Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Sulle polemiche, la comunità poetica e la scomparsa di Patrizia Cavalli...

giu 222022

 

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Mentre nel mondo si è discusso in questi ultimi mesi dei problemi con i traduttori europei della poetessa americana Amanda Gorman, in Italia si discute per molto meno e per cose di minore importanza in ambito poetico senza nessuna cassa di risonanza mediatica. "Polemica" deriva da polemos, che anticamente era il demone della guerra: nomen omen. Ultimamente i social si sono scatenati contro la modella Giorgia Soleri, fidanzata di Damiano dei Maneskin, che ha pubblicato un libro di versi. Alcuni l'hanno definita una "raccomandata", senza scordarsi che molti vip colgono l'occasione di pubblicare con grandi case editrici, sfruttando la notorietà. Qualcuno a riguardo ha scritto che il problema non sono i fenomeni da circo ma il circo stesso. Indipendentemente dal valore dei versi della Soleri bisogna ricordare l'ingenuità di una ventenne. Una poetessa riconosciuta come Maria Grazia Calandrone vi ha trovato dell'originalità, del buono. Poi c'è stata la polemica indegna e ingiusta sul vitalizio ad Aldo Nove. Anche qui alcuni sui social non hanno risparmiato delle critiche, senza considerare i meriti letterari di Aldo Nove. Ci sono state tempo fa polemiche poetiche sulla paternità dello Slam Poetry, che sarebbe del poeta Lello Voce, qui in Italia. Sempre tempo fa ci sono state polemiche sulla validità letteraria effettiva degli Slam Poetry, considerati dal poeta Matteo Fantuzzi una forma di intrattenimento. Più che polemiche sono stati leggeri disappunti quelli della comunità poetica sulla pubblicazione di un'antologia di poesie curata da Jovanotti, (anche se insieme all'editore Nicola Crocetti) oppure sulla grande notorietà di Franco Arminio, Gio Evan, Guido Catalano. In questi casi nessuno si scanna, facendo duelli all'ultimo sangue su Jovanotti, Arminio, Evan, Catalano. I toni si mantengono nei casi suddetti più leggeri. I social e i blog comunque sono talvolta le sagre delle polemiche al vetriolo, polemiche non fatte per niente ad arte. Anche su litblog importanti come Nazione indiana talvolta le discussioni degeneravano. Alcuni leoni da tastiera si facevano forti dell'anonimato e allora giù battute di dubbio gusto, che rasentavano l'insulto. C'era e c'è ancora chi si firma Pippo, Paperino, Nonna Papera. A volte a forza di fare polemiche letterarie si può addirittura rischiare di essere minacciati di morte. Ma di fatto poi non succede niente. Nessuno picchia nessuno. Nessuno ammazza nessuno. Fortunatamente non finisce come con i rapper americani, dato che qualcuno lì negli States è morto assassinato. C'è comunque chi non la prende affatto bene ed esce dal seminato. Ci sono a ogni modo commentatori di blog professionisti, che passano delle ore a leggere, commentare, controbattere, argomentare. È il gusto primigenio della discussione, intesa come momento di crescita culturale. Talvolta il thread ha esiti imprevedibili. C'è chi va fuori tema oppure chi si fissa su una cosa secondaria. La questione si può fare personale, ci possono essere attacchi privati. Ma sono rimasti pochi i commentatori compulsivi. Di solito le persone oggi manifestano il loro gradimento con un like o un cuoricino. Di solito se scrivono per l'appunto sono laconici e scrivono due righe. Forse è il segno che i blog sono morti o che sono dei moribondi e che oggi non è più di moda commentare su di essi. Di certo non è per mancanza di dialettica. È solo che la maggioranza delle persone non vuole polemiche. Le ritiene inutili. Non dico che sia bene o male, giusto o sbagliato, ma penso che la mia sia un'interpretazione corretta. Nei social divampano di più discussioni, che talvolta sfociano in liti. Ci possono essere discussioni costruttive come quelle sull'autoreferenzialità della poesia italiana, sul fatto che i poeti sono troppi, sull'assenza di pubblico, sulla linea di demarcazione tra poesia e non poesia, sulla fine del postmoderno, sul fatto che si possa parlare o meno di neo-neoavanguardia. Però anche in questi casi la discussione può avere risvolti molto negativi. Succede così che le discussioni poetiche diventano spesso dialoghi socratici incompiuti, in cui c'è solo la pars destruens ma manca la pars costruens. Non si risolve mai il problema. Il rischio è quello di perdersi in questioni di lana caprina e di azzuffarsi per niente. Forse sui social si respira un'aria familiare, ci si sente più a casa, si ha la percezione errata che tutto quello che postiamo non sia pubblico e non sia letto dal prossimo. Forse sui social ci sono più reazioni perché consentono una maggiore reattività. La maggioranza dei poeti, veri o presunti, si chiama però spesso fuori dalle polemiche. Anche se qualcuno li istiga, li aizza non rispondono. Hanno tutto o poco da perdere, ma qualcosa da perdere ce l'hanno. Non vogliono rischiare crisi reputazionali. I poeti cercano nella maggioranza dei casi di non farsi nemici. Ecco allora che cercano di stringere alleanze, che cercano sodalizi, collaborazioni. Nascono simpatie, addirittura amori. Dove non c'è l'amore o la stima viene stipulato di solito il patto di non belligeranza. La comunità poetica è a sua volta suddivisa in diverse fazioni. Ci sono i neolirici, i poeti di ricerca, i performer, etc etc. Si affacciano sulla scena anche gli istantpoets. Ci sarebbero poi i poeti di strada. Di solito cercano di sopportarsi a vicenda, nonostante le insofferenze di qualcuno. L'odio quando viene covato rimane un fiume carsico per questione di desiderabilità sociale, di convenienza, di scaltro opportunismo.

 

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Riguardo ai poeti è vero ancora oggi in parte quel che cantava Roberto Vecchioni:

"I poeti son liberi servi di re e cardinali
Che van ripetendo "Noi siam tutti uguali"
E si tingono di rosso vivo
Ciascuno pensando "Il giorno del Nobel farò l'antidivo"...

...I poeti son giovani stanchi che servon lo Stato
Sputandogli in faccia perché sia dannato
E sbandierano cieli e fontane, messaggi e colombe
A noi le campane, ai ricchi le trombe."

 

 

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Ma è a mio avviso sempre attuale anche il ritratto che ne fece Francesco De Gregori:

"Vanno a due a due i poeti
Verso chissà che luna
Amano molte cose, forse nessuna
Alcuni sono ipocriti, gelosi come gatti
Scrivono versi apocrifi, faticosi e sciatti
Sognano di vittorie e premi letterari
Pugnalano alle spalle gli amici più cari
Quando ne trovano uno ubriaco in un fosso
Per salvargli la vita gli tirano addosso
Però quando si impegnano lo fanno veramente
Convinti come sono di servire alla gente
Firmano grandi appelli per la guerra e la fame
Vecchi mosconi ipocriti, vecchie puttane. "

 


Naturalmente un'altra discussione ancora aperta e interminabile è se la canzone d'autore possa essere considerata poesia o meno.
Ma potremmo citare a questo proposito il già classico Dino Campana, che scriveva: "Vo alla latrina e vomito (verità). / Letteratura nazionale / Industria del cadavere. / Si Salvi Chi Può".
Ritornando alla questione delle polemiche, le liti tra letterati, poeti, amanti della poesia sono rare ma accadono. Non sono all'ordine del giorno. Non sono la normalità, ma accadono. Uno si arrabbia, perde le staffe, ci può rimettere a lungo termine in salute. Gli attacchi personali così come le diatribe possono generare ansia ma anche rabbia incontrollata. Croce scriveva: "la polemica mi rinfresca il sangue". In realtà a molti di solito lo può avvelenare il sangue. Oppure uno può fregarsene quasi totalmente o addirittura accettare a malincuore e con rassegnazione questo stato di cose. Ci sono inoltre le shit storm. Viene presa di mira una persona, viene accerchiata virtualmente, fioccano una serie inenarrabili di critiche di bassa lega, di commenti negativi e faziosi, se non di insulti. La diffusione di responsabilità sembra legittimare tutto ciò. Alcuni non percepiscono il discrimine tra un sano diritto di critica e la diffamazione aggravata online. Un tempo esistevano i troll che non lesinavano punzecchiature, toni scherzosi, deridendo chi prendevano di mira. Oggi ho la netta sensazione che la situazione sia degenerata. Ci sono polemiche che generano attriti, antipatie tra appartenenti alla comunità poetica oppure ci sono anche attriti, antipatie preesistenti che generano nuove polemiche. Comunque dovendo rinunciare alle risse dei talk show non avendo tale possibilità mediatica i poeti, veri o presunti, si devono accontentare di quello che passa il web. Se uno assurge a un minimo di notorietà si presentano gli ammiratori acritici e gli hater. Poi non è solamente questione di talento, di pubbliche relazioni, di fortuna critica. Come scriveva Alberto Arbasino: “In Italia c'è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l'età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro.” Ma la comunità poetica va detto che è un grande calderone. Chi può a pieno diritto dire di appartenervi? Tutti e nessuno, ovvero poeti e letterati effettivi, aspiranti, sedicenti. È tanto opinabile quanto arbitrario stabilire chi è un poeta. Basta aver pubblicato un libro, seppur a pagamento o esserselo autopubblicato? Bisogna aver vinto un premio purchessia, anche quello della propria parrocchia o del circolo letterario a cui si è iscritti? Bisogna avere pubblicato solo su litblog, riviste letterarie? Oppure possono fregiarsi del titolo di poeti e poetesse solo coloro che pubblicano con grandi case editrici? È vero che il web è la fossa del leone e i nuovi leoni ora sono i social. La critica è quasi inerme, sta sulla difensiva, arroccata nella qualità. Perfino gli editori però controllano la popolarità sui social, il numero di follower degli aspiranti poeti, che ormai devono essere webpoet. Dopo tanto odio ecco che arriva il giusto riconoscimento dopo una sudata carriera letteraria; ecco un profluvio, una massa di necrologi, di attestati di stima, di elogi sperticati al momento della dipartita: una vera e propria celebrazione in pompa magna che durerà pochissimo e non lascerà alcuna traccia perché ormai niente lascia più traccia sui social, come scriveva oggi il poeta Luca Alvino. E allora cosa è che resta se resta? Resta la grande poesia e restano i grandi poeti. Come scrisse Alfonso Berardinelli: "Io non credo nella poesia. Credo soltanto in quelle poesie che mi fanno credere in loro. Se convince il lettore, la poesia non ha bisogno di essere difesa".

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È morta una grande poetessa come Patrizia Cavalli il 21 giugno. Non ho scritto nessuna riga su Facebook. Non ne aveva bisogno. Quando era in vita ho acquistato alcuni suoi libri. Quello che potevo fare l'ho fatto. Era il minimo indispensabile, ma non la conoscevo ed ero impossibilitato a fare di più. Adesso non piango lacrime di coccodrillo né fingo che fosse una persona amica. Restano dentro me alcuni suoi versi e forse non è poco. Scusate se non sono falso e scrivo a ciglio asciutto. Spetta ad altri più titolati di me o anche più vicini a lei scriverne e parlarne. Una mia commemorazione fatta, lodandola come poetessa sarebbe inopportuna e fuori luogo. I coccodrilli li scriva chi di mestiere. E scrivo ciò senza voglia di fare polemica; ci mancherebbe.

Divagazioni sulla scienza, la fantascienza, la cosiddetta normalità, il genere post-apocalittico...

giu 222022

 

 

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La fantascienza, nonostante i capolavori di Asimov e P. Dick, è stata per molto tempo considerata un genere minore. Eppure descrive le nostre paure, le nostre angosce, anticipa i tempi, ci proietta nel futuro. Non tratta solo delle invasioni degli alieni o di macchine del tempo. Talvolta alcuni racconti sono incentrati sullo straniamento, inteso come rovesciamento di prospettiva: si veda ad esempio il celebre racconto breve di F. Brown “La sentinella”. La fantascienza talvolta è il futuribile e stimola la fantasia, che è fondamentale per la conoscenza umana. Anche la letteratura combinatoria di Perec, Queneau, Calvino può stimolare l’immaginazione. E che dire dei celebri racconti di Borges o di Augusto Monterroso? Anche questa letteratura come la fantascienza si volge agli infiniti possibili, descrive universi paralleli. Per Popper la scienza è fatta di congetture e confutazioni. Gli scienziati devono usare la fantasia per formulare ipotesi. Lo stesso Einstein sosteneva che “la logica porta da a a b, mentre l’immaginazione porta ovunque”. La scienza per noi uomini comuni procede dall’ignoto al noto, ma per i ricercatori procede dal certo (i dati) al probabile (le scoperte, le nuove teorie). La fantascienza ci mostra “Le meraviglie del possibile” (dal titolo di una celebre antologia di racconti). Possiamo esercitare la nostra fantasia, ma oggi non sappiamo come nascono certe intuizioni. È difficile essere individui veramente completi o come si suol dire saper utilizzare entrambi gli emisferi. Alcune persone giungono all’insight, riescono a ristrutturare cognitivamente un problema e a risolverlo, ma non sappiamo il motivo. Possiamo per ogni scoperta scientifica descrivere l’intuizione che ha portato alla soluzione, ma non possiamo definire in modo esaustivo e calzante l’intuizione: ogni definizione generica per ora è astrusa. Forse potremmo dire che l’intuizione è una illuminazione, un salto intellettivo fondamentale per il problem solving. Niente di più. Possiamo solo affermare che noi esseri umani siamo fortunati perché i nostri stati mentali corrispondono con la realtà. Possiamo anche affermare che non sappiamo se il progresso sia infinito perché non sappiamo se la conoscenza umana sia infinita. Realisticamente potremmo dire che se non sappiamo risolvere certi rompicapo per un meccanismo di compensazione vorrà dire che ne sapremo risolvere altri. Un’altra cosa da tenere presente è che bisogna sempre usare il rasoio di Occam: non si deve moltiplicare gli enti. Lo stesso Einstein era dell’idea che si doveva togliere, levare. Infatti affermò che bisogna rendere le cose nel modo più semplice possibile ma senza semplificarle. Gianni Rodari ha scritto una grammatica della fantasia, analizzando tutti gli usi della parola e tanti modi per inventarsi storie. In ambito scientifico e nella psicologia del pensiero sono state scritte migliaia di guide alla creatività, ma questa rimane allo stato attuale delle conoscenze un mistero. Per Enrico Fermi la creatività scientifica poteva essere stimolata cercando di fare stime approssimative e insolite come ad esempio cercare di calcolare quanti accordatori di pianoforti c’erano in un paese di un certo numero di abitanti o come calcolare quante bevande di una certa marca vendesse in una settimana un negozio di alimentari in una certa città. Molto spesso i suoi studenti rimanevano spiazzati dalle sue domande. Solo pochi dimostravano una certa capacità analitica. L’analisi di un problema può essere nota. Sappiamo quali sono le regole della logica deduttiva e induttiva. La questione controversa è come giungere alla sintesi e non all’analisi. Secondo Piaget per risolvere i rompicapo scientifici bisogna avvalersi del pensiero ipotetico-deduttivo, si deve cioè pensare a ogni possibile combinazione e a ogni possibile aspetto del problema. In una parola sola bisognerebbe vagliare tutte le ipotesi. Secondo alcuni psicologi la creatività può essere stimolata con il brainstorming, la meditazione, il training autogeno, delle lunghe camminate, il bere caffè, stare a contatto con la natura. Talvolta si tratta di riformulare il problema, altre volte si deve cercare nuove associazioni idee. Molto spesso bisogna chiedersi cosa succederebbe se si facesse in un altro modo, ma ciò che è difficile è trovare il modo giusto. Talvolta si ha la sensazione che alcuni scienziati si inventino col senno del poi nuove teorie della conoscenza scientifica. La stessa epistemologia può essere illuminante come filosofia della scienza, ma può lasciare a desiderare come metodologia della ricerca scientifica. Si pensi solo a Lakatos che teorizza l’anarchia metodologica. Insomma si brancola ancora nel buio o quantomeno si procede a tentoni in un terreno accidentato. C’è anche chi ritiene che la creatività non esista o che sia una terra di nessuno e che non si debba fare una mitologia del lampo di genio. Per queste persone sarebbe solo questione di fortuna e come pensava Pasteur “la fortuna aiuta le menti preparate”. Sicuramente gli scienziati procedono per prove ed errori. In fondo i comportamentisti scoprirono che anche questa era una forma di apprendimento efficace.

 

 

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Dopo aver accennato molto sinteticamente alla relazione tra scienza e fantascienza, vorrei trattare del genere distopico, in particolare del genere post-apocalittico, anche se non sono un cultore della materia. Alcune volte certe distopie si sono avverate, ma vorrei ora parlare di alcuni dubbi che ho su certi romanzi e certi film. Ci siamo evoluti culturalmente ma non cerebralmente rispetto a migliaia di anni fa. Per creare utensili tipici degli uomini primitivi ci vogliono oggi pazienza certosina e ore di lavoro. Hanno fatto degli esperimenti con degli studenti universitari. Si pensi che non è affatto semplice accendere il fuoco senza fiammiferi, senza accendino o senza gas. Siamo come si suol dire dei nani sulle spalle dei giganti. Tutte le conquiste della nostra civiltà occidentale, ovvero tutti gli artefatti della tecnologia li diamo per scontati, eppure senza di essi non avremmo mai avuto la nostra zona di comfort, la nostra qualità della vita e la nostra aspettativa di vita.  Essere umani significa vivere in società e avvalersi delle competenze altrui. Tutto questo mi ricorda un racconto breve di Calvino in cui il protagonista non sa allacciarsi le scarpe e ha bisogno di qualcuno per questo. Nessuno di noi è veramente autosufficiente. Bisognerebbe ricordarselo più spesso. Queste cose mi sembrano in genere sottovalutate o addirittura non prese in esame dagli scrittori che si immaginano scenari post-apocalittici. Gli stessi scrittori molto spesso non ci forniscono motivi plausibili per cui uno o pochissimi sono sopravvissuti e invece il resto dell’umanità no. Mi sembrano a mio modesto avviso ipotesi illogiche, poco realistiche e oserei definirle impossibili. Qualcuno potrebbe chiamarle controfattuali. Insomma per scenario post-apocalittico si intende la fine dell’umanità meno uno o meno pochissimi: un controsenso se pensiamo a rigor di logica. Così come nei libri di questo genere gli autori non si soffermano mai sulle conseguenze psicologiche che avrebbe la deprivazione sociale del protagonista o dei protagonisti. Uno scenario post-apocalittico potrebbe avere dei risvolti positivi dal punto di vista ecologico, ma nutro dei seri dubbi che potrebbe averli dal punto di vista antropologico. Però è solo questione di punti di vista. Siamo nell’ambito dell’opinabile. Nessuno sa con certezza cosa accadrebbe e come reagirebbero i sopravvissuti. Queste sono le critiche che faccio io. Naturalmente siamo nel genere fantascientifico che non è solo science fiction ma in cui si può conciliare l’inconciliabile, immaginare l’inimmaginabile; un genere che è contrassegnato anche dal gusto del paradosso. Comunque io nutrirò sempre delle perplessità riguardo a questo genere. Spesso viene trattato uno scampolo di umanità sopravvissuta a una catastrofe superficialmente dal punto di vista umano. Non è questione in questi casi di immaginare per assurdo, attività più che lecita. Anche quando si vuole descrivere un universo parallelo lo si deve però fare in modo completo e senza tralasciare elementi essenziali. Spesso nella fattispecie vengono omesse alcune qualità e caratteristiche fondamentali, imprescindibili dell’essere umano. Ammettiamo pure che tutto sia possibile (anche l’impossibile) nel futuribile, ma l’essere umano dovrebbe essere considerato ancora umano. Come scrisse Terenzio: “sono uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me”. A mio modesto avviso i libri di questo genere non contemplano a sufficienza l’interdipendenza degli esseri umani, solo per fare un esempio. Purtroppo gli ingegneri hanno bisogno di medici, i medici hanno bisogno di ingegneri, ma anche i barbieri hanno bisogno di altri barbieri, i medici hanno bisogno di altri medici, i preti hanno bisogno di altri preti, gli psichiatri di altri psichiatri supervisori, eccetera eccetera. Qualsiasi comunità si basa sulla divisione del lavoro, che significa anche suddivisione delle competenze. Senza uno straccio di comunità il singolo individuo vivrebbe pochissimo. La cosiddetta “sospensione di incredulità” a mio avviso deve essere supportata da conoscenze scientifiche e da una ricostruzione attendibile dal punto di vista psicologico, sociologico, antropologico. Questa formula “sospensione di incredulità” può significare anche credere all’incredibile, esattamente come una religione (solo che la fantascienza fino ad ora non ha mai fatto miracoli). Qui forse non si tratta più di ragionare, criticare costruttivamente. Il vero discrimine forse è quello di credere o non credere. Più esattamente lo scrittore in questi casi immagina per assurdo e il lettore crede per assurdo. Tutti i cultori della fantascienza hanno il diritto di ragionare per assurdo. E gli altri? I miscredenti non possono ragionare in modo non dico razionale ma ragionevole? È forse da stolti per esempio cercare l’intellegibile in questo mondo assurdo? Calvino inoltre sosteneva che la creatività fosse costituita da una fetta di pane con la marmellata: mi dispiace ma spesso trovo questo genere troppo melenso e senza adeguate infrastrutture. È vero che in caso di scenario post-apocalittico le strutture economiche e le sovrastrutture ideologiche verrebbero meno ma le infrastrutture psichiche ad esempio rimarrebbero. Bisogna considerare ciò. Altrimenti la rappresentazione è distorta e falsa. Altrimenti “l’esperimento mentale” e l’esercizio di immaginazione servono a poco. Molto probabilmente siamo tutti o quasi “polli di allevamento” come cantava Gaber. Non resisteremmo che qualche giorno in uno scenario del genere. Molto probabilmente non sapremmo far fronte alle emergenze e ai pericoli della natura. Fanno corsi di sopravvivenza per manager, reality televisivi in cui i partecipanti vivono per qualche giorno in situazioni estreme. Però ci sono sempre tutor oppure delle troupe che li supportano. Se questi soggetti fossero lasciati soli a sé stessi avrebbero vita molto breve. Se si pensa invece al genere post-apocalittico come critica all’antropocentrismo e alla società attuale a mio modesto avviso ciò può essere più utile. Ritengo anche che questo genere potrebbe far scaturire degli interrogativi di fondo interessanti: che ne sarebbe in condizioni così estreme di tutte le mutazioni antropologiche e dell’uomo postumano? Cosa succederebbe all’uomo non più inserito in una società fondata sulla creazione di falsi bisogni come scriveva Marx? Cosa sarebbe veramente necessario? Ma mi chiedo anche se abbiamo veramente bisogno di essere stimolati dalla fantascienza per porsi questi interrogativi. In fondo per riflettere sul destino del nostro pianeta basta leggere una intervista di un astronauta, che in orbita ha provato dolore per questo mondo e ha sentito un vero legame con la Terra. Abbiamo veramente bisogno del genere post-apocalittico per meditare su una umanità veramente autentica e su una esistenza veramente autentica? Nello scenario post-apocalittico che cosa resta dell’uomo? Non c’è più ricambio cellulare e non rimarrà più niente della pelle morta nel corpo del pianeta. A mio avviso non vengono prese in esame tutte le caratteristiche umane in modo veritiero. Vengono per così dire falsate. Per analizzare e descrivere la natura umana e le dinamiche sociali, anche quelle di poche persone, a mio avviso non bisogna pensare l’homo homini lupus e neanche l’homo homini deus ma semplicemente l’homo homini homo. Mi sembra che alcune problematiche dell’essere umano vengano tralasciate in certi romanzi e in certi film. Forse lo fanno per questione di sintesi, forse rispettare i canoni della letterarietà. La casistica della vita allo stato brado non è infinita ma quasi. Forse lo fanno per esigenze di spazio o per non essere particolarmente crudi. Forse certi dettagli non interesserebbero che pochi lettori e preferiscono sorvolare. Ci sono ancora oggi popoli che vivono in tribù allo stato quasi primitivo. Forse è più educativo leggere qualcosa sui loro usi e costumi che leggere una distopia. Però naturalmente è una mia opinione, senza nulla togliere alle visioni e alle intuizioni degli scrittori di fantascienza. Infine vorrei sottolineare che di solito gli scrittori di fantascienza talvolta sono degli scienziati ma di solito hanno scarse conoscenze sociologiche, psicologiche, antropologiche. Infine faccio una considerazione molto amara. Per  quel che mi riguarda sono dell’idea che la cosiddetta normalità ci sta conducendo all’estinzione della specie. I cosiddetti folli al massimo commettono qualche omicidio o suicidio: roba da niente al confronto! Per non parlare poi della cosiddetta demopatia strettamente connessa all’oligarchia patologica (ed entrambe ampiamente tollerate)! La normalità tanto sbandierata non esiste di fatto. Questo è un mondo folle e di folli. Quando c’erano i manicomi qualcuno diceva e scriveva che i pazzi erano fuori. Siamo così sicuri che i normali siano veramente normali e i folli veramente follii? Per il momento sono solo apocalittico e non ancora post-apocalittico.

 

"Troppo tardi" di Carlo Cassola e riepilogo dei più grandi romanzi sulla seconda guerra mondiale...

giu 222022

 

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È ormai caduto nel dimenticatoio Carlo Cassola, che ha vinto a suo tempo premi letterari importanti come lo Strega e il Bagutta. Non rientra ormai nei canoni letterari. Gli italianisti a stento lo citano. Il suo nome e i suoi romanzi sono caduti nell'oblio. Eppure negli anni '60 e' 70 aveva una grande popolarità e un vasto consenso. Le sue opere avevano avuto notevole risonanza nel pubblico. Come scrive Cassola non è esatta l'equazione successo=demerito, ancora in voga oggi e utilizzata da tanti critici letterari. Qualcuno però, soprattutto in Toscana, lo ricorda ancora Cassola. Recentemente la tratta ferroviaria Cecina-Saline, di cui aveva scritto in "Ferrovia locale" è assurta alla cronaca per delle iniziative culturali in memoria dello scrittore, che era nato a Roma ma toscano d'adozione, tanto è vero che aveva ambientato molti romanzi nell'entroterra pisano. Nel 2020 l'università Cattolica ha istituito un premio di laurea in memoria di Cassola. La biblioteca comunale degli Intronati di Siena ha allestito una mostra bibliografica in suo ricordo.
I letterati non sono mai stati benevoli con lui. Alcuni critici hanno visto nella sua narrativa il ritorno al grado zero della scrittura. Altri però hanno evidenziato l'influsso delle epifanie di Joyce. Cassola è stato uno scrittore coerente stilisticamente e politicamente. I suoi libri erano letteratura ma erano anche best seller. La neoavanguardia lo accusò di essere la Liala del '63, ma lui con stile ed educazione andava a braccetto con Sanguineti. Pasolini lo criticò perché i suoi libri erano un ritorno al realismo. Nei suoi romanzi non ci sono le tematiche comuni a tanta narrativa in auge all'epoca: la nevrosi, l'alienazione, l'incomunicabilità, l'inettitudine. Erano tutti argomenti, considerati di primaria importanza per gli artisti. Lui si astiene da tanta intellettualità. Nel Novecento letterario il mondo e anche la psiche sono costituiti da frammenti eterogenei e la verità umana si trova solo nel dettaglio. La verità si fa puntiforme. I romanzi del ’900 sono i segni di una crisi profonda. Cito tra tutti “L’uomo senza qualità” di Musil, “Oblomov” di Goncarov, “Auto da fé” di Canetti, “La cognizione del dolore” di Gadda, “La coscienza di Zeno” di Svevo. Ma di esempi se ne potrebbero fare altri.

 

 

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(Nella foto Carlo Cassola)


Cassola invece privilegia il grigiore dell'esistenza, le vite comuni, connotate dall'insensatezza. Il poeta Carlo Bordini diceva che c'era della narratività nella sua poesia e della poesia nella sua narrativa. Anche in Cassola in fondo troviamo una commistione di generi. Non c'è una prosa lirica, una prosa poetica, ma la poesia della quotidianità. Spesso sono narrati fattarelli insignificanti di personaggi umili e dimessi con un lessico comune. La trama è scarna, mai avvincente, mai ricca di colpi di scena. I grandi eventi, la storia stanno molto spesso sullo sfondo. Eppure si percepisce la lunga mano sapiente di Cassola che orchestra e dirige tutto fin nei minimi dettagli: un grande narratore acuto e consapevole. Nessuna traccia comunque di quella che oggi chiameremo realtà aumentata o iperrealismo. L'acme della vita sta nei vagiti, negli orgasmi, nei rantoli. Ma nessuno sa con certezza quali sono gli istanti decisivi, i momenti topici del percorso. È anche questo che vuole dirci lo scrittore, che rimuove l'inconscio e non cerca mai di fare la rivoluzione: in vita sua ha già fatto la Resistenza e questo è più che sufficiente. Quindi non è mai stato velleitario né demagogo.
"Troppo tardi" è ambientato a Roma ai tempi del fascismo. Tratta di due fratelli adolescenti, Anna e Giorgio, abbandonati dal padre. I due hanno un rapporto ambivalente come si usa tra fratelli. La madre ha una mentalità comune, tiene molto al decoro piccolo-borghese. Vivono in una appartamento in affitto nel quartiere Prati. I due vengono mandati a scuola, ma Anna decide di interrompere gli studi di stenografia perché è svogliata. Non sa quello che vuole. Alcuni giorni si veste per passare inosservata, altri giorni si veste in modo vistoso per attirare l'attenzione. Il romanzo per la maggior parte è essenziale e dialogico. Nelle conversazioni tra ragazze si parla di questioni amorose, di confidenze. Anna è irrequieta, vorrebbe vivere "cento vite". Ma deve stare attenta perché basta accettare un invito in macchina da un medico per rischiare seriamente di venire abusata. Il dottore infatti la porta in campagna in un luogo appartato, ma lei riesce a opporsi efficacemente. Giorgio fa le sue congetture sulle ragazze. Cerca di trovare differenze di costume tra quelle che lavorano e quelle che studiano, pensa che le ragazze delle grandi città siano tutte poco serie: insomma pensieri e pregiudizi ricorrenti nei ragazzi di ogni generazione. Cassola si fa sfuggire un commento, un'osservazione amara, mette in bocca ai suoi personaggi una sentenza inoppugnabile: nella vita è solo questione di soldi, coi soldi si può essere generosi o farsi perdonare tutto. Su tutto prevale la cupidigia, il culto del denaro e un’etica del lavoro, che se analizzata risulta riprofevole. La trilogia di Mastronardi ad esempio (“Il maestro di Vigevano”, “Il calzolaio di Vigevano”, “il meridionale di Vigevano”) è eloquente a riguardo, illustra chiaramente la grettezza e l’arrivismo della borghesia votata esclusivamente al profitto. Ma quelli descritti da Cassola erano anche i tempi in cui una ragazza se usciva la sera e fumava le sigarette destava scalpore e scandalo nei perbenisti. C'era una ristrettezza di vedute all'epoca. Poco era consentito e molto era tabù. Anna si sposa incautamente e frettolosamente con un avvocato di mezza età di Recanati, che ha conosciuto a una festa. Eppure prima aveva conosciuto Ferruccio, amico di suo fratello, con cui c'era stata un'amicizia affettuosa senza intimità. L'unica affinità elettiva tra Anna e il suo marito era che entrambi si annoiavano a quella festa. Il suo fratello si sposa senza pensarci troppo con l'incoscienza della gioventù. Si può affermare che come i protagonisti di "Delitto e castigo" di Dostoevskij e di "I sotterranei del Vaticano" di Gide compiono l'omicidio assurdo allo stesso modo in questo romanzo i due fratelli compiono un gesto assurdo sposandosi entrambi in modo avventato. Ma la guerra inizia a trasformare le vite dei protagonisti. Il marito di Anna va in guerra e di lui per diverso tempo non si hanno più notizie. Anna e Ferruccio diventano amanti. Ferruccio si mette a fare il giornalista. Giorgio perde l'impiego perché scoperto in combutta coi repubblichini. A tratti il romanzo diventa concettuale, soprattutto quando Ferruccio, amante di Anna, decide che vuole fare lo scrittore, decide di spendere gran parte del suo stipendio in libri ed allora vengono fatte delle riflessioni intellettuali sui romanzi del Novecento. La digressione però non annoia. Il marito di Anna ritorna e chiede la separazione. Ferruccio poi capisce di non amare più Anna perché si invaghisce di una ragazza molto più giovane. Cassola si dimostra maestro a rivelare le contraddizioni dell'animo, ormai insanabili dei suoi personaggi. In fondo se i lettori dell'epoca si appassionavano per le vicissitudini narrate nei suoi libri qualche motivazione più che plausibile c'era, ovvero il fatto di essere letteratura di consumo di alta qualità per quei tempi. Infine come nel romanzo "L'antagonista", che Cassola considerava la sua miglior opera, anche qui c'è un duello a distanza tra due maschi, che si contendono una donna.

 

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(Nella foto Davide Morelli con l'amico di infanzia Emanuele Morelli dopo tre birre) 


Ricapitolando e facendo una breve sintesi dei romanzi italiani sul nazifascismo e sulla seconda guerra mondiale abbiamo:

 

"Uomini e no" di Vittorini: la Resistenza a Milano e la rappresaglia dei tedeschi
"La storia" della Morante: romanzo corale, crudo, ambientato a Roma, criticato anche per la descrizione della crudezza della Resistenza
"Il giardino dei Finzi Contini" di Bassani : la condizione degli ebrei a Ferrara
"Se questo è un uomo" di Primo Levi: il lager
"Cristo si è fermato a Eboli" di Carlo Levi: il confino
"Il sentiero dei nidi di ragno" di Calvino: la Resistenza vista con gli occhi di un bambino
"Il partigiano Johnny" di Fenoglio: la presa di Alba e la Resistenza nelle Langhe
"Lessico famigliare" della Ginzburg: l'attività antifascista e gli intellettuali antifascisti
"La polvere sull'erba" di Bevilacqua: il triangolo rosso in Emilia
"Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern: la ritirata in Russia
"La ragazza di Bube" di Cassola: ex partigiano che uccide il figlio di un carabiniere
"Il clandestino" di Mario Tobino: la lotta partigiana in Versilia
"L'ombra delle colline" di Arpino: l'uccisione di un tedesco da parte di un bambino
"L'Agnese va a morire" di Renata Viganò: la staffetta partigiana
"La casa in collina" di Pavese: la fuga e il rifugio dai bombardamenti nazisti
"Troppo tardi" di Cassola: la storia di un fratello, di una sorella e dei suoi due amori ai tempi del fascismo e della guerra.

 

 

 

"Nemico, amico, amante" di Alice Munro...

giu 222022

 

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Questo libro della scrittrice canadese, premio Nobel per la letteratura nel 2013, è una raccolta di 9 racconti. C'è del vitalismo più o meno disperato nei racconti della Munro, che ha un tipo di scrittura che riesce ad aderire alla vita. Coincide, corrisponde perfettamente senza espedienti e infingimenti. Riesce a coinvolgere il lettore con la sua scrittura. Riesce a parlare con il cuore in mano. Uno dei maggior pregi nei testi è l'immediatezza, la scorrevolezza. La scrittrice ha uno sguardo profondo e partecipe sulla condizione umana, è una indagatrice della natura umana. Il suo stile è asciutto e impeccabile. Ogni suo racconto è un microcosmo. Nel primo Johanna riceve delle false lettere d'amore, ingannata da due ragazzine. Va a comprare un abito da sposa e la negoziante è soddisfatta di averglielo venduto perché così per quel giorno ha giustificato la sua esistenza. Tutto ciò fa pensare alla romana di Moravia secondo cui ognuno è ciò che fa. La commerciante aveva trovato la sua ragion d'essere, il suo motivo di esistere in una cittadina, che rappresenta qualsiasi mondo concentrazionario. Questa frase della Munro è già di per sé molto azzeccata e appropriata perché in America è davvero così: nella società utilitaristica, pragmatica, tutti devono avere un ruolo ben preciso, disegnato (altrimenti si finisce per essere come nella poesia disperata "College all'angolo della via" di Kenneth Patchen, in cui il protagonista non è mai stato niente, nemmeno soldato). È un dramma in America non fare niente, non occuparsi di niente. La Munro lo esprime molto bene in una sola frase, messa in bocca a una negoziante in crisi con scarsa clientela. Nel racconto "Ponte galleggiante" Jinny, donna sposata e malata di tumore, riesce a ravvivare l'esistenza baciando un ragazzo. In "Conforto" Nina ha una doppia vita e si divide tra il marito padrone e l'amante. Ma forse il racconto che rende meglio l'intensità, il dolore e la drammaticità della vita è "The Bear Came Over the Mountain", in cui viene descritta la relazione tra un marito ed una moglie, che sta perdendo la ragione. Viene insomma trattato il tema della demenza senile. E la domande che sorgono spontanee sono che cosa resta della persona dopo l'insorgenza della malattia e cosa resta conseguentemente dell'amore tra i due. Questo racconto ha avuto una trasposizione cinematografica: Away from Her (Lontano da lei), diretto da Sarah Polley. La Munro sembra un fiume in piena. I suoi testi non sembrano pensati e ripensati, corretti e modificati. Sembrano tutti pubblicati alla prima o al massimo alla seconda stesura. Se sono stati modificati molto probabilmente ha tolto e non aggiunto perché in questi racconti si tratta di levare più che di battere. Non bisogna guardare quindi alla forma mentis dell'autore. D'altronde in un romanzo o in una raccolta di racconti non bisogna cercare le congetture filosofiche, le digressioni pseudo-psicanalitiche o le descrizioni di paesaggi o città. Tutto ciò annoia a lungo termine. Bisogna cercare invece chi riesce a raggiungere la vita o quantomeno si sforza di farlo.

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La Munro riesce a descrivere gli eventi, a riportare casomai le conversazioni e a narrare gli stati d'animo nel modo più realistico possibile. Allo stesso tempo dimostra di avere una invidiabile capacità introspettiva. Molti romanzi, anche dei capolavori, se li paragono ai racconti della Munro, mi sembrano artefatti. La scrittrice canadese forse era così vitale ed esuberante con la penna perché nella realtà la vita sfuggiva di mano. Forse è questo il motivo: nella realtà non era assolutamente padrona della sua vita, che forse sembrava seguire logiche e automatismi inspiegabili. D'altronde tutto questo è comprensibile perché il vitalismo è sempre stato contrapposto al meccanicismo. La Munro è intellettuale, lucida e sobria. Il suo vitalismo non è fittizio ma è sempre autentico. Non c'è niente di posticcio. Un'altra cosa che mi piace della Munro è che non si è messa a studiare la vita in modo calcolatore e a tavolino ma sembra perfettamente che si sia messa a narrare in modo occasionale. Sembra che abbia vissuto le sue peripezie e ogni tanto abbia fatto una pausa tra una fatica e un'altra per annotarla sul suo taccuino. La scrittrice ci racconta la vita quotidiana con i suoi drammi ed allo stesso tempo non crea altre realtà: è testimone Impareggiabile delle sua epoca, restituisce senza sconti e senza finzioni la cruda verità umana. Dramma dopo dramma purtroppo l'esistenza diventata tragedia. La vita sembra scorrere tranquilla fino all'evento irreparabile, al guasto irreversibile. È questo forse il messaggio. La Munro riesce a narrarlo magistralmente nelle più svariate sfaccettature. Riesce a fornirci una visione altra della vita, che erompe dal contingente. Tutto questo non è poco. Anzi è merce rara in un libro di narrativa.

I romanzi per molti hanno una sovrastruttura intellettuale e un intreccio che i racconti non avranno mai. Per molti i romanzi comprendono una maggiore cura nel descrivere ambienti e personaggi, soprattutto nel delineare la psicologia dei personaggi. Ogni racconto della Munro invece è un romanzo in miniatura. Lo scrittore Aldo Busi spesso ha dichiarato che in Italia esistono molti poeti, molti scrittori di racconti ma pochi sono i veri romanzieri. Molti artisti secondo Busi sarebbero dei romanzieri mancati. Il romanzo, facendo queste considerazioni, sarebbe quindi più complesso di una raccolta di racconti: più complesso da scrivere, da leggere, da analizzare, da recensire. Necessiterebbe di una sovrastruttura e di una architettura. Ma poi ne siamo così sicuri? Ad esempio "Casa d'altri" di Silvio D'Arzo (pseudonimo) che cosa è esattamente? Un racconto lungo? Un romanzo breve? Un ibrido particolarissimo? Una eccezione che conferma le regole suddette? Ai letterati e ai critici letterari l'ardua sentenza. Ma perché disprezzare il racconto? Perché considerarlo un genere minore? Non suscita forse emozioni? Non fa scaturire riflessioni e pensieri? Una raccolta di racconti fantastici non può trattare di universi paralleli come un romanzo di fantascienza? Una raccolta di racconti non può forse essere un'opera aperta? Non può essere un'opera di avanguardia? Non può trattare tematiche importanti? Non può far vedere le cose da una prospettiva insolita? Non ci vuole forse anche una certa abilità nello scrivere racconti? Inoltre c'è anche chi sostiene che il romanzo non abbia più un senso. Già le avanguardie avevano decretato la morte del romanzo. Secondo Milan Kundera la morte del romanzo è già avvenuta e nessuno ne è rimasto colpito o scandalizzato. Il romanzo secondo il famoso scrittore rappresenta la complessità del mondo e dell'esistenza; i mass media che invece dominano il pianeta tendono a dare una visione univoca e ipersemplificata della vita. In buona parte dei casi il racconto probabilmente è una storia breve. Uno dei maestri indiscussi del racconto nel novecento è R. Carver. Naturalmente i racconti fantastici di Borges sono esemplari. Ma sono particolari: anzi, oserei dire unici nel loro genere. Sono però da leggere anche i racconti di S.Beckett e di Salinger ("I nove racconti"). Parlo sempre di autori del Novecento. In Italia invece i grandi scrittori di racconti sono a mio parere Dino Buzzati ("I sessanta racconti), Cesare Pavese ("Feria d'agosto", "Fallimenti"), Silvio D'Arzo ("L'aria della sera e altri racconti"), Giorgio Manganelli ("Centuria"), Del Giudice ("Il museo di Reims"), Italo Calvino ("Ultimo viene il corvo"), Antonio Delfini ("Il ricordo della Basca"), Tommaso Landolfi. Comunque questi sono gli autori che bisogna leggere e con cui bisogna fare i conti se si vuole iniziare a scrivere o solo a capire qualcosa di racconti. Discorso a parte merita Silvio D'Arzo, molto stimato dalla critica letteraria e anche da Montale, che in vita pubblicò solo tre libri senza alcuna gloria e fu un anonimo professore. Morì a soli trentadue anni. Altro discorso a parte anche per un altro irregolare delle patrie lettere: Antonio Delfini, che riuscì a passare alla storia anche come poeta irriverente e al di fuori della retorica e degli stilemi del tempo. Con il suo capolavoro "Poesie della fine del mondo, del prima e del dopo" riuscì nell'impresa di scrivere un anticanzoniere. La donna un tempo amata non era più idealizzata e neanche mitizzata, come avevano fatto per secoli in poesia e nella letteratura. Fino a pochi anni fa esisteva il premio Antonio Delfini che era dedicato alla poesia. Oggi non ho più notizie di questo premio, un tempo prestigioso. Comunque sembrerebbe che con il passare degli anni di questo singolare personaggio anticonformista sia rimasto più il poeta che lo scrittore. La Munro sicuramente va letta assieme a questi scrittori sopracitati. Purtroppo però il Nobel alla Munro, che è una delle migliori scrittrici del mondo di racconti brevi, non ha determinato una ripresa della lettura e quindi un aumento di vendite di raccolte di racconti in Italia. Purtroppo qui in Italia il genere dei racconti è considerato frutto di un'arte minore. Un pregiudizio che porta anche le case editrici a pubblicare poche raccolte di racconti, di solito solo di autori già affermati. Questa è un'amara constatazione di fatto, è pura realtà, non certo un'opinione.

 

Intellettuali, impegno, violenza...

giu 212022

 "Sulla violenza? Non si può rispondere a un mondo assurdo con un gesto assurdo" (Davide Morelli alla terza birra in un bar imprecisato)

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Per Dario Fo intellettuale è colui che ha un rapporto dialettico con la realtà. Bisogna notare che molti si credono intellettuali perché intrattengono soltanto un apparente rapporto dialettico con altri intellettuali.  Invece il rapporto dialettico deve essere innanzitutto con la realtà. Mi sembra appropriata e calzante come definizione, quella di Dario Fo. Premetto che di carne da mettere al fuoco ce ne sarebbe tanta. Cercherò di essere il più sintetico possibile. Ma il problema principale non è tanto dare una definizione di intellettuale o di cultura quanto quello del ruolo dell'intellettuale, ovvero se deve essere impegnato o disimpegnato. Può arrivare per esempio a uccidere per cambiare la società? Il filosofo Popper sembra risolvere la questione, quando ne "La società aperta e i suoi nemici" scrive che l'omicidio è legittimo se la vittima è un dittatore.

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(Nella foto Popper)

 

Parafrasando Pavese, secondo cui ognuno ha una ragione valida per uccidersi, oserei dire che, seguendo Popper, ognuno potrebbe avere una valida ragione per uccidere. Perché non uccidere degli oligarchi sanguinari o dei governanti democratici ma lestofanti e corrotti? In fondo ogni intellettuale potrebbe dichiararsi rivoluzionario e decidere di uccidere. Però viene da chiedersi anche se un artista può essere ritenuto tale se ha commesso un'azione riprovevole. Caravaggio fu un assassino. D'Annunzio e i futuristi ebbero delle responsabilità per l'entrata in guerra dell'Italia. Croce in "Etica e politica" faceva una netta distinzione tra arte e vita. Quasimodo invece pensava che chi avesse fatto la spia per i fascisti in guerra non potesse scrivere poesie. Prendiamo il caso del celebre Marco Paolini. Ha tamponato una macchina, uccidendo una donna. È risultato negativo all'alcol test e non era al cellulare. Tutto è accaduto involontariamente. Dovremmo forse condannarlo ed ergerci a giudici? Non l'ha fatto apposta. Paghi pure in sede civile e penale (i giudici ci sono per questo), ma eticamente potremmo forse condannarlo? La risposta certa è no. Comunque ritorniamo all'omicidio volontario. Ognuno avrebbe una ragione valida per uccidere. Ognuno potrebbe avere una giusta causa. Secondo la celebre opera teatrale di Sartre per fare la rivoluzione d'altronde bisogna "sporcarsi le mani". E che dire di coloro che subiscono un'ingiustizia o degli intellettuali che potrebbero diventare giustizieri? Non avrebbero i familiari delle vittime, per esempio, tutto il diritto di passare alle vie di fatto? E che dire dell'atto gratuito di "Delitto e castigo" o del Lafcadio di Gide? Qualcuno potrebbe giustificare anche chi spara a caso sulla folla. In fondo forse ogni incontro non è un numero random e il mondo non è forse un generatore di numeri casuali? Però dovremmo ricordarci come disse Sanguineti che sparare sulla folla non può essere considerato un gesto d'avanguardia.  Potremmo pensare alla teoria di Ivan Karamazov secondo cui "se Dio non c'è tutto è permesso". Però non sempre è così perché i nichilisti russi non furono mai sanguinari, anche se come Bazarov non credevano nei vecchi valori, credevano nella scienza e disprezzavano l'umanesimo. Non è poi assolutamente detto che tutti gli artisti innovatori siano automaticamente dei rivoluzionari: non tutta l'avanguardia è calda come si suol dire, cioè legata alla contestazione e alla rivolta. Per i cristiani non si dovrebbe agire "occhio per occhio" e ogni omicidio dovrebbe essere considerato un deicidio. La società occidentale teoricamente ha come principio la sacralità della vita. Specifichiamo meglio: ha a cuore la vita dei propri cittadini, mentre se ne strafotte dei cittadini del terzo mondo (penso di poterlo scrivere senza essere accusato di terzomondismo). Gli intellettuali non possono arrogarsi il diritto di uccidere in nome di nobili principi, sostituendosi a Dio o giustificandosi dicendo che è un sacrificio necessario. Devono essere biofili e non necrofili, anche se c'è stato in passato chi seguendo Marx ha ucciso per trasformare la realtà o chi ha ucciso seguendo Nietzsche per una trasmutazione dei valori. Diciamocelo francamente, le ideologie covavano della violenza. La volontà di potenza era insita in ogni ideologia, anche in quella marxista. La violenza esiste anche nel liberalismo, quando esporta a ogni costo la democrazia o quando i governanti non attuano un valido welfare. La violenza è in ogni sistema di pensiero perché anche se esso non è violento sono in un certo qual modo violenti gli uomini che lo mettono in pratica. Questo sistema però può anche essere combattuto civilmente dall'interno e a questo proposito essere militanti non significa essere capziosi e neanche faziosi, bollando gli altri come piccolo-borghesi, romantici o reazionari. La realtà non si suddivide in falchi e colombe e non sempre la vita è un gioco a somma zero. E allora un intellettuale deve abbracciare l'engagement? Deve essere così impegnato politicamente da prendere le armi?

 

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(Nella foto Camus)

La risposta a tutto ciò è l'introduzione de "L'uomo in rivolta" in cui Camus scrive che bisogna opporsi al "delitto logico", quello dovuto all'azione dell'ideologia. Sempre Camus scrive che "al tempo della negazione bisognava trattare del suicidio. Nell'epoca dell'ideologia bisogna discutere di omicidio". Il grande scrittore afferma anche che in quegli anni "il delitto è legge". La formula di Camus è la seguente: "mi rivolto, dunque siamo". Per Camus la rivolta deve essere metafisica, artistica: l'uomo non deve esercitare violenza nei confronti dei suoi simili. Secondo  Camus gli uomini devono affratellarsi dopo aver compreso l'assurdità del mondo e della vita.

 

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(Nella foto Sartre)

Dopo la pubblicazione de "L'uomo in rivolta", scaturirà una polemica, assai complessa e articolata, all'ultimo sangue tra Camus, Sartre e altri intellettuali francesi. Sartre e Camus non saranno più amici per divergenza di vedute. Alla base di tutto c'è una netta contrapposizione tra chi è filosovietico come Sartre e chi no come Camus. Solo con la morte prematura di quest'ultimo si placheranno gli animi. Comunque tutti dovremmo rileggere continuamente il saggio di Moravia "L'uomo come fine". C'è scritto tutto lì. È un libro smilzo, profondo, chiaro e comprensibile. Purtroppo l'uomo è un mezzo e il consumismo, l'utile, la tecnica, il progresso, l'affermazione sugli altri sono i soli fini.

"Un uomo finito" di Papini e un accenno a Dino Campana...

giu 212022

 

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(Nella foto Papini)

"Un uomo finito" è l'opera più celebre di Papini (1881-1956), pubblicata dalla libreria della Voce nel 1913, ristampata più volte e tradotta in tutto il mondo. Come hanno scritto in molti è a metà strada tra l'autobiografia e il diario. In questo libro sono riassunte le vicissitudini, le sfide intellettuali, i percorsi mentali, l'iter creativo, gli stati e gli strati psichici di Papini. In queste pagine sono racchiusi l'impegno e la vitalità dello scrittore fiorentino, che esplora da par suo il proprio Sé. Grazie alla sua onestà intellettuale riesce a  essere chiaro, lucido, disincantato e non lascia mai spazio a errori di interpretazioni. Si dimostra capace di introspezione e allo stesso tempo di riflessione senza vana gloria, senza alcuna accortezza. Non si lascia abbindolare dalla memoria che spesso migliora il passato e lo mistifica, presentandolo come molto diverso da quello che è stato realmente. Papini si dimostra per quello che è e per quello che è stato, senza filtri, maschere o inganni. Il lettore avverte che si trova al cospetto della testimonianza di un artista memorabile, di una coscienza che, pur tra errori e pecche, ha sempre cercato di essere attenta a tutte le problematiche del suo tempo. In questa opera c'è tutto Papini: scontroso, ieratico, pensoso, tormentato, inquieto, cinico, autoesaltato, sconfitto, ambizioso oltremodo. In 50 brevi capitoli sono descritti i suoi primi trenta anni di vita. Innanzitutto esordisce scrivendo che non ha mai avuto fanciullezza. È nato povero e fin dai primi anni è sempre stato solo, schivo, appartato. Da bambino subiva angherie e umiliazioni da parte dei coetanei, che oggi definiremmo atti di bullismo. La sua vita fu sempre contraddistinta dalla "smania di sapere". Iniziò a formarsi con la libreria di soli cento volumi del babbo e poi accrebbe il suo sapere andando nelle librerie aperte a tutti, dove però potevano entrare solo le persone che avevano più di sedici anni. L'adolescenza fu vissuta tra la campagna e la biblioteca. Le umiliazioni, i complessi, le frustrazioni per un meccanismo di compensazione, descritto da Adler (secondo cui dietro a un complesso di superiorità si celerebbe sempre un complesso di inferiorità), faranno scaturire in lui la smania di grandezza, la voglia irrefrenabile di essere tutto, di sapere tutto. Un poco impropriamente questo atteggiamento mentale e esistenziale viene chiamato da alcuni complesso di Dio, cioè il desiderio di voler annientare Dio e di farne le veci, di sostituirsi a una divinità che sembra assente o indifferente. Ma siamo tutti esseri umani e dall'onnipotenza si finisce sempre nel senso di impotenza. A tratti sembra che lo scrittore fiorentino non avesse coscienza del suo declino, della sua decadenza, della sua mortalità. Tutti ci domandiamo come il cyborg di Blade runner quale è il trucco per non spegnersi, per non guastarsi. Ma essere immortali forse non è la soluzione. La letteratura con Dorian Gray e il Faust ci avverte che non sarebbe una buona cosa. Forse Papini aveva coscienza di avere scritto opere immortali. Vivere comporta però delle contrarietà. Come scrisse Alessandro Morandotti "tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l'uso e la data di scadenza". Però certe cose di fondamentale importanza purtroppo non è dato saperle. A Papini queste questioni stavano molto a cuore, eppure, nonostante il suo grande acume, non trovò mai la soluzione. Infatti sono cose che ci trascendono. Ma ritorniamo al libro. Per Papini come per Sartre gli altri sono l'inferno. Cerca conforto nelle opere dei grandi autori già morti e disprezza "i piccoli vivi". La sua vita è stata vissuta pienamente, oserei dire, è stata vissuta a tratti titanicamente, per alcuni anni all'insegna del superomismo. Non ha mai risparmiato energie. La sua gioventù è stata caratterizzata dal furore idealistico, dall'ubriacatura ideologica, dall'entusiasmo intellettuale, così come nella sua maturità si è distinto per il fervore cattolico. Ma Papini molto probabilmente era un maniaco-depressivo. A dimostrazione di queste dinamiche psichiche e di questo disturbo dell'umore c'è la sua dichiarazione di scrivere "per sfogo". Da voler essere un semidio onnipotente e onnisciente, eccolo piombare nel ripiegamento interiore, nel crollo psichico, nella "discesa", nella malattia, nella depressione. Probabilmente se fosse vissuto oggigiorno a Papini gli sarebbe stato diagnosticato un disturbo bipolare, avrebbe fatto analisi, avrebbe assunto giornalmente una pasticca di Depakin e non avrebbe scritto niente di memorabile. Non so se a volte sia meglio la stabilità psichica o la gloria postuma?!? Papini ad ogni modo è un genio che ha il dubbio di essere "un imbecille", "un ignorante", che non ha la minima conoscenza di sé stesso né degli altri. È un uomo in fin dei conti che ha chiesto l'impossibile a sé stesso e agli altri. Nonostante alcune sue tare come i pregiudizi nei confronti delle donne (ma ahimè anche lui era un uomo del suo tempo e certi pregiudizi all'epoca erano diffusi), ritengo che dalla lettura di questa opera si possa trarre beneficio e godimento intellettuale, interiore. A trent'anni nessuno è un uomo finito, nemmeno uno che come Papini ha iniziato molte cose e ha cercato di voler essere tutto vanamente. Questa impresa era destinata comunque al fallimento. Ma dimostrò nel resto della sua vita che aveva ancora molte cose da dire.

 

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(Nella foto Dino Campana)

 

 

 

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 (Il libro di Mughini in cui tratta della questione Campana, Soffici, Papini)

 

Piuttosto Papini è stato dimenticato oggi perché su di lui ci sono luci (il suo ingegno fu ineguagliabile) ma anche ombre: 1) fu interventista durante la prima guerra mondiale, anche se poi ebbe grandi rimorsi di coscienza. 2) per molti nascose insieme ad Ardengo Soffici il manoscritto "Il più lungo giorno" di Dino Campana, che il poeta di Marradi aveva dato loro per un giudizio critico. Alcuni intellettuali come il celebre Mughini smentiscono questa versione. Secondo Mughini il manoscritto andò perduto involontariamente. Papini e Soffici erano esenti da colpe secondo questa scuola di pensiero. A ogni modo poi Campana scrisse "I canti orfici", suo capolavoro: comunque sia andata con la riscrittura, come si suol dire, si rifece. Da notare una cosa: Soffici, cugino di Campana, era un letterato famoso in quegli anni e non vedeva di buon occhio le aspirazioni poetiche di Dino. Oggi Soffici è dimenticato, è un minore, mentre quel matto di Campana è celebrato e antologizzato da tutti gli italianisti. Comunque "Il più lungo giorno" ( Riproduzione anastatica del manoscritto ritrovato dei Canti Orfici) fu poi pubblicato da Vallecchi nel 1973 (poi su CD-ROM, 2002). 

 

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(Nella foto Ardengo Soffici) 

Concludendo, "Un uomo finito" descrive in modo magistrale la giovinezza, la formazione culturale, l'apprendistato, le contraddizioni, le amicizie di un grande intellettuale della sua epoca; un intellettuale che crebbe con Schopenhauer e con Stirner, che fu condizionato da D'Annunzio, che fu da giovane irrazionalista, occultista, nazionalista, idealista, futurista. Con un semplice gioco di parole Papini più che un uomo finito cercò di essere un uomo infinito, ma ciò è impossibile per tutti. Fu un uomo dalle innumerevoli qualità che a forza di volere troppo rischiò banalmente di non stringere nulla, rischiò di essere un uomo senza qualità, un Ulrich come tanti. L'interrogativo che lo porta a scrivere questa opera, ovvero "la vita è degna di essere vissuta?", dopo averla letta, non può che trovare risposta affermativa.

"Uno, nessuno, centomila" di Pirandello

giu 212022

 

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La questione principale di questo romanzo di Pirandello è come possa esistere una parte del proprio self inconoscibile ai propri occhi. La topica del naso, l’ombra di Genge, le sopracciglia circonflesse portano il Moscarda a uno slittamento della propria coscienza. Il protagonista vorrebbe porsi fuori di sé per osservarsi e riappropriarsi delle immagini che gli altri hanno di lui, per ricomporre definitivamente con questa serie di frammenti il proprio io. Moscarda scopre che gli altri vedono una parte di sé stesso che lui non può vedere e nel procedere in questa analisi si accorge che gli altri non percepiscono soltanto delle semplici immagini, a seconda delle angolazioni e delle prospettive da cui lo osservano, ma anche la sua maschera sociale, la “Persona”, che indossa. La tematica centrale di questo romanzo riguarda la scoperta da parte dell’io del protagonista che altre identità con le loro percezioni possono scoprire i suoi punti deboli, i suoi difetti, i suoi lati oscuri di cui lui può addirittura ignorare l’esistenza. Ma gli interrogativi che suscitano questo romanzo allora sono: ma gli altri possono davvero - come ritiene Pirandello – conoscere più del soggetto? La conoscenza degli altri riguardo ad un individuo (in questo caso Moscarda) supera quindi l’autoconoscenza, l’autoconsapevolezza e l’autocoscienza dell’individuo stesso? La telecamera può essere considerata lo specchio moderno di Moscarda. Meglio ancora, è come se fosse un enorme specchio circolare, che può rimandare immagini di tutte le parti del corpo, di tutte le movenze e di tutte le posture dell’individuo. Rivedersi in un filmato di una telecamera, può allora essere un’esperienza non dico traumatica, ma spesso deludente: ci si accorge che la propria voce può essere più baritonale di quello che credevamo, che di profilo il nostro naso risulta più pronunciato di quello che pensavamo, che ripresi di spalle siamo più curvi di quello che credevamo, etc etc. La telecamera è come un grande occhio esterno che ci può analizzare e registrare da tutte le possibili angolazioni.

 

 

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Anche gli altri che scrutano Moscarda sono occhi esterni, che hanno la stessa possibilità della telecamera di vedere e registrare da tutte le prospettive. Ma viene da chiedersi: la loro registrazione è altrettanto fedele e oggettiva? Inoltre le riprese della telecamera possono indicarci se siamo o meno telegenici, ma la telecamera non ricompone tutte le immagini di noi stessi e non si fa un’opinione globale, come fanno gli altri. La telecamera è un punto di partenza per l’autoconoscenza della propria corporeità, non della nostra identità psichica, sociale, culturale, come invece sono gli altri per noi. E’ stato il fondatore della psicologia americana William James a dare un contributo notevole a riguardo. Il Sé di ogni persona possiede fondamentalmente due dimensioni: l’io (ovvero tutte le capacità di autoconoscenza: il conoscitore del Sé) e il Me (ovvero tutti quegli attributi e quei tratti di personalità che l’Io riesce a conoscere dell’individuo: il conosciuto del Sé). James fa un’ulteriore distinzione per quel che riguarda il conosciuto del Sé: esiste un Me materiale (tutto ciò che l’individuo conosce del proprio corpo, dei propri oggetti, della propria casa, degli ambienti in cui vive), un Me sociale (tutte le rappresentazioni sociali che gli altri hanno dell’individuo), un Me spirituale (tutto ciò che l’individuo conosce della propria personalità, della propria interiorità e della propria identità psichica). Considerando queste distinzioni di William James ci accorgiamo allora che nel romanzo di Pirandello il protagonista inizia il proprio percorso di autoconoscenza dal Me materiale, continua con l’esplorare il Me sociale, per approdare infine al Me spirituale. L’originalità e la genialità dell’opera di Pirandello è aver posto l’accento su questo fatto: l’io (il conoscitore) non riuscirà mai a sapere tutto del Sé perché questo avrà sempre zone inesplorate ed inesplorabili, che non potranno mai far parte dei vari Me (ossia del conosciuto). Esisteranno sempre regioni della psiche in cui dominano incontrastati ciò che è rimosso, ciò che è represso e quello che è semplicemente non conoscibile dal soggetto.

 

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Ma oltre a aver affrontato questo problema il romanzo di Pirandello fa scaturire anche una domanda fondamentale: gli altri, avendo possibilità di osservare da prospettive sconosciute all’individuo e dall’esterno un individuo, possono potenzialmente conoscere più di quello che una persona conosce di sé stessa, essendo questa più continua e dettagliata nell’osservazione e nello studio di se stessa? In definitiva: è maggiore fonte di conoscenza riguardo alla propria individualità l’esterno o l’interno? La moderna psicologia a riguardo ci fa sapere che c’è una continua interazione tra interno ed esterno: un incessante interscambio tra intrapsichico ed interpsichico. Addirittura secondo la teoria dell’immagine l’idea che ci facciamo di noi stessi dipende in modo determinante dalla considerazione e dalla stima che gli altri hanno di noi. Secondo questa teoria sviluppata da Beach e Mitchell anche le decisioni che prendiamo nel corso della vita non sono basate tanto su un’analisi dei costi e dei benefici, quanto piuttosto dall’insieme di valori, norme, credenze, aspettative: insomma dalla concezione che noi abbiamo di noi stessi. Però allo stesso tempo gli psicologi sociali ci indicano che, quando noi stessi giudichiamo gli altri o quando gli altri giudicano noi, il giudizio spesso è errato, semplicistico, perché esistono nella mente umana scorciatoie cognitive errate, tratti impliciti di personalità, correlazioni illusorie, stereotipi infondati che possono portare a pareri erronei sulla persona o sulle persone osservate. Siamo cattivi giudici degli altri e gli altri sono cattivi giudici di noi stessi. Ma Pirandello è anche un anticipatore dei tempi odierni: è riuscito a intuire la frammentarietà dell’Io, problema reale dell’epoca moderna, se si pensa alla pericolosa sindrome che ne è scaturita, ovverosia la personalità multipla. Nonostante questa continua interazione o interdipendenza tra intrapsichico ed interpersonale l’assurdo inteso alla Camus dell’opera di Pirandello rimane però inalterato. L’uomo continuerà ancora a cercare di estrapolare dalle relazioni dal mondo esterno per assurgere a un principio chiarificatore, a una sintesi che possa cogliere e abbracciare la totalità della propria essenza. Nonostante ciò “l’assurdo” (che si verifica quando l’intelligenza dell’uomo si accorge di essere alle prese con la realtà che la supera) rimarrà una categoria astorica dell’umanità, perché il mondo esterno neanche in futuro sarà completamente raffigurabile e l’interno rimarrà per certi versi ancora inafferrabile, indicibile, inconoscibile.

Su Gadda e la rimozione dell'io lirico...

giu 202022

 PREMESSA:

Il gruppo 63 propose la riduzione dell'io ilirico in poesia. Oggi alcuni letterati vorrebbero eliminarlo, rimuoverlo. Io o mondo? Piuttosto io e mondo, visto che tra io e mondo c'è un'interazione continua. Ma se cognitivamdnte  io e mondo possono coesistere, letterariamente di solito c'è una prevalenza. 

 

 

NOTA BENE:

L’io lirico è la voce interiore nella poesia. Non è detto che coincida sempre con l’io empirico, ovvero con l’autore in carne e ossa. L’io lirico può essere anche in un certo qual modo fittizio. Si veda ad esempio Pessoa e i suoi eteronimi. L’io lirico può essere anche un alter ego.

 

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Gadda scrive ne "La cognizione del dolore": "[…] l'io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona". Però Gadda lo fa dire al protagonista, suo alter ego nevrotico, in una crisi parossistica. Non dimentichiamo che Gadda era notoriamente nevrotico, per quanto geniale, e ha messo molto del suo io empirico nevrotico in quel romanzo. Alcuni oggi, che vorrebbero rimuovere l'io lirico, citano questo brano dell'ingegnere. Inoltre per Gadda tutti i pronomi sono "pidocchi del pensiero", per cui non ci sarebbe via di uscita. Ogni narrazione sarebbe perciò tarata a priori. Infine queste frasi non vanno decontestualizzate. Estrapolare delle frasi dal loro contesto può essere fuorviante e indurre in errore. Si tratta pur sempre di un romanzo, "La cognizione del dolore", che ha senza ombra di dubbio un suo contenuto di verità, ma che è anche creazione di un mondo fittizio e di personaggi immaginari grotteschi, paradossali.

 

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Il problema è quanto della propria nevrosi, delle proprie fratture, dei propri vuoti uno riversi nella propria opera e ciò non è necessariamente detto che sia un male. Chi impone che l'impersonalità e il distanziamento siano degli obblighi della narrazione? E la narrazione di Gadda può essere forse presa di esempio? Bisogna sempre stare attenti quando si cita a non farlo a sproposito, a non strumentalizzare la fobia dell'io di Gadda (capisco che ognuno voglia portare acqua al suo mulino). Qui non si tratta di canoni della letterarietà, ma di una difesa a oltranza di quel poco che resta del soggetto freudiano (visto e considerato che il soggetto cartesiano è stato distrutto dai maestri del sospetto e del cogito, ergo sum resta solo il coito, ergo sum). A ogni modo ognuno è sempre circondato da sé stesso, come scriveva Sartre, indipendentemente dagli escamotage narrativi. A proposito di io e scrittura, oltre al celebre detto "Conosci te stesso", Gramsci in un articolo citava Novalis, che a sua volta scriveva: «Il supremo problema della cultura è di impadronirsi del proprio io trascendentale, di essere nello stesso tempo l’io del proprio io. Perciò sorprende poco la mancanza di senso e intelligenza completa degli altri. Senza una perfetta comprensione di noi, non si potranno veramente conoscere gli altri». Mi sembra che questa citazione sia appropriata e di non tirare per la giacchetta nessuno. Insomma sono necessarie anche l'autoconoscenza, l'autodeterminazione. Per decenni l'intimismo ha fatto da padrone nella cosiddetta poesia lirica. Attualmente in Italia alcuni letterati vogliono rimuovere l'io lirico e demonizzano l'io in senso lato. Voler rimuovere l'io lirico significa non poter scrivere in prima persona nelle poesie, essendo costretti a trattare gli altri che possono essere proiezioni del proprio io o riproposizione delle solite figure parentali. Insomma la psicoanalisi ci insegna a ragione che è lecito diffidare anche di chi parla troppo degli altri e che talvolta così facendo finisce per deformarli troppo con la sua lente o per rispecchiare sé stesso. Un'obiezione alla rimozione dell'io lirico: talvolta è difficile dire quanto io ci sia negli altri e quanto gli altri siano nell'io tra identificazioni, proiezioni, interiorizzazioni. Altra obiezione: in poesia come scriveva Zanzotto vige l'eterogenesi dei fini; si cerca una cosa e se ne trova un'altra; così chi cerca l'io trova talvolta il mondo e viceversa. Alcuni sostengono che i poeti contemporanei siano affetti da egolatria. È difficile dire quale sia il discrimine tra normalità e patologia. E poi si pensi al fatto che anche Stendhal scrisse "Ricordi di egotismo". La stessa poesia moderna americana è un continuum ai cui poli opposti ci sono la schiva Emily Dickinson e il titanico Walt Whitman.

 

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(Nella foto Gadda)


Da una parte l'introversione e dall'altra l'estroversione. Prima ancora che un atteggiamento intellettuale, filosofico, letterario, conoscitivo scegliere uno o l'altro di questi poli è questione di personalità. Ci sono introversi ed estroversi. Non c'è niente di giusto o sbagliato. Ci sono pro e contro di entrambe le condizioni esistenziali. Queste due diverse modalità di approcciare la realtà sono frutto prima di tutto questione di personalità. Dalla personalità consegue il modo di interfacciarsi al reale. Come esiste un orientamento sessuale, politico, valoriale esistono anche varie tipologie di personalità. Ma i critici letterari non dovrebbero giudicare il modo in cui gli autori si volgono alla conoscenza. C'è chi sceglie insomma prevalentemente l'interno e chi l'esterno. In alcuni autori gli altri si riflettono in loro stessi e in alcuni autori l'io si riflette negli altri. Si tratta pur sempre di rimandi continui, di un perenne gioco di specchi. Partire dagli altri e finire nell'io o viceversa è solo un punto di partenza. Privilegiare l'io o il mondo non deve essere una posa, basata su premesse teoriche. Ogni autore dovrebbe scegliere in base a ciò che sente, a ciò che ritiene più consono. Trovo che esimersi dal tranciare giudizi approssimativi sia senza dubbio un atto di onestà intellettuale. Trovo anche fuori luogo il fatto che a seconda dello spirito dei tempi sia di moda quando l'intimismo e quando invece gli altri. Un'altra cosa che mi fa sorridere è che alcuni autori postulino la rimozione dell'io e poi scrivano dei romanzi o delle raccolte poetiche autobiografiche. Evidentemente egoriferiti sono sempre gli altri. Non ho mai letto di nessuno che considerava sé stesso egoriferito. In questi ultimi anni in poesia nelle polemiche letterarie evidentemente vince chi dà per primo dell'egoriferito all'altro. È una moda come un'altra. Non è frutto di un'evoluzione stilistica o letteraria. Non è un punto di arrivo della letteratura come vorrebbero far credere alcuni. Un tempo c'era la vecchia disputa molto divisiva tra realisti e idealisti. Il vero atteggiamento conoscitivo equilibrato sarebbe trovare un equilibrio tra io e mondo e questo trascendendo i propri tratti di personalità. Ma ciò è quasi impossibile perché l'io o il mondo sono come calamite. C'è chi è attratto dall'uno e chi dall'altro, molto probabilmente più per attitudine che per scelta, più per natura che per cultura. Kafka sosteneva che tra io e mondo si dovesse scegliere il mondo, ma fece davvero così? Cosa sarebbe dei capolavori di Kafka senza il suo io? Quanto io e quante proiezioni ci sono nelle opere di Kafka? 

 

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(Nella foto Kafka)


Un interrogativo che sorge spontaneo è se la propria personalità di base sia un nucleo costante e inalterabile o se invece oggi come oggi sia modificabile. La cosa si complica perché sembra che le vecchie teorie sulla personalità come i tipi psicologici di Jung siano oggi inadeguate per decifrare il Sé così sfuggente dell'uomo contemporaneo. Sembra che entrino in gioco in ognuno di noi anche le cosiddette subpersonalità. Anche gli altri sono però sfuggenti. In ogni caso è vero che cresciamo e maturiamo grazie all'immagine che gli altri hanno di noi, ma è altrettanto vero che per conoscere bene gli altri bisogna conoscere bene sé stessi. È un circolo ermeneutico che dura tutta la vita. Sia la conoscenza di noi stessi che del mondo è sporadica, superficiale, discontinua. Di noi stessi conosciamo la nostra voce interiore, il discorrere tra sé e sé. Degli altri conosciamo una minima parte dei loro comportamenti e delle loro espressioni verbali. Uno dei problemi filosofici ancora irrisolti è come, nonostante i nostri limiti intrinseci, riusciamo a conoscere tutto quello che conosciamo. Avrete capito che la questione dell'io in letteratura è un intreccio inestricabile di letterarietà e psicologia. Non può essere altrimenti e le persone ponderate dovrebbero riconoscerlo senza tacciare chi la pensa diversamente di psicologismo. Non vi preoccupate comunque poeti introversi e intimisti: l'io tornerà di nuovo in auge. E poi perché estrovertirsi è necessariamente un bene e concentrarsi su di sé è necessariamente un male? La preghiera, il raccoglimento interiore, la meditazione (senza fare del moralismo) dovrebbero essere allora un male?

 

La nuova lingua italiana e i mass media: il dominio del Nord

giu 202022

 

 

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Ci sono alcuni studiosi della lingua che pensano che in fatto di linguaggio siamo conservatori. Ciò era un’ipotesi accreditata ai tempi in cui era necessaria un’invasione straniera per il cambiamento di una lingua. Ma oggi? Oggi a mio avviso assistiamo a uno stravolgimento continuo dell’italiano comune, che ci hanno insegnato a scuola. Quante nuove parole ci vengono imposte dal linguaggio omologato dei nuovi mass media, dai gerghi giovanili, dai linguaggi settoriali delle nuove scienze, dall'informatica e dall'economia? Chi parla più oggi veramente italiano? Diciamo che attualmente riusciamo ancora a scrivere in italiano perché forse la sintassi e l’ortografia sono più “salde” della fonetica e del lessico. Nel nostro Paese c’è sempre stata una linea di demarcazione netta tra parlato e scritto. Sono stati pochi gli scrittori che hanno scritto nello stesso modo in cui parlava realmente la popolazione. Scrittori e poeti hanno scelto prevalentemente il toscano. La lingua adoprata dagli intellettuali è stato il volgare di Dante, Petrarca, Boccaccio. Lo stesso Ariosto rivide il suo “Orlando Furioso”, eliminò molti termini padovani e introdusse molti toscanismi. Anche Galilei utilizzò il toscano per la divulgazione scientifica. E’ da secoli che è avvenuta la toscanizzazione della letteratura italiana. Per non parlare poi di Manzoni che andò a sciacquarsi i panni in Arno. Fu proprio Manzoni a capo di una commissione del ministero della Pubblica Istruzione a stabilire che la lingua nazionale dovesse essere il fiorentino. Chiaramente non tutte le caratteristiche del dialetto fiorentino sono diventate lingua nazionale, come per esempio la c intervocalica aspirata, il togliere la desinenza re all’infinito dei verbi, il coniugare noi e il si impersonale. Don Milani anni fa era dell’idea che i poveri rinnovassero la lingua e che i ricchi la cristallizzassero. Ritengo che adesso i nuovi mass media siano gli unici capaci di rinnovare e cristallizzare la lingua italiana. E penso anche che le televisioni soprattutto ci impongano un nuovo italiano: un italiano milanesizzato, che prende spesso a prestito termini dei linguaggi settoriali, espressioni colorite dei gerghi giovanili, inglesismi vari. D'altronde Mediaset è a Cologno Monzese, le grandi case editrici si trovano quasi tutte nel Nord. Alla RAI si adeguano a parlare il milanese. Al Centro e al Sud è rimasto ben poco. Quando i giornalisti televisivi intervistano le persone molto spesso vanno nel centro di Milano. Tutto il resto dell'Italia sembra periferico. Chomsky qualche anno fa sostenne che un dialetto poteva diventare una lingua nazionale grazie ad un esercito. In Italia la lingua nazionale è stata imposta grazie a un’egemonia culturale. Da qui in avanti sarà imposta tramite un’egemonia mediatica (gli scrittori oggi contano ben poco): un'egemonia mediatica, che in fin dei conti rappresenta anche l'egemonia industriale del Nord. Le televisioni generaliste non ci propongono continuamente forse la parlata milanese come dizione corretta dell’italiano? Le show-girl che fanno i corsi di dizione non imparano forse a parlare un milanese privo di termini dialettali? I conduttori non adoprano forse una cadenza milanese o settentrionale? In fondo chi è del Sud e del Centro e vuole entrare a far parte del mondo dello spettacolo deve correggere la sua dizione, come si suol dire.

 

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 (Nella foto il poeta fiorentino Mario Luzi)

Oggi se uno va in televisione deve farlo senza inflessione dialettale, a meno che non sia un comico oppure a meno che non sia il familiare di una vittima o un cosiddetto caso umano. Per tutti gli altri non ci sono scusanti. Neanche la parlata toscana è più consentita. È avvenuta da tempo la milanesizzazione della lingua italiana. Oggi un Leopardi con una cadenza marchigiana forse non "bucherebbe" il piccolo schermo. E tutto ciò mi sembra ingiusto e inappropriato. Dirò di più: mi sembra alquanto stupido perché presuppone la concezione implicita che chi risiede al Nord sia superiore a chi vive nelle isole, nel Centro e nel Sud. Eppure il Nord così produttivo per arricchirsi ha avuto bisogno in passato e ancora oggi ha bisogno di tutti gli italiani. Milano sarebbe ben poco se fosse stata solo dei milanesi. Anche Torino sarebbe stata ben poca cosa con i soli torinesi. Infine nascere al Centro o al Sud non è una colpa, così come non è una colpa avere un accento toscano o meridionale.

 

Due parole su Buzzati...

giu 202022

 

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Dino Buzzati è conosciuto soprattutto per il "Il Deserto dei Tartari", in cui il militare Giovanni Drogo è costretto a vivere in una fortezza "esiliato tra ignota gente". La minaccia dell'assedio da parte dei Tartari, l'attesa snervante del protagonista simboleggiano l'ansia metafisica e il pensiero ossessivo della morte. Il finale del romanzo è a sorpresa. È del tutto inatteso. Infatti quando arrivano i Tartari il protagonista sta morendo. Un altro suo capolavoro sono i suoi sessanta racconti. Alcuni critici però sostennero che Buzzati si "kafkasse addosso" e che fosse quindi un manierista di Kafka. Lo scrittore ironizzò su queste accuse dichiarando che "alcuni critici denunciavano colpevoli analogie anche quando spedivo un telegramma o compilavo un modulo Vanoni".
Ma per capire meglio Buzzati bisogna a mio avviso leggere anche i suoi racconti, in cui dettagli apparentemente insignificanti divengono tristi presagi: delle ombre, dei passi, degli scricchiolii sono spesso l'inizio di un capovolgimento di fronte. Ecco quindi che all'improvviso entra in scena l'assurdo. A mio avviso per comprendere pienamente i racconti di Buzzati sono doverose alcune premesse. Per Freud esistono diversi tipi di sogni. Il primo tipo di sogni sono frutto di appagamento di desideri non mascherati. Ad esempio un bambino a cui piacciono le patate può sognare di fare una scorpacciata di patate. Il secondo tipo di sogni sono frutto di soddisfacimento mascherato di fantasie inconsce. Il terzo tipo invece sono sogni di angoscia. I racconti di Buzzati spesso sembrano scaturire da sogni di angoscia o quantomeno sembrano essere dei sogni di angoscia. Ma in questi brani troviamo non solo angoscia e onirismo ma anche mistero e solitudine.

 

 

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Nei suoi "Sessanta racconti" si mischiano fantastico, realismo, grottesco, gusto del paradosso e metafisica (ricordo che Buzzati fu anche pittore e fu influenzato da De Chirico). Leggendolo abbiamo la dimostrazione che la vera arte nel Novecento non è copia del reale ma trasfigurazione. Lo scrittore bellunese in questo senso voleva evadere dal mondo e restituirgli un universo fittizio. Buzzati fu anche redattore per molti anni del Corriere della Sera e giornalista di cronaca nera.
È proprio analizzando i suoi articoli di nera che si scopre la sua sensibilità. Carlo Bo scriveva a riguardo di Buzzati: "cronista di assoluta fedeltà, ma alla fine andava oltre e scioglieva tutto con il miracolo della poesia". Nei suoi articoli troviamo alcuni delitti, che colpirono l'immaginario collettivo degli italiani: Rita Fort che massacra l'intera famiglia dell'amante che l'ha lasciata, il caso Montesi e lo scandalo conseguente nella democrazia cristiana di allora, la contessa Pia Bellentani che a una festa dell'alta società uccide l'amante. E se talvolta gli assassini non sembrano belve feroci ma persone normali lo scrittore avverte che "l'ombra del male scivola intorno a ciascuno di noi e ci potrebbe toccare". Ma leggere questi articoli significa ritornare indietro nel tempo e constatare che una grande parte di quella cronaca è diventata storia del Novecento. Penso all'aereo della squadra del Torino che si schianta a Superga, il dramma di Marcinelle in cui morirono 139 minatori italiani in Belgio, il disastro del Vajoont del 1963 (quasi 200 morti), la rivolta di San Vittore, la strage di Piazza Fontana. Non ci si può dimenticare di Marcinelle, che è emblematica per quel che riguarda la nostra emigrazione. Per la scarsità di materie prime della nostra nazione il governo italiano decise di stipulare un accordo con il Belgio, secondo cui avrebbe inviato 50000 minatori e avrebbe ricevuto 2 tonnellate di carbone all'anno per ogni lavoratore. I minatori italiani furono costretti a lavorare a 1000 metri di profondità. Il contratto di lavoro non comprendeva la possibilità di dimettersi. I minatori che volevano smettere di lavorare venivano condannati a 5 anni di prigione. Molti lavoratori morirono di cancro al polmone. I più fortunati divennero asmatici. Buzzati descrisse con maestria anche il dramma di Superga. Scrisse che i campioni del Torino fino a pochi giorni prima dominavano i campi di calcio e che la morte in pochi istanti li aveva trasformati. Scrisse: "Esegue balzi così immensi la morte che neppure la nostra immaginazione riesce a starle dietro. Come far capire alle mamme, alle fidanzate, alle sorelle che è meglio non entrare?".
Memorabili e amarissime anche le sue parole sul Vajont: "un sasso è caduto in un bicchiere di acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi". Buzzati quindi sapeva essere poetico anche da giornalista senza mai scrivere elzeviri. Possiamo senza ombra di dubbio affermare che il lavoro di giornalista fu fondamentale per la formazione del suo immaginario e della sua poetica, in cui dominò incontrastata l'imperscrutabilità del Fato.
In conclusione Buzzati va letto perché non appartiene a nessuna scuola, non abbraccia nessuna ideologia e si rivela sempre originale e versatile. Riesce a intrecciare realtà e finzione con uno stile efficace e apparentemente semplice. Buzzati riesce a farsi comprendere da tutti ed è sempre distante dalla ricercatezza ad esempio della prosa d'arte. È unico nel suo genere. Infatti ha una fervida immaginazione che gli permette di descrivere le angosce, gli incubi, l'ignoto, come nessun altro narratore italiano nel corso del Novecento. Buzzati all'epoca fu anche ostracizzato da alcuni critici letterari. Eppure nessuno come lui riesce a descrivere i fantasmi della mente, le brutture del quotidiano, l'imponderabile che stravolge l'ordine costituito, il senso di minaccia e l'irrazionalità presenti nell'esistenza umana. Lo scrittore come nessun altro riesce a raccontare storie che si nutrono di caos e assurdo: storie che spesso sono contrassegnate da una cifra trascendente. Questo è il suo lascito.

 

Considerazioni sul corpo, Montale, Pasolini, Ruzzante...

giu 192022

Innanzitutto il corpo. Siamo carnali e mortali. Ecco perché il corpo è un’ossessione, soprattutto per noi occidentali. Il corpo apparentemente è un tramite per il piacere. È lo strumento prediletto per noi occidentali per avere il piacere. La maggioranza dell’io di noi occidentali è corporeo. Stare bene con sé stessi per un adolescente o un giovane significa stare bene e stare bene col proprio corpo, accettarlo. I soldi sono importanti per noi perché cibano, proteggono, salvaguardano il corpo, lo fanno stare bene, lo possono migliorare con la chirurgia, addirittura lo estendono con delle protesi come per esempio la macchina, il computer, etc etc. Al corpo viene attribuita importanza anche in filosofia con Merleau-Ponty perché è esso stesso coscienza ed è grazie al nostro organismo che percepiamo il mondo. Ma Merleau-Ponty è fondamentale anche per la psicologia della Gestalt. Comunque la filosofia del ‘900 è anche materialista, pragmatica, utilitarista, realista, funzionalista e perciò mette in primo piano il corpo. L’idealismo, lo spiritualismo, il cristianesimo vengono relegati ai margini da molti intellettuali. Le fantasie di noi occidentali sono erotiche e riguardano il corpo. Noi occidentali dobbiamo quantificare il piacere, quantificare il corpo. Il corpo nostro interagendo con un altro corpo stimola il nucleo accumbens e viene raggiunto l’orgasmo. Il nostro immaginario viene stimolato dalla pornografia: corpi prestanti che si avvinghiano ad altri corpi prestanti. Viene celebrato il corpo, soprattutto la bellezza del corpo. Ogni bel corpo va mostrato, esibito, messo in evidenza. Ma il corpo viene cristianamente anche mortificato. Il corpo ci ricorda che siamo finiti e determinati biologicamente. Secoli fa le persone si flagellavano, usavano il cilicio sui loro corpi. Adesso il cilicio castiga la psiche con i sensi di colpa, coi rimorsi. Un altro nemico della libertà del corpo, dell’espressività fisica e sessuale è la rispettabilità borghese, il cosiddetto perbenismo. Alice (al secolo Carla Bissi) in una sua canzone scriveva “parenti miei, cinture di castità e di quel poco che resta”. Spesso si ha paura del giudizio dei propri cari e si viene limitati in amore proprio da persone a cui si vuol bene. Si ha meno libertà sessuale. Si guarda anche alla convenienza sociale. Così certi uomini non si fidanzano perché hanno paura di portare a casa dalla madre una donna. Ma vale anche il contrario. Le rispettive famiglie dei due fidanzati mettono alla prova, sotto esame i due. Queste dinamiche psicologiche familiari si ripeteranno in modo più o meno conflittuale per tutta la vita. Oppure alcuni/e sono costretti dalle regole borghesi alla doppia vita. La schizofrenia sessuale/morale di noi italiani si ritrova tutta nel 1975: l’anno del Nobel a Montale, poeta borghese per antonomasia, e anno dell’uccisione di Pasolini, che col corpo e la mente suscitava scandalo, era scandalo.

 

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Ancora oggi sembra che si debba scegliere tra Pasolini e Montale, due grandi poeti che si odiarono. Montale soprannominò Pasolini Malvolio in una sua poesia. Pasolini aveva criticato la raccolta Satura perché secondo lui non impegnata socialmente né politicamente, non trattando delle tematiche attuali come la guerra nel Vietnam, etc etc. Montale rispose così: 

 

Non s'è trattato mai d'una mia fuga, Malvolio,

e neanche di un mio flair che annusi il peggio

a mille miglia. Questa è una virtù

che tu possiedi e non t'invidio anche

perchè non potrei trarne vantaggio.

No,

non si trattò mai d'una fuga

ma solo di un rispettabile

prendere le distanze.

Non fu molto difficile dapprima,

quando le separazioni erano nette,

l'orrore da una parte e la decenza,

oh solo una decenza infinitesima

dall'altra parte. No, non fu difficile,

bastava scantonare scolorire,

rendersi invisibili,

forse esserlo. Ma dopo.

Ma dopo che le stalle si vuotarono

l'onore e l'indecenza stretti in un solo patto

fondarono l'ossimoro permanente

e non fu più questione

di fughe e di ripari. Era l'ora

della focomelia concettuale

e il distorto era il dritto, su ogni altro

derisione e silenzio.

Fu la tua ora e non è finita.

Con quale agilità rimescolavi

materialismo storico e pauperismo evangelico,

pornografia e riscatto, nausea per l'odore

di trifola, il denaro che ti giungeva.

No, non hai torto Malvolio, la scienza del cuore

non è ancora nata, ciascuno la inventa come vuole.

Ma lascia andare le fughe ora che appena si può

cercare la speranza nel suo negativo.

Lascia che la mia fuga immobile possa dire

forza a qualcuno o a me stesso che la partita è aperta,

che la partita è chiusa per chi rifiuta

le distanze e s'affretta come tu fai, Malvolio,

perchè sai che domani sarà impossibile anche

alla tua astuzia.

(Diario del '71 e del '72)

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Mai come in questo secolo c’è così tanta insoddisfazione sessuale: il desiderio è incessante a causa del bombardamento pornografico a cui siamo sottoposti. Ecco perché la monogamia è un’utopia. Ecco perché come scrissi tempo fa questa è l’epoca in cui gli stessi amanti sono cornuti. È l’epoca del poliamore, della pansessualità ed è totalmente legittimo: lo scrivo senza moralismi. Molti sono dipendenti dal sesso, alcuni vanno a disintossicarsi nelle cliniche. Al sesso, al corpo viene attribuita un’enorme importanza. Anche un intellettuale serissimo come Fortini in "Verifica dei poteri" non può far a meno di trattare dell’emanicipazione sessuale delle impiegate di allora. Ma il desiderio fisiologicamente scema con l’età. Ci sono la menopausa, l’andropausa, i cali del desiderio fisici e psicologici. Alcuni che hanno mancato l’appuntamento con la giovinezza si imbottiscono di Viagra, cercando l’elisir di eterna giovinezza. Passano gli anni. Il padre di un mio carissimo amico gli consigliava sempre di fare sesso, di non aspettare perché si invecchia presto. In là con gli anni spesso si trova il declino inarrestabile o la morte. Si può anche essere impossibilitati a prendere il Viagra per una cardiopatia (la famosa pillola può far male al cuore). Vivere significa per dirla alla Luzi affrontare il corpo oscuro della metamorfosi, prima di tutto le metamorfosi del nostro corpo. Riprendendo una canzone di Piero Pelù il nostro corpo cambia continuamente. Il problema della letteratura italiana è quello di essere troppo incentrata su Dante. La letteratura italiana è più spirituale e idealista; spesso reprime il corpo. Il rapporto tra i sessi viene mitizzato, idealizzato da molti letterati. Voi mi potreste dire: abbiamo anche il Boccaccio. Ma qualche pagina di Boccaccio da sola non basta, finisce per essere innocua, non prepara alla vita vera.  Parafrasando il celebre detto neoavanguardistico bisognerebbe fare tutti una salutare gita a Pernumia invece che a Chiasso! Bisognerebbe guardare anche a Ruzzante. Bisognerebbe leggere le sue storie di povera gente veneta. Troppo materialista la popolazione italiana e troppo idealista,  etereo il mainstream della letteratura italiana! Nelle scuole italiane dovrebbero far leggere anche Rabelais e Montaigne: tutta gente carnevalesca e che non reprimeva il corpo. Ma Montaigne, Rabelais, Ruzzante sapevano anche ridere di sé stessi e del corpo. In questo periodo siamo in crisi perché il pericolo nucleare minaccia i nostri corpi, le nostre vite. Molti hanno comprato pasticche di iodio per salvaguardare la tiroide da un tumore in caso di radiazioni. Stiamo uscendo dalla pandemia, che ha minacciato i nostri corpi anch’essa. Qualcuno ricordava che dopo la peste molti si diedero alle orge e alcuni  vorrebbero farlo anche loro dopo la sconfitta del Coronavirus. Oggi come sempre si inneggia alla corporeità, si celebra la fisicità. Gli uomini devono essere forti, prestanti, aitanti, vigorosi. Le donne devono essere sinuose e longilinee. Chi non rispetta o non si adegua a questi canoni è out. Chi critica tutto ciò è addirittura un nemico da abbattere. Sul corpo vengono costruiti idoli e templi. Bisogna insegnare a ridere del corpo ai ragazzi. Bisogna far leggere gli autori suddetti e non solo Dante, che era senz'altro un genio immenso per strutturare l'aldilà e il Medioevo in terzine incatenate (il primo verso della terzina rima con il terzo verso della stessa terzina, il secondo verso della terzina rima con il primo e il terzo della terzina successiva  e così via, ad libitum),  endecasillabi quasi tutti canonici (si dicono così gli endecasillabi che hanno l'accento tonico sulla quarta o sulla sesta sillaba oltre che naturalmente sulla decima), in buona parte a maiore (cioè con l'accento tonico sulla sesta sillaba oltre che naturalmente sulla decima). Non si può però far vivere i ragazzi nell'Iperuranio letterario, nel dolce stil novo. Il corpo va affrontato anche in letteratura.  Sul corpo c’è tutto un business mondiale. In Occidente esistono due polarità contrapposte: la carnalità e la spiritualità. Si creano così doppiezza, atteggiamenti schizofrenici. Sembra che non si possano coniugare le due cose. Da  una parte l’orgasmo e dall’altra l’estasi mistica. Ma c’è chi basa tutto sul sesso e non raggiunge l’orgasmo. C’è chi vuole il rapimento mistico e in realtà riduce tutto alla solita, misera preghiera interessata. Ma siamo sicuri che non ci sia un intreccio tra i due aspetti? Dopo l’Eros sperimentiamo Thanatos. Dopo Thanatos rivogliamo Eros. Le due cose si richiamano a vicenda: la vita nella morte, la morte nella vita.

 

Considerazione sulla poesia ai tempi del Covid....

giu 192022

Questi pensieri disincantati e disillusi  sono stati scritti nel bel mezzo della pandemia. Sono molto pessimisti perché risentivano del fatto che allora non vedevo assolutamente una via di uscita (se c'è una via di uscita o meno non lo sa però nessuno con certezza). Ne riporto fedelmente i contenuti senza modifiche. Tenete però presente il mio stato d'animo di allora. 

 

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La poesia contemporanea italiana è in crisi da decenni. Mi manca comunque il raffronto con le altre nazioni che non conosco. È difficile ad ogni modo giudicare e valutare i poeti. Il grado di oggettività è minimo nella valutazione perché la poesia è anche “parola” (e non solo “langue”), è anche connotazione. Esiste poi la cosiddetta polisemia nella lirica. Inoltre come scrisse Sereni la poesia è “custode non di anni ma di attimi”. È qualcosa di impalpabile. Nessuno può comunque avere pretesa di esaustività nel definire la comunità poetica. Personalmente sono pessimista sulla poesia contemporanea italiana. Forse sono io che chiedo troppo alla poesia. Chiedo che non sia uno sfogatoio e che non abbia carattere privatistico, ma che abbia universalità. Chiedo che non sia pretestuosa né intellettualistica. Chiedo che non crei mondi fittizi, ma che sia in presa diretta con la realtà. Chiedo che non sia finzione e che le sue parole non siano evanescenti. Chiedo che critichi le istituzioni senza cadere in un vuoto ribellismo. Chiedo che sia una forma di arricchimento della personalità. Chiedo che mostri il lato irrazionale in una società basata sul razionalismo. Chiedo una poesia che almeno abbia sullo sfondo le patologie sociali, le sopraffazioni, le ingiustizie. Chiedo che cerchi di dare un senso alla vita. Forse è troppo. E poi cosa è mai questa poesia contemporanea? Ha forse un volto riconoscibile? Cosa c’è dietro un apparente fermento? È difficile offrire una panoramica vasta. Il fenomeno è complesso. Attualmente sono mutate molte cose (c’è stata una pandemia con milioni di morti nel mondo e più di centomila in Italia, c’è una gravissima crisi economica, c’è il debito pubblico alle stelle, eccetera eccetera). Intendiamoci bene: c’è chi fa cose più mostruose o inique di scrivere versi. Al mondo c’è chi ammazza, chi è pedofilo, chi fa il trafficante d’armi. Come può però una poesia, a tratti elitaria e illeggibile come quella contemporanea italiana dire qualcosa ai cittadini? Si possono dire le cose in modo più semplice? Un poeta farebbe sempre meglio a chiedersi: che sto a dire? Come lo sto a dire? Per quanto riguarda la comprensibilità dei testi la Dickinson scriveva che si doveva dire la verità in modo criptico, mentre K. Popper sosteneva che niente è così facile che scrivere in modo difficile e che tutti coloro che scrivono devono porsi come dovere la chiarezza espositiva (però era un filosofo). La realtà in poesia è che i componimenti dovrebbero in teoria cercare sempre di raggiungere i vertici della significazione. Però i poeti spesso cercano termini ricercati, talvolta antiquati, perché li considerano più consoni. I poeti tra gambo e stelo scelgono sempre il secondo vocabolo, anche se non sarebbe necessario. Anche i poeti in fondo hanno il loro gergo. I più dicono di farlo per la eufonia, la musicalità. Io ho i miei dubbi. Mi sembra che Pasolini avesse dichiarato a riguardo che esistesse in poesia un codice classista del linguaggio. Disse che nella sua prima poesia da bambino aveva utilizzato i termini “usignolo” “verzura”, anche se li conosceva vagamente. Comunque è vero che la realtà è complessa e per dirla alla Gadda "la vita è barocca ". L'esistenza è ciò che pensiamo e sentiamo in base a quello che ci accade. Ma stare a raccontare i nostri fatti inessenziali è oggetto di prosa. Esprimere pensieri ed emozioni, costruire simboli, metafore e analogie significa sapersi innalzare dalle cose della vita e fare poesia. La letteratura e con essa la poesia è una forma di conoscenza intuitiva e provvisoria. Non a caso Antonio Pizzuto riassume tutto in questi termini: "A è A, se A è A, finché A è A".  Nella poesia il cuore comunque è nella parola ma anche nell'immagine. Spesso fare poesia significa mettere la testa sopra la melma.

La poesia italiana comunque  versava già da tempo in gravi condizioni. Che cosa può dire un poeta o una poetessa a persone in difficoltà? Che cosa può dire un poeta o una poetessa a un malato di Covid o a un familiare di una vittima del maledetto virus? Oppure di fronte a un familiare di una vittima sul lavoro? Oppure di fronte alla fame nel mondo? Come verbalizzare e rendere credibile la verbalizzazione del nostro vissuto e delle nostre vicissitudini di fronte ai traumi così devastanti di chi non ha un euro o ha un familiare morto di Covid? Può un poeta trattare delle tragedie altrui, del Covid altrui senza incorrere nella retorica e nella inautenticità? I poeti attualmente non rischiano di scrivere in una lingua morta? La poesia può davvero essere testimonianza di quello che sta accadendo? Questi argomenti non sono assolutamente triti e ritriti. Nessuno ne dibatte oggi. Invece dovrebbero essere studiati attentamente. Prima di difendere strenuamente i poeti, dire che la poesia migliora la vita e salvaguardare la poesia bisogna riflettere a livello ontologico, etico ed epistemologico sulla scrittura in versi. Bisogna come minimo portare avanti dei ragionamenti e vedere quali sono gli ostacoli. Ognuno deve fare i conti con sé stesso, a costo di mettere in crisi certezze ed identità. Non è questione di indicare un approccio rivoluzionario. Nessuno sa quale è la strada migliore da seguire, ma non fare ciò significa mancare di nuovo a un appuntamento fondamentale, quello della storia. Oggi scrivere versi, guardando al proprio ombelico, non è più possibile a mio modesto avviso. C'è il rischio della fine del mondo. Pochi riflettono veramente sulla grave crisi in cui versa il mondo nel cosiddetto Antropocene. Inoltre i poeti dovrebbero chiedersi se davvero ne vale la pena, visto che non ci guadagnano e che la gloria nella maggioranza dei casi si fa attendere. Dovrebbero farsi un esame di coscienza, che è allo stesso tempo sia un atto di onestà intellettuale che un atto di umiltà. Ciò nonostante molti non si pongono queste domande essenziali. In molti predomina il narcisismo e il compiacimento. La visibilità è scarsissima, risibile in questa arte. Alcuni sono frustrati e soffrono di smanie di grandezza. Per un meccanismo di compensazione si autoingannano, mentendo a sé stessi. La poesia ha una scarsa condizione in questa società capitalistica e tecnologica. Che fare allora? Fare la rivoluzione? Diventare uomini in rivolta? Essere tecnofobi? Rifiutare tutti i paradigmi scientifici e le conquiste della scienza? Ritornare allo stato di natura? Un poeta o una poetessa dovrebbe chiedersi se è degno di nota come poetica e come stile, se è valido veramente sia da un punto di vista contenutistico che formalistico. Qualcuno potrebbe obiettare ciò che scrivo e sostenere che ognuno deve fare la sua parte. Ma i poeti possono reggere l’onda d’urto del Covid per  esempio?

 

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Il rischio infine è che la poesia in Italia diventi ancora più marginale di quello che è già. Una domanda sorge allora spontanea: cosa può fare di fronte alla pandemia e alla conseguente crisi economica la poesia italiana, già precedentemente poverissima ancella della società attuale? Questi sono gli interrogativi cruciali. Sicuramente la poesia italiana sopravviverà. Non lo metto in dubbio. La poesia morirà con l’ultimo uomo. Non voglio disquisire se la poesia salvi l’uomo oppure no. A proposito del fatto che la poesia non vende e delle classifiche dei libri fatte solo in base alle vendite ricordo cosa dichiarò Arbasino in una intervista, ovvero che non si può considerare McDonald’s il miglior ristorante del mondo perché la maggioranza lo frequenta. Ritorniamo al binomio pandemia/poesia. Non si può fare finta di niente e mettersi delle fette di prosciutto sugli occhi. Cito testualmente Adorno: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la consapevolezza stessa del perché è divenuto impossibile oggi scrivere poesia.” (Theodor Adorno, “Critica della cultura e società”). Valgono anche oggi le parole di Adorno? È meglio a mio modesto avviso per molti “poeti”, per dirla alla Freud, abbandonare il principio di piacere e abbracciare il principio di realtà. Ognuno prima di scrivere si autovaluti con la coscienziosità del buon padre di famiglia e l’onestà intellettuale di un critico disincantato, smaliziato. Nessuno ora può esimersi dall’esame di realtà. Questa situazione, la crisi del mondo attuale, da qualsiasi punto di vista la si guardi, è tragica. È una situazione che nientifica, nullifica la fruizione di ogni esperienza estetica. Questo è il problema principale, che va affrontato seriamente. Non ci sono scappatoie né vie di uscita. Non si può eludere. Non si può girare intorno, a meno che uno non viva in un mondo tutto suo e che si accontenti di tanto in tanto di un trafiletto in cronaca locale o di vincere un premio ininfluente di un paesino sperduto. Siamo franchi; non sono più i poeti a suggestionare ma la TV, gli influencer e i guru della crescita personale, della programmazione neurolinguistica, del neuromarketing. Oggi al massimo i poeti si autosuggestionano. Non tutte le parole scritte diventano poesia, come non tutte le pietre lanciate rimbalzano sull'acqua. La stragrande maggioranza delle parole si inabissano subito. In ogni caso tutti i pensieri scritti finiscono in una serie di cerchi concentrici, scaturiti dal sasso che finisce nello stagno. Ogni poeta è come un sasso che alza il livello dello stagno, dando il suo apporto culturale. I poeti degni di nota sono sassi che sono rimbalzati sullo specchio d'acqua. Ma sono eccezioni. Probabilmente tutto è vanità (come è scritto nell'Ecclesiaste) e tutto è inutile (come scriveva Guido Morselli nel suo diario). C’è chi per soddisfare il suo bisogno di immortalità fa figli e chi per trascendere la sua morte scrive versi. Io non farò nessuna delle due cose. Un tempo scrivevo versi. Ma ora non più. Cosa significa poi pubblicare poesie sul web? Sono forse messaggi in bottiglie nell’oceano in un tempo in cui tutti lasciano messaggi nelle bottiglie? Viene da chiedersi se da questa passione si può trarre giovamento e se con essa si possa raggiungere il famoso benessere psicologico. È soggettivo. Ci sono anche qui le contrarietà e non solo le soddisfazioni. È questione di fare una analisi costi/benefici. C’è anche chi si accontenta di qualche contentino, di pochissimo, quasi di nulla. Ma forse è soprattutto questione di buonsenso. Bisognerebbe forse raccogliere l'esortazione del grande Fortini: "Non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi". Però non c’è solo il benessere psicologico di chi scrive ma anche di chi legge e ciò non è un fattore secondario, anzi dovrebbe avere la priorità assoluta. La poesia infine può contribuire alla felicità come una bella passeggiata, qualche carezza al cane, una cena tra amici. Sono molteplici le occasioni che ci possono rendere felici. Personalmente guarderò in disparte. Leggere poesia e osservare la comunità poetica è una singolare e strana avventura.

Davide Morelli – 6/7 gennaio 2021

"Aspetta primavera, Bandini" di J.Fante...

giu 192022

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John Fante è uno scrittore originale e di talento. Ciò nonostante per molto tempo è stato un autore di nicchia. Essendo italoamericano è stato considerato marginale sia dai critici letterari americani che da quelli italiani: troppo italiano per gli americani, troppo americano per gli italiani. Fu Vittorini che lo fece conoscere agli italiani negli anni '40, mentre in America solo negli anni ’80 ci fu la sua riscoperta grazie a Bukowski, che lo considerò suo maestro per aver saputo conciliare nella sua prosa ironia e dolore. In Francia recentemente è divenuto un caso letterario. Fante era figlio di un abruzzese, emigrato in America ad inizio ’900. Nacque in Colorado. Lavorò per Hollywood e trascorse alcuni periodi della sua vita in Italia perché fece lo sceneggiatore per Dino De Laurentis. Il diabete gli procurò la cecità nella maturità e successivamente l’amputazione delle gambe. Morì nel 1983. Il libro che gli dette più soddisfazioni economiche fu Full of Life (“Una vita piena”), da cui fu tratto anche un film.
Tempi difficili per gli immigrati durante l’infanzia e l’adolescenza di Fante. Gli Stati Uniti non ebbero una legge sull’immigrazione fino al 1875. La legge del 1875 e le successive fino al 1921 non misero limiti all’ingresso di immigrati. L’opinione pubblica però esigeva una migliore “qualità” per quel che riguardava l’immigrazione. Gli Stati Uniti così decisero di sottoporre ai test d’intelligenza gli immigrati perché l’opinione pubblica ravvisava la minaccia di un “imbastardimento della razza americana”. I risultati dei test d’intelligenza "decretarono" la "superiorità intellettuale" del gruppo nordico. La legge del 1924 concedeva a tutti i nordici di entrare in America, ma stabiliva una quota del 2% per coloro che erano alpini e mediterranei (per cui anche gli italiani). Chiaramente oggi sappiamo che esistono le differenze di intelligenza, ma anche che non sono così quantificabili come alcuni psicologi avevano voluto far credere con i test. Il Q.I serve soprattutto come strumento diagnostico per vedere se un bambino soffre di ritardo mentale o per constatare se una persona che ha avuto un trauma cranico ha perso delle facoltà intellettive oppure come "indicazione di massima" per l'orientamento scolastico. .Inoltre come ha dimostrato Kamin nel libro "Scienza e poli del Q.I" i dati furono falsificati. Ma quello che ci interessa è l’atteggiamento xenofobo dell’opinione pubblica americana in quel determinato periodo. Tempi difficili per gli immigrati italiani quindi e Fante ce lo racconta approfonditamente nei suoi libri. Spesso infatti troviamo riportati nelle sue opere i pregiudizi dei nativi americani sugli italiani. Nei romanzi di Fante c’è la netta contrapposizione tra emarginati ed integrati: tra gli immigrati italiani (che sognano il benessere economico e vivono in povertà) e gli americani, che vivono dignitosamente. “Aspetta primavera, Bandini” è il suo primo romanzo. Con esso inizia la saga della famiglia Bandini, una famiglia di poveri immigrati italiani. L’eteronimo di Fante è Arturo Bandini, un adolescente di quattordici anni. I suoi fratelli August e Federico hanno rispettivamente undici ed otto anni. Svevo, il padre, è un muratore e un dongiovanni, che se la fa con una ricca vedova, che gli ha dato da rifare un caminetto della sua villa. E’ un uomo molto orgoglioso, che accetta malamente le incombenze della sua vita grama: il mutuo della casa, periodi di disoccupazione, i debiti da saldare. E’ molto legato al suo amico Rocco, che è stato in gioventù suo compagno di avventure. La madre Maria invece è una donna molto devota: sgrana il rosario e prega per la sua famiglia continuamente. Perdona sempre tutto al marito, accetta anche i suoi adulteri e le sue frequenti fughe da casa con rassegnazione. Il marito Svevo se ne va da casa per alcuni giorni, anche quando arriva la lettera di Donna Toscana, sua suocera, che lo considera un fallito e compatisce la figlia per la vita di miserie che è costretta a fare. Nonostante la famiglia Bandini spenda più di quello che guadagna, il figlio Arturo con l’incoscienza dell’adolescente trova il modo di rubare alla madre i soldi per andare al cinema. Arturo è innamorato di Rosa Pinelli, una sua compagna di classe, che però muore di polmonite. Il momento più poetico del libro è proprio quando Arturo viene a conoscenza della scomparsa della ragazza. Questo romanzo si legge tutto d’un fiato. E’ adatto a persone di tutte le età. La prosa è scorrevole. Non si rintracciano mai durante tutta l’opera intellettualismi e filosofemi. Leggere Fante dunque. Leggere Fante è interessante perché ci riporta indietro nel tempo: ci fa ricordare come eravamo. Ci fa comprendere le grandi difficoltà a cui andarono incontro coloro che emigrarono in America. E tutto questo ci viene raccontato con umorismo e con acume.

Due parole su Bukowski

giu 192022

 

 

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Bukowski dissacra il sogno americano. La sua è una critica feroce all’America benestante, puritana, conservatrice; una presa di posizione destabilizzante nei confronti dell’America del consumismo e del conformismo. Ce lo dice senza giri di parole in una sua poesia: l’uomo di oggi è merce deperibile. Lo scrittore americano è un ribelle solitario, che svela il grottesco della società a stelle e strisce. E' per questa ragione che in America è rimasto sempre underground e invece in Francia e in Germania ha avuto grande successo. Bukowski svela gli scheletri dell’armadio della rispettabilità borghese. I personaggi dei suoi libri sono assurdi e la loro grama esistenza può apparire talvolta al lettore insensata e vuota. Troviamo, quando va bene, mariti ubriachi e mogli brontolone affacciate alla ringhiera, affittacamere spilorce e maleodoranti. E tutti indistintamente che cercano di ammazzare il tempo, mentre aspettano di morire. Bukowski è troppo vecchio per appartenere alla beat generation e troppo originale per classificarlo in qualsiasi altra scuola poetica. Per alcuni versi potremmo definire lo scrittore erede di Fante o almeno potremmo dire che ha un debito nei suoi confronti. Infatti lui stesso ha dichiarato a riguardo di Fante: ”Ecco, finalmente uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità”. Bukowski dice no all’impegno politico, no all’establishment letterario. E' un uomo a mani vuote, senza alcuna certezza né ideologia. Per quanto riguarda ogni presa di posizione politica, Bukowski ci ricorda che gli uomini non sono mai forti come le loro idee. L’unica rivoluzione che forse potrebbe fare è quella dei barboni, che lui immagina nel suo racconto “La vendetta dei dannati” in “Niente canzoni d’amore”. Inoltre in un suo libro di poesie “Si prega di allegare 10 dollari per ogni poesia inviata” scrive a proposito dell'élite culturale : "Dire che sono un poeta mi mette in compagnia di grafomani matti e rincoglioniti che si mascherano da grandi saggi”. L'originalità delle sue poesie sta nel fatto che non c'è distanza tra l'espressione poetica e la lingua ordinaria americana. Lo stile colloquiale di intonazione bassa con cui si rivolge al lettore è rassicurante, però quando meno te lo aspetti ecco che Bukowski colpisce con la sua sicura fulmineità. E' singolare il suo modo di evocare la condizione umana: quello di Bukowski evoca una storia d'uomo disilluso che, assunta liricamente, desta risonanze in tutti ed esprime efficacemente il malessere di un'epoca. Un altro aspetto interessante è che troviamo uomini in carne ed ossa, non cifre e segni. La sua non è una poesia intellettualistica. Kerouac aveva scritto su un rotolo di carta telescrivente “On the road”. Vi narrava con un ritmo febbrile le peripezie di due giovani che percorrevano gli Stati Uniti da costa a costa. Ma in Kerouac c’era il desiderio di avventura, la voglia di esplorare il mondo e di effettuare un viaggio interiore tra Jazz, droghe, alcol. In Bukowski prevale invece una mistura sapiente di disincanto, cinismo, autoironia. In W. Burroughs ci imbattiamo in scenari onirici e psichedelici, che mettono a dura prova l’immagine prefabbricata dell’America. Troviamo le sue esperienze da tossicomane, gli allucinogeni, gli spacciatori, gli alcolizzati e una moltitudine di trasgressori e trasgressioni. Ma in Burroughs è rintracciabile anche la paranoia, il tema ricorrente della cospirazione, la presenza più o meno discreta del “Demoralizzatore totale”. In Bukowski invece no. Il nostro non perde mai il contatto con la realtà. Ci sorprende per il suo sguardo diretto alle cose quotidiane, per la sua immediatezza nel coglierne i tratti essenziali. Nei suoi testi non ci sono né allusioni, né allegorie. Ogni suo libro nel suo insieme è così chiaro, che si può abbracciarlo tutto con un solo pensiero. Nei suoi libri troviamo innanzitutto le sue più grandi passioni: la musica classica e la letteratura. Gli ambienti descritti nei suoi racconti e nelle sue poesie sono il bar, la strada, l’ospedale, l’ippodromo, la squallida stanza d’albergo, il manicomio, la bettola in cui è costretto a vivere. La cosa che più impressiona di Bukowski è l’occhio mirifico, la non comune capacità di cogliere il dettaglio di ogni ambiente e di ogni personaggio. Le sue storie poi spiazzano, perché sono vere eppure all’apparenza inverosimili. Un’altra qualità è la battuta sferzante, l’aforisma tagliente, che spesso al momento giusto riesce a riassumere e allo stesso tempo a sdrammatizzare la situazione paradossale in cui si trovano i personaggi. Ma questo non è ancora tutto. Il personaggio Bukowski entra prepotentemente in ogni suo racconto con le sue contraddizioni e i suoi vizi. Un personaggio dedito agli eccessi (all’alcool, all’erotismo sfrenato e sfacciato, talvolta alle risse). Insomma individualismo e bohème, o per dirla in termini italiani genio e sregolatezza.

 

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Lo scrittore usa spesso a questo proposito il suo alter ego Henry Chinaski, che come lui ha lavorato alle poste. E’ un personaggio bifronte: a tratti si comporta come un ragazzino a tratti rivela una saggezza illuminante. E’ un uomo conflittuale, mai pienamente risolto, le cui storie senza uscita alimentano continuamente il suo disagio esistenziale. Bukowski dimostra il talento di fare della propria esperienza personale motivo e pretesto di condizioni più universali. Un tema che più volte Bukowski mette a fuoco è il rapporto difficile con le donne: sembra misogino e maschilista, eppure ha bisogno di relazioni a lungo termine con le donne: relazioni che non riesce a far durare a lungo per i suoi scatti d’ira e per i suoi umori altalenanti. Nelle sue vicissitudini sentimentali regnano incontrastate incomunicabilità ed estraneità reciproca. La donna non è mai idealizzata, contemplata. Non è mai fatta simbolo di niente. Eppure nella sua vita sarà proprio una sua donna, Linda Lee a mettere freno agli impulsi distruttivi dello scrittore. Gli farà ridurre l’assunzione di alcol, lo metterà a dieta, lo incoraggerà ad andare tutti i giorni alle corse dei cavalli per distrarsi e a non alzarsi mai prima di mezzogiorno. Bukowski mette a nudo i difetti delle donne con un certo sarcasmo. Però allo stesso tempo mette a nudo anche i suoi difetti e i suoi limiti di uomo. E questa sincerità disarmante da sola è rara e preziosa tra tutti gli scrittori esistiti ed esistenti

"Il signore delle mosche" di Golding...

giu 192022

 

 

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Questo capolavoro della letteratura inglese fu pubblicato nel 1954, grazie all’interessamento di T. S. Eliot. Il successo editoriale fu gigantesco: 14 milioni di copie vendute in Inghilterra. Quest’opera ha avuto diverse trasposizioni cinematografiche. Il primo film sul “Signore delle mosche” è del 1963 ad opera del regista Peter Brook.
Il libro non è altro che una favola moderna. Un gruppo di ragazzi sopravvive a un incidente aereo e finisce su un’isola disabitata. Il cuore dell’isola è costituito da una macchia fitta, ricca di frutti e maiali. C’è anche una montagna da cui possono scrutare l’orizzonte e guardare se passano le navi. I ragazzi hanno solo un barlume di speranza che possano portarli in salvo gli adulti perché durante il conflitto mondiale è esplosa la bomba atomica. Gli adolescenti devono adattarsi alla vita dell’isola: devono costruire rifugi, andare a caccia, fare delle leggi, eleggere un capo, tenere vivo il fuoco. Naturalmente dovranno fare tutto da soli perché non c’è la supervisione di nessun adulto. inizialmente viene eletto capo Ralph, il cui tipo di organizzazione simboleggia un’ideale di società democratica, in cui ognuno lavora per il benessere collettivo. Il capo ed i consiglieri possiedono la conchiglia, che rappresenta la conoscenza e la saggezza. Successivamente però si impone la società di Jack, basata sull’obbedienza e la subordinazione: una vera e propria dittatura. I due gruppi si scontrano e nella lotta muoiono due bambini: Simone e Piggy. Il microcosmo isolato dal mondo reale ed occasione per una rinascita dell’umanità diviene quindi un’ulteriore conferma della malvagità del genere umano: i bambini sono regrediti dalla civiltà alla barbarie.
A questo romanzo naturalmente sono state date le più svariate interpretazioni. C’è chi ha ritenuto che fosse un’allegoria religiosa, a causa del titolo. Infatti “Signore delle mosche” è uno dei tanti appellativi del diavolo. C’è chi invece ha posto l’accento sulla lotta tra il bene ed il male, cioè tra Ralph e Jack. Altri hanno visto nel romanzo il simbolo di quel che era accaduto nella seconda guerra mondiale ed hanno intuito in Jack il carisma e la forza di persuasione di Hitler.
Certamente da questo libro si possono comprendere tre concetti basilari su cui si fondano tutte le opere di Golding: 1) l'autore scrisse in un periodo della letteratura inglese, chiamato epoca tra il realismo e il modernismo. E lo scrittore riuscì ad essere sia REALISTA (perchè anche se questa storia è completamente inventata potrebbe sempre accadere) che MODERNISTA (perché fece largo uso di metafore, simboli ed allegorie) 2) il suo pessimismo riguardo la natura umana, dovuto al fatto che vide direttamente gli orrori della seconda guerra mondiale, perché fu ufficiale della marina britannica 3) la sua totale sfiducia nel sistema scolastico inglese. Questo libro infatti può essere anche inteso come una critica distruttiva nei confronti degli agenti di socializzazione dell’Inghilterra di quel tempo. I ragazzi del “Signore delle mosche” sono già andati a scuola, sono già stati deformati dalla scuola britannica. Sono già stati temprati dalla severa disciplina e dalle norme ottuse di quel periodo. Golding non a caso fu maestro e subì l’influsso della pedagogia steineriana. Steiner fu il fondatore dell’antroposofia, che potremmo definire una scienza dello spirito. Come educatore il filosofo Steiner fu straordinario. La sua pedagogia non si basa su nessuna imposizione e su nessuna ricetta. Lascia spazio alla creatività dell’insegnante, che a seconda delle sue esigenze e delle esigenze degli allievi può stabilire quali sono i modi più idonei di apprendimento. La pedagogia steineriana sostituì la disciplina ferrea con il calore umano tra allievo ed insegnante, dato che secondo il filosofo non bisognava educare solo la testa del bambino, ma anche l’intero corpo. Chiaramente Golding avendo in mente Steiner non poteva che essere contrarissimo al modo di insegnare della maggior parte degli insegnanti inglesi, così freddi ed impostati.

Non sparate sul recensore!!! Una considerazione su recensioni e memoria (tra il pubblico e il privato, tra il serio e il faceto)

giu 182022

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(Nella foto Davide Morelli con l'amico di infanzia Emanuele Morelli in un selfie a Marina di Cecina. Il brufolo sulla fronte ora  non c'è più. Ah ah ah!!!)

 

Alla voce "recensione " sulla "Treccani" si trova scritto: "1. (filol.) [fase del lavoro di edizione critica consistente nella scelta della lezione ritenuta migliore tra le varianti messe in luce dalla collazione: r. chiusa, aperta] ≈ recensio. 2. (estens.) [esame critico, in forma di articolo, di un'opera di recente pubblicazione e, anche, articolo che commenta spettacoli, film, mostre e sim.: fare, scrivere una r. favorevole, severa] ≈ ‖ articolo, commento, critica, giudizio, presentazione, scheda.". Una recensione quindi è una critica, un commento, un giudizio critico. Ma chi può scriverla? Tutti o solo gli addetti ai lavori? Tutti o solo chi se ne intende? E chi se ne intende?
Il poeta e professore Valerio Magrelli (a scanso di equivoci molto bravo come poeta) in una intervista a Fabio Fazio sosteneva (si spera in modo provocatorio) riguardo a chi poteva commentare un libro: "Ecco, io proporrei il sistema delle ore di lettura, come i piloti d’aereo. Quando si può pilotare un jumbo? Quando, per ricorrere a un’iperbole, si sono fatte 8000 ore di volo. Quando puoi scrivere il tuo parere su un libro? Quando hai letto 8000 libri di teoria, di narrativa, di poesia; altrimenti non puoi parlare. Io non voglio sapere i pareri dei lettori, non mi interessano: deve essere vietato al lettore di parlare. Ma parto dalla grande idea di Borges per cui io vado molto più fiero del mio lavoro di lettore che di quello di scrittore. Essere lettori è una cosa importantissima". Ma forse ci sono anche persone che sanno pilotare un aereo senza aver fatto 8000 ore di volo. Le capacità critiche sono date solamente dal numero di libri letti? Non è questa di Magrelli un'idea classista della letteratura? Non è un modo di fare e di dire respingente o evitante? Giustamente a mio modesto o immodesto avviso il professore e poeta Dante Maffia, candidato più volte al Nobel della letteratura, scrive sul sito letterario La presenza di Érato: "Evidentemente lui può, e anche Fazio può, perché gli ottomila volumi li hanno letti. Mi domando: li hanno digeriti? Perché i libri non basta leggerli, bisogna capirli e questo può avvenire se si riesce a stabilire con loro una certa complicità, se si riesce a entrare nelle pagine senza pregiudizi e senza spocchia, ascoltando gli autori senza sovrapporsi, senza pretendere di farli passare per la cruna del proprio ago per renderli un’appendice di se stessi. E poi… se uno di libri ne ha letto settemila e ottocento? Ma che razza di ragionamenti sono questi? Magrelli mi pare che abbia visitato in Russia la biblioteca di Boris Pasternak che raccoglie poche centinaia di volumi, quelli amati, letti (e digeriti). Un’altra delle biblioteche che ha dato cibo a Singer è di circa trecento volumi, tanto che, quando gli fu assegnato il Premio Nobel, i giornalisti, andati a intervistarlo, gli domandarono più volte dove fosse il resto dei suoi libri". Aggiungo io che la biblioteca di Petrarca ad Arquà fosse di circa 500 volumi e quella di Montaigne nella sua torre di 1000. Io di libri ne ho letti solo 3000-3500. Nella mia biblioteca attuale ce ne sono circa 1200-1300. 900 libri li ho buttati via per il trasloco. Erano troppo malandati. La biblioteca comunale non voleva i libri sottolineati. Altri 150 li ho donati alla biblioteca comunale. Molti libri letti li ho presi a prestito dalla biblioteca comunale. Non li ho comprati. Io perciò secondo Magrelli non avrei voce in capitolo. Ma "esisto anche io, malgrado le apparenze" scriveva il cantautore e poeta livornese Piero Ciampi! 

 

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(Nella foto Il poeta Valerio Magrelli. Da Wikipedia)

 

Veniamo a me. Ho recensito diversi libri in questi ultimi anni. Ho recensito libri di grandi autori, di autori affermati e di emergenti. A volte mi chiedo: ma se qualcuno mi facesse il terzo grado su tutte le mie recensioni cosa saprei dire? In questo caso non si tratta di problemi di apprendimento, ma di mantenere intatte le nozioni. Potrei trovarmi in difficoltà. Qualcuno potrebbe obiettare: caro Davide, scusa non richiesta accusa manifesta e poi chiedermi perché metto le mani avanti. Sarebbe impossibile per me a ogni modo ricordarmi con dovizia di particolare tutti i libri recensiti. Forse è un'impresa impossibile per ogni recensore che si rispetti. Comunque chiedo venia. Io scrivo una recensione e poi vado oltre, passo oltre. Parlando in generale, la memoria a breve termine ha i suoi limiti. Come dimostrò lo psicologo Miller nel 1956 con il suo saggio breve "Il magico numero sette, più o meno due" tutti riusciamo a memorizzare dai 5 ai 9 (di solito 7) elementi (che in psicologia si chiamano item). L'ippocampo è la parte del nostro cervello, a forma di cavalluccio marino, adibita al passaggio dei dati dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Le persone possono avere problemi di apprendimento quando l'ippocampo è danneggiato per un trauma cranico dopo un incidente stradale per esempio o se hanno lesioni microcorticali ad esso a causa di anni di grave alcolismo o perché sono tossicodipendenti. Si parla in questi casi di amnesia anterograda oppure di psicosi di Korsakoff. Uno dei problemi maggiori per tutti è l'oblio, se non si ripassa continuamente i libri letti. Un altro difetto della memoria è l'interferenza, ovvero non sempre le nozioni vengono interiorizzate, integrate tra di loro e quindi si disturbano. Inoltre libro scaccia libro talvolta, ovvero per acquisire nuove nozioni si dimenticano quelle precedenti. E allora per evitare ciò bisognerebbe rimanere forse alle quattro cose basilari delle scuole elementari? Evidentemente no perché non ci sarebbe progresso. Comunque non preoccupatevi nessuno finisce "out of memory" perché, se è vero che la memoria a breve termine ha dei limiti per tutti, quella a lungo termine è un pozzo senza fondo. E poi viene da chiedersi se sia meglio acquisire nuove conoscenze o approfondire le conoscenze già fatte nostre. Nel dubbio spesso finiamo per fossilizzarci sulle poche cose che sappiamo. A ogni modo talvolta le tracce mnestiche scompaiono. Ma non tutto è perduto! Talvolta basta riprendere da dove avevamo lasciato. Cosa sarei in grado di ricordare e di rispondere se qualcuno mi domandasse delle mie recensioni? Di poche mi ricordo i particolarial 100%. . Ho in mente vagamente il senso del libro. Dovrei rileggere la recensione che ho scritto e poi sarei in grado di spiegare cosa intendevo dire. Non recensisco tutti i libri che leggo. Sarebbe un'impresa impossibile. Recensire? Di solito rispondo come Bartleby: "I would prefer not to". Di solito preferisco fare considerazioni di carattere generale magari citando in qua e in là alcuni libri letti. Bisognerebbe sapere di cosa si scrive. Bisognerebbe scrivere di ciò che sappiamo. In realtà le nostre conoscenze non sono stabili; la nostra mente è un flusso inarrestabile. I nostri pensieri cambiano. Il nostro sapere lo stesso. La nostra in(cultura) vera o fasulla è dinamica. A volte mi immagino che esistano gli avvocati del diavolo del buon recensore o presunto tale. Mi immagino una mia vecchia insegnante di italiano che mi "inchioda" perennemente ai primi due temi del primo quadrimestre del primo anno in cui mi dava 4 e mezzo. Immagino che sia la mia inquisitrice e che mi dica che la mia scrittura è tempo perso. Immagino che mi dica che sono un incapace, un inconcludente e quello che non ho fatto nella vita è l'ennesimo risultato di come andavo male alle superiori, senza considerare la mia svogliatezza e la mia crisi interiore di quegli anni. Immagino che mi dica; tutte scuse Morelli! Immagino che mi dica: tu per me sarai sempre quel quattordicenne che mi guardava e a stento tratteneva il pianto per quelle gravi insufficienze a causa di quei temi così puerili. Non si può allora migliorare? Comunque non vorrei fare lo psicodramma di Moreno. E ad ogni modo perché dovrebbe esserci tanto accanimento nei confronti di un recensore tra i tanti? Mica si parla di beatificazione! Io recensisco talvolta libri hic et nunc. Questo é quanto. È chiaro che in quel momento conosco ciò di cui sto scrivendo. Cerco di farlo nel migliore dei modi, non tralasciando niente al caso. Poi leggo molto e diverse cose me le dimentico. Nessuno, arrivato a 50 anni, ha una memoria di ferro. Quindi potrei avere delle difficoltà se qualcuno valutasse ciò che so in questo momento di tutte le mie recensioni. Abbiate pietà: sono un semplice essere umano e non un automa perfetto. Poi non prendiamoci in giro: gli insegnanti delle superiori o i professori universitari ripassano la lezione e studiano il giorno prima di spiegare in classe o in aula. Nessuno, come si suol dire in Toscana, ha la scienza infusa, in questo caso la letteratura infusa. Se i professori venissero interrogati a tradimento, di sorpresa, potrebbero essere messi in difficoltà anche loro. Non solo ma per una recensione per la rivista letteraria Atelier mi ci vuole diverse ore a scriverla. Di solito scrivo 100, 150, 200 parole di getto. Quindi spengo il tablet e mi metto a pensare cosa dovrei ancora scrivere. Penso, aspetto un'altra idea. Quando finisco mi metto a limare. Pensavo di essere un deficiente a metterci così tanto tempo. Invece poi ho sentito un'intervista alla RAI del critico letterario Walter Pedullà, in cui diceva che ogni recensione gli costava ore di lavoro e fatica. Ritornando alla questione della memoria, perché comunque una nozione resti nella mente, per giungere al passaggio dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine, bisogna reiterarla, ovvero ripeterla mentalmente. Ci sono persone che studiano a voce alta, cioè ogni giorno dopo aver letto attentamente, provano a richiamare dalla memoria i nuovi input culturali. Altri invece studiano insieme a un compagno/a per ripassare e si fanno le domande a vicenda per sapere cosa si ricordano. Ma tutto questo può essere fatica sprecata se uno studente non sa su cosa vertono le domande degli insegnanti. Deve quindi conoscere cosa vuole sapere l'insegnante. La memoria può fare brutti tiri a chiunque, a meno che uno non abbia una memoria fotografica (ma si contano sulle dita di una mano). Decenni fa dicevano di questi individui così portati a ricordare che avevano una memoria eidetica. Va ricordato che per Husserl l'intuizione eidetica permette agli uomini di percepire una melodia e non solo delle singole note. Comunque decenni fa tutto era eidetico perché Husserl era di moda! Certo i trucchi per risolvere gli inconvenienti della memoria ci sono. Esiste la mnemotecnica. Molto semplicemente Pietro Citati, normalista e grande critico letterario, dichiarò che ogni volta che doveva dare un'intervista si preparava sempre ripassando il suo saggio su cui gli avrebbero fatto domande. Si preparava quindi come fosse un esame. A volte parlando in pubblico può sopraggiungere il timor panico e allora l'ansia può obnubilare la mente. In questi casi uno, sopraffatto dall'ansia, può richiamare nozioni alla rinfusa oppure può interrompersi il collegamento tra memoria e linguaggio, finendo per essere preda di un blackout quasi totale, ovvero la classica scena muta. Al contrario ci sono anche memorie prodigiose. Ma spesso un'ottima memoria è frutto di esercizio continuo, a meno che uno non soffra di amnesia. La verità è che certe cose le sapevo quando ho scritto la recensione. La questione di fondo è se la recensione è copiata o meno. Ci sono programmi informatici ad hoc per verificare se è stata copiata. Dire o scrivere che tizio ha copiato è diffamatorio, se non si mostra dove ha copiato, portando le prove oggettive. Importante è che la recensione sia originale. Intendiamoci comunque: recensire non mi pesa, però non date tutto per scontato perché è un impegno. Potrei anche non farlo. Quindi non diamo niente per scontato. Una recensione non è altro che una serie articolata di piccole opinioni. Non si può ricordare tutto. L'importante è essere onesti intellettualmente. Non bisogna mentire. Io per esempio scrivo solo di libri che mi sono piaciuti. Evito sempre le stroncature. Inoltre quali sono i pericoli da evitare? Per la studiosa e poetessa Carmen Gallo un recensore non deve essere un "autore mascherato". Per altri è necessario evitare di recensirsi a vicenda, ovvero fare le recensioni incrociate: quello che la professoressa e poetessa Gilda Policastro chiama ironicamente un 69 critico. Ritornando a me, non posso ricordarmi per filo e per segno tutte le mie recensioni. In definitiva ogni tanto recensisco qualche libro e cerco di farlo con cognizione di causa. Non mi risulta che per recensire bisogna essere professori universitari di letteratura. È sufficiente essere dei lettori forti o quantomeno attento. Ben vengano i recensori dilettanti. Magari sono improvvisati, però sono più sinceri. A volte i critici letterari evitano guai, hanno delle limitazioni. Insomma sono sicuramente meno liberi dei recensori qualsiasi di cui il web è una fucina inesauribile. Ciò non va preso in modo negativo: significa che i libri destano ancora interesse, che possono fare tendenza. Una delle cose da evitare naturalmente è il "recensionismo compulsivo", termine nato da un video su Youtube di Roberto Mercadini, riguardante il delirio delle recensioni su Amazon Libri Perciò potrei affermare di non sparare sul recensore! E poi perché un recensore senza infamia e senza lode, senza arte né parte deve rendere a tutti i costi conto a voi? Non è un recensore qualsiasi la causa dei vostri problemi!

 

N.B: tra i miei libri letti ci sono circa 60/70 classici Bompiani e Meridiani Mondadori, acquistati e in buona parte presi a prestito. In ogni opera omnia ci sono decine di opere. Quindi il numero esatto dei libri letti a onor del vero sarebbe maggiore. La mia è solo una stima per difetto. 

 

 

"Il poeta sei tu che leggi"...

giu 172022

 

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(Nella foto Davide Morelli a Marina di Cecina)

"Il poeta sei tu che leggi” si trova scritto dappertutto ormai. È scritto anche sul Lungotevere Vaticano. Lo scrivono in tanti sul web. Sembra che la paternità sia da attribuirsi al poeta di strada Ivan Tresoldi, certamente un personaggio creativo. Il vero autore sarebbe quindi il lettore. Sarebbe lui il maggior costruttore di significato, il vero responsabile del senso ultimo del testo. Di fronte all'ambiguità semantica è proprio il lettore che decide cosa significhi questa o quell'opera. Una parola, una frase, un intero testo possono avere significati diversi a seconda del contesto (inteso in senso lato) e della sensibilità individuale. Ogni testo in un certo qual modo è polisemico. La stessa connotazione, quella che Umberto Eco definiva come la coloritura emotiva di ogni parola, di ogni frase varia da persona a persona. La denotazione non è oggettiva (nel senso che non è oggettuale come le cose nella scienza), ma è certa perché convenzionale. La denotazione è decisa dalla comunità linguistica. La connotazione è incerta perché soggettiva. Ogni testo quindi dipende anche, forse soprattutto, dallo stato mentale, dall'umore, dallo stato d'animo del lettore in quel particolare frangente. Era questo il punto debole dello strutturalismo,  prima ancora che Chomsky parlasse di psicolinguistica. Possiamo perciò anche essere d'accordo. Gli artisti inoltre non esistono senza pubblico. I poeti non esistono senza lettori. Adam Smith ne "La ricchezza delle nazioni" considerava gli artisti degli assistiti. In quell'epoca la maggioranza erano cortigiani oppure secoli prima per esempio pittori e scultori venivano finanziati da dei mecenati o avevano come committente la Chiesa. Oggi gli artisti sono assistiti dai loro ammiratori, estimatori, seguaci. Aveva capito tutto il cantautore Claudio Rocchi quando gli chiedevano l'autografo, lui chiedeva le generalità del richiedente e poi firmava con il nome e cognome del suo fan. Senza il pubblico l'artista non ha modo di esistere. Oggi è poeta chi legge. Al bando quindi il copyright, i diritti di autore, l'autorialità. In questo modo nessuno è più autore e tutti sono autori. Ma io mi domando: se uno non legge cosa è? Molto probabilmente molti non vogliono leggere perché non vogliono essere poeti. Di solito comunque leggono poesia soprattutto gli aspiranti poeti, coloro che vogliono diventare poeti. Come esistono le preghiere interessate anche queste sono letture interessate in un certo modo. Tuttavia "il poeta sei tu che leggi" significa senza ombra di dubbio che non si può essere poeti senza essere lettori forti. Ma la situazione è a ogni modo desolante in Italia.  Certamente i giornali non aiutano. La cosiddetta terza pagina viene sempre messa in ennesima pagina. Sono anche scomparsi e non più sostituiti grandi maestri dell'elzeviro. Non scrivono più ormai Luca Goldoni, Alberto Arbasino, Pier Francesco Listri, Luigi Maria Personè. Mi ricordo che anni fa mi incuriosivano molto gli aneddoti letterari di quest'ultimo, morto centenario, grande letterato, che aveva conosciuto tutti i più grandi letterati del Novecento italiano e non. Poi le terze pagine dei quotidiani trattano di società, mondo dello spettacolo, tendenze. Trattano spesso di cose futili, leggere, tanto per intrattenere più che per acculturare, se va bene per informare più che per formare. Ma i direttori dei giornali sono messi alle strette e loro, se interpellati a riguardo, direbbero prontamente: i quotidiani vendono sempre meno copie e bisogna dare ai lettori ciò che vogliono. Il potere in questo modo si deresponsabilizza tramite la presunzione di ignoranza del popolo. Così facendo il popolo non si accultura. Inoltre come ho sempre avuto modo di dire: oggi tutto è cultura tranne la cultura. C'è spazio per tutti in televisione tranne che per la letteratura, la poesia, la scrittura. Eppure la fruizione culturale è aumentata notevolmente in questi anni. Ma la cultura è noiosa, soporifera. La scuola non aiuta. I programmi ministeriali sono quelli che sono. Poi con la vecchia retorica che non bisogna dare la pappa pronta diversi critici letterari si sono dimostrati criptici, oscuri, allontanando di fatto le persone dalla cultura. Diversi letterati non vogliono correre il rischio della banalizzazione, della volgarizzazione, neanche quando di tratta di un'utile semplificazione. Anche in letteratura bisognerebbe utilizzare il rasoio di Occam, ovvero non moltiplicare gli enti inutili. Invece sembra che diversi letterati abbiano a cuore il loro gergo specialistico e allora usano grecismi, latinismi, inglesismi, francesismi. La cultura diventa talvolta perciò un fardello pesante. Ci sono ancora oggi diversi letterati, che pur essendo politicamente progressisti, hanno una concezione elitaria e snobistica della letteratura, nutrendo talvolta dei pregiudizi nei confronti della cosiddetta gente. Insomma secondo costoro la letteratura deve essere difficile, non alla portata di tutti. Un tempo il preside della facoltà di ingegneria di Pisa,  Piero Villaggio, amava dire "ingegneria deve essere difficile" agli studenti che si lamentavano della severità dei docenti. Ogni ingegnere ha delle responsabilità civili, sociali, etiche, umane. Deve saper fare bene i calcoli per non far crollare i ponti o se è un ingegnere gestionale deve saper fare i conti per non far fallire un'impresa. Ma un letterato ha soprattutto il dovere di farsi capire ai più. Così scriveva Claudio Chieffo: "Dicevano gli antichi che non c'è nulla di peggio di un popolo che dimentica i suoi poeti; e invece c'è di peggio: un poeta che dimentica il suo popolo". In un certo qual modo diversi letterati complicano le cose; sono esoterici, nel senso più deteriore del termine. Ma a questo proposito secondo una scuola di pensiero nessun uomo è depositario di grandi verità. Le cose della vita sono sempre quelle trite e ritrite. I letterati sono uomini come gli altri. Invece secondo un'altra scuola di pensiero non si può spolpare la letteratura perché poi alla fine ci resta un torsolo di mela. Secondo questi pensatori aveva ragione Cioran quando scriveva che se togliessimo il belletto alla letteratura non resterebbe niente. La domanda da un milione di dollari è la seguente: si può rappresentare la vita anche in modo comprensibile ai più oppure bisogna riprodurla fedelmente nella sua complessità? E ancora i letterati devono abbassarsi al livello del pubblico o devono cercare di elevarlo? Meglio arrivare a tutti o invece essere per pochi eletti? Nel frattempo la poesia è di nicchia. Di solito le espressioni  "nicchia di mercato" o "mercato di nicchia" possono avere anche molti risvolti positivi. Si sente dire che nel mondo economico c'è parecchia crisi, ma tizio e caio hanno trovato una bella nicchia di mercato e si sono arricchiti. Non fatevi illusioni: la poesia è una nicchia di mercato che non vende, non arricchisce, se non interiormente. Eppure le facoltà umanistiche sono sovraffollate. Mai tarpare le ali. Mai uccidere i sogni. Ci penserà poi la realtà a disilludere, a deludere, a disincantare. Un altro problema è che oggi tutti sono poeti tranne i poeti. Sono poeti i cuochi, i cantanti, gli influencer, i lestofanti, i piacioni, gli addetti alle pubbliche relazioni, i latin lover e gli arrivisti vari. La poesia sembra essere di tutti, tranne che dei poeti. E i veri poeti? Non pervenuti. Lasciano poche tracce di sé. Disseminano i loro versi in angoli remoti del web. Pubblicano libricini che vendono poco o addirittura pochissimo. La poesia d'altronde è di tutti o di nessuno. Parafrasando un celebre detto, la poesia è quella cosa che tutti pensano di sapere che cosa sia. In tutta onestà penso che valga la regola opposta e inversa: nessuno può sapere con certezza che cosa sia la poesia. Quindi, concludendo, è vero: il poeta sei tu che leggi, a patto che tu legga e legga roba buona.

Breve considerazione su Ungaretti...

giu 172022

 

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Ungaretti dovrebbe essere un modello per i poeti contemporanei spesso illeggibili perché incomprensibili. Ognuno, dopo aver finito di scrivere una raccolta poetica, dovrebbe rileggere "Allegria", che si caratterizza per i versicoli immediati. Dovrebbe essere la prova del nove per tutti i poeti. Allo stesso modo ogni romanziere dovrebbe, dopo ogni sua fatica letteraria, rileggere "Se questo è un uomo" e "Una giornata di Ivan Denisovič" perché questi due capolavori riescono a coniugare anche essi sostanzialità e testimonianza. Poi magari ogni scrittore potrebbe decidere se pubblicare o rivedere di nuovo il lavoro. Ma ritorniamo a Ungaretti. Sono talmente dirette e spontanee le sue liriche, che riescono a spiazzare e a colpire favorevolmente anche i lettori più snob, abituati alla poesia del Novecento che si distingue per essere così intellettuale! Ungaretti è agli antipodi di poeti così ricercati come Eliot e Pound. Riesce a semplificare il linguaggio e a essere scarno ed essenziale. Nei suoi versi troviamo tutta la sua vita di esule che si forma culturalmente a Parigi (conoscendo Apollinaire e Picasso) e che combatte sul Carso. Queste sue poesie sono testimonianza ineguagliabile della guerra. Sono prive delle descrizioni e dell'eloquenza della lirica di quegli anni. Non vi sono leziosismi. Sono frutto di un'ispirazione, che trascende la metrica, la retorica e l'estetica. Non vi venga in mente che le sue poesie scaturissero solo da intuizioni, seppure formidabili. C'era del lavoro alle spalle. Erano state molte le varianti e le revisioni prima delle versioni definitive. A onor del vero bisogna anche ricordare che il poeta distrusse le tradizionali forme poetiche nelle prime liriche, ma successivamente dimostrò di saper utilizzare anche versi canonici come novenari ed endecasillabi. Forse oseremmo troppo a scrivere che fu una sorta di cubista della poesia nella sua prima fase. Come ebbe a scrivere Ungaretti per essere poeti è necessaria non solo la pazienza, la conoscenza della tradizione, l'intelletto. Bisogna anche saper fare i conti con il mistero che alberga in ogni animo: soltanto così una poesia può diventare unica come la sua. Ungaretti, quando scrisse i suoi primi innovativi versicoli, aveva appreso la lezione dei simbolisti francesi. Ma Ungaretti era completamente originale. Aveva subito saputo distinguersi dai suoi illustri predecessori. Era un predestinato della poesia. Lo stesso Thomas Merton scrisse che Ungaretti era sconvolgente e che la sua intensità annientava. Alcuni suoi versi rimarranno per sempre nella memoria di molti: "m'illumino d'immenso", "è il mio cuore il paese più straziato", "si sta/come d'autunno/ sugli alberi/ le foglie", "Di che reggimento siete/ fratelli?", "Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita", "tra un fiore colto e l'altro donato/ l'inesprimibile nulla". Queste illuminazioni esprimono in modo impareggiabile la precarietà e la fragilità proprie di chi combatte in una guerra assurda. Ungaretti aveva combattuto la grande guerra e per capire quanto fu devastante la prima guerra mondiale non bisogna andare molto lontano: basta andare a visitare Asiago, che fu completamente rasa al suolo in quegli anni. Ungaretti viaggiò molto. Visse molto. Soffrì molto. Non soltanto per l'esperienza della guerra ma anche per la morte del figlioletto di nove anni a cui dedicò la raccolta "Giorno per giorno". Il poeta si chiedeva come era possibile continuare a vivere e a fare le cose di ogni giorno quando non poteva più vedere il suo bambino, la cui voce non avrebbe udito più. Scrisse Ungaretti: "E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!...". Nella sua vita il poeta sperimentò i dolori più terribili: gli orrori della guerra e la scomparsa del figlioletto. Ma Ungaretti riuscì a non lasciarsi mai sopraffare dalle avversità e dai tristi eventi. Riuscì sempre a superare questi periodi di crisi, testimoniando con i suoi versi le tragedie vissute. La follia della guerra riuscì a vincerla confidando nell'uomo: credendo nella fraternità. Il dolore atroce per la perdita del figlio lo sconfisse non solo con la terapia della scrittura ma anche con la religiosità. Non auguro a nessuno di provare i dolori di Ungaretti. Dovrebbe però essere preso di esempio per la sua semplicità, che è mai scontata e non scade mai in banalità. Il Nostro scrisse in modo apparentemente semplice ed è comprensibile a tutti. Ma non lasciatevi ingannare. Ungaretti era anche un profondo conoscitore della lingua e della poesia. C'è chi potrebbe pensare che molti sarebbero in grado di scrivere come Ungaretti ma è un giudizio affrettato dovuto a pura superficialità e faciloneria: pensarla così è pura ingratitudine nei confronti di uno dei più grandi poeti del Novecento. Comunque Ungaretti fu il primo a scrivere in quel modo così breve e coinciso. Nel peggiore dei casi gli vanno riconosciute in tutta onestà sia la bravura che la grande originalità.

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