresso scientifico non è seguito lo sviluppo storico ed etico. Gli scienziati hanno recentemente stabilito che non siamo nell'Antropocene, ma siamo ancora nell'Olocene. Ma, al di là di ciò, in questa prossima, possibile apocalisse non c'è forse la mano dell'uomo, non ha forse una causa antropica questo disastro? Lo so. Questo è un ottimo sito letterario e io dovrei trattare seriamente di letteratura e poesia. Ho sempre cercato di farlo. Però questa volta voglio essere sincero e parlare di me, anche se talvolta parlando d'altro si finisce per parlare di sé stessi e viceversa, in una incomprensibile eterogenesi dei fini. A volte mi chiedo: i libri che leggo mi servono davvero per vivere meglio? I libri che ho letto e che leggo mi riguardano veramente oppure sono solo un accumulo di nozioni, utili soltanto a fare i cruciverba della Settimana enigmistica, che poi non compro neanche più? Leopardi scriveva che la poesia vera accresce la vitalità. Ma davvero le poesie lette e quelle che ho scritto hanno accresciuto la mia vitalità?  Sartre scriveva che ogni uomo è sempre circondato da sé stesso. È questo il problema? Oppure ognuno vive con i suoi sofismi, i suoi piccoli rancori quotidiani, “scordando che tutti avremo due metri di terreno”, come cantava tempo fa Guccini? Mi dico che la miglior cosa è vivere in superficie, abolire la profondità, lo spirito, il pensiero. Ma questo basta? L'importante è avere una scopamica. Questo è l'obbligo sociale per un uomo rispettabile, per un maschio che si rispetti. A volte mi chiedo cosa sono disposto a fare per rompere la mia solitudine e non trovo una risposta. Mi chiedo che senso ha leggere e scrivere. Mi chiedo che senso abbia tutto questo e se sono io che non so dare un senso. Ma forse sono solo i problemi pseudoesistenziali di un cinquantenne che ha tempo da perdere. Intendiamoci: non sono questi i drammi. La cosa migliore però è non pensare. Alcuni mi potrebbero rispondere: “ma cosa vuoi? La vita è questa. È sempre fatta dalle solite cose. Quando si arriva a una certa età si mette famiglia oppure si sopporta la solitudine”. Oppure mi potrebbero dire: “pensa a chi muore sul lavoro e alle tragedie dei familiari “. E avrebbero ragione. Ogni giorno ha il suo segreto e naturalmente mi sfugge. Ma forse il senso delle cose è più vicino e tangibile di quel che penso. 

 

Comunità poetica e dinamiche psicologiche in parole povere...

mar 262024

 

 

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Conoscendo almeno virtualmente la comunità poetica da anni, mi viene naturale talvolta analizzare le dinamiche psicologiche di essa, spesso soggiacenti. La prima cosa che mi salta subito all'occhio non è il cosiddetto amichettismo (termine coniato dallo scrittore Fulvio Abbate), ma la ricerca spasmodica ossessiva di consenso critico e legittimazione culturale. L'amichettismo, se esiste, è strumentale, è finalizzato a ottenere la gloria. Che vengano ottenuti o meno dei risultati, i poeti (veri, aspiranti, sedicenti) ricercano un maestro e/o dei sodalizi artistici. Intendiamoci bene: c'è chi si atteggia a maestro senza esserlo e c'è chi si finge sodale senza esserlo! Tutto ciò ha sempre dei secondi fini, sono frequentazioni “interessate”: un do ut des, perché nessuno fa niente per niente. Poi per dirla alla Montale “ognuno riconosce i suoi”: questo l'hanno già detto e scritto tanti a riguardo. C'è chi parla di cricche, chi addirittura di clan, di gruppi di potere. A volte penso che per comprendere adeguatamente i poeti e la comunità poetica sia necessario ricorrere ai principi basilari della psicologia dinamica, sociale e addirittura clinica, perché c'è una quota parte ineludibile di psicopatologia. A questo proposito apro una parentesi sulla scrittura del trauma sempre più diffusa. Va bene l'arteterapia, ma i traumi si superano sotto la guida di esperti della psiche e con gli psicofarmaci. Alcuni si affidano unicamente alla scrittura e talvolta fanno naufragio. Poi se tutto è trauma, niente è trauma e sappiamo dalla psicologia quali sono veramente i traumi. Inoltre sappiamo che l'incidenza nella popolazione del disturbo post-traumatico da stress è del 7,5%. Che moltissime persone, facenti parte di questa piccola percentuale, scrivano poesia oppure è anche una moda, addirittura una posa quella del trauma, pur essendoci grandi poeti e grandi poetesse, che ne hanno fatto il loro tema principale? Insomma tutta la poesia è dolore e trauma? Non ci si può esentare da ciò? Chiusa parentesi. A ogni modo chi ha vero potere editoriale è amato/invidiato/odiato senza mezze misure. Ma poi è vero potere quello poetico? O è solo un contentino, un palliativo, una valvola di sfogo, una piccola concessione che il vero potere dà ad alcuni individui? C’è chi è dentro e chi è fuori. Chi è dentro guarda con aria di superiorità e con paternalismo chi è fuori. Chi è out a volta sfoga la rabbia in velenosi post su blog, siti, riviste online. C’è chi aspira, più o meno legittimamente, e non trovando riconoscimento diventa frustrato/depresso e talvolta ciò si tramuta in smania di grandezza, in un ingigantimento smisurato dell'ego, dovuto a una ferita narcisistica non rimarginabile. Ma non esiste comunque una linea di demarcazione netta, un limite invalicabile tra chi è in e chi è out: sono dei vasi comunicanti, ci sono delle cooptazioni, delle inclusioni, tenendo ben presente le dinamiche di gruppo (dell'ingroup e dell'outgroup in questi casi). Diciamo che il potere poetico e il contropotere si studiano vicendevolmente. Io, essendo ormai un misero recensore, sto tra l'incudine e il martello, possibile vittima dei due fuochi. Ma tra gruppi poetici di solito nessuno pesta i piedi a nessuno, le critiche alle altre scuole di pensiero sono sempre circostanziate ma vaghe, generiche: di solito nessuno fa nomi e cognomi, gli attacchi ad personam vengono evitati per quieto vivere. Scusate la citazione scontata, abusata, ma “la poesia non cerca seguaci, cerca amanti”, come scriveva Lorca. Solo che talvolta certe logiche di potere fanno passare la voglia di amare la poesia e i poeti. Ad esempio ogni volta che viene fatta un'antologia di poesia pregevole alcuni esclusi fanno delle critiche al vetriolo. Ma come sottolinea il poeta Andrea Temporelli le logiche di potere sono le stesse identiche per tutti: gli esclusi si comporterebbero allo stesso modo, se avessero potere. I contestatori non sognano altro di essere riconosciuti. Non chiedono altro! E intanto stringono alleanze per arrivare al cosiddetto potere, aspettando che muoiano tutti i grandi vecchi. Se un difetto, un limite intrinseco si può trovare ai grandi critici e ai grandi poeti, è quello di passare spesso dalla selettività giusta e sacrosanta all'essere snob ed esclusivi fuori di maniera. E questo snobismo viene ricambiato dagli appassionati di poesia, dagli aspiranti poeti, che non comprano i loro libri, non vanno alle loro presentazioni e conferenze, etc etc. Insomma snobbami che ti risnobbo! Finisce così che i grandi poeti hanno poco seguito e predicano quasi nel deserto, mentre i poeti non riconosciuti cercano consenso nella loro bolla social. Tutto questo è asfittico, claustrofobico e ognuno se le dice e se le canta da solo. Per pura consolazione allora c'è chi ripete “meglio pochi ma buoni” oppure “la poesia non può che essere di nicchia”. In un gioco di snobismi reciproci, di piccoli favori, di attese vane, di idiosincrasie, di dispetti e ripicche, di invidie vivacchia la poesia italiana, in attesa della catastrofe o di una rinascita.

Carpe diem? Passeggiando per Pisa...

feb 242024

 

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Carpe diem? Tutti dicono di cogliere l'attimo. Vige il carpe diem, insomma, in questa società. Ma quale attimo va colto? Va scelto con cura o ponderatezza l'attimo oppure bisogna cogliere qualsiasi attimo? E bisognerebbe stare tutta la vita a cogliere l'attimo oppure ogni tanto si può riposarci, mettersi in disparte ad osservare gli altri che colgono gli attimi? Ognuno colga il suo attimo perché ognuno ha le sue opportunità, ma cogliere l'attimo da antico e saggio consiglio di vita è diventato oggi un fattore imprescindibile di ogni esistenza. Che poi l'attimo è fuggente e bisognerebbe prendere l'eternità di quell'attimo! Le neuroscienze ad esempio ci insegnano che non viviamo mai pienamente il presente, che al massimo viviamo in un passato molto prossimo. Essere meditativi non paga. Bisogna essere attivi e vitali, a costo di perdersi in un vortice di vitalismo disperato, che sfugge a ogni logica. Gli artisti o aspiranti tali però devono anche cogliere il ricordo, l'immagine, il pensiero, il senso dell'attimo vissuto. L'arte consiste nell'eternare, nell'immortalare gli istanti vissuti, che poi è un modo di cogliere e vivere nuovamente l'attimo. Ma vivere pienamente e scrivere dignitosamente sono per alcuni due cose inconciliabili. Vivere e scrivere sembrano agli antipodi. Carpe diem? C'è chi dice che prima bisogna vivere, quindi scrivere. Secondo questa scuola di pensiero bisognerebbe scrivere ciò che si vive. Ma ci sono molti artisti schivi e riservati che fuggono dalla vita quotidiana (perché la quotidianità è alienata, è inautentica, è non vita), si rifugiano in un angolo tutto loro, si mettono al riparo dalle offese e dagli orrori del mondo per concentrarsi meglio, per meditare a lungo proprio sull'esistenza. Questi artisti scrivono per provare l'epifania, ovvero l'illuminazione interiore. Scrivono per vivere e per loro l'essenza della vita è la scrittura: scrivere quindi è la fonte sorgiva della gioia. Carpe diem? Eliot scriveva che si impara sia per esperienza pratica che per conoscenza teorica. Gli artisti corrono il rischio di eternare più la vita immaginata che quella reale, ma poi qual è la vera vita? Perché l'attimo immaginato non va bene? Perché non va bene cogliere anche quello? E poi perché cercare un confine tra sogno e realtà? Sono comunque istanti immortalati, selezionati dagli artisti, dal caso o da Dio? Questo non lo sapremo mai. Cammino sui lungarni e poi sotto i loggiati di Pisa. Prendo dei vicoli, assorto nei pensieri. Vago senza meta. Pioviggina e non ho l'ombrello. Poi viene fuori il sole. Cosa significa ora cogliere l'attimo per me in questo momento? Cercare di approcciare una passante o una barista, nel 99,9% dei casi prendendomi un due di picche? Bermi una birra a un bar? Telefonare a un amico? Continuare a cercare una bancarella di libri usati? Continuare a camminare fino a Piazza dei miracoli? Continuare a vagare e poi ritornare alla stazione senza assentarmi da me stesso? Cogliere l'attimo vuole solo significare divertirsi come fanno tutti? Comunque molti artisti si ritirano nella loro stanza oppure guardano per ore dalla finestra o si mettono a osservare la vita circostante a un tavolino di un bar in attesa non di cogliere l'attimo ma che l'attimo li colga. Montale aveva delle muse e delle agnizioni. Certe donne erano viste come “divinità terrestri” che lo ispiravano; solo loro erano capaci di cogliere l'attimo ma anche di farlo sognare, pensare, meditare, scrivere: “Ti guardiamo noi della razza di chi rimane a terra”. Carpe diem? Pensiamo all’atteggiamento mentale di chi fa meditazione o si mette a riflettere sul letto nel silenzio e nella penombra. Si dice che queste persone rimangono in ascolto del mondo e di sé stessi. Carpe diem? È un atteggiamento apparentemente passivo. È l'ozio in attesa di diventare fertile, produttivo. È l'attesa dell'ispirazione o che quantomeno affiori un'idea. Per gli antichi l'ozio anche etimologicamente veniva prima del negotium, ovvero del lavoro. Oggi l'ozio è condannato da tutti, è considerato totalmente improduttivo. L'unico tempo libero non condannabile è quello dei pensionati, come premio di una vita di lavoro. Il disoccupato è visto principalmente come uno che non ha voglia di lavorare o che è incapace di lavorare. I frutti dell'ozio postmoderno possono essere anche pregevoli artisticamente o culturalmente, ma sono visti come semplice espressione di dilettantismo e di hobby, se non diventano business. Eppure i grandi creativi hanno avuto lunghi periodi di ozio infecondo spesso prima di creare o scoprire cose memorabili. La psicologia del pensiero ci insegna che in ogni fase creativa è necessario un periodo d'incubazione, preceduto dalla preparazione e seguito dall'intuizione felice. Spesso per riuscire ad avere un'idea originale, uno spunto interessante bisogna stare per giorni a non fare apparentemente niente, mentre in realtà i pensieri vengono rimuginati, si rielaborano inconsciamente i contenuti, si approccia un problema a 360 gradi, magari anche infruttuosamente. Sono pensieri sottotraccia che si affollano, fino a quando uno emerge, fa chiarezza, ristruttura cognitivamente il compito da risolvere. Per l'ozio ci vuole un silenzio preparatorio e una stanza tutta per sé. Pascal non aveva torto quando scriveva che molti mali dell'umanità derivano dall'incapacità degli uomini di starsene chiusi da soli nella loro stanza. Per stare bene con gli altri e per non creare danni agli altri bisogna stare prima di tutto bene con sé stessi. Carpe diem? E poi l'attimo non si può cogliere anche da soli con sé stessi? Perché bisogna per forza cogliere l'attimo con gli altri, magari perdendosi nella frenesia e nella superficialità della vita sociale? Perché bisogna per forza essere socievoli e mondani per cogliere l'attimo? Perché poi cogliere l'attimo deve essere un obbligo sociale e perché le occasioni bisogna cogliere sempre insieme agli altri? Carpe diem? Bisogna amare occasionalmente, divertirsi in modo sfrenato e va bene anche sballarsi, fino ad autodistruggersi. Ho chiesto una volta molti anni fa a un amico dopo una storia d'amore finita male con una donna: preferisci che lei ti abbia lasciato, scomparendo per sempre, dopo averla amata anche carnalmente, oppure preferivi che lei fosse una tua amica per tutta la vita senza mai andarci a letto? La risposta è stata che era meglio la prima cosa, perché per come siamo fatti noi uomini occidentali e per come è fatta la società bisogna agire, amare, concludere, finalizzare, avere un'altra conquista nel carnet degli amori. In definitiva l'importante è aver vissuto, anche se a larghi tratti in certe persone gli automatismi psicologici e il volere altrui sembrano fare da padrone. Invece bisognerebbe fare, pensare, volere ciò che più ci aggrada. A volte sembra che la vita vada da sé autonomamente, indipendentemente dalla nostra volontà. Carpe diem? Sembra che in questa continua ricerca della felicità più effimera e banale possibile dell'uomo occidentale la cosa peggiore è non aver vissuto pienamente, non aver colto la palla al balzo, aver sprecato tempo, avere dei rimpianti. Secondo la nostra mentalità comune è meglio sbagliare molto e vivere nel disordine, nel caos invece di isolarsi a riflettere, a diventare esseri più spirituali. L'estroflessione sociale è un dovere. Ho la vaga impressione che vivere troppo intensamente a lungo possa portare a un senso di vuoto, di smarrimento, di esaurimento, di noia. Una vita troppo mondana può arricchire ma anche logorare e abbruttire. La leggerezza può tramutarsi in pesantezza insostenibile. Poi ci si guarda indietro, si fa un bilancio esistenziale e la coscienza rimorde, perché sono troppi gli errori commessi, troppe le cose e le persone importanti lasciate e perdute per sempre, irrimediabilmente. Carpe diem? E poi a tutta questa retorica del carpe diem è sottesa implicitamente la concezione che il tempo è denaro e che non bisogna mai perdere tempo, ovvero il fatto che bisogna consumare tutto e tutti, anche la propria vita, anche sé stessi, fino all'ultima fibra. Carpe diem?

Oggi si pubblica troppo a discapito della qualità...

feb 072024

 

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Nella foto Eros Alesi (1951-1971)

Tomasi di Lampedusa scrisse un solo romanzo, “Il gattopardo”. Salinger oltre a “Il giovane Holden” pubblicò solo tre libri in vita e altri racconti su riviste. Pessoa pubblicò in vita solo su riviste letterarie. Campana ebbe la gloria postuma solo per “I canti orfici”. Svevo scrisse solo tre romanzi e poche pagine di un quarto, intitolato “Il vecchione”, rimasto incompiuto per l'incidente automobilistico mortale. Del poeta romano Eros Alesi, scomparso a soli 19 anni, resta un solo libro, “Che puff. Il profumo del mondo. Sballata”, edito da Stampa alternativa. Del poeta Giuseppe Piccoli, nonostante in vita avesse pubblicato dieci sillogi in piccole case editrici, resta oggi solo il volume “Fratello poeta”, edito da Lietocolle. Insomma si può scrivere poco, pubblicare ancora meno e passare alla storia. Oggi però le case editrici forzano la mano. Uno scrittore deve battere il ferro finché è caldo. Quindi deve essere molto prolifico. Spesso deve pubblicare un libro all'anno. Poco importa se le opere sono più commerciali che letterarie. Poco importa se tutto questo va a discapito della qualità. Poco importa se i libri di uno scrittore si assomigliano tutti troppo e risultano poco originali. In teoria una creatività veramente rispettabile presupporrebbe tempi lunghi per l'incubazione, per la stesura, per l'editing. In teoria ci vorrebbe talento, impegno, fatica ma anche pazienza, calma. In teoria non dovrebbero essere fatte pressioni indebite agli scrittori. Uno scrittore in teoria dovrebbe prendere tempo, correggere, aggiungere, tagliare, rivedere, pensarci sopra. In pratica ci sono le esigenze editoriali. In pratica anche gli scrittori devono guadagnarsi il pane e tengono famiglia. Inoltre un romanzo scritto nel 2024 potrebbe non interessare nessuno e risultare datato pubblicato dieci anni dopo. Aspettare tempi più propizi non avrebbe senso, perché tempi più propizi non ci saranno! Quindi non avrebbero più senso oggi il riserbo, la discrezione, la gelosia degli scritti inediti che rimanevano nei cassetti dei letterati del secolo scorso. Custodire gelosamente le proprie opere, sperando che i posteri possano apprezzare e capire è mera illusione, è una mistura di follia e albagia. Oggi l'imperativo è pubblicare, anche sul web, ma pubblicare. Un'altra osservazione: nessuno sa oggi chi e cosa resterà tra mezzo secolo, quali saranno gli autori memorabili. Pessoa per alcuni al suo tempo era solo un alcolizzato, Campana per molti era un pazzo, Morselli e Tomasi di Lampedusa per molti erano solo dei dilettanti che vivevano di rendita, molti crepuscolari per gli uomini della loro epoca erano solo dei tisici. E oggi? Oggi è molto difficile dire chi resterà. Degli indicatori che forniscono una certa predittività ci sono, come la pubblicazione con grandi case editrici, la vittoria di premi importanti, il consenso critico dei più autorevoli italianisti. Ma ciò che conta per molti è affermarsi in vita, avere successo, prestigio, riconoscimento, soldi vita natural durante, perché tanto la gloria postuma è una grande incognita, probabilmente non salva l'anima, ammesso e non concesso che esistano l'anima e l'aldilà. Un proverbio dei pigmei recita: “se non qui e ora, che cosa importa dove e quando?”

La triplice ingiustizia del mercato e dell'editoria nei confronti degli autori, veri o presunti...

gen 232024

 

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Supponiamo che abbiano ragione i critici letterari e i veri intenditori di poesia e narrativa. Supponiamo che il loro parere sia più competente, autorevole, sensato rispetto al pubblico. Supponiamo che esistano ancora dei canoni e dei criteri interpretativi per valutare talento, originalità, qualità di un libro. Ebbene per le persone competenti o supposte tali ogni giorno si consuma una triplice ingiustizia nei confronti degli autori da parte dell'editoria e del mercato. Questa triplice ingiustizia viene appena accennata, spesso sottaciuta dagli addetti ai lavori, che si rassegnano ormai a questo stato di cose. Invece ciò va detto e tutti ne devono prendere coscienza. Premetto che le grandi case editrici vogliono sempre più far cassa e quindi pubblicano libri che possono vendere. Premetto che per le grandi case editrici sono più importanti il marketing, il social marketing, il posizionamento, il positioning branding (quanto un libro o un autore possano occupare la mente del lettore) della qualità. Luciano De Crescenzo quando approdò alla grande editoria pensò di primo acchito che ora sarebbe stato libero totalmente di esprimere la propria creatività e di essere apprezzato per questo, ma si ritrovò qualche giorno dopo a essere costretto a fare riunioni con esperti di marketing, che snocciolavano dati, statistiche, sondaggi. Premetto che le grandi case editrici hanno una politica editoriale diversa rispetto al passato, ovvero non reinvestono una parte consistente dei loro profitti nella pubblicazione di autori di nicchia per tutelare la qualità della loro editoria. Persino le grandi case editrici accettano passivamente le dinamiche del mercato e spesso sono restie a cercare di imporre un libro di qualità sul mercato. Premetto che molte piccole case editrici spesso pubblicano ogni cosa, facendo l'editing opportuno, per fare cassa. D'altronde l'editoria è industria culturale. Quindi perché stupirsi? Le case editrici, piccole, medie o grandi devono pur sopravvivere e cercare di fare utili. Chi cerca di far presente queste dinamiche editoriali spesso viene fatto rientrare dal sistema nella categoria degli odiatori o dei rosiconi. 

Abbiamo perciò una triplice ingiustizia, come scrivevo prima:

1) ci sono influencer e vip che pubblicano con grandi case editrici solo perché hanno follower e non si meriterebbero assolutamente di venir pubblicati. Spesso i loro libri hanno bisogno di un grandissimo lavoro di editing oppure i loro libri sono scritti addirittura da ghost writer.

2 ) ci sono autori di piccole case editrici che non hanno talento e vengono pubblicati solo perché hanno sborsato dei soldi.

3) ci sono autori di piccole case editrici che hanno talento, ma sono costretti a pubblicare a pagamento, perché non sono ritenuti “collocabili” dalle grandi case editrici per la logica di mercato che ho detto. 

L’editoria quindi, sempre più succube del mercato, commette ogni giorno delle ingiustizie sulla pelle degli autori, illudendoli, ostracizzandoli, addirittura emarginizzandoli. 

 

Credits: foto dell'amico Emanuele Morelli

 

Due parole sugli aforismi e il loro punto debole...

gen 032024

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Alcuni sostengono che scrivere aforismi sia semplice, addirittura facile. In realtà è un'arte. Si potrebbe discutere se sia un'arte minore o meno. Se i proverbi sono saggezza popolare, gli aforismi racchiudono la cultura e la saggezza degli autori. Ci sono autori che devono esclusivamente la loro fama agli aforismi, come ad esempio Morandotti. Ma il punto debole degli aforismi non è che chiunque può crearli, ma che esprimono spesso una certa soggettività e che la verità è un poligono con tanti lati quanti sono gli uomini, come scriveva Gioberti. Forse l'inganno degli aforismi è che promettono leggi generali, insomma oggettività e tutto ciò viene deluso, disatteso talvolta. 

Indro Montanelli creava degli aforismi. Poi nelle conversazioni li citava e li attribuiva a grandi scrittori. Nessuno contestava o aveva da ridire. Ma si potrebbe fare anche il contrario: prendere degli aforismi di pensatori famosi e poi dire che sono nostri. Non tutti si accorgerebbero della truffa. Questo significa che l'aforisma è una massima, una sentenza, un pensiero, una battuta: insomma un'opinione spesso e dipende perciò non dalla logica ma dall'autorevolezza di chi ha creato la frase. L'aforisma non è un sillogismo. Con buona pace di Karl Kraus che vedeva in esso "una mezza verità" oppure "una verità e mezzo". Era solo una battuta. Una provocazione. Sempre a tal proposito si deve ricordare che si possono trovare aforismi che affermano una cosa e altri l'esatto contrario. Celebre è l'aforisma di Longanesi a tal proposito: "Eppure, è sempre vero anche il contrario". Ad esempio Pittigrilli nel "Dizionario antiballistico" invertiva gli aforismi. Umberto Eco a riguardo ha definito questo genere di aforismi cancrizzabili, cioè reversibili. Altre volte l'aforisma si rivela una generalizzazione indebita, per cui oltre ad una piccola verità contiene una piccola bugia. L'oggettività lasciamola a quelle che un tempo venivano chiamate scienze esatte. Alcuni potrebbero definire l'aforisma un'osservazione acuta. Ma anche in questo caso potremmo ricordare Popper, secondo cui prima di ogni osservazione ci sono sempre delle aspettative inconsce (e soggettive). Non parliamo poi delle frasi motivazionali, che spesso sono delle ipersemplificazioni di quella branca della psicologia spicciola, che è chiamata crescita personale. Nessuno è depositario di verità: neanche di mezze verità. E la verità umana è sempre provvisoria. Ecco il punto debole degli aforismi, che è anche quello di tutta la cultura umanistica. 

 

Nuove opportunità lavorative nel web per umanisti...

gen 032024

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Se un tempo il web era fonte di guadagni esclusivamente per ingegneri, laureati in informatica, smanettoni autodidatti capaci, oggi anche gli umanisti o comunque chi ha una formazione scolastica umanistica possono iniziare a guadagnare qualcosa, ad arrotondare, talvolta fino a farne una professione. Certo i ricavi sono ancora molto minori rispetto agli informatici. Sembra però che il web stia andando verso una nuova fase, dove conterà anche la scrittura e la padronanza del linguaggio. Non a caso sono aumentate notevolmente le iscrizioni alla facoltà di informatica umanistica: informatica e umanesimo, due cose antitetiche qualche decennio fa, che oggi possono unirsi. Per prima cosa un "umanista" può fare l'articolista. Può scrivere articoli su commissione, iscrivendosi a siti, chiamati marketplace, come Melascrivi. È il cosiddetto "paid to write". Inoltre un articolista può collaborare con testate giornalistiche online, facendosi pagare per ogni articolo oppure in base alle visualizzazioni ottenute dall'articolo. Esiste il mestiere di copywriter, che non comprende solo la scrittura di articoli, ma si occupa anche di pubblicità ed è più complesso. Esiste la figura del content creator, ovvero del creatore di contenuti, non solo scritti ma anche su Instagram e audiovisivi. Esiste il web content editor, che corregge gli errori ortografici, di sintassi, di punteggiatura nei siti e apporta migliorie ai testi. Rispetto all'editor classico, che lavora in una casa editrice, questo mestiere richiede meno meticolosità, meno fatica. Esiste il web content writer, che scrive completamente contenuti per siti e blog, occupandosi anche del posizionamento sui motori di ricerca, della cosiddetta Seo optimization. Un'altra occasione per guadagnare è quella di fare i book influencer, recensendo i libri. Ci sono i book blogger, i booktuber, gli Instagram book influencer. Ci sono anche i recensori su Tik Tok, più precisamente su BookTok. Costoro possono diventare collaboratori di case editrici.
Ci sono due piccole grandi insidie per tutti questi lavori:


- non copiare perché per i siti Wordpress ad esempio c'è la possibilità del Check duplicate content, che permette di controllare se un testo è inedito oppure se è già presente nel web e perché esistono software antiplagio, anche gratuiti, di cui sono ormai provvisti quasi tutti gli insegnanti di scuola superiore e i docenti universitari. 


- pagare sempre le tasse. Spesso uno può essere pagato tramite paypal, postepay o bonifico bancario. Ma bisogna dichiarare questi soldi. La Guardia di Finanza può accertare facilmente e oggettivamente l'evasione. Anche gli youtuber, in questo caso i booktuber devono pagare le tasse. Anche qui l'evasione è facile da accertare oggettivamente. È meglio in questi casi aprire una partita Iva.  È comunque molto meglio lavorare per un periodo gratis, costruendosi una buona reputazione online, accumulando esperienze e referenze nel curriculum, che essere evasori.

 

 

Piccola nota su posizionamento, conflitto delle interpretazioni, mercato...

dic 222023

 

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Ho guardato le varie definizioni di posizionamento nei più importanti vocabolari. Ebbene nessun vocabolario menzionava il significato di posizionamento in letteratura. Con questo termine si intende l'orientamento di uno/a studioso/a, insomma di un/a letterato/a in base all'ismo, ai maestri che ha avuto, alla scuola a cui appartiene,  alla linea di ricerca, alla prospettiva di carriera, etc etc. Quindi è una sorta di orientamento culturale/letterario, secondo cui un/a studioso/a sceglie di studiare un genere, degli autori, un filone invece che altri. Dal conflitto delle interpretazioni scaturiscono i vari posizionamenti, che a loro volta generano ulteriori conflitti delle interpretazioni in una sorta di circolo vizioso o virtuoso illimitato. Tutto ciò è lecito, legittimo, anzi fisiologico, naturale, perché appartiene ontologicamente alla letteratura, che grazie a Dio risente di una certa opinabilità e di una certa discrezionalità per ogni giudizio critico. L'mportante è che il posizionamento e il conflitto delle interpretazioni, che si richiamano a vicenda e che sono strettamente connessi, non vengano strumentalizzati per favori, vendette, simpatie, idiosincrasie o per fini commerciali. In ogni giudizio critico sarebbe richiesto il massimo dell'obiettività e dell'imparzialità, per quel che è umanamente possibile. Insomma un critico si dovrebbe astrarre dalle meschinerie e dalle piccinerie, dovrebbe volare alto e dimostrare onestà intellettuale. Ma probabilmente queste erano probabilmente problematiche di un tempo, perché oggi  i critici letterari hanno sempre meno importanza, meno potere nella formazione del gusto dei lettori e sono proprio questi ultimi a decidere il canone. Quindi oggi la questione del nesso tra posizionamento e conflitto delle interpretazioni è secondaria, mentre la questione principale è quanto la scarsità di competenza e di buon gusto dominino il mercato editoriale e di conseguenza il successo. Così oggi il problema dei problemi non è il conflitto delle interpretazioni ma la sociologia, la fenomenologia del gusto letterario dei lettori. 

Due parole di numero sulla collana bianca dell'Einaudi...

dic 032023

 

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La collana di poesia Einaudi, detta anche "collana bianca" o semplicemente "bianca" per via del colore della copertina, è il non plus ultra della poesia italiana. È la pubblicazione più prestigiosa. È molto selettiva, molto esclusiva; infatti di solito vengono pubblicati ogni anno dagli 8 ai 10 volumi e alcuni talvolta sono di autori stranieri. La poesia non vende in Italia: in media i nuovi volumi vendono  2000 copie con picchi di 4000, ma l'Einaudi fa cassa con l'intero catalogo, visto e considerato che è dal 1964 che pubblica poeti autorevoli, molti memorabili. Essendo molto selettiva e pubblicando pochissimi poeti c'è anche del risentimento tra gli esclusi. Essere pubblicati nella bianca significa diventare personaggi, significa assurgere alla notorietà, seppur di nicchia, perché la poesia è di nicchia. In primis i poeti sperimentali lanciano i loro strali e parlano a chiare lettere di ingiustizia, accusando poi per estensione tutta la grande editoria di marginalizzare la poesia di ricerca. Altri invece criticano negativamente i poeti einaudiani, sostenendo che siano antiquati, che si limitino a fare il compitino, che non abbiano da dire niente, etc, etc. È vero che la maggioranza dei poeti "einaudiani" sono neolirici con alcune eccezioni, come ad esempio Attilio Lolini e Cesare Viviani, che, pur essendo a grandi linee lirici, sono a tratti anche assertivi-aforistici. Se ci limitiamo a una classificazione in neolirici e poeti di ricerca, però si capisce che questa distinzione è troppo limitante, dato che Aldo Nove e Tiziano Scarpa sono di difficile collocazione a mio modesto avviso.  Un tempo vennero pubblicati nella bianca anche poeti sperimentali come Roberto Roversi, Paolo Volponi, Andrea Zanzotto. Sorge spontanea una domanda: se oggi i poeti sperimentali non vengono pubblicati, è per via di una scelta ideologica e stilistica dell'Einaudi o perché i nuovi autori di questo filone non sono ritenuti degni, non sono ritenuti all'altezza? I critici della bianca sono apocalittici: per loro non si salva nessun poeta pubblicato nella bianca. Ci sono poeti veri, aspiranti o sedicenti però che hanno ambizioni sbagliate e sono megalomani: bisogna sapersi accontentare e accettare le scelte editoriali, anche se sono sfavorevoli. Un poeta deve accettare non solo premi, consensi ma anche rifiuti e no. Poi ci sono alcune critiche a mio avviso legittime: se scorriamo l'intero catalogo le poetesse sono poche e lo stesso dicasi per i poeti meridionali. A mio modesto avviso, vista la grande scrematura che fa l'Einaudi, per utilizzare una terminologia medica e psicologica, sono molti di più i falsi negativi dei falsi positivi, ovvero ci sono molti poeti validi non pubblicati nella bianca ma molto spesso i poeti pubblicati lì sono validi e originali. Insomma la bianca è sinonimo di alta qualità e tutti ambiscono a pubblicare lì. Un motivo ci sarà. Un tempo i letterati sostenevano che i poeti memorabili pubblicassero con grandi case editrici e le piccole case editrici fossero una fossa comune per i restanti poeti su cui sarebbe sceso l'oblio. Oggi è sempre più difficile dire chi passerà alla storia o meno. Di certo ci sono una miriade di blog letterari, di riviste di poesia online, di piccola editoria a pagamento che riescono a dare una visibilità insperata già venti o trenta anni fa e che sono il segno inequivocabile di un grande fermento poetico che esiste in Italia. Ma la bianca resta la bianca e ve lo scrive uno che ha smesso da qualche anno di scrivere "poesie" e non ha mai inviato i suoi versi all'Einaudi. Queste due realtà poetiche non devono essere mondi paralleli: blog e riviste online continuino a fare da cassa di risonanza ai poeti riconosciuti e l'Einaudi cerchi anche del buono tra i poeti del web. Le due cose non si devono considerare mutuamente esclusive, perché non lo possono essere se si ha a cuore la poesia italiana contemporanea.

Lettura psicologica de "I turbamenti del giovane Törless"...

nov 012023

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Omen nomen, nel nome un destino: Törless significa letteralmente "senza porta", perciò da intendersi qui come chiuso, introverso. Prima di tutto una curiosità: alcuni traducono il titolo di questa opera "I turbamenti del giovane Törless" e altri "I turbamenti dell'allievo Törless". In questo romanzo di esordio di Musil, in parte autobiografico e pubblicato nel 1906, vengono descritte le esperienze di un allievo sedicenne, proveniente dalla buona borghesia, in un esclusivo collegio militare austro-ungarico. È un romanzo sia di formazione che psicologico. Descrive minuziosamente la crisi esistenziale del ragazzo. Da una parte troviamo il contrasto tra intelletto e passione, mentre dall'altra troviamo la crescita personale e l'evoluzione del giovane. È un libro che tratta tutte le sfumature dell'animo di un ragazzo lontano da casa (può solo scrivere delle lettere ai suoi familiari), costretto a vivere in collegio, e al contempo tutte le sfaccettature di questa istituzione così malsana. L'autore parlò di questa opera come crudele e tenera allo stesso tempo. Inizialmente Törless prova molta nostalgia di casa e una grande monotonia per la vita del collegio. Da un lato c'è la rigida disciplina e dall'altro i soprusi e le esperienze al limite dei giovani cadetti, che hanno esperienze sessuali di varia natura, anche mercenarie e omosessuali. Potremmo oggi definire quelle angherie e umiliazioni con il termine nonnismo. Oggi si è sempre più diffuso il termine pansessuale, coniato dallo scrittore Mario Mieli, che si ispirò a sua volta al concetto freudiano di bambino come "perverso polimorfo". Ai tempi dei tempi, usando un linguaggio datato, avrebbero affermato che questi giovani fanno del sesso senza trasporto, cioè senza coinvolgimento emotivo né sentimentale. È l'età dell'esplosione ormonale. Secondo Kinsey non esisteva una netta contrapposizione tra eterosessuali e omosessuali, ma esisteva un continuum nella popolazione. Questo grande studioso della sessualità americana ideò una scala fatta di sette livelli. Agli estremi c'erano le persone totalmente eterosessuali e omosessuali. In mezzo stavano i bisessuali. C'erano anche gli asessuati. Ma c'erano altri gradi intermedi. Come in questo romanzo, in cui diversi ragazzi sono eterosessuali, che hanno esperienze omosessuali. Probabilmente però la verità è che a sedici anni si è certi di poco; alcuni non sono certi del proprio orientamento sessuale. Ai tempi del social network MySpace alcuni mettevano nel loro profilo "orientamento sessuale incerto". Ecco molti giovani di questo romanzo hanno l'orientamento sessuale incerto. Un tempo si diceva che la carne è debole. Tradotto in termini più attuali, potremmo affermare che tutti provano piacere se viene stimolata una loro zona erogena, indipendentemente da chi provoca questo turbamento. È anche vero che almeno in teoria dovremmo fare sesso con la persona di cui si è innamorati o con chi ci attrae veramente sessualmente. Resta da stabilire quanto si sia determinati e quanto sia una scelta di vita il proprio orientamento. L'argomento è controverso. Comunque sia, attraverso il sesso c'è in questo romanzo anche la sperimentazione e la ricerca di sé. Törless vive degli sbandamenti. Assiste agli abusi sessuali da parte di due suoi amici nei confronti di Basini, un allievo effeminato e unico veramente omosessuale, che questi due sadici hanno scoperto a rubare e ora ricattano, e di Bozena, una prostituta del villaggio vicino. Ancora una volta viene da chiedersi se siano i ragazzi malati o se sia l'istituzione malata. Viene da interrogarsi quanto questi ragazzi siano adulti in miniatura e quanto il collegio sia un modello in miniatura della società di quell'epoca. Per alcuni Musil evidenzia il declino inarrestabile della società Mitteleuropea. Va sottolineato poi che anche in chi viene dominato nel sadomasochismo c'è un rilascio di endorfine. C'è piacere anche nel dolore, cosa scabrosa e sconveniente a dirsi. Non solo ma una componente sadomasochista secondo Freud esiste in tutte le relazioni. Si pensi agli atti preliminari di mordicchiare, di stringere forte, di tenere la testa con forza. Anche se Törless non prende parte alle umiliazioni e non schiavizza Basini e Bozena, è in un certo qual modo complice psicologicamente. Potremmo anche affermare che è un voyeur. Nel migliore dei casi è una sorta di bystander, uno spettatore passivo, che non fa niente e non chiede aiuto. I due allievi sadici si ispirano al superomismo e all'esoterismo. Anche il protagonista fa sesso con Basini, però quest'ultimo è consenziente e si concede volentieri. Ma il sadismo, la crudeltà, il sesso, entrambi fini a se stessi, non ne fanno un romanzo erotico. Il sesso forse è solo un pretesto per affrontare ben altro. Di certo Musil ha voluto affrontare a 360 gradi la vita di un collegio militare e non ha escluso nulla, neanche l'argomento tabù per eccellenza, ovvero il sesso. La sessualità quindi non è concepita qui come finalizzata alla procreazione, né come dovere coniugale, né da un punto di vista ludico. Piuttosto si tratta di una iniziazione sessuale, di una scoperta di sé e del mondo. Nel protagonista si nota una lotta incessante tra le sue pulsioni sessuali, la sua parte più animalesca e la sua necessità di razionalizzare e trovare un ordine alle cose. L'autoritarismo e le gerarchia militare dell'epoca sono rappresentate magistralmente. Il collegio vorrebbe reprimere con le sue regole ferree. È una istituzione castrante, sessuofobica, opprimente. Finisce che, coercizione dopo coercizione, quasi tutti interiorizzano i codici del collegio o quantomeno tutti li accettano passivamente e con rassegnazione. La sessualità si può sfogare, reprimere o sublimare. Ma Törless è troppo giovane per utilizzare uno dei migliori meccanismi di difesa psichici: la sublimazione. Questo romanzo è un'eccezionale mistura di ambiguità sessuale, delinquenza giovanile, elucubrazioni filosofiche, smarrimenti esistenziali. Musil scandaglia l'abisso dell'animo umano. Si rivela un profondo conoscitore della natura umana, così enigmatica. Insomma Ulrich è l'uomo delle possibilità, che non vengono realizzate. Più che un uomo senza qualità, come hanno notato molti, ci sono delle qualità senza più l'uomo. Ulrich è un uomo fatto, non ha scusanti e manca come persona. Törless è un giovane alla ricerca di senso e ordine, anche in presenza di quello che in modo retrogrado un tempo chiamavano disordine morale e che adesso non scandalizza più nessuno. Törless è messo in crisi dalla sua sensualità, dal suo lato oscuro, dalla sua Ombra, per dirla alla Jung, e compie il suo tortuoso percorso di individuazione. Ulrich è l'uomo che potenzialmente potrebbe essere tutto a livello esistenziale. Törless è un giovane che prova di tutto, si forma e si salva all'ultimo, nonostante le asperità. Alcuni hanno visto in Törless un Ulrich ragazzo. Massimo Cacciari ha parlato del capolavoro "L'uomo senza qualità" come di un esperimento da parte di Musil. In fondo anche "I turbamenti del giovane Törless" è un esperimento. Inoltre Musil, nonostante alcuni sottili distinguo, era discepolo del filosofo Mach, che dava importanza all'esperienza, alle sensazioni, ai fatti. Mach era per il primato della scienza, pur riconoscendo a essa dei limiti conoscitivi. Non aveva perciò una fiducia smisurata nel progresso scientifico. Musil riporta queste problematiche gnoseologiche nel romanzo. Infine per ironia della sorte Törless viene espulso dal collegio e i due compagni aguzzini vengono lodati come allievi retti e esemplari. L'istituzione rivela la sua totale assurdità. Da leggere inoltre il discorso finale del protagonista.
Questo romanzo si occupa di adolescenza, che è una stagione, in cui avvengono grandi mutamenti. L'adolescente è sottoposto a varie pressioni, che agiscono spesso in senso opposto e contrario. Se da un lato ogni ragazzo è sottoposto ad una tempesta ormonale, dall'altro è anche vero che grazie allo sviluppo del pensiero ipotetico-deduttivo si innamora spesso delle idee. Mai come in questo periodo della vita si è al tempo stesso innamorati del sesso, del cosiddetto amore romantico e delle idee. Ma l'adolescente è in continua tensione proprio perché non riesce ancora a trovare un equilibrio tra pulsioni sessuali, sentimenti e idealismo. Oscilla continuamente tra istinto e razionalità. Se dal punto di vista dello sviluppo fisico l'adolescente è a tutti gli effetti un uomo, quindi in grado di procreare, dal punto di vista emotivo, affettivo e psichico è una crisalide.
Mai come in questi anni si presenta in famiglia il divario generazionale tra genitori e figli e le posizioni assunte dai genitori possono apparire talvolta ai figli assurde e inconciliabili con le proprie. Ciò è dovuto non solo al divario generazionale, alle differenti mentalità, all'assunzione di ruoli diversi, ma anche alla perentorietà delle affermazioni, alle certezze, all'ingenuità dei figli. Dall'altro lato della medaglia è anche vero che esistono dei genitori, che sono iperprotettivi ed enfatizzano le insidie del mondo esterno, che l'adolescente vuole esplorare sempre e comunque a tutti i costi.
L'adolescenza è la stagione maniaco-depressiva per eccellenza. Basta uscire con una ragazza per essere euforici, è sufficiente un innamoramento non corrisposto per essere depressi per mesi. L'adolescenza è un insieme di complessi, di ansie, di frustrazioni e di sentimenti, che non saranno mai più esperiti con la stessa intensità nel corso dell'intera esistenza. Negli anni successivi tutto si affievolirà. Non solo ma spesso le cose ritenute importanti in questo periodo non saranno più considerate tali nella giovinezza. Già dopo pochi anni nella maggioranza dei casi si assisterà ad un mutamento, se non proprio ad un ribaltamento, di prospettiva.
L'adolescente è colui che ha il caos dentro di sé. E' colui che non ha ancora fatto sufficientemente chiarezza su di sé. Però allo stesso tempo l'adolescente si interroga e cerca una propria identità. Molti adulti invece si negano questa possibilità. Considerano di avere ormai una identità acquisita e non interrogano più se stessi e il mondo. L'adolescente ricerca, ma una volta divenuto uomo conclude la ricerca e fonda la propria identità nella maggioranza dei casi su ciò che fa, su ciò che ha, sull'immagine e la considerazione che gli altri hanno di lui. La ricerca invece dovrebbe essere incessante nel corso di tutta la vita, anche se priva dell'entusiasmo giovanile.
Ma veniamo ora al rapporto del protagonista con la matematica.
In definitiva la matematica esiste per contare, per misurare e anche per dimostrare. Per i formalisti i numeri non sono altro che simboli. Ma la matematica può essere rivelatrice di qualcosa di più profondo, inerente l'esistenza. Nel romanzo di Musil a proposito dei numeri immaginari il protagonista dice: "Questa unità non esiste. Ogni numero, positivo o negativo che sia, elevato al quadrato dà una quantità positiva. Dunque non può esistere un numero reale che sia la radice quadrata di una quantità negativa". Törless, nonostante la sua timidezza, espone i suoi dubbi al professore di matematica, ma questo gli risponde così: “Nello stadio elementare, dove lei ancora si trova, è molto difficile dare la spiegazione giusta di molte cose che occorre toccare. Per fortuna pochissimi allievi se ne accorgono, ma se viene uno, come è venuto le oggi allora non si può far altro che dire: Caro giovane amico, devi credermi sulla parola; quando saprai di matematica dieci volte tanto di quel che sai ora, capirai; ma per adesso, credi!". Musil quindi pone l'accento sui limiti intrinseci dello scibile umano, sulle difficoltà espressive di ognuno.
Ma che cosa turba davvero Törless? Una prostituta disposta ad essere schiava, la crudeltà dei compagni del collegio o proprio i numeri immaginari? Che cosa fa vedere a Törless la realtà in due modi, cioè quello ordinario e quello che fa intuire "una vita segreta" delle cose? Forse sono davvero i numeri immaginari e non certe esperienze di vita? Non lo sapremo mai. Musil in fondo era sia un ingegnere che uno studioso di psicologia. Lo turbava di più il lato oscuro dell'animo umano oppure la filosofia della matematica, la metafisica dei numeri?
Forse Törless era turbato allo stesso modo da entrambe le cose. La tematica della matematica è ricorrente in Musil. Anche Ulrich è un matematico. Potremmo affermare, facendo una analogia tra matematica e realtà, che l'irrazionale erompe dal razionale, come la diagonale di un quadrato di 1 centimetro che rappresenta appunto un numero irrazionale deriva da due lati quantificabili con un numero intero e naturale. La realtà presenta caso o quantomeno disordine a cui molti esseri umani vogliono mettere ordine. Ci sono alcuni scienziati che cercano di predire le urgenze di un ospedale in un dato periodo oppure alcuni eventi nefasti come le bombe d'acqua, la caduta di un meteorite e i terremoti. Eppure non tutti gli esseri umani cercano la sintropia.
Ci sono anche artisti che godono dell'entropia e che vogliono aggiungere disordine al disordine. Scriveva Nietzsche che "bisogna avere un caos dentro di sé per partorire una stella danzante". Ci sono sempre stati nella storia dell'arte e della letteratura sia artisti organici che disorganici. Non sempre si è razionali. L'inconscio è una struttura portante della nostra psiche. L'irrazionale erompe dall'ordinarietà: lo sanno bene i baristi che talvolta si imbattono nel fine settimana in alcuni clienti sbronzi, che raccontano loro la storia della vita. Che mistero la vita! Quante generazioni! Ci passiamo il testimone. Facciamo da staffetta. Ci avvicendiamo, ci alterniamo sulla faccia della Terra. Chi va e chi viene. Di quanti istanti è fatta una vita? Per quanto tempo ancora saremo rimasti sulla scena? Le vite si sfiorano, si intrecciano, si combaciano, si compenetrano, si aggrovigliavano, si allontanano, si evitano. Non si può far altro che presumere. Non c'è formula che riassuma l'esistenza. Non c'è metafora calzante che la imprigioni. La vita è uno splendido garbuglio.
L'irrazionale emerge dal quotidiano, come un biglietto trovato in un libro preso a prestito in biblioteca o nel giubbotto appena ritirato dalla lavanderia. A volte ci chiediamo se alcuni piccoli dettagli siano davvero insignificanti o se siano degli indizi di qualcosa più grande come le coincidenze. Ma ritorniamo ai numeri. Lo stesso rapporto tra la misura di una circonferenza e il suo diametro dà come grandezza il pi greco, che è anche esso un numero irrazionale. In fondo non c'è da stupirsi perché lo stesso Galileo Galilei considerava la matematica il linguaggio della natura. Anche i fiocchi di neve e le frastagliature delle coste possono essere rappresentati con dei frattali. Dietro una apparente irregolarità si cela una regolarità, che può essere descritta da numeri. Forse le scienze non possono esistere senza formule matematiche. Tutto quindi, seguendo questi criteri, dovrebbe essere matematizzato. Concludendo, il giovane Törless, col suo rapporto ossessivo con i numeri, è l'opposto del giovane Holden, che si innamora del linguaggio e che si attacca ad esso. La verità è che abbiamo bisogno sia di numeri che di parole: la mente umana è un mirabile sistema alfanumerico, anche se molti se lo scordano, svalutando il linguaggio in questa società tecnologica.

 

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