Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

"Il giorno della civetta" di Sciascia...

mag 112025

“Il giorno della civetta” venne pubblicato nel 1961 e divenne un bestseller, in un'epoca in cui non era ancora avvenuto lo scadimento generale odierno (basta confrontare la classifica dei libri più venduti di alcuni decenni fa con quella di oggi). Venne fatto anche un film da Damiani. La critica vide in questo romanzo breve un “giallo problematico”, innanzitutto perché lo svolgimento, l'iter narrativo non era quello canonico. Il giallo più problematico, almeno in Italia, come rileva Walter Pedullà, è Quer pasticciaccio di Gadda, che è incompiuto e di cui non si sa mai il colpevole. In Gadda vince lo gnommero; la realtà è incomprensibile e inafferrabile, insomma inattingibile. In questo romanzo di Sciascia invece la questione di fondo non è la verità in sé e per sé, ma quella di scrivere la verità per testimoniare, denunciare socialmente, far prendere coscienza. Lo scrittore con quest'opera aprì definitivamente gli occhi all'Italia intera e non solo sulla mafia. Però sorge un altro problema ulteriore, ovvero come dire e scrivere la verità se non c'è giustizia. Nei libri di Sciascia i colpevoli li sappiamo, ma non vengono puniti. La questione di fondo riguarda quindi il rapporto tra verità terrena, fattuale e giustizia terrena. La grande novità dello scrittore di Racalmuto è quello di aver rappresentato la mafia così com'era. Nel romanzo dominano l'omertà (si vedano le pagine iniziali quando dopo l'omicidio tutti scompaiono dall'autobus) e la collusione politica con la mafia (l'onorevole corrotto). Il capitano Bellodi, il protagonista, è un eroe che lotta in trincea contro la mafia, ma è tutto inutile. Più in generale la mafia costringe al silenzio i testimoni, elimina le prove, trova alibi di ferro, delegittima i giusti, corrompe tutto e tutti e l'eroismo quotidiano di chi cerca verità e giustizia viene riconosciuto solo quando un giudice, un sindacalista, un giornalista viene ucciso (si pensi ad esempio a Falcone e Borsellino). Certamente il protagonista, il capitano dei carabinieri Bellodi, non viene ucciso e resta lì in trincea a rompersi il capo con il problema insolubile della mafia, tra chi lo ostacola e chi è diffidente nei suoi confronti, sia perché è uno sbirro, sia perché è un “continentale”. Sciascia non poteva fare i nomi. Allora ecco un altro rapporto problematico: quello tra verità e finzione. Lo scrittore prende come spunto l'omicidio del sindacalista Accursio Miraglia, ma impasta realtà e immaginario, non si limita alla sola cronaca o al solo documentarismo. Se per scrivere romanzi ha bisogno del fondamento etico e politico di Gramsci e Gobetti, dal punto di vista narrativo e gnoseologico ha bisogno di rifarsi a Borges (si veda le Cronachette), a Pirandello (si veda la raccolta di saggi “Pirandello e la Sicilia"). In Sciascia la Sicilia è un enigma, ma la sua terra diventa un microcosmo, che rappresenta il mondo intero. In fondo “Il giorno della civetta” non è solo un romanzo su un delitto di mafia, ma un romanzo che indaga sull'anatomia e sull'essenza del Potere tout court. La mafia storicamente nasce con il latifondismo. Alcuni marxisti vedono in essa solo un epifenomeno del capitalismo. Ma la mafia è stata solo una forma arcaica di potere, basata sulla violenza fisica, che però oggi è diventata imprenditoriale: la criminalità organizzata ha messo i suoi tentacoli ovunque oggi. Sciascia tratta il potere onnipervasivo in Sicilia della mafia in quegli anni, ma finisce per trattare tutto il potere. Il Potere non commette forse abusi come la mafia? Il potere non occulta forse le prove delle sue malefatte? Il potere non cerca di emarginare chi cerca verità e giustizia? Sciascia parte quindi dal particolare, dal contingente mafioso per approdare all'universale. In questo senso questo romanzo non rappresenta solo come eravamo, ma è attuale ancora oggi. Come scrive la professoressa Barbara Biscotti la mafia non è solo un metodo criminale ma un concetto prototipico, comprendente un'ampia gamma di comportamenti e Sciascia rappresenta proprio questo. Certamente qualcosa Sciascia non descrive: descrive il rapporto tra cittadini comuni e mafiosi, tra mafia e giustizia, tra mafia e politica, ma non descrive il rapporto dei mafiosi con il denaro, la loro smania di roba verghiana, il fascino perverso che esercitano i cosiddetti uomini di onore sul popolo, la mafia come modo sbrigativo di riparare i cosiddetti torti. Sciascia qui rappresenta il potere mafioso e quello politico, molto meno quello economico, ma era già moltissimo all'epoca. Per quanto riguarda l'economia ci penserà anni dopo Pino Arlacchi a fare i conti alla mafia. Ma parlare e scrivere di mafia è difficilissimo. Si pensi solo al fatto che la bildung mafiosa sarà rappresentata solo con la sceneggiatura del film, dedicato al martire Peppino Impastato, “I cento passi”. Alcuni hanno visto nei romanzi di Sciascia il fatalismo perché giustizia non viene fatta. In realtà lo scrittore fa il punto della situazione: esprime e rappresenta la condizione storica, politica, processuale di quegli anni e il conseguente sentimento di rassegnazione quasi totale dei siciliani nei confronti del fenomeno mafioso. Sciascia non era assolutamente fatalista e lo dimostra questo suo romanzo, che mette in scena tutte le dinamiche psicosociali della mafia e le possibili giustificazioni culturali e politiche (i comunisti che sono in errore, la suddivisione dei mafiosi in uomini veri, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà, il prefetto Mori che aveva metodi fascisti). In realtà il fatalismo del popolo rappresentato da Sciascia era storicamente giustificato: le innumerevoli dominazioni straniere, i Borboni, la strage di Portella della Ginestra, il prefetto Mori che venne destinato ad altro incarico quando volle iniziare a indagare sul rapporto tra mafia e banche, gli intellettuali e i politici che sostenevano che la mafia non esistesse, i magistrati che si imbattevano costantemente in un muro di gomma. Il fatalismo dei siciliani all'epoca era una reazione logica e umana al gattopardismo, all'immobilismo, storicamente, culturalmente, politicamente esistenti e fondanti. Inoltre i politici erano collusi con la mafia, miopi oppure onesti e capaci, ma parlavano il politichese delle “convergenze parallele”. Sciascia con “L'affaire Moro” descriverà l'ipocrisia, la falsità di uno Stato che non deve trattare con i terroristi rossi per non compromettersi moralmente, per non cedere al ricatto, quando invece intratteneva rapporti con la peggiore massoneria, con la criminalità organizzata, con gli stragisti: la realtà era che il compromesso storico non lo volevano ai piani alti, non lo volevano i poteri forti e le superpotenze (tra l'altro allo scrittore verrà erroneamente attribuita l'espressione “né con lo Stato, né con le Br”). La verità fino a questo romanzo era a doppio fondo: Sciascia descrive la verità di comodo, di facciata, e quella vera. Questo romanzo è quindi un capolavoro non solo letterario ma per quel che riguarda l'azione di disvelamento. Questo è un grande libro che grazie alla sua linearità fa chiarezza, illumina. Solo tramite questi libri si possono risvegliare coscienze assopite e addomesticate. Inoltre Sciascia non scrive una concione e condensa tutta la realtà criminale in un romanzo breve. Lo scrittore in poco più di 100 pagine riesce a fare un grande lavoro di analisi e sintesi sulla mafia. Sciascia ha i grandi meriti di aver capito che la linea della palma stava salendo irreversibilmente e che la mafia un tempo era un animale notturno che agiva nell'oscurità, in segreto, mentre già a quell'epoca il suo potere era aumentato notevolmente e poteva comparire indisturbata, come la civetta che compare di giorno (da qui l'esergo shakespeariano). 

 

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