Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Comunità poetica e dinamiche psicologiche in parole povere...

mar 262024

 

 

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Conoscendo almeno virtualmente la comunità poetica da anni, mi viene naturale talvolta analizzare le dinamiche psicologiche di essa, spesso soggiacenti. La prima cosa che mi salta subito all'occhio non è il cosiddetto amichettismo (termine coniato dallo scrittore Fulvio Abbate), ma la ricerca spasmodica ossessiva di consenso critico e legittimazione culturale. L'amichettismo, se esiste, è strumentale, è finalizzato a ottenere la gloria. Che vengano ottenuti o meno dei risultati, i poeti (veri, aspiranti, sedicenti) ricercano un maestro e/o dei sodalizi artistici. Intendiamoci bene: c'è chi si atteggia a maestro senza esserlo e c'è chi si finge sodale senza esserlo! Tutto ciò ha sempre dei secondi fini, sono frequentazioni “interessate”: un do ut des, perché nessuno fa niente per niente. Poi per dirla alla Montale “ognuno riconosce i suoi”: questo l'hanno già detto e scritto tanti a riguardo. C'è chi parla di cricche, chi addirittura di clan, di gruppi di potere. A volte penso che per comprendere adeguatamente i poeti e la comunità poetica sia necessario ricorrere ai principi basilari della psicologia dinamica, sociale e addirittura clinica, perché c'è una quota parte ineludibile di psicopatologia. A questo proposito apro una parentesi sulla scrittura del trauma sempre più diffusa. Va bene l'arteterapia, ma i traumi si superano sotto la guida di esperti della psiche e con gli psicofarmaci. Alcuni si affidano unicamente alla scrittura e talvolta fanno naufragio. Poi se tutto è trauma, niente è trauma e sappiamo dalla psicologia quali sono veramente i traumi. Inoltre sappiamo che l'incidenza nella popolazione del disturbo post-traumatico da stress è del 7,5%. Che moltissime persone, facenti parte di questa piccola percentuale, scrivano poesia oppure è anche una moda, addirittura una posa quella del trauma, pur essendoci grandi poeti e grandi poetesse, che ne hanno fatto il loro tema principale? Insomma tutta la poesia è dolore e trauma? Non ci si può esentare da ciò? Chiusa parentesi. A ogni modo chi ha vero potere editoriale è amato/invidiato/odiato senza mezze misure. Ma poi è vero potere quello poetico? O è solo un contentino, un palliativo, una valvola di sfogo, una piccola concessione che il vero potere dà ad alcuni individui? C’è chi è dentro e chi è fuori. Chi è dentro guarda con aria di superiorità e con paternalismo chi è fuori. Chi è out a volta sfoga la rabbia in velenosi post su blog, siti, riviste online. C’è chi aspira, più o meno legittimamente, e non trovando riconoscimento diventa frustrato/depresso e talvolta ciò si tramuta in smania di grandezza, in un ingigantimento smisurato dell'ego, dovuto a una ferita narcisistica non rimarginabile. Ma non esiste comunque una linea di demarcazione netta, un limite invalicabile tra chi è in e chi è out: sono dei vasi comunicanti, ci sono delle cooptazioni, delle inclusioni, tenendo ben presente le dinamiche di gruppo (dell'ingroup e dell'outgroup in questi casi). Diciamo che il potere poetico e il contropotere si studiano vicendevolmente. Io, essendo ormai un misero recensore, sto tra l'incudine e il martello, possibile vittima dei due fuochi. Ma tra gruppi poetici di solito nessuno pesta i piedi a nessuno, le critiche alle altre scuole di pensiero sono sempre circostanziate ma vaghe, generiche: di solito nessuno fa nomi e cognomi, gli attacchi ad personam vengono evitati per quieto vivere. Scusate la citazione scontata, abusata, ma “la poesia non cerca seguaci, cerca amanti”, come scriveva Lorca. Solo che talvolta certe logiche di potere fanno passare la voglia di amare la poesia e i poeti. Ad esempio ogni volta che viene fatta un'antologia di poesia pregevole alcuni esclusi fanno delle critiche al vetriolo. Ma come sottolinea il poeta Andrea Temporelli le logiche di potere sono le stesse identiche per tutti: gli esclusi si comporterebbero allo stesso modo, se avessero potere. I contestatori non sognano altro di essere riconosciuti. Non chiedono altro! E intanto stringono alleanze per arrivare al cosiddetto potere, aspettando che muoiano tutti i grandi vecchi. Se un difetto, un limite intrinseco si può trovare ai grandi critici e ai grandi poeti, è quello di passare spesso dalla selettività giusta e sacrosanta all'essere snob ed esclusivi fuori di maniera. E questo snobismo viene ricambiato dagli appassionati di poesia, dagli aspiranti poeti, che non comprano i loro libri, non vanno alle loro presentazioni e conferenze, etc etc. Insomma snobbami che ti risnobbo! Finisce così che i grandi poeti hanno poco seguito e predicano quasi nel deserto, mentre i poeti non riconosciuti cercano consenso nella loro bolla social. Tutto questo è asfittico, claustrofobico e ognuno se le dice e se le canta da solo. Per pura consolazione allora c'è chi ripete “meglio pochi ma buoni” oppure “la poesia non può che essere di nicchia”. In un gioco di snobismi reciproci, di piccoli favori, di attese vane, di idiosincrasie, di dispetti e ripicche, di invidie vivacchia la poesia italiana, in attesa della catastrofe o di una rinascita.

Sull'io e sulla poesia di ricerca...

set 202023

 

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Per secoli e secoli i poeti seguivano gli stessi canoni estetici. Rispettavano le regole della metrica. Scrivevano endecasillabi canonici. Talvolta li alternavano con dei settenari. Da Lucini in poi ci fu la diffusione del verso libero. Oggi la stragrande maggioranza dei poeti scrive in versi liberi, va a capo quando vuole. Nel Novecento abbiamo visto molte rivoluzioni copernicane nell'ambito della lirica. Hanno creato nonsense, calligrammi, montaggi. È comparsa anche la poesia concreta (a sua volta suddivisibile in poesia visiva e poesia sonora). Poi nell'epoca del postmoderno hanno pensato anche a delle sperimentazioni multimediali come la poesia elettronica (videopoesia e computer poetry). Da un lato, qui in Toscana, sembrava esserci la riscoperta dell'oralità con l'organizzazione di serate di poesia estemporanea, dove i poeti improvvisavano in ottava rima. Si sono diffusi, in tutta la penisola, anche gli slam poetry, importati in Italia dal poeta Lello Voce. Dall'altro lato sembrava che il virtuale avesse preso il sopravvento sui media tradizionali. Negli ultimi tempi sembra che sia sempre più difficile incasellare la poesia in una definizione, visto e considerato che ogni decennio nasce una nuova forma di poesia. 

I poeti di ricerca sperimentano. Uno dei padri nobili di questa sperimentazione fu Burroughs con il cut-up, che consisteva nel tagliare parole dai quotidiani, mischiare e creare poesie. Oggi i poeti di ricerca utilizzano l'eavesdropping, cioè l'intercettazione di una frase di una conversazione origliata. In questo caso non c'è alcuna autorità autoriale. I poeti di ricerca italiani si rifanno spesso al Flarf, movimento di avanguardia, creato da Gary Sullivan. Quest'ultimo utilizzava Google per scrivere poesie, assemblava i materiali verbali più eterogenei e definiva infatti il Flarf "un PC fuori controllo". Anche i poeti di ricerca nostrani si dilettano nel googlism, cioè nel comporre poesie, assemblando i risultati su un determinato argomento, chiedendo quindi a Google. In questo caso utilizzano l'intelligenza collettiva del web. Ricordo che il primo ad utilizzare il computer, un IBM della Cariplo, fu Nanni Balestrini nel 1962. Il poeta ideò un algoritmo e il computer generò una poesia, che sembra scritta da un poeta umano[1]. I poeti di ricerca si cimentano anche nel New Sentence, ovvero in frasi "paradossali", spesso pseudoaforismi, pseudosentenze. All'estero alcuni autori creano poesie con i messaggi spam di posta elettronica. Sempre all'estero è diffuso il "found poem", che nasce prelevando materiali da varie fonti (discorsi di politici, frasi di film, discorsi di star, eccetera eccetera), talvolta elaborandoli e altre volte no, e mischiandoli assieme. Esistono anche la micropoesia, ovvero un tipo di poesia brevissima al massimo di 140 parole, come i cinguettii su Twitter, e la poesia captcha, in cui estrapolano il testo scaturito dall'omonimo software. Recentemente in Italia il fotografo Silvio Belloni ha ideato la poesia dorsale, che consiste nel creare liriche, connettendo i titoli dei libri. Però la poesia dorsale, per ora, è praticata a livello, diciamo così, dilettantesco. Qualcuno ha sollevato dei dubbi sulla correttezza di questi metodi. Si tratterebbe di parole prese in prestito. D'altronde non esistono regole ferree nella "Fantastica" della poesia: è ammessa qualsiasi tecnica in quella che Rodari chiamava "Grammatica della fantasia". 

Il gruppo 63 voleva ridurre l'io, ma non eliminarlo perché è impossibile. Alfredo Giuliani scriveva nel 1961, introducendo l’antologia de Novissimi, che “La ‘riduzione dell’io’ è la mia ultima possibilità storica di esprimermi soggettivamente“. I motivi di questa riduzioni erano plausibili. Infatti Giuliani continuava così: "Io credo si debba interpretare la ‘novità’ anzitutto come un risoluto allontanamento da quei modi alquanto frusti e spesso gravati di pedagogia i quali perpetuano il cosiddetto Novecento mentre ritengono di rovesciarlo con la meccanica dei ‘contenuti’. Ciò che molta poesia di questi anni ha finito col proporci non è altro che una forma di neo-crepuscolarismo, una ricaduta nella ‘realtà matrigna’ cui si tenta di sfuggire mediante schemi di un razionalismo parenetico e velleitario, con la sociologia, magari col carduccianesimo". I futuristi volevano eliminare l'io lirico[2], usando i verbi all'infinito. La poesia di ricerca[3] vorrebbe escludere l'io lirico. Alcuni autori si lasciano scappare la frase "va eliminato l'io". Siamo sicuri che si tratti solo dell'io lirico? Nutro dei seri dubbi e in questo mio scritto esporrò tutte le mie perplessità. Mi auguro di sbagliarmi. Voglio spiegare i potenziali danni di una eliminazione non solo dell'io lirico ma dell'io freudiano: questo è il grande rischio. Forse alcuni rimarranno delusi per il razionalismo e le verità "lapalissiane" di questo scritto. Mi scuso quindi per le volgarizzazioni e le semplificazioni. D'altronde non sono un addetto ai lavori. La premessa implicita di questo saggio breve è che a mio avviso i poeti di ricerca potrebbero fare meglio, vista e considerata la loro levatura intellettuale e la loro ricchezza di contenuti. In queste righe cercherò di valutare le loro dichiarazioni di intenti e alcuni aspetti della loro poetica. Forse per alcuni filosofeggerò troppo, ma la poesia contemporanea è caratterizzata dall'estrema concettualizzazione. Sicuramente va preso atto che questi autori hanno trovato un nuovo modo di fare poesia. Ma andiamo al nocciolo della questione. Franco Fortini in "Verifica dei poteri" parlava di "mare dell'oggettività" per Calvino e di "cosismo" per Vittorini. Gli stessi termini, a mio avviso, si potrebbero adoprare per la poesia di ricerca, che riduce ai minimi termini la soggettività autoriale. L'io però è una metafora, alla fine: è un contenitore che contiene molte voci. Anche questo bisogna tenerlo presente. La poesia italiana degli ultimi secoli, secondo Guido Mazzoni[4], è figlia dell'egocentrismo, a causa dell'individualismo borghese. Insomma c'è troppo io. Non discuto dell'autorevolezza e della grande competenza del Mazzoni, ma non fidiamoci troppo però di chi usa pronomi diversi dall'io in poesia. Gli altri, il mondo possono essere frutto delle capacità allucinatorie, anche se l'autore può sembrare di primo acchito aperto al mondo. Oppure la narrazione degli altri può essere influenzata in modo determinante da proiezioni ed essere quindi un meccanismo di difesa di un io in crisi. 

Per Marx l'io è determinato dalla formazione economico-sociale, ovvero dalle relazioni sociali, dalla struttura economica, dalla sovrastruttura ideologica. Per Freud l'io ha la centralità nell'adulto, anche se "non è padrone a casa propria" perché subisce l'influsso dell'inconscio e del Super-Ego: è tra l'incudine e il martello. Esiste anche la psicologia dell'io, che è una branca della psicanalisi. Più recentemente è nata anche la psicologia del Sé[5]. Non cito le moderne neuroscienze perché come scrisse Maurice Merleau-Ponty: "L'intero mondo della scienza è costruito sulla vita, eppure la scienza non è stata per nulla capace di illuminare la natura dell'esperienza soggettiva"[6]. 

La poesia di ricerca addirittura tenta con l'asemico[7] di azzerare il significato e di estendere paradossalmente il polisemico. Diciamo che la scrittura asemica è Test di Rorschach per antonomasia. Regna l'inconscio. La coscienza, l'io viene relegato ai margini. Un'altra caratteristica della poesia di ricerca è quella di considerare impoetica l'assertività. Ma ciò non è forse anche esso assertivo? I poeti di ricerca - mi si scusi il gioco di parole - sostengono di non essere assertivi, ma affermando ciò lo sono: si verifica quindi il paradosso del mentitore. Diciamo, più seriamente, che non saranno assertivi nelle loro poesie, ma lo sono troppo nella loro poetica. Inoltre mi sembra che un'altra caratteristica di questo genere di poesia sia la ricerca di provocare lo shock, lo straniamento nel lettore. A mio modesto avviso il pregio della poesia di ricerca è quello di essere un fattore di rottura rispetto alla tradizione, ma non si può imporre come paradigma dominante. Un altro pregio è quello di aver gettato un poco di scompiglio nel panorama asfittico della poesia italiana. Un altro pregio ancora di questi autori è il gusto del divertissement. Mi auguro quindi che non si prendano troppo sul serio e non finiscano nell'accademismo. Il problema è che resta poco, quando prevale il gioco combinatorio dell'autore e scompare l'autore: resta solo l'arte combinatoria e forse è ben poco per rinnovare la poesia contemporanea. 

Apro una parentesi. A Firenze nel 2010 è nata una nuova comunità artistica o aspirante tale: il mep (movimento di emancipazione della poesia). Hanno un loro sito internet e una loro pagina facebook. Fanno volantinaggio. Affiggono le loro poesie sui muri dei vicoli dei centri storici di diverse città. Il mep non sporca i monumenti e gli edifici storici. Per il resto lascia le poesie nei posti più disparati: sui cofani delle macchine, nelle biblioteche, nei bar. Nessuno si firma. Tutti utilizzano un codice sia perché vogliono una poesia spersonalizzata sia perché le affissioni sono abusive. Perciò l'anonimato è un obbligo. Il movimento è formato da universitari, ma non mancano gli studenti delle scuole medie superiori e giovani post-universitari. È nato a Firenze, ma si sta diffondendo in molte città italiane. Staremo a vedere in futuro come si evolverà questo movimento. I giovani del mep non si firmano. In questo caso viene eliminato l'io empirico. Sono anche loro i poeti-massa di cui scrive Ennio Abate. 

Torniamo ai poeti di ricerca, che non si contano certo sulle dita di una mano. In questa definizione possono essere compresi tutti coloro che fanno poesia sperimentale. Sono il contropotere rispetto agli autori Einaudi o Mondadori, ma non è detto che domani siano loro il potere. Sono quindi molti di più di quelli che sono stati canonizzati, ovvero antologizzati dai critici. I migliori in Italia sono quelli antologizzati dal volume "Prosa in prosa", che è un libro divertente, ironico, autoironico, spassoso, caratterizzato da un notevole spessore culturale. Consiglio a tutti di acquistarlo per farsene una idea. Il merito maggiore di questi autori è di aver trasceso lo storytelling così in voga in Italia, come ha evidenziato Paolo Giovannetti[8]. Ma cosa è "la prosa in prosa"? Potremmo, semplificando un poco, definirla come una scrittura che non va a capo e che viene percepita lo stesso da gran parte dei critici e dei lettori come poesia. Tra questi artisti sperimentali ci sono sicuramente delle eccellenze, ma qui vorrei trattare delle loro premesse teoriche. Non voglio lodare nessuno (è innegabile comunque che la qualità letteraria di questa corrente è molto elevata, anche se talvolta di nicchia. I capiscuola di questa corrente sono talentuosi e scrivono magistralmente. Entreranno a pieno diritto nella storia della letteratura) e neanche stroncare nessuno; non ne avrei l'autorità. Vorrei ad ogni modo disquisire sui presupposti teorici senza fare un processo alle intenzioni. D’altronde riflettere su di essi è legittimo, perché nell’arte bisogna sempre valutare la poetica, anche se è la gestalt finale che conta. Vorrei quindi analizzare concettualmente questo tipo di poesia.

A mio avviso i poeti in questione hanno almeno tre cose in comune: il voler sminuire l’io, l’essere raffinati letterati e il raro pregio di essere intellettuali non cortigiani, ma spesso militanti. Direi che questi nuovi poeti cercano un rimodernamento in seno alla “tradizione del nuovo”. Per alcuni la maggior parte della poesia italiana di questi anni è caratterizzata dall'”epigonismo lirico”, ma anche tra i poeti di ricerca e la neoavanguardia c'è una parentela. Anche per il gruppo 63 si parlò di neooggettualismo, ma questo gruppo considerò anche l’arte come “fabbrica di antislogan” e demifistificò la civiltà consumistica, ritenuta alienante e mercificante. Non solo: la Neoavanguardia rifletteva la crisi della società neocapitalista e la crisi dell’uomo moderno. Tutto ciò allora era innovativo. Una cosa che non mi convince nella poesia di ricerca è la considerazione negativa della poesia lirica, in quanto espressione dell’io. A mio avviso la poesia lirica è anche ricerca di corrispondenze, uso di figure retoriche, ritmo e immagini. È possibile che i poeti di ricerca vogliano delegittimare le impressioni, le sensazioni e i sentimenti? Uno scrive poesie per cercare un poco di libertà e invece a conti fatti non ha nemmeno più la libertà di scrivere il pronome “io”! Personalmente trovo del tutto legittima la poesia come espressione dell’io: anche quella più incentrata tutta sulla capacità introspettiva, a costo che non sia troppo egocentrica e troppo prigioniera dell'io. La lirica può essere considerata conoscenza anche per la descrizione degli stati interiori dell’individuo. La poesia lirica può avere come limite quello di riguardare una dimensione privata e risentire troppo della personalità dell’autore. È ovvio che bisogna guardarsi bene dagli eccessi del lirismo, come il narcisismo e il compiacimento. Su questo hanno ragione i poeti di ricerca, che sono salutari quando contrastano l'ipertrofia dell'io di diversi poeti lirici. Però, secondo il più recente approccio post-razionalista, ogni individuo, tramite la propria esperienza, cerca di dare un senso al mondo. Nessun autore può giungere a una rappresentazione oggettiva perché nessuno è privo di condizionamenti e pregiudizi. L'oggettività è sempre pretesa. Ogni poeta ha un suo sguardo sul mondo e come sostiene Vittorio Sgarbi “la bellezza è oggettiva. La visione è soggettiva”[9]. Il rispecchiamento fedele e imparziale non esiste. Direi che nella poesia lirica prevale l'io, invece nella poesia di ricerca gli oggetti e l'inconscio. E del noi chi se ne occupa? 

C’è chi rispetto alla poesia di ricerca ha parlato di “annichilimento dell’io”. Forse è per raggiungere l'oggettività? Mi sembra quasi che questi nuovi poeti vogliano riprendere l’impersonalità del naturalismo francese e del verismo di Verga. Oggettivare il mondo è solo un’espressione. Si può anche dire “oggettivare uno stato d’animo”, che significa solo esprimere uno stato di coscienza. La realtà è la nostra costruzione logica e non solo: dipende anche da fattori psichici ed esistenziali. Per gli esistenzialisti ognuno ha la sua intuizione del mondo.

Ho l’impressione che i poeti di ricerca non stimino coloro che vengono definiti poeti lirici. Eppure qualsiasi tipo di poesia è una interazione tra io e mondo. Bisogna ricordarsi a tale proposito del criticismo kantiano (si pensi allo schematismo trascendentale) e di Schopenhauer, secondo cui il mondo è sempre una rappresentazione del soggetto e quindi della coscienza. Per Schopenhauer tutto quello che conosciamo si trova nella coscienza. Qui non si tratta di ritornare a essere platonici o idealisti in senso assoluto. Il soggetto non può determinare tutta la realtà. Non si tratta neanche di subordinare l’oggetto al soggetto o viceversa. Si tratta invece di considerare la continua correlazione tra soggetto e oggetto. L’oggettività in poesia è solo supposta. Possono certamente criticare l’introspezione e la ricerca di interiorità perché possono ritenere che uno in questo modo guardi il proprio ombelico. Però il mondo è una nostra percezione. Niente altro. Un tempo si diceva che l’idealista pensa e il realista conosce. Oggi invece in ambito scientifico si sta sempre più affermando il costruttivismo[10]. Non si può essere realisti a tal punto da mettere tra parentesi l’io. Il mondo là fuori non ci viene dato in base alle proprietà intrinseche dei fenomeni. Noi conosciamo le cose sia perché abbiamo una coscienza, sia perché esse sono intellegibili.

Potremmo affermare filosoficamente che la ricerca della verità umana è basata sulla compartecipazione di soggetto e oggetto. In psicologia si usano altri termini e si dice che esiste una interdipendenza tra osservatore e realtà osservata. Il concetto comunque è lo stesso. Naturalmente bisogna considerare che l’osservatore modifica sempre ciò che osserva e che l’osservatore fa a sua volta parte di quel che osserva. La poesia di ricerca quindi, al di là del talento dei suoi rappresentanti, mi sembra fondata su presupposti e su premesse errate. La realtà sensibile non può essere una cosa a sé stante. La coscienza è un flusso continuo, una continua interconnessione tra soggetto e realtà. Non si può fare a meno dell'io nella poesia.

La poesia, anche oggi, può essere sperimentale, può cercare di rinnovare il linguaggio come le avanguardie; può essere satirica, didascalica, religiosa (come fu quella di Turoldo, Rebora), aforistica, spirituale; può essere poesia sociale, può descrivere epifanie, può ricercare “corrispondenze”, può esprimere un sentimento amoroso; un poeta può scrivere anche metapoesia. In caso di metapoesia o poesia didascalica non mi sembra che un poeta esprima solo sentimento, come si intende per la poesia lirica. Trovo in molti giovani poeti la ricerca di originalità a tutti i costi. Spesso l’innovazione è cercata utilizzando l’inconscio o una cosiddetta poesia degli oggetti. Per la Neoavanguardia bisognava compiere “una riduzione dell’io”. Molti allora pensarono che essere “oggettuali” significasse essere oggettivi. A mio avviso c’è il rischio di fare una elencazione di oggetti più che scrivere una poesia. Non si può far parlare solo l’inconscio che si relaziona agli oggetti. Anche in Sanguineti l’io è presente. Il professor Romano Luperini in “Il Novecento (apparati ideologici ceto intellettuale sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea)” riguardo a Sanguineti parla di “autocommiserazione ironico-patetica” (pagina 838). Nemmeno Sanguineti è riuscito a “destituire l’io”. A mio modesto avviso sarebbe meglio se molti cercassero un equilibrio tra conscio e inconscio, tra io e oggetti. Infine manca forse qualcosa alla poesia di questi ultimi anni: il Noi, gli altri soggetti, gli altri insomma a cui relazionarsi. Manca anche la capacità di vivere la poesia in modo totalizzante, come fecero Adriano Spatola e Giulia Niccolai negli anni Settanta al mulino di Bazzano, fondando "la Repubblica dei poeti"[11]. Il problema, a mio modesto avviso, è che viviamo in una società asociale. I nostri io sono quasi delle monadi. Eppure la psicologia insegna che nelle prime fasi della vita l'interpsichico determina l'intrapsichico. Dimostrazione di questo è il fatto che i bambini che crescono nei primi anni di vita nella foresta, in modo selvaggio, senza altri umani, non riescono più a parlare e non sanno più interagire dignitosamente con altri, anche se vengono educati successivamente da degli scienziati[12]. Ritornando a questa società, da una parte c'è l'omologazione descritta da Pasolini, ovvero l'uniformazione dei modi di essere, di pensare e dei gusti. Ogni mutazione avviene tramite variazione (stabilita ad esempio nei consigli di amministrazione delle multinazionali) e fissazione (tramite l'affermazione della novità con la pubblicità). Non a caso Pasolini aveva mutuato il termine dalla biologia. L'omologazione avviene in gran parte, per ora, tramite la TV. Dall'altra parte c'è la bolla di filtraggio su internet, la cosiddetta filter bubble. Ognuno è chiuso quindi nella sua storia, nella sua bolla. La tecnologia ci isola. Ognuno appena ha un momento di tempo libero si isola e sta a smanettare al telefonino. Oppure in casa ogni familiare sta chiuso nella sua camera a guardare la TV. Insomma siamo sempre più isolati. Ma questo non significa che si è in grado di essere autenticamente sé stessi. La risultante di queste due forze (omologazione e bolla di filtraggio), apparentemente contrapposte, è l'immobilismo sociale. Abbiamo individualismo e "de-individuazione" (qui da intendersi come perdita della propria identità ed interiorità. Non come la intendeva Zimbardo) allo stesso tempo. La società di massa è spersonalizzante e ci condanna all'anonimato, all'appiattimento, al livellamento. Abbiamo tutte le libertà tranne quella di pensare, come cantava Gaber. Siamo liberi, ma dobbiamo muoverci in un certo raggio di azione. Non possiamo deragliare dai binari stabiliti. Altrimenti diventiamo devianti! Ad ogni modo essere noi è sempre più difficile. Per dirla in termini sociologici siamo in una società con uno scarso senso della comunità. È avvenuto un netto depotenziamento dell'io. È avvenuta la disgregazione dell'io. Siamo quasi tutti prodotti in serie. È avvenuta anche la disgregazione sociale. È avvenuta anche la disgregazione del noi. Si guardi ai giovani. Gli unici luoghi di aggregazione sono i vari divertimentifici, che talvolta stordiscono. Abbiamo quindi anche il tempo libero "alienato". L'interpsichico è ridotto ai minimi termini. È sempre più arduo pensarsi, dirsi ed essere noi. Ma è altrettanto difficile riappropriarsi dell'io ed essere veramente sé stessi. La poesia, in mancanza del noi, dovrebbe almeno essere espressione autentica dell'io. Dovrebbe affermare la nostra unicità e irripetibilità. Ma spesso questo non avviene. 

 

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Inoltre cosa è veramente l'io? Cosa è la coscienza[13]? L’io per Freud è quella parte della psiche che media tra le pulsioni dell’Es e il Super-Ego. Senza l’io non c’è quindi oggettività, ma un essere in balia delle altre due forze. Ridurre l’io significa sottrarre una parte a noi stessi. Forse ridurre l’io significa eliminare qualche problema, ma aggiungerne molti altri in più. Per secoli si voleva rimuovere l'inconscio. Un tempo in poesia si voleva rimuovere il Super-Ego (poeti maledetti, Scapigliati) . Ora si vuole rimuovere l’io. Invece non bisogna cercare di rimuovere nessuna di queste tre istanze psichiche. Queste istanze psichiche vanno tutte affrontate. Se non affrontiamo noi stessi non possiamo affrontare degnamente neanche gli altri. A mio avviso il rischio della poesia di ricerca è quello di iniziare con l'eliminazione dell'io lirico e di finire quasi con l'eliminare l'io freudiano. Secondo alcuni bisognerebbe scegliere tra l’io e il mondo e lo dicono/scrivono come se non si dovesse privilegiare l’uno piuttosto che l’altro, ma come se ci si trovasse di fronte ad un aut aut impietoso. In realtà l’uno non esclude mai l’altro. Non si tratta di giocare a biliardo e mandare in buca l’io, come vorrebbero in molti oggi in poesia, anche se capisco il disprezzo di fronte all’ipertrofia dell’io e alle persone egoriferite. Ad onor del vero la realtà umana è un quadro di riferimento, che include sia l’io che il mondo. L’io e il mondo fanno parte del medesimo circuito. C’è una interazione continua tra io e mondo. Ogni io, anche quello più alienato, si specchia nel mondo. Il mondo ritorna sempre in ogni io. Ci sono dei dati oggettivi nella percezione del mondo, che fanno in modo che possiamo condividere la realtà e comunicare tra di noi. Ci sono verità evidenti per i sensi (quella è una sedia, quella è una mela); altre apodittiche a livello logico; altre basate su delle convenzioni e sul senso comune; altre invece sono attendibili, come ad esempio le informazioni che formano la conoscenza scientifica e sono inconfutabili fino a quando degli esperimenti non le falsificano[14]. Non tutto comunque è opinabile e in questa realtà siamo provvisti di alcune certezze. C’è ad ogni modo un significato condiviso e comune del mondo. Ci sono anche molti altri elementi particolari che costituiscono l’unicità e l’irripetibilità della visione del mondo di ognuno. Come si suol dire, siamo per certe cose tutti uguali e per certe altre tutti diversi. Inoltre, come sosteneva Popper[15], osservare non è un verbo intransitivo. Si osserva sempre qualcosa e questo qualcosa lo si sceglie in base a delle aspettative precedenti. Ognuno conosce in base alla sua esperienza. Nessuno è tabula rasa. Ciò può essere un pregio o un difetto a seconda dei casi: più semplicemente è così che siamo fatti. Ognuno, ancora una volta, conosce a modo suo. È per questa ragione che in poesia chi aspira all’oggettività può ottenere soltanto l’oggettualità. In realtà ognuno ha la sua visione del mondo, formata anche da una quota parte imprescindibile di soggettività.

Secondo il filosofo Goodman[16] i modi di “fare” (interpretare/rappresentare/descrivere) il mondo sono tanti quanti gli uomini. Sono tanti quante le menti umane perché ogni mente è diversa: i gemelli omozigoti sono uguali in tutto, ma le loro menti invece sono diverse. Secondo lo psicologo George Kelly noi adattiamo continuamente il mondo alla nostra personalità e ai nostri schemi cognitivi. Questa raffigurazione/testualizzazione del mondo avviene ogni giorno ed è quindi dinamica. Neanche chi delira è fuori da questo circolo ermeneutico perché secondo gli psichiatri il delirio è una interpretazione del mondo, anche se errata o meglio non condivisa/condivisibile (si pensi soltanto alla pericolosità sociale e alla desiderabilità sociale). La comunità si dà quindi delle regole e delle restrizioni nell’interpretazione. Secondo Nietzsche “non esistono fatti ma solo interpretazioni”. Ognuno ad onor del vero ha la sua “versione” del mondo e nessuna è onnicomprensiva; nessuno può dire l’ultima parola sul mondo: ecco perché abbiamo sempre bisogno di scambiarci informazioni, parlarci, relazionarci. Ognuno aggiunge una tessera al mosaico dell’altro. Noi interagiamo con il mondo di fuori e alcune cose le percepiamo esattamente, come tutti gli altri esseri umani, mentre invece altre le percepiamo soggettivamente. Ci sono alcuni elementi in comune con il modo con cui le altre menti percepiscono il mondo. Altre cose invece le vediamo in modo diverso. Descrivere come percepiamo il mondo è estremamente complesso. Ci poniamo mille domande, ma non abbiamo nessuna certezza. Il mondo naturalmente esisterebbe anche senza di noi (sostengono i realisti). La realtà non è prodotta dalla mente cosciente, ma l’io è l’unica modalità in grado di distinguere io e non io, di percepire, di descrivere e nominare il mondo. Senza l’io il mondo non sarebbe più oggetto di indagine. Non ci sarebbe più nessuna indagine. Ecco perché l'io, ovvero la coscienza è importante!

Ma passiamo ad altro. Cito testualmente: "La prosa in prosa è letteralmente letterale vuol dire quello che dice nel momento in cui lo dice dopo averlo detto e la prosa in prosa come poesia dopo la poesia se esistesse avrebbe letteralmente, propriamente, l'unico stupidissima senso che sta dicendo cos'è." (Jean-Marie Gleize. La traduzione è di Michele Zafferano. Da" Prosa in prosa"). Gli autori di "Prosa in prosa", come sottolineato da Paolo Giovannetti, vogliono raggiungere "il grado zero della connotazione", teorizzato da T. Todorov. Per i poeti di ricerca molto probabilmente "una rosa, è una rosa, è una rosa"[17], come scriveva Gertrude Stein. A mio modesto avviso invece in poesia una rosa non è solo una rosa perché può avere diverse connotazioni (che possono essere anche considerate delle sfumature emotive. Anche la nominazione più precisa può avere quindi una sua vaghezza), può provocare le più svariate “corrispondenze” tra l’io e l’oggetto (più banalmente risonanze interiori). Inoltre ogni oggetto può essere suggestivo, può ispirare l’artista. Joyce ha insegnato che qualsiasi cosa può essere rivelatrice e chiarire l’esistenza. L’arte anche per questo motivo dimostra di essere ineffabile. Le “corrispondenze” tra gli stati d’animo e il mondo non solo variano da individuo a individuo ma anche di giorno in giorno e di istante in istante. Cambiamo continuamente noi. Cambia continuamente il mondo. Di conseguenza cambiano continuamente le corrispondenze. Ogni artista quindi deve sempre cogliere le occasioni perché le corrispondenze hanno carattere episodico. I pensieri sono casuali, come le gocce di pioggia sull’asfalto. Sta al poeta mettere ordine tra i suoi pensieri. Una rosa non solo può suscitare diverse sensazioni, ma anche portare ai più svariati simbolismi. A essere più puntigliosi il poeta rappresenta più che descrivere e ogni rappresentazione possiede deformazioni e approssimazioni. Eludere l’io, occultarlo per avere uno sguardo diretto ed oggettivo è impresa impossibile. Tutto ciò è paradossale. Invece bisogna considerare che esiste sempre una componente emotiva dell’artista: la sua soggettività. C’è sempre un quid mentale e parziale, così come è innegabile che esiste una realtà in certa parte comune e condivisibile. Spesso viene stimato grande poeta colui che riesce a descrivere sensazioni, emozioni o pensieri, che la maggioranza delle persone fino ad allora non vedevano, come il fanciullino del Pascoli. Cercare di eludere l’io per vedere meglio le cose, per distanziarle, per vederci più chiaro è impresa vana a mio avviso. In questo senso nessun artista può registrare oggettivamente il suo inconscio. È impossibile. Deve esserci sempre la mediazione della coscienza. Inoltre l’inconscio è per gran parte inattingibile e la coscienza non può accedere totalmente ad esso: molte zone restano inesplorate. Infine Gian Luca Picconi ha parlato di "soggettivazione di gruppo" per gli autori di "Prosa in prosa". Questa "soggettivazione di gruppo" può andare bene in una antologia, ma di che cosa se ne fa un lettore comune, quando legge la silloge di uno di questi poeti? Forse ben poco. Ogni poeta in definitiva, grazie alla sua soggettività, è unico. È anche grazie alla soggettività che un poeta inventa un linguaggio o rinnova il linguaggio. Ognuno, anche il più mediocre, ha la sua angolatura e da questa scaturisce la sua particolare prospettiva. Si usa dire che un artista apre un mondo quando trova un nuovo filone di cose, ovvero rappresenta un mondo che fino ad allora non era stato rappresentato[18]. Per Claudio Magris il poeta è “un nessuno che parla per tutti”[19]. Un poeta lavora per intuizioni verbali, piccole rivelazioni gnomiche, illuminazioni liriche. È efficace quando le sue parole riescono ad essere evocative, quando riesce a esprimere il fluire di immagini nella sua mente e anche quando riesce ad accostare cose lontane tra di loro. Un artista può rappresentare una nuova realtà oppure se è della Neoavanguardia può cercare di trovare un nuovo linguaggio, cercando di dare forma all’informe. L’artista è tale quando fa diventare universali i suoi pensieri e le sue percezioni.

 

 

Note

[1] Ecco la poesia in questione:

NANNI BALESTRINI

(Da Almanacco Letterario Bompiani – Bompiani, 1962)

 

TAPE MARK I

 

La testa premuta sulla spalla, trenta volte

più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno

finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine

delle cose accade, alla sommità della nuvola

esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono

la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.

 

I capelli tra le labbra, esse tornano tutte

alla loro radice, nell’accecante globo di fuoco

io contemplo il loro ritorno, finché non muove le dita

lentamente, e malgrado che le cose fioriscano

assume la ben nota forma di fungo, cercando

di afferrare mentre la moltitudine delle cose accade.

 

Nell’accecante globo di fuoco io contemplo

il loro ritorno quando raggiunge la stratosfera mentre la moltitudine

delle cose accade, la testa premuta

sulla spalla: trenta volte più luminose del sole

esse tornano tutte alla loro radice, i capelli

tra le labbra assumono la ben nota forma di fungo.

 

Giacquero immobili senza parlare, trenta volte

più luminosi del sole essi tornano tutti

alla loro radice, la testa premuta sulla spalla

assumono la ben nota forma di fungo cercando

di afferrare, e malgrado che le cose fioriscano

si espandono rapidamente, i capelli tra le labbra.

 

Mentre la moltitudine delle cose accade nell’accecante

globo di fuoco, esse tornano tutte

alla loro radice, si espandono rapidamente, finché non mosse

le dita lentamente quando raggiunse la stratosfera

e giacque immobile senza parlare, trenta volte

più luminoso del sole, cercando di afferrare.

 

Io contemplo il loro ritorno, finché non mosse le dita

lentamente nell’accecante globo di fuoco:

esse tornano tutte alla loro radice, i capelli

tra le labbra e trenta volte più luminosi del sole

giacquero immobili senza parlare, si espandono

rapidamente cercando di afferrare la sommità.

[2] L'io lirico è la voce interiore nella poesia. Non è detto che coincida sempre con l'io empirico, ovvero con l'autore in carne ed ossa. L'io lirico può essere anche in un certo qual modo fittizio. Si veda ad esempio Pessoa ed i suoi eteronimi. L'io lirico può essere anche un alter ego.

Un saggio sull'io lirico: http://www.leparoleelecose.it/?p=20689

[3] Sulla poesia di ricerca: http://www.leparoleelecose.it/?p=34663

https://www.glistatigenerali.com/letteratura/mappa-poesia-italiana-26082017/

https://www.versanteripido.it/prosa-o-poesia-di-francesco-di-lorenzo/

https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/21/humpty-dumpty-e-poesia-di-ricerca-in-italia/688793/

[4] "Sulla poesia moderna" di Guido Mazzoni (Il Mulino, Bologna, 2005)

[5]https://www.treccani.it/enciclopedia/io-se_(Enciclopedia-Italiana)/#:~:text=Il%20concetto%20di%20Io%20diviene,cio%C3%A8%20psicologia%20dell'Io)

[6] "Fenomenologia della percezione" di Merleau-Ponty (Bompiani, Milano, 2003) 

[7] https://www.alfabeta2.it/tag/enciclopedia-asemica/

[8] "Prosa in prosa" (Tic edizioni, Roma, 2020)

[9] "Lezioni private 2" di Vittorio Sgarbi (Mondadori, Milano, 1997)

[10]https://it.m.wikipedia.org/wiki/Costruttivismo_(psicologia)

[11] "La repubblica dei poeti. Gli anni del mulino di Bazzano. Con DVD" di D. Rossi (cur.) e E. Minarelli (cur.) (Campanotto, Udine, 2010)

[12]https://www.focus.it/ambiente/animali/le-vere-storie-dei-ragazzi-selvaggi

[13] In letteratura esiste il flusso di coscienza. Basta leggere la Woolf, H. James, W. Faulkner, Joyce. Gli scrittori inseguivano i loro pensieri senza punteggiatura. La loro scrittura registrava i dati psicologici, la loro interiorità; descriveva la loro mente, che vagava da una idea all'altra. Allora la mente non era ancora considerata esclusivamente un insieme di processi fisico-chimici. Naturalmente da allora è innegabile che siano stati fatti dei passi in avanti perché non si parla più di spirito e sappiamo che, privati del sistema limbico, non sapremmo più provare emozioni. Secondo la psicologia la coscienza è innanzitutto autoconsapevolezza. È allo stesso tempo consapevolezza del vissuto e responsabilità delle proprie azioni. Per Jaspers è "la vita psichica di un dato momento". È autoriconoscimento, memoria di sé, percezione di sé, conoscenza di sé, senso di sé; recentemente i neuroscienziati hanno parlato di sé autobiografico, ovvero conoscenza del proprio passato e presente. Coscienza significa accorgersi anche degli stimoli esterni. Coscienza è attenzione. È consapevolezza della propria identità. È organizzazione psichica di attenzione, memoria, linguaggio, desideri, intenzioni, emozioni, valori, stati mentali. Secondo il cognitivismo è anche metacognizione, ovvero conoscenza delle proprie operazioni mentali. Tutto ciò risulta in parte labile ed ineffabile. A tal riguardo dobbiamo ricordarci che il Sé è sempre sfuggente ed elusivo. Molte cose che sappiamo della coscienza le sappiamo grazie all'introspezione. La coscienza è ancora oggi un mistero.

[14] Dopo il principio di complementarietà di Bohr e il principio di indeterminazione di Heisenberg la scienza dipende non più da un rapporto di causa-effetto, ma da leggi di tipo statistico-probabilistico. 

[15] "Congetture e confutazioni" di K. Popper (Il Mulino, Bologna, 2009)

[16] "Vedere e costruire il mondo" di Nelson Goodman (Laterza, Bari 2008) 

[17]https://en.m.wikipedia.org/wiki/Rose_is_a_rose_is_a_rose_is_a_rose

[18] La rappresentazione non è mai totalmente fedele. La realtà è una commistione di drammaticità, tragedia, comicità, erotismo, mistero, etc etc. Noi non possiamo immagazzinare tutti gli stimoli del reale e ne selezioniamo solo alcuni per un puro fatto di economia cognitiva e per i nostri limiti mentali. Nella rappresentazione ne scegliamo solo alcuni da mostrare. La realtà ha moltissime sfaccettature e noi ne evidenziamo solo alcuni aspetti salienti. Sono illimitati i rapporti che un fatto, una cosa o un soggetto può avere con altri fatti, cose o soggetti. È impossibile prendere in esame l'immensa eterogeneità del reale e l'enorme casistica degli eventi. Gadda scriveva dello "gnommero". Montale a tal riguardo scrisse della "matassa da disbrogliare". Per Vincenzo Gioberti la verità è "un immenso poligono" dai lati infiniti. L'immaginazione umana è anche essa un immenso poligono dai lati infiniti. Quindi anche i più alti ingegni umani non possono che rappresentare tutto ciò in modo parziale. La realtà è un enorme caos. Noi possiamo solo cercare di fare dei modelli del reale. Possiamo solo dare una forma al caos. Ogni opera subisce perciò una deformazione in base al punto di vista e alla prospettiva dell'autore. La realtà umana è costituita da una illimitata molteplicità di eventi e di stati mentali. La realtà umana in fondo è una continua interazione tra io e mondo. È un continuo feedback. La realtà non esisterebbe senza i fenomeni neurochimici del nostro cervello, che ci permettono di rappresentarla. Quella che alcuni chiamano oggettività è solo una conoscenza condivisa. L'arte è un impasto di oggettività e soggettività. Anche gli artisti più realisti, che vogliono dare una visione il più possibile impersonale e distaccata della realtà, non possono mai essere totalmente oggettivi. In definitiva l'arte non dipende solo dalla verosimiglianza e dal realismo raggiunti. Una scoria di soggettività resta sempre. Per Picasso in fondo "l'arte è la menzogna che ci permette di conoscere la verità".

[19] "Alfabeti" di Claudio Magris (Garzanti, Milano, 2008)

 

 

80 buone, semplici ragioni per non stroncare libri di poesia...

lug 212023

 

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Non bisognerebbe mai stroncare libri di poesia italiana

PERCHÉ …

se vendono come i libri di Andrew Faber, Guido Catalano, Franco Arminio, Gio Evan, allora sono manna per le case editrici che possono fare cassa. Quindi non bisogna rompere gli zebedei, anche se forse quella non è vera poesia.

se non vendono certi libri, non bisogna far "piovere sul bagnato", per usare un'espressione di Montale. 

i poeti, veri, aspiranti, sedicenti se la prenderanno personalmente con voi, in quanto la stroncatura è per loro una ferita narcisistica.

molto raramente una stroncatura insegna davvero qualcosa a un poeta o ai lettori.

stroncando si suscita timore reverenziale ma non si cucca. 

tra tutta la poesia pubblicata solo una minuscola parte raggiunge il livello minimo di decenza. Se si dovesse stroncare tutto ciò che non è decente, non si finirebbe più. Stroncare solo qualcuno significa avercela con lui o fare comunque un'operazione faziosa o ingiusta. O si stronca tutti i pessimi poeti o non si stronca nessuno. Portare uno sfortunato come exemplum è ingiusto. 

bisogna considerare la buona fede e la buona volontà di chi scrive versi. Ci vuole pazienza, umana comprensione, un minimo di sopportazione.

 in quest'epoca dominano incontrastati il narcisismo e l'esibizionismo. I poeti non sono da meno. Quindi bisogna tollerare questi disturbi psicologici, che il nostro tempo slatentizza. 

anche scrivere brutti versi è una passione innocente. Che male vi hanno fatto i cattivi poeti in fondo? 

si rischia sempre più spesso di stroncare per puro gusto personale. 

 

i poeti, veri o presunti, credono molto in quello che scrivono. Lasciamoli credere in ciò che vogliono. Anche nelle loro pessime cose. 

non è colpa dei poeti se le persone in genere considerano grandi poeti coloro che sanno semplicemente andare a capo.

anche chi stronca si può sbagliare.

stroncare è una pessima azione.

stroncando si fa del male al poeta più che del bene.

 ogni poeta ha bisogno di essere incoraggiato e non demoralizzato. 

stroncando si uccide un sogno.

si può sempre criticare i punti deboli e i difetti di un libro in modo privato, comunicandoli solo al poeta.

non vale la pena di stroncare.

una stroncatura potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso di un poeta depresso e indurlo al suicidio.

stroncare è un modo letterario di menare le mani.

solo pochi hanno davvero l'autorevolezza per stroncare.

ma non vi fanno un poco di tenerezza i pessimi poeti? 

oggi l'epiteto di poeta è un contentino che danno a molti. 

i poeti, veri o presunti, nella maggioranza dei casi pubblicano a pagamento e criticarli negativamente dopo che si sono accollati certe spese editoriali è un piccolo atto sadico, di cattiveria, questa volta gratuita.

la stroncatura non cambia il mondo della comunità poetica, né il mondo editoriale.

la stroncatura è un genere datato, ormai finito.

la stroncatura in Italia non è quasi mai obiettiva, è sempre faziosa. Il critico prende di mira i suoi nemici giurati e poi osanna i suoi amichetti, i suoi sodali e naturalmente ha un occhio di riguardo per gli amici degli amici. Purtroppo, diciamocelo francamente, è davvero così.

la critica letteraria non può essere per niente obiettiva, perché mancano canoni estetici, metri di giudizio con cui valutare e ismi in cui incanalare gli autori, come un tempo.

la stroncatura è un opinione molto discutibile, che viene presentata come un dogma o quantomeno come una certezza assoluta.

bisogna valutare anche le conseguenze psicologiche e la sofferenza interiore di chi viene stroncato.

 chi stronca si mette su un piedistallo e si considera superiore.

non è detto che il critico abbia ragione a tutti i costi. 

siamo tutti fallibili, sia chi scrive versi, sia chi li critica.

ci vuole bonaria indulgenza, poiché siamo tutti esseri umani.

 la letteratura non è una scienza esatta. Nemmeno nessuna scienza oggi è esatta.

per quieto vivere è meglio non stroncare. Stroncare significa farsi dei nemici. 

alcuni poeti sono convinti di essere grandi poeti. Lasciateli pure vivere delle loro albagie, delle loro illusioni.

 alcuni estimatori di questi poeti si sentirebbero feriti o considerati degli idioti.

il mondo poetico italiano è già in una condizione desolante. Non affossiamolo ulteriormente. 

i poeti italiani hanno già tantissimi detrattori.

ci penseranno i posteri, se ci saranno, a distinguere il grano dal loglio.

la poesia è marginale e stroncando a ogni modo non si desta l'interesse.

stroncare è pura partigianeria, intesa nel senso più deteriore del termine, spacciata spesso per militanza. 

stroncando si dà troppa importanza alla vittima.

la vittima potrebbe farvi una causa civile.

meglio il silenzio, l'indifferenza al clamore che suscita una stroncatura.

al mondo d'oggi chiunque trova il diritto di replica e finirebbe tutto con una rissa sui social o sui blog letterari senza esclusione di colpi o quasi.

stroncare non è più pedagogico 

stroncare è una perdita di tempo.

la poesia italiana è una piccolissima torta in cui troppe persone vogliono una fetta. 

ci possono essere poeti, veri o presunti, che potranno perseguitarvi e diventare vostri troll, hater, stalker.

 stroncare può essere considerato un atto di bullismo o cyberbullismo.

stroncare spesso significa partire lancia in resta, accusare per partito preso senza ragionare con equanimità.

stroncare è manifestazione di puro livore.

dei punti di forza ci sono in ogni libro e nella stroncatura vengono omessi, dimenticati, totalmente rimossi.

chi lo dice che dietro a una stroncatura ci sia dietro una questione personale, una ripicca, un'antipatia, un'idiosincrasia, una vendetta? 

nessuno sa più stroncare come una volta.

uno si fa terra bruciata nella comunità poetica.

dietro a ogni libro c'è una persona che merita rispetto della sua dignità umana.

anche la pubblicità negativa è pur sempre pubblicità. 

si rischia di essere divisivi.

si rischia di non finirla più. Il poeta stroncato passerà alla controffensiva. Alcuni lettori commenteranno, dicendo che non sono d'accordo. La discussione potrebbe tirare per le lunghe. 

stroncando non si controbilancia la moltitudine di elogi e di endorsement fatta da tanti recensori ai poeti. 

la stroncatura viene ritenuta un atto di lesa maestà.

ci sono cose molto peggiori di scrivere brutti versi: ad esempio criticare malamente brutti versi, sentendosi superiori. 

una bugia innocente è meglio di una verità amara.

anche i migliori intellettuali e le migliori menti possono scrivere brutti versi. Nessuno ne è immune.

tanto i poeti comunque continueranno a scrivere ostinati e non si autocensureranno. 

spesso il critico, giunto a una certa età, intraprende l'attività poetica e allora le stroncature potrebbero ritorcerglisi contro.

la comunità poetica potrebbe esercitare una damnatio memoriae da morti.

certi pessimi libri di poesia sono davvero sotto la soglia del giudizio critico di un qualsiasi recensore onesto e allora non bisogna scriverne.

chiunque al mondo d'oggi pensa di avere diritto a una buona reputazione di poeta. 

la stroncatura suscita gli stessi bassi istinti sadici e voyeuristici di chi guardava bruciare Giovanna d'Arco.

chi lo dice che in futuro quei brutti versi non  saranno ritenuti dei capolavori? 

le stroncature non vanno più di moda.

le agenzie letterarie non vi pagano se scrivete stroncature.

una stroncatura tira l'altra e troppe stroncature creano il deserto.

prima di stroncare i libri di poesia gli stessi critici dovrebbero fare molte denunce sociali per questioni molto più importanti.

è meglio parlare bene dei migliori che male dei peggiori.

facendo un'analisi costi/benefici, uno ci guadagna di più a non stroncare.

 

 

Sono davvero solo canzonette?

giu 202023

 

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 (Nella foto Alice, al secolo Carla Bissi)

La musica, dal punto di vista sociale, è un linguaggio universale, emoziona chiunque, può abbattere barriere invisibili tra le persone e può veicolare messaggi importanti. A livello individuale sono ormai accertati i benefici della Musicoterapia[1]. Io ascolto spesso su radio Vintage[2] e su YouTube[3] rock progressive italiano e cantautori italiani. Per quanto riguarda il rock progressive ascolto Pfm, Eugenio Finardi, Alan Sorrenti (mi piacciono in particolare i brani remastered[4] "Vola", "Le tue radici", "Figli delle stelle", "Vorrei incontrarti"), Claudio Rocchi ("La realtà non esiste", "La tua prima luna"). Il rock progressive era caratterizzato da testi elaborati e mai banali, da musiche complesse e sofisticate. Non capisco come mai ci siamo fatti colonizzare così tanto musicalmente dagli americani. La nostra esterofilia, a mio avviso, sfiora l’imbecillità. Forse non potevamo ribellarci ai diktat del mercato? Intendiamoci: è sempre preferibile l’America che ci ha colonizzato culturalmente e sottoculturalmente a quella che vuole esportare con l’esercito la democrazia in alcune nazioni povere. Le radio passano esclusivamente musica straniera, molto spesso anglofona. È dai tempi dei Beatles che è così, anche se ai tempi dei tempi pochi sapevano l’inglese; lo stesso Shel Shapiro quando venne in Italia, si sentì un pesce fuor d’acqua perché pochi conoscevano la sua lingua. Attualmente l'industria discografica è in crisi. Molti ascoltano la musica gratis su internet. Molti collegano il tablet o il cellulare allo stereo della automobile. È il cosiddetto Bluetooth[5]. Chiunque lo può fare ormai gratis. C'è spazio solo per la musica commerciale, soprattutto straniera. Negli anni settanta i giovani guardavano all’America, ma buscavano anche ad Oriente. In quegli anni c’era molto fermento. I giovani riflettevano su tutto. Basta pensare alle radio libere, che portarono una ventata d’aria nuova e fecero un quarantotto, ebbero il merito di scoperchiare le carte. Poi tutto è ritornato come prima. Probabilmente peggio. Oggi il mercato in Italia è determinato dall’oligopolio delle major[6]. La musica indie[7] si sta facendo conoscere, ma soccombe ancora rispetto alle major. È tutto un business. Ogni canzone è soprattutto un prodotto commerciale da canticchiare e ballare. Insomma panem et circenses. Un piacere immediato e indiscriminato per tutti. C'è chi la pensa come Adorno. "Il concetto di gusto – scriveva il filosofo - è superato in quanto non c’è più una scelta: l’esistenza del soggetto stesso, che potrebbe conservare questo gusto, è diventata problematica quanto, al polo opposto, il diritto alla libertà di una scelta che non gli è più empiricamente possibile. […] Per chi si trova accerchiato da merci musicali standardizzate, valutare è diventata una finzione"[8]. Per Adorno dietro ogni acquisto di disco e dietro ogni gusto musicale c'è la pressione e la massificazione della cosiddetta industria culturale, di cui la musica leggera fa parte. Il pubblico gode acriticamente della musica, che è totalmente mercificata. Una delle ragioni per cui Nietzsche criticava Wagner era quella di essere istrionico, populista, folcloristico. La stessa cosa potremmo dirla della musica leggera, che è nazionalpopolare. C'è chi dice che la musica leggera sia satanica[9] e che le star siano diseducative per i loro eccessi. A questo proposito Vecchioni in un articolo di giornale, anni fa, scrisse che dovrebbero essere invertite le parti tra insegnanti e rockstar: ai primi grandi ricchezze e onori, ai secondi che vivono di eccessi, per qualche illuminazione interiore e per avere l'ispirazione, degli stipendi come tanti. La critica al sistema di Vecchioni era ironica ma sacrosanta. Le canzoni, insomma, oggi fanno parte del divertimentificio[10] e non devono più far riflettere. Anzi talvolta ho la vaga impressione che più sono banali i ritornelli e più entrano nella testa delle persone. Non solo ma c’è da dire che spesso i fruitori della musica leggera sono ragazzi di età compresa tra i 15 e i 25 anni: ciò spiega molte cose. Oggi il mondo è Spotify[11], almeno per i millenials e la generazione z (i cosiddetti nativi digitali). Forse sono io che appartengo alla generazione x (sono del 1972)[12] e sono rimasto indietro, troppo ancorato ai miei tempi. Oppure più probabilmente tutti noi italiani imitiamo sempre le mode americane con ritardo; in fondo in Italia rapper e trapper[13] sono comparsi dopo anni e anni di ritardo rispetto all’America, così come nel secondo Novecento si diffuse con ritardo da noi la controcultura americana. Noi importiamo continuamente generi musicali, come è successo anche per il reggaeton[14]. Eppure gli autori italiani non hanno niente da invidiare a quelli stranieri. È vero che De André subiva l’influsso di Brassens agli esordi, De Gregori quello di Bob Dylan e Vecchioni musicalmente quello di Bruce Springsteen. Ma nessuno si ricorda che Bob Dylan voleva cantare “Jodi e la scimmietta” di Venditti negli anni settanta e che Vasco Rossi non volle fare il suo show nel 1990 assieme ai Rolling Stone, declinando l’invito. Così come nessuno si ricorda che Alice (Carla Bissi) non volle mai cercare l’avventura americana, nonostante ripetuti solleciti dell’industria discografica. Si ricordano invece tutti soltanto che Lucio Battisti tentò con esito infausto il successo oltreoceano. In America i cantanti italiani che riscuotono più successo sono Laura Pausini, Andrea Bocelli, Eros Ramazzotti, Zucchero, Il Volo, Adriano Celentano, Mina, Al Bano, Toto Cutugno. Senza nulla togliere alla bravura di questi ultimi c’è da osservare che il genere dei cantautori italiani forse è troppo di nicchia per piacere negli Stati Uniti. Inoltre due sono le pecche del nostro cantautorato, nonostante la dignità letteraria dei suoi testi: non avere musiche molto orecchiabili (spesso in un disco di otto canzoni solo tre o quattro sono musicalmente valide) e non avere grande presenza scenica sul palco. A tal proposito spesso ai concerti dei nostri cantautori si respira soprattutto un’atmosfera intimista e di raccoglimento. Ma probabilmente questa è stata una precisa scelta artistica. Basta ricordarsi cosa scriveva Pierangelo Bertoli in “A muso duro”: “Adesso dovrei fare le canzoni/ con i dosaggi esatti degli esperti/ magari poi vestirmi come un fesso/ e fare il deficiente nei concerti”. Oppure sempre a tal proposito basta citare anche Battiato: “Non è colpa mia se esistono spettacoli/ con fumi e raggi laser/ se le pedane sono piene/ di scemi che si muovono/ up patriots to arms, engagez-vous”. Bisogna anche aggiungere che per gli italiani è molto facile farsi ammaliare dai miti americani, mentre per i cantori di una nazione così periferica e poco importante come la nostra è molto difficile esportare le loro cose artistiche. Infine va detto che i nostri cantastorie, i nostri novelli bardi probabilmente non rispecchiano gli stereotipi dell’italiano: abbiamo nella nostra penisola forse un cantautorato troppo elitario e intellettuale. Eppure è pacifico che le creazioni del nostro cantautorato, secondo la critica musicale, non siano intrattenimento, ma vera espressione artistica e talvolta sinonimo di impegno civile e politico. Forse non sono solo canzonette. Devo dire però che i giovani non devono neanche idealizzare troppo i cantanti, che non hanno nessun rapporto privilegiato con la verità.

 

 

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(Nella foto il cantautore livornese Piero Ciampi)

Resta da stabilire se le canzoni di autore siano poesia o meno. Forse sono espressione di poesia popolare, ma questo lo decideranno gli italianisti a venire. Alcune però assomigliano senza ombra di dubbio alla poesia. Per il poeta Milo De Angelis i cantautori scelgono sempre la via più facile, quella più comunicativa. Il grande Mario Luzi invece sosteneva che alcune canzoni di autore fossero poetiche, mentre non sempre tutte le poesie lo erano. Per il poeta Valerio Magrelli la musica avvantaggia e facilita i cantautori rispetto ai poeti. Per il poeta Maurizio Cucchi le canzoni di Guccini non sono assolutamente poesie. Per il poeta Lello Voce spesso i testi delle canzoni, letti senza musica, non reggono da soli e non sono poesie. Per De Gregori i cantautori non sono poeti e non devono avere alcun ruolo educativo. Per Vecchioni le canzoni sono poesie e cita il fatto che anticamente le poesie venivano accompagnate da delle musiche. C’è anche tra gli addetti ai lavori chi pensa che Bob Dylan sia un grande poeta visionario e chi solo un cantante semicolto. C’è chi ritiene che i musicisti siano più avvantaggiati perché il feto sente da subito il battito della madre. C’è chi pensa che sia solo questione di educazione e cultura. Insomma il dibattito è ancora aperto. Oggi i cantanti vengono idolatrati. Il panorama musicale è mutato completamente dagli anni '70, almeno qui in Italia. Erano anni caldi quelli. Le polemiche erano al vetriolo. Chiunque poteva essere messo alla berlina. De Gregori venne "sequestrato" per poco tempo da dei contestatori ad un concerto. Altro che qualche hater sui social![15] Per il cantautore romano fu traumatico. Si rimproverava ai cantautori di arricchirsi facilmente e di essere schiavi del sistema, nonostante fossero compagni. Tra gli stessi cantautori c'erano anche invidie, cattiverie, gelosie[16]. Era una cosa umana. I cantanti, soprattutto i cantautori, negli anni settanta si trovavano tra l'incudine della censura e il martello dei contestatori. Intendiamoci: c'erano le bombe e le p38. Lo stesso Stato era violento. Negli anni di piombo venne minato lo stato di diritto. La polizia sparava alle manifestazioni. Cossiga, allora ministro, dichiarò più volte che faceva mettere una busta di droga pesante nelle giacche di estremisti, ritenuti particolarmente violenti ma incensurati, per farli arrestare. La maggioranza silenziosa non scendeva in piazza. In compenso però andava ai concerti di Claudio Baglioni, figlio e fidanzato modello, eterno cantore dei buoni sentimenti democristiani. La censura era negli anni settanta un modo per difendere la morale comune e controllare accuratamente i messaggi sociali e politici veicolati nelle canzoni. Le canzoni con la rima amore e cuore non erano assolutamente pericolose per l'ordine costituito. La censura era basata su questa grande ipocrisia di fondo. Ci si poteva scannare in piazza tra giovani, ma si doveva salvare l'apparenza, la forma. Niente poteva intaccare il buon gusto in prima serata. Faccio una breve digressione sulla censura in quegli anni.
Innanzitutto per quanto riguarda la musica straniera va ricordato lo scandalo suscitato da "Je t'aime... moi non plus", che era del musicista francese Serge Gainsbourg e dell'attrice britannica Jane Birkin, pubblicata nel 1969. Ma anche la satira non se la passava bene. Non tutti gli sketch comici andavano a buon fine. Dario Fo e Franca Rame vennero oscurati per sedici anni dalla RAI di Ettore Bernabei, allora dirigente organizzativo di Saxa Rubra. I due drammaturghi erano rei in Canzonissima di aver trattato un argomento allora tabù come le morti sul lavoro. Lo stesso premio Nobel ha dichiarato che, nonostante l'apparente morigeratezza e il timore di Dio, Bernabei per lui era un autentico "satanasso". Nel 1959 Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi avevano preso in giro l'allora presidente della Repubblica Gronchi, che era cascato da una sedia vicino a De Gaulle. La trasmissione televisiva, condotta dai due, nonostante la grande popolarità, venne bruscamente interrotta. Per quel che concerne la musica italiana venne censurata "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones" perché criticava l'America e parlava della guerra nel Vietnam. Invece "Dio è morto" cantata dai Nomadi e scritta da Guccini venne censurata dalla RAI, ma trasmessa dalla radio vaticana. La stessa "Bocca di rosa" fu censurata, ma non mi risulta che venne censurata nessuna canzone dell'album "La buona novella", in cui De André si rifaceva ai Vangeli apocrifi e in cui c'era addirittura "Il testamento di Tito" che criticava tutti i comandamenti e che provocò solo accese discussioni tra cattolici e qualche proposta di dibattiti tra teologi. Anche "Albergo ad ore" di Herbert Pagani, "4/3/1943" di Lucio Dalla, "Luci a San Siro" di Vecchioni (un aneddoto curioso riguarda il fatto che "Donna felicità, scritta sempre da Vecchioni e cantata dai Nuovi angeli, non venne censurata dalla RAI ma solo dalla commissione del festival di Sanremo. Probabilmente l'ironia e l'erotismo velato di questa canzone non vennero considerati scurrili e neanche offensivi della morale), "Questo piccolo grande amore" di Baglioni, "Il gigante e la bambina" di Ron, "Io se fossi Dio" di Gaber, "Bella senz'anima" di Cocciante, "Luna" di Loredana Bertè e "Coca Cola" di Vasco Rossi vennero censurate e modificate. Un intero album interpretato da Gaber, intitolato "Sexus e politica" venne interamente oscurato dalla RAI nel 1970. Anche il mitico Enzo Jannacci venne censurato più volte. In particolare va ricordata "Ho visto un re", che denunciava il potere ed esprimeva il dissenso giovanile della contestazione. Il cantautore milanese proprio per questo motivo si allontanò per un certo periodo dalle scene. Non mi risulta però che Jannacci subì censura per "Veronica". Venditti con il brano "A Cristo" si prese una condanna 6 mesi per vilipendio alla religione. Lo stesso De Gregori fu censurato. Non piacquero i versi "Giovanna faceva dei giochetti da impazzire" in "Niente da capire" e "il mendicante arabo ha un cancro nel cappello, ma è convinto che sia un portafortuna" in "Alice", perché all'epoca non si poteva trattare neanche di tumori. La censura era quindi uno spauracchio ed era molto arbitraria[17]. Oggi i cantanti possono cantare qualsiasi cosa o quasi. Niente fa più scandalo.
Ma passiamo ad altro. Veniamo ad oggi.
Oggi la poesia contemporanea non vende. Eppure la poesia, a mio avviso, esprime a livello esistenziale e gnoseologico meglio della canzone il mondo, la vita e l'io (compresi i suoi vuoti e le sue fratture). Oggi i giovani preferiscono i cantanti ai poeti contemporanei, anche perché questi ultimi sono più difficili da comprendere e trattano molto meno di tematiche amorose. Veniamo al primo punto.
Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall'osservazione o dalla trasfigurazione. Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva, ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel Novecento tutto forse diventa più complesso. Basta pensare a Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio . Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del Novecento l'ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l'orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli e analogie. Negli anni sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l'ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anch'essi non erano di facile comprensione. La neoavanguardia ad esempio era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l'egemonia culturale e l'estetica dominante, contro la mercificazione dell'arte. Però spesso spiazzava i lettori per il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi. Infine la poesia degli anni settanta con il neorfismo cambiava di nuovo le carte in tavola perché prendeva le distanze sia dalla neoavanguardia che dal neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico era sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: "La parola innamorata" e "Il pubblico della poesia". Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C'è anche troppa creazione, ma è scarsa la fruizione. È una poesia talvolta autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio spesso non è chiaro. Il gradimento del pubblico è scarso. I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. I libri di poesia nella stragrande maggioranza dei casi finiscono al macero. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori. Comunque oggi i poeti viventi sono sconosciuti al grande pubblico. Come sono cambiati i tempi da quando Vico scriveva che i poeti sono i primi storici delle nazioni! Oggi è innegabile che la poesia di questi anni sia in crisi e alcuni critici, appunto, l'hanno definita minimalista. La lirica di questi tempi è spesso illeggibile e non memorabile. Comunque non bisogna essere ottimisti né apocalittici. Veniamo alla questione della tematica amorosa. Petrarca è diventato anche egli uno dei più noti poeti italiani per le sue opere in latino oppure per quel Canzoniere in volgare in cui trattava dell'amore per Laura? La maggioranza dei grandi poeti deve la propria fama non tanto al proprio impegno civile o alla propria figura intellettuale quanto alla descrizione nelle opere delle loro vicissitudini amorose. Spesso c'è una figura femminile. Nei casi di Dante e Petrarca l'amore non è corrisposto, le donne muoiono e vengono idealizzate. Ma si potrebbero fare esempi in cui le cose vanno diversamente. Lo scrittore von Sacher-Masoch è diventato famoso non certo per essere un intellettuale asburgico, ma soprattutto per il suo amore per la sua moglie Wanda. Salinas non diventò noto per essere un esule spagnolo ai tempi della dittatura franchista oppure per essere un professore universitario, ma per aver scritto soprattutto "La voce a te dovuta". Nessuno sa con certezza se le muse furono all'altezza della fama alla quale arrisero. Ma in fondo non è questo l'importante. La cosa più importante è il sentimento amoroso. Ci sono anche esempi altissimi di poesia d'amore omosessuale: ai nostri tempi Pasolini, Dario Bellezza, Sandro Penna, Auden (i primi che mi vengono in mente): amori che in certe epoche potevano essere considerati diversi e quindi fonte di contrasti. Ma in poesia vengono descritti anche amori per prostitute oppure per le passanti. In letteratura tutto è possibile e niente fa scandalo. La più bella poesia di amore a mio avviso è questa: "Il più bello dei mari/ è quello che non navigammo./ Il più bello dei nostri figli/ non è ancora cresciuto./ I più belli dei nostri giorni/ non li abbiamo ancora vissuti./ E quello/ che vorrei dirti di più bello/ non te l’ho ancora detto." (Nazim Hikmet). Ma mi piace moltissimo anche il verso di Cesare Pavese: "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi". Ma nel secondo Novecento e nei primi anni del duemila pochi poeti hanno trattato in modo memorabile l'amore, a differenza dei cantautori, che descrivono da sempre i loro sentimenti amorosi senza alcun pudore. Mi vengono in mente alcuni versi riusciti di canzoni. Ad esempio De Andrè: "È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati". Oppure mi viene in mente una vecchia canzone di Vecchioni: "Io ho le mie favole e tu una storia tua". Oppure Guccini: "Io non credo davvero che quel tempo ritorni, ma ricordo quei giorni". Discorso a parte per Lolli. La generazione bolognese del '77 è l'ultima in Italia che si è posta collettivamente nei confronti della realtà. Ne va preso atto. E la colonna sonora di quel movimento del '77 era la musica di Claudio Lolli. Ecco perché Lolli, oltre al fatto di essere un poeta prestato alla canzone, è importante da ricordare. Certo era anche malinconico, ma poeta. Fin da giovanissimo scriveva ottimi testi. Ha scritto delle poesie in musica fino alla sua fine. Dispiace che non sia stato compreso e riconosciuto a sufficienza. Era visto come troppo cantautorale, troppo di nicchia. Personalmente mi piace ascoltare la musica che non è intrattenimento ma espressione artistica e Claudio Lolli nel corso di tutta la sua vita ha saputo dimostrare di essere un artista. Le canzoni di Lolli sono soprattutto politiche, ma ce ne sono alcune come "Donna di fiume" oppure "Vorrei farti vedere la mia vita" che sono belle poesie d'amore. Claudio Rocchi era mistico, però sapeva anche scrivere canzoni di amore. Piero Ciampi sapeva descrivere certe zone morte della coscienza, come ha sottolineato Maurizio Cucchi, ma sapeva anche cantare d'amore. A ogni modo molto spesso i testi delle canzoni sono stucchevoli e sdolcinati.

 

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(Nella foto il cantautore bolognese Claudio Lolli)

 

Per fare una panoramica "ampia" sulla musica leggera italiana bisogna trattare anche di Sanremo.

Su Sanremo:
Ci sono canzoni eccellenti che non hanno vinto Sanremo e che a mio avviso avrebbero meritato la vittoria come "Ciao amore, ciao" di Tenco; "Ma che freddo fa" , cantata da Nada; "Le mille bolle blu" , cantata da Mina; "Nata libera" di Leano Morelli; "4/3/1943" e "Piazza Grande" , cantate da Lucio Dalla; "L’uomo che si gioca il cielo a dadi" di Vecchioni; "Montagne verdi" , cantata da Marcella Bella; "Vita spericolata" di Vasco Rossi; "Almeno tu nell'universo" , cantata da Mia Martini; "Gianna" di Rino Gaetano; "Quello che le donne non dicono" , cantata da Fiorella Mannoia; "Il ragazzo della via Gluck" di Celentano; "Un'avventura" di Lucio Battisti; "L’Italiano" di Toto Cutugno; "Ancora" di Eduardo De Crescenzo; "Cosa resterà degli anni 80" di Raf; "Signor tenente" di Giorgio Faletti; "E dimmi che non vuoi morire" , cantata da Patty Pravo; "Timido ubriaco" di Max Gazzè; "Spunta la luna dal monte" di Bertoli e Tazenda; "Maledetta primavera" , cantata da Loretta Goggi. Mi scuso per averle citate alla rinfusa. È pacifico dire che molte di queste canzoni siano state vere e proprie vincitrici morali del festival e successivamente siano diventate dei grandi successi. Naturalmente non bisogna sopravvalutare Sanremo, che è una grande kermesse canora e non certo il “Premio Tenco”: la stragrande maggioranza delle canzoni sono semplici, commerciali e trattano quasi tutte di amore nel modo più strappalacrime possibile. Insomma è una grande gara nazionalpopolare e non bisogna aspettarsi di più. Le canzoni sono fatte soprattutto per “arrivare” subito alla gente e non hanno molto spesso la pretesa di essere poesia e talvolta nemmeno di essere espressione artistica. Il rapporto tra canzone d’autore e poesia comunque è problematico e controverso. In America non vengono fatte distinzioni tra Bob Dylan, Lou Reed, Leonard Cohen, Jim Morrison e i poeti della beat generation. In Francia cantautori come Brassens, Brel e Ferrè sono considerati dei veri poeti. In Italia cantautori come De Andrè, Edoardo De Angelis, Enzo Jannacci, Guccini, Battiato, Dalla, Paolo Conte, Edoardo Bennato, Vecchioni, De Gregori, Piero Ciampi, Claudio Lolli, Alice, Ivano Fossati, Giorgio Gaber, Enrico Ruggeri, Tenco, Ivan Graziani, Mario Castelnuovo, Vinicio Capossela, Ligabue sono riusciti a scrivere testi che hanno una certa dignità letteraria. Però non vengono considerati poeti a tutti gli effetti da parte dei critici letterari. D’altra parte in Italia il pubblico della poesia è inesistente e sono gli italianisti a decidere chi deve finire nelle antologie scolastiche. I cantautori invece godono di un grande seguito e il popolo conosce a memoria le canzoni e non le poesie: come già ho avuto modo di scrivere sono i cantanti i surrogati dei poeti al mondo di oggi. Facendo una considerazione a largo raggio ritengo che oltre alla razionalità tecnologica imperante ci sia anche una sorta di irrazionalismo strisciante, che porta tanti a credere agli oroscopi, ai maghi, alle fake news e naturalmente anche ai cantanti.
Comunque, sempre in Italia, in passato sono state fatte cose interessanti per quel che riguarda il rapporto tra poesia e musica. Baglioni ad esempio ha musicato una poesia di Trilussa ("Ninna nanna" ) e Guccini una poesia di Gozzano ("L’isola non trovata" ). Inoltre la canzone "Le passanti" di De Andrè è un testo di un poeta francese. "Il cantico dei drogati" l’ha scritta assieme al poeta Riccardo Mannerini. Lo stesso cantautore genovese ha scritto "Una storia sbagliata" in memoria di Pasolini. "Le lettere d'amore" di Vecchioni si riferisce al grande poeta portoghese Pessoa. Va ricordata anche la collaborazione tra Roversi e Dalla, durata 7 anni. Personalmente ritengo che la canzone, anche quella d’autore, possa essere considerata al massimo poesia popolare e spesso il testo, letto senza musica, non possa essere considerato a tutti gli effetti poesia. Spesso il testo della canzone non è eufonico. Inoltre quando si fanno dei raffronti tra un poeta e un cantante bisogna sempre paragonare non un singolo testo di canzone e una poesia, ma un album ad esempio di dieci brani e una intera raccolta poetica. In due o tre anni circa infatti un cantautore pubblica un album e nello stesso arco di tempo un poeta pubblica una raccolta. Una singola canzone o una singola lirica sono sempre troppo poco per giudicare. Bisogna invece considerare la totalità delle creazioni di un determinato periodo di tempo. Bisogna considerare non solo il testo ma anche l’unità macrotestuale. Ritorniamo però al festival. La stragrande maggioranza di noi spesso si dimentica chi ha vinto a Sanremo, mentre invece si ricordano di più certi piccoli scandali, verificatesi nell’evento, come ad esempio la vista del seno di P. Kensit e la farfallina di Belen Rodriguez. Sanremo è anche gossip e varietà. Sanremo non è solo cultura pop, ma anche un fatto di costume. I mass media di solito considerano la riuscita o meno di un festival dallo share e in base a questo valutano il conduttore e il direttore artistico, che talvolta sono la stessa persona. Dicevo prima che le canzoni di Sanremo peccano troppo di sentimentalismo. La poesia contemporanea oggi considera invece le questioni amorose come banale autobiografismo e stucchevole diarismo. A mio avviso la verità sta nel mezzo. Non bisognerebbe edulcorare troppo i propri sentimenti come accade nelle canzoni, che sono pensate e scritte per un pubblico adolescente o comunque giovane. Non bisognerebbe però razionalizzare, intellettualizzare troppo la poesia di oggi. La poesia infatti è la più alta forma di intelligenza verbale ma anche emotiva. Anche grandissimi poeti come Saffo, Catullo, Dante, Petrarca, Montale, Neruda e Salinas hanno scritto poesie d’amore. Molto spesso alcuni poeti e alcune poetesse hanno raggiunto la fama imperitura grazie a canzonieri in cui venivano descritte le loro pene e i loro sentimenti amorosi. Nella poesia odierna forse non si trattano più i sentimenti amorosi perché ancora pesa uno stilema neoavanguardista, ovvero quello di “riduzione dell’io”, come se la poesia dovesse essere sempre neo-oggettuale e ogni componimento poetico non dovesse essere la risultante equilibrata di una interazione tra io e mondo. Nella poesia odierna forse non viene trattato il sentimento amoroso perché sempre per la neoavanguardia bisognava evitare ogni intimismo. Nel frattempo la poesia è sempre più un genere marginale e non è certo colpa della neoavanguardia. Cosa fare allora? Quale è il rimedio? Per il poeta Giovanni Raboni bisogna evitare «l’idea della poesia come valore alto se non addirittura supremo, come sinonimo e emblema di nobiltà, di superiorità, d’eccellenza»[18]. Nel Novecento invece la poesia è diventata una signorina algida, fredda, snob e troppo intellettualistica. La poesia per essere tale deve cercare di “toccare il nadir e lo zenith” della sua “significazione”, per dirla alla Luzi, deve cioè descrivere i meandri più oscuri della psiche e nominare il mondo. Ma è anche vero che «niente è così facile come scrivere difficile», come scriveva il filosofo Karl Popper. Chi ha una visione del mondo dovrebbe riuscire sempre a semplificare senza essere semplicistico. Molto spesso invece nella poesia contemporanea vengono complicate persino le cose semplici e rese incomprensibili le cose complesse. I poeti di oggi snobbano Sanremo, ma avrebbero bisogno di piccole dosi omeopatiche di questo festival. Gli farebbe bene ascoltare qualche canzone. Sappiamo che la scrittura a differenza dell’oralità è, per dirla con Vygotskij[19], «un linguaggio per un interlocutore assente» ed è un atto “fonologico”, maggiormente articolato e privo di intonazione. Inoltre la poesia è una forma particolare di scrittura perché già con il Pascoli ad esempio veniva privilegiata la conoscenza alogica e analogica. Insomma i poeti cercavano una strada prerazionale. È altrettanto vero però che molti oggi imitano Zanzotto e Amelia Rosselli, scrivendo più per sé stessi che per gli altri; scrivono infarcendo le loro poesie di citazioni colte; scrivono per una ristrettissima cerchia di eletti. Il loro è un linguaggio per allusioni. È un linguaggio criptico. La lirica invece dovrebbe ricercare la validità universale. Per Nietzsche uno solo ha sempre torto e soltanto con due persone inizia la verità. Sempre per il grande psicologo russo Vygotskij «la verità è un’esperienza socialmente organizzata». Da soli si delira. Bisogna rivolgersi agli altri per avere una presa di coscienza. Le canzonette di Sanremo, a differenza di molte poesie di oggi, forse sono scritte da autori furbastri; però hanno una notevole capacità comunicativa, anche se forse la maggioranza di esse non sono arte. Insomma il mattone non è più un investimento. I soldi non sono più sicuri in banca. I cittadini chiedono più sicurezza. La crisi ha impoverito molti. Un titolo di studio umanista talvolta è un ostacolo per trovare un posto di lavoro. Alle elezioni il primo partito è senza ombra di dubbio quello degli astensionisti e la vittoria è decisa invece da coloro che nei sondaggi si dichiarano indecisi, che solitamente appartengono all’elettorato moderato. I politici, nonostante tutto, continuano a promettere l’impossibile. Milioni di italiani però, nonostante tutti questi problemi, si fermano e si incollano davanti ai televisori per cinque serate per commentare le canzoni. La comunità poetica invece lo snobba totalmente: eppure tutti avremmo bisogno ogni tanto di essere riportati all’essenziale. I poeti in definitiva devono scegliere se mettere un poco di ordine o aggiungere disordine a una letteratura come quella attuale già troppo confusionaria, caotica e dispersiva. Non chiedo certo di dare una definizione esaustiva della poesia o dell’arte, che sarebbe come assiomatizzare l’ineffabile. A tal proposito ho una unica certezza a proposito dell’arte, ovvero ‒ come scrisse Henry Miller ‒ che «non dovrebbe insegnare nulla, tranne il senso della vita»

 


Note
[1] Ecco un articolo divulgativo di uno specialista sulla Musicoterapia:
https://www.psicologo-milano.it/newblog/musicoterapia-peculiarita-e-ambiti-di-applicazione/
[2] Le radio Vintage sono stazioni radio, che trasmettono musica dei decenni passati, di solito dagli anni sessanta agli anni novanta. Per radio Vintage si può anche intendere (ma non è questo il caso) degli apparecchi radio dei decenni passati.
[3] Guardare video di canzoni su YouTube non è reato. Lo diventa se il materiale viene diffuso e commercializzato. Se il materiale su YouTube è protetto da diritto di autore a pubblicarlo sul proprio canale YouTube o a diffonderlo via social si può incorrere come minimo in un reclamo o al massimo in un illecito civile. Non sono assolutamente un esperto. Ho fatto però delle ricerche. Per capire se un video è protetto da copyright ecco un link:
https://www.aranzulla.it/come-capire-se-un-video-e-coperto-da-copyright-1165602.html
Se si vuole convertire il video musicale di YouTube in file mp3 ecco la consulenza di uno studio legale:
https://www.studiocataldi.it/articoli/24102-scaricare-musica-da-youtube.asp
[4]https://it.m.wikipedia.org/wiki/Rimasterizzazione#:
[5] https://www.wireshop.it/magazine/bluetooth-cos-e/
[6] Per major si intendono le principali case discografiche (o etichette discografiche), che promuovono e distribuiscono musica leggera nel mondo. Il mercato mondiale discografico è concentrato in poche mani.
[7] Per musica indie si intende la musica alternativa, indipendente, prodotta dalle case discografiche più piccole. Ecco un elenco di artisti italiani indie:
http://www.musicaindieitaliana.com/lista-incompleta-delle-band-e-cantautori-indie-italiani/
[8] Il saggio breve si intitola "Il carattere di feticcio in musica" in "Dissonanze" di Adorno (Feltrinelli, Milano, 1990)
[9]https://www.losbuffo.com/2018/03/22/canzoni-contrario-satana-droga-illusione/
[10] A proposito di divertimentifici, ho letto che le discoteche erano in crisi, già da prima del Coronavirus. Prima ancora che venissero chiusi per il Coronavirus, i locali notturni erano in crisi in Italia per i problemi/costi legati alla sicurezza e per la tassazione. Ma forse il loro vero problema è che non vanno più di di moda. Sembra che i social network e YouTube abbiano colonizzato gran parte del tempo libero giovanile e secondo gli esperti abbiano mutato radicalmente i concetti di aggregazione e amicizia. Un tempo le discoteche erano l'unico luogo di ritrovo della mia generazione. I giovani sfogavano le frustrazioni della settimana nelle discoteche. Molti giovani nutrivano grandi aspettative per il sabato sera. In quel mondo contavano soprattutto le belle auto, l'aspetto fisico e l'abbigliamento, visto e considerato che qualsiasi forma di dialogo era soffocata dalla musica. Tutti in pista a fare quattro salti per cuccare la bella di turno. Non potevi non andare in discoteca perché altrimenti eri un emarginato. Per gli altri eri uno sfigato. Ti toccava anche fingere di gradire quella musica. Ti dovevi far piacere quel mondo per non passare male.
[11] https://it.m.wikipedia.org/wiki/Spotify
[12] https://www.argoserv.it/generazione-x-y-z-c
[13] I trapper, in parole povere e semplificando, sono rapper che usano un linguaggio più crudo. Per alcuni sono diseducativi. Talvolta trattano tematiche di attualità e nei loro testi talvolta ci sono sprazzi poetici. In ogni modo, come per la musica indie, anche i trapper riescono ad avere una certa genuinità. I più conosciuti trapper italiani sono Sfera Ebbasta, Ghali e la Dark Polo Gang.
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Trap_(genere_musicale)
[14]https://www.agi.it/spettacolo/musica/che_cosa_ilreggaetone_qual_il_segreto_del_suo_successo-2123231/news/2017-09-05/
[15] Per showbiz si intende il mondo dello spettacolo, il mondo del business ma anche il web. C'è un elite di influencer e una gran massa di influenced: questo è il mondo ad esempio dei social media. Sono poche le voci critiche, che vengono sopraffatte dal marasma dei vip, degli hater, dei troll. Non esistono più sfumature di grigio. Si ama o si odia senza riserve senza discernimento. I vip però non dovrebbero lamentarsi troppo degli hater. Grazie allo stesso sistema possono guadagnare grandi cifre su Instagram senza fare niente. Anni fa era peggio. Perfino Tonino Carino fu attenzionato dalle Br. E che dire delle contestazioni ai cantautori negli anni settanta? Oggi va molto meglio ai vip. Gli italiani si sono impoveriti, ma i vip guadagnano belle cifre senza particolari meriti. Oggi essere vip è come essere nobili un tempo: si gode di molti privilegi, che vengono ereditati dai cosiddetti figli d'arte. I figli d'arte ad esempio hanno centinaia di migliaia di follower su Instagram senza aver alcun merito e senza aver fatto alcun sacrificio. Non si lamentino troppo i vip. Non solo ma va detto che talvolta il mondo dello spettacolo etichetta/categorizza come hater persone che fanno critiche negative e ostili senza essere offensive. È vero che su internet non dovrebbe essere garantito l'anonimato. È vero che ci sono anche stalker che perseguitano per anni i vip. È vero che ci sono persone disturbate psicologicamente ossessionate dai cosiddetti vip. Ma è altrettanto vero che anche lo showbiz oltre allo Stato stabilisce il suo ordine del discorso per dirla alla Foucault. Detto in termini semplici, chi critica talvolta i vip viene talvolta considerato un invidioso, un poveretto, un megalomane, un pazzo, un hater oppure un molestatore a prescindere e non è assolutamente detto che lo sia. Chi critica i vip è automaticamente out. Non si guarda alle qualità delle argomentazioni del critico. Lo si attacca subito in modo destabilizzante. Gli si fa causa penale e civile. Ma chi sono i vip? Per Galeazzi i vip sono quelli che stanno nel vippaio. Per lo showbiz i vip sono le vallette e i calciatori. Sono personaggi pubblici coloro che hanno avuto passaggi televisivi. Ma è solo una strategia da parte di chi dirige i mass media per distrarre le persone e non fargli sapere cosa accade nelle stanze dei bottoni. Ci sono persone molto potenti, che sono poco conosciute al grande pubblico. Lo showbiz stabilisce il suo ordine del discorso. Stabilisce cosa è giusto e cosa no, cosa è lecito e cosa no. Lo show business, intriso come è di darwinismo sociale, narra i sacrifici di chi ce l'ha fatta e si dimentica i sacrifici di chi non ce l'ha fatta. Certe showgirl dicono che fare sacrifici sia trasferirsi a Roma o Milano, andare in palestra, tenersi a dieta. Altri personaggi televisivi affermano che non si può criticare negativamente le loro trasmissioni perché in questo modo non si rispetta tutte le persone che vi lavorano dietro le quinte. Seguendo questo principio non si potrebbe criticare neanche Hitler o Stalin, che come si sa davano lavoro a molte persone. Infine la ciliegina sulla torta: viene diffusa l'idea che chi è vip ha qualità straordinarie, quando invece spesso i vip sono tali perché il pubblico si rispecchia nella loro mediocrità. Anche questa è una mistificazione della realtà. Anche questo tipo di narrazione deformata rientra nella istituzione di un ordine del discorso. Lo showbiz pensa per noi. È vietato pensare con la propria testa. Stabilisce i gusti, le mode, gli stili i tormentoni. Personalmente ce l'ho con le idee fisse e contro lo strapotere dei vip, che ancora oggi talvolta si comportano da lestofanti. I vip, ad esempio, spesso non pagano al ristorante ed allo stadio.
[16] Venditti ha dichiarato che talvolta De Gregori e De André andavano ai suoi concerti per criticarlo sommessamente in quanto i suoi testi erano considerati dai due meno letterari e più commerciali. Vecchioni prese in giro De André in “Belle compagnie” (“Chi è il più anarchico del reame?"), anche se poi diventarono amici. E che dire di ciò che cantava in “Via Paolo Fabbri 43” Guccini? In quella canzone prendeva in giro i testi di altri cantautori. Cito testualmente: “La piccola infelice si è incontrata con Alice a un summit per il canto popolare. Marinella non c’era, fa la vita in balera e ha altro per la testa a cui pensare, ma i miei ubriachi non cambiano soltanto ora bevon di più e il frate non certo la smette per fare lo speaker in TV”. Malignità oppure ironia e anche autoironia? Jannacci in fondo criticava l'intera categoria in "I poveri cantautori". Senza ombra di dubbio niente però a che vedere con le cattiverie e l’ostracismo che il mondo dello spettacolo riservò a Mia Martini.
[17] Allo stesso tempo sono sfuggite alla censura canzoni come “Il triangolo” di Renato Zero, “Il Kobra” di Donatella Rettore, “Colpa d’Alfredo” di Vasco Rossi, “Pensiero stupendo” di Patty Pravo, “Comprami” di Viola Valentino, “America” di Gianna Nannini, “Disperato, erotico stomp” di Lucio Dalla. Una canzone reazionaria come “Chi non lavora non fa l’amore”, cantata da Celentano e Claudia Mori, naturalmente vinse Sanremo e suscitò polemiche politiche, ma non venne mai censurata da nessuno.
[18] "La poesia che si fa. Critica e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004" di Giovanni Raboni (Garzanti, Milano, 2005)
[19] "Pensiero e linguaggio" di Lev S. Vygotskij (Giunti, Firenze, 2007)

 

 

 

 

Due parole su amicizia e stima tra letterati e poeti, veri o presunti

mag 202023

 

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Nel mondo letterario si parla tanto di mafia culturale ed è a mio avviso un termine inappropriato perché la vera mafia si spartisce grandi quantità di soldi e tanto potere, mentre la comunità letteraria ad esempio si spartisce solo le briciole e sono tantissimi i galli nel pollaio. Non è quindi tanto la modalità o la tipologia ma lo scarso giro di affari e il mercato di vacche magre a rendere la cultura poco mafiosa. A essere malevoli si può parlare di mafia culturale, intendendo una mafia con la m minuscola (che non uccide le persone ma la vera cultura), quella dei favoritismi, degli abusi di potere, delle ingiustizie, dei privilegi, delle cattedre per nepotismo, clientelismo, etc etc. Insomma la mafia culturale è una mafia non solo da colletti bianchi ma anche da innocui dilettanti, che però dovrebbero dare per primi il buon esempio e invece non lo danno. Non solo ma il circolo virtuoso d'un tempo non esiste più, perché non necessariamente il prestigio culturale dà prestigio sociale e il prestigio sociale dà soldi. C'è chi sostiene che l'amicizia tra poeti o tra letterati, quella vera, non esista, ma esista solo quella interessata (insomma scambi di favori, do ut des, etc etc). I letterati dovrebbero stimarsi e poi diventare amici, mentre accade spesso che prima diventano amici e poi si stimano, ma poi è vera stima? Ancora una volta viene da chiedersi se esiste la stima disinteressata o soltanto nell'Iperuranio. L'importante, realisticamente parlando, non è la stima effettiva ma quella percepita: ricordate l'immanentismo di Berkeley, ovvero l'essere è essere percepito? Anche qui la stima è la stima percepita e così l'amicizia. Che poi si può stimare chi non si dimostra amico veramente? Si può stimare chi non ci stima e nutre un'idiosincrasia nei nostri confronti? Quanto sforzo ci vuole? Ci vorrebbe un'invidiabile obiettività e imperturbabilità d'animo, che pochissimi hanno francamente. Allo stesso tempo ci vuole imperturbabilità d'animo, stoicismo, grande correttezza nello stroncare un amico o dirgli anche solo privatamente che non ci piace il suo libro. Di solito uno non stronca e non esprime giudizi negativi per quieto vivere, per evitare rappresaglie e vendette. Poi ci sono le alleanze non solo tra sodali apparentemente disinteressati, ma anche tra letterati della stessa città, della stessa casa editrice, dello stesso partito, della stessa università. Quanti attestati di stima sono falsi e inautentici? Quanta disistima viene taciuta per interessi di ordine superiore, per cause di forza maggiore? Viene naturale per amor proprio stimare chi dimostra di stimarci, ma è molto difficile, quasi impossibile il contrario. Se qualcuno ci dimostra stima, finiamo per vedere di primo acchito solo i suoi punti di forza e i suoi lati positivi. Allo stesso modo se un genio ti critica finisci per cercare difetti, per trovare il pelo nell'uovo e sminuirlo. Ci vuole molta umiltà, assennatezza, modestia per accettare serenamente delle critiche, anche perché purtroppo anche nel mondo letterario a pensare male si fa peccato ma ci si indovina sempre e dietro a delle critiche o a delle stroncature c'è quasi sempre un motivo personale o ideologico, perché di solito i letterati non cercano guai e hanno un atteggiamento conciliante. Di solito il meccanismo è semplice. Queste sono le tattiche messe in atto dai letterati: se tu mi stimi, io ti stimo; se tu non mi stimi, io non ti stimo; se tu mi attacchi, io ti attacco; se tu non mi pesti i piedi, io non ti pesto i piedi. Di solito viene evitato l'attacco fine a sé stesso, la polemica sterile. Al contempo nessuno fa niente per niente, quasi niente viene fatto gratuitamente, a meno che a uno non gli importi niente di fare carriera letteraria (come me del resto), e chi fa un piccolo favore vuole essere ricompensato prima o poi. Esiste inoltre la polemica a distanza senza fare i nomi (si dice il peccato ma non il peccatore e anche si dice a nuora perché intenda suocera). Come se non bastasse l'amore e il sesso complicano tutto terribilmente. È tutto semplice fino a quando un genio come Giovanni Raboni si mette con un genio come Patrizia Valduga e scrivono poesie immortali, ma come la mettiamo con i compromessi sessuali o anche con le aspiranti poetesse sopravvalutate, proprio perché amate da un grande letterato? Come saggiamente cantano i Baustelle: "Perché l'amore rende ciechi se c'è e non distingui Sylvia Plath da un parassita". Tutte queste cose facevano dire alla Merini che il mondo dei poeti non è poi così male, ma è terribile il sottobosco poetico. Concludendo, sono due le scuole di pensiero a riguardo della mafia culturale: 1) c'è sempre stata, c'è, ci sarà ed è universale 2) è un male, un malcostume prettamente italico.
Nel frattempo la psicologia e la sociologia di poeti, scrittori, letterati italiani è molto semplice, quasi elementare, a tratti pavloviana procede per riflessi condizionati, a tratti risente del condizionamento operante con rinforzi positivi e negativi, e soprattutto è fatta di una buona dose di egocentrismo, vanagloria e meschinità, ma qualcuno obietterà che funziona così in tutti i settori e fa parte della natura umana. Basta lisciare il pelo o infastidire il letterato per vedere reazioni spropositate. L'ego dei poeti infine è ipertrofico, vuoi spesso per disturbo di personalità di base, vuoi per per troppe frustrazioni; basta davvero poco per essere amati oppure odiati, con l'aggiunta di un piccolo particolare da tener presente: se lodi un poeta lo ritiene un atto dovuto e dopo qualche giorno si scorderà di te, se invece lo critichi negativamente ti odierà a vita e se la legherà per sempre al dito (basta togliere un'amicizia o bloccare qualcuno su Facebook per essere odiati a vita per lesa maestà e queste ragioni prettamente personali non hanno niente a che vedere con la poesia né con la letteratura). Che poi niente è certo nel mondo letterario. Chi può davvero stabilire con certezza se tizio o caio è un poeta? Lo stabiliranno solo i posteri. In matematica di un un insieme si può stabilire con certezza se un certo elemento ne fa parte oppure no. In letteratura è men che meno in poesia questa certezza non c'è. Ogni autore, ogni poeta subisce un processo. Ai contemporanei spettano solo le indagini preliminari, ma la vera corte di cassazione sono i posteri, se i posteri ci saranno.

Due parole su arte, vita, piccole meschinità...

apr 122023

 

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Scriveva Bukowski che nessun uomo è forte come le sue idee. Ho appena passato mezzo secolo e conosco un minimo la natura umana per sapere quanto avesse ragione. Da giovani molti hanno grandi ideali, che puntualmente tradiscono con azioni riprovevoli. È così facile cadere e/o ricadere. Non parlo moralisticamente di peccati o vizi (non pensiamo solo al sesso, che è poca cosa, un peccato veniale, se non viene fatto male ad altri), ma di errori in senso lato nella vita e di come è facile ricadere nei soliti errori, insomma essere recidivi. Ho conosciuto persone che da giovani volevano condurre una vita irreprensibile e dopo hanno sconfessato totalmente i loro ideali. Vale sempre per tutti il detto: "Soldi e santità, la metà della metà". Ma conosco anche un poco la comunità poetica e a volte mi chiedo quanto sia difficile per un artista non solo non tradire i suoi valori, ma vivere all'altezza delle sue parole. Spesso anche i poeti, i sedicenti e aspiranti tali si rovinano il fegato in piccolezze (meschinità, grettezza d'animo, invidia, gelosia, frustrazione, complessi di superiorità dietro a cui si celano complessi di inferiorità come insegna Adler, vanagloria, presunzione, smania di grandezza, egocentrismo, etc etc). Insomma sembra una cosa banale, però non sempre c'è correttezza nei rapporti umani (dallo scambio di favori, al compromesso sessuale, alla recensione pretesa come atto dovuto, alle alleanze interessate, all'arruffianamento, alla polemica sterile per ottenere visibilità). Che poi non si sa bene dove inizi e dove finisca la comunità poetica, né si sanno con certezza i criteri con cui si stabilisce che uno ne faccia parte o meno! Si ritorna al solito binomio arte e vita, letteratura e vita. Come faceva dire D'Annunzio ad Andrea Sperelli: «Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte». Più recentemente anche il sociologo Bauman ha scritto che bisogna fare della nostra vita un'opera d'arte e lo scriveva senza alcuna traccia di superomismo. Ma spesso in passato si voleva che l'artista desse il buon esempio con la sua condotta di vita, che fosse di specchiata moralità. Se questa regola fosse valida per tutti allora avrebbero ragione quelli del politically correct e anche quelli della cancel culture a rimuovere opere e artisti discutibili. Ma ci sono molti casi limite. Lo stesso D'Annunzio e molti futuristi non erano forse dei guerrafondai? Caravaggio non era forse un assassino? Althusser non strangolò forse la moglie che voleva lasciarlo? Dovremmo cancellarli, rimuoverli? E la lista potrebbe continuare. Senza andare troppo indietro negli anni e limitandosi al mondo dello spettacolo italiano basta ricordare il presunto scandalo di Mina, che era incinta e non sposata. C'è vita nell'arte e arte nella vita. L'arte a onor del vero si dovrebbe occupare della vita. L'arte dovrebbe imitare la vita, riprodurla, tradurla, trasfigurarla, invece del contrario. Il grande Carlo Bo scrisse che la letteratura dovesse essere come la vita. Ma era giovane e non ne poteva più degli intellettuali succubi del fascismo. All'epoca si doveva prendere le distanze da certi compromessi e si doveva indicare una nuova strada maestra. Alcuni decenni più tardi lo stesso Bo scrisse invece: «Il critico deve tenere conto della vita dello scrittore oppure deve limitare la sua indagine soltanto ed esclusivamente all'opera? La questione è antica: per il maestro di tutti, Sainte Beuve, la conoscenza della vita era più che utile, insuperabile. Per altri, a cominciare da Croce e da Proust, se ne poteva fare a meno, anzi era bene stringere lo studio alla valutazione pura dell'opera». La critica biografica purtroppo sopravvaluta la vita e considera poco le opere di un artista. La critica biografica pone troppo l'accento sulla sessualità di un artista e alimenta la pruderie, se non addirittura cerca lo scandalo. Da Freud in poi questo filone della critica spiega le opere in base alla sessualità di uno scrittore, un poeta, un pittore. Ma è davvero necessario? Un poeta dovrebbe essere considerato soprattutto per la sua arte e invece spesso si finisce per ricordarlo solo per i dettagli scabrosi o anche solo piccanti della sua vita. A mio avviso la morale sessuale, a meno che uno non sia uno stupratore o un pedofilo, dovrebbe passare in secondo piano. Certamente si dovrebbe guardare più all'etica e meno alla moralità sessuale in senso stretto. C'è una scuola di pensiero, nata dai poeti maledetti, che basa tutto sulla distinzione tra borghese e artista: all'artista sono concessi certi eccessi, però perde la rispettabilità borghese, a meno che non si penta e ritorni nell'ovile come una pecorella smarrita. Un pregio della comunità poetica è che Pasolini è stato per nostra fortuna uno scandalo vivente e chi veniva dopo ha imparato a non scandalizzarsi mai. Almeno i poeti più avveduti e meno cretini si salvano così dal perbenismo moralistico, tanto presente nella mentalità comune. Vecchioni comunque in una canzone dedicata alla Merini scrive: "Basta un niente per essere felici. Basta vivere come le cose che dici". Ma quanti ci riescono veramente? Quasi nessun poeta, se conosciuto realmente, è all'altezza dei suoi versi, che sono la parte più pura di sé; il critico dovrebbe considerare quanta purezza c'è a suo avviso nella parte più pura di un poeta, ovvero in un'opera. La vita di un artista dovrebbe essere considerata spesso come materiale spurio, grezzo, addirittura in molti casi irrilevante. Invece si è giunti spesso all'eccesso opposto, ovvero a un eccessivo psicologismo, a considerare un'opera come un test proiettivo di personalità. Si ritorna alla celebre frase hegeliana che nessun eroe è tale per il suo cameriere. Oggi più che la vita di un autore interessa il personaggio che riesce a far credere di essere. Oggi uno scrittore deve crearsi un personaggio, diventare riconoscibile, adirittura inconfondibile più con la sua figura che con il suo stile. L'importante a ogni modo è salvare la faccia e le forme, dare un'ottima impressione di sé, fare una bella figura perché anche i poeti, veri o presunti, al mondo d'oggi vivono di apparenza e immagine. E allora avremo il poeta che si vanta delle sue conquiste femminili, dei suoi premi, dei suoi consensi, delle sue pubblicazioni. Avremo poeti che sminuiscono altri poeti per affermare sé stessi, che dicono di essere invidiati da tizio, che dicono che caio è un pazzo o che sempronio è un poveretto. Oppure avremo delle poetesse che scimmiottano le veline perché oggi per essere, per esistere, per essere accettati bisogna fare così e l'apparire diventa non più il mezzo ma il fine. Salvo poi di meschinità in meschinità, di snobismo in snobismo, di presunta selettività in presunta selettività, di pretesa esclusività in pretesa esclusività, di malcelato disprezzo in malcelato disprezzo ritrovarsi a non vendere i propri capolavori e maledire il popolo bue che non sa apprezzare cotanto talento e tanta originalità!

 

Ancora una breve riflessione sulla poesia contemporanea, troppo cerebrale...

apr 012023

 

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Prima arrivano le immagini e la musica, poi le parole scritte. Così forse in una frase si potrebbe riassumere quello che sta accadendo alla poesia contemporanea italiana. Ma è solo questo? Il celebre Vittorio Sgarbi nella sua prima apparizione al Maurizio Costanzo Show dichiarò che la stragrande maggioranza dei pittori non erano intellettuali. Disse che lui di solito spiegava a loro il significato dei quadri. Era come se la pittura trascendesse gli artisti. Era come se fossero ignari di quello che stavano facendo. Non so se sia vero. Lo prendo per buono, vista e considerata la grandissima competenza in materia di Sgarbi. Erano gli anni Ottanta. Forse oggi le cose sono cambiate, dato che ci sono nell'arte contemporanea molti artisti concettuali e molti registi che fanno installazioni. Ma ancora oggi possono esistere pittori naif, pittori per dirla alla buona tutti inconscio. La stessa cosa non può avvenire nella poesia contemporanea, dove ci deve essere una sintesi tra conscio e inconscio e dove talvolta si cerca di rimuovere l'inconscio. Nell'arte contemporanea l'intellettualità è lasciata in modo preponderante ai critici d'arte. Diciamo che un pittore o uno scultore possono conoscere e metabolizzare tutta l'arte passata, tutta la tradizione in modo inconscio, mentre i poeti devono apprendere e rielaborare soprattutto consciamente. La grande poesia del Novecento, ad iniziare da Eliot e Pound per finire con il gruppo 63, è stata tutta intellettuale. Difficile stabilire i motivi per cui la poesia è più mediata dalla ragione, dalla lucidità, dalla coscienza. Oserei affermare che conti di più la poetica della poesia. Forse è solo questione di Kunstvollen, ma è difficile fare il processo alle intenzioni, alla volontà, dato che esiste sempre l'eterogeneità dei fini anche nell'arte. Ho scritto all'inizio che le immagini arrivano prima, forse perché siamo nella cosiddetta civiltà delle immagini e quindi queste acquistano priorità assoluta, forse invece perché la cosiddetta "emozione retinica" di un quadro o di una scultura arrivano prima, colpiscono di più il fruitore. Forse la fruizione di un quadro o di una scultura è più diretta, più immediata, più accessibile a tutti. Anche se un fruitore ignorante di un quadro non può spiegare esattamente quello che prova a vederlo, comunque quell'opera gli suscita una emozione, gli smuove qualcosa dentro. La poesia contemporanea invece non provoca più shock, non disturba i lettori, né li incanta o li suggestiona più. Questo probabilmente perché il pubblico non è educato al gusto, non riesce a cogliere più la poesia autentica, ma solo i suoi surrogati. Oppure forse questo può accadere anche nell'arte contemporanea, dove un pubblicitario come Oliviero Toscani e un artista come Cattelan spesso sembrano scambiarsi i ruoli? Chissà?!? Ai poeti è chiesto di essere prima, durante e dopo l'atto della creazione degli intellettuali lucidi e sorvegliati. Finisce che non si lasciano più andare alle emozioni e così i più non emozionano gli altri. Sembra quasi che ci sia una regola scritta nella poesia contemporanea per cui non bisogna emozionarsi né emozionare. Come sembra un'altra regola non scritta quella di complicare le cose, scrivere in modo difficile e colmo di paroloni per apparire più intelligenti. Disse Picasso che tutti i bambini sono degli artisti nati, il problema è restarlo da grandi. I grandi pittori si sono saputi riscoprire bambini. Ciò non succede a buona parte dei poeti, troppo impostati, troppo assennati. I poeti nel corso del Novecento, parlo di quelli passati alla storia, sono forse troppo cerebrali. Nella lirica contemporanea la maggioranza degli stessi poeti a loro volta vestono i panni anche dei critici o dei saggisti: pontificano, spiegano, giudicano, ma non emozionano più il pubblico. Li ho definiti troppo cerebrali, come un tempo si definivano quei mariti, oggi etichettati come cuckold, che amavano guardare la moglie fare sesso con amanti occasionali. È come se la poesia avesse perso il senso delle cose, la vera dimensione dell'essere. La situazione in cui si vengono a trovare i poeti oggi è innaturale. Hanno perso il contatto con il pubblico o meglio l'unico pubblico che esiste è quello della comunità poetica, in cui tutti scrivono versi, indipendentemente dal fatto che siano aspiranti, sedicenti o poeti riconosciuti. Un altro problema più basilare è che spesso tra contemporanei e connazionali neanche ci si legge. Molti scrivono e pochi leggono. Ancor meno sono quelli che leggono, hanno gli strumenti per valutare e poi giudicano obiettivamente. Tutto ciò è asfittico, mancano spiragli, l'orizzonte è angusto. La poesia non ha pubblico né mercato. Questo significa che c'è assoluta libertà interiore e di azione (i più però non agiscono in libertà perché hanno paura di rovinarsi la reputazione), ma che allo stesso tempo non essendo mercificabile in questa società consumistica non ha alcun valore o quasi. Eppure oggi molte poetesse italiane e molti poeti italiani varrebbe la pena di leggerli e anche di rileggerli. Sicuramente c'è anche del buono, anche se gli italiani sembrano non accorgersene minimamente. 

 

Ispirazione, scrittura e salvezza...

mar 252023

 

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C'è chi scrive come gli dicono di dover scrivere. Ma c'è anche chi non si discosta dai suoi maestri, c'è chi volontariamente li imita pedantemente, c'è chi diventa talvolta senza volerlo un epigono, un manierista. Ci sono teorie della letteratura e scuole di scrittura che impongono stili e canoni. In fondo bisogna saper rispettare il cosiddetto spirito dei tempi. Per anni ad esempio sono andate per la maggiore la Neoavanguardia, l'autonomia del significante, la letteratura come menzogna. C'è chi scrive come vuole scrivere. È una libertà interiore che dovrebbe rivendicare ogni autore, al di là delle mode. È un modo inequivocabile per essere veramente sé stessi. Significa scrivere come ci piace e quello che ci piace, scegliendo deliberatamente modalità, stile e tematiche. C'è chi si accontenta di scrivere come sa. Alcuni finiscono perciò per essere troppo schematici e ripetitivi. Un poco come un bambino che disegna sempre un albero perché sa fare bene solo quello. Ciò nonostante ci sono sempre margini di miglioramento in ognuno di noi. Non poniamo limiti all'acculturazione, né alla plasticità neuronale. Tutti abbiamo dei limiti e delle possibilità, ma è difficile stabilire quali. Alcuni hanno delle potenzialità inespresse che non riescono a tirar fuori, a concretizzare. I test attitudinali possono dire ben poco sulla creatività umana, che rimane un mistero inenarrabile. C'è chi giunge ad un compromesso tra queste tre istanze (dovere, volere, potere scrivere). Bisogna sempre scegliere cosa scrivere e come scrivere. Ma siamo davvero sicuri di scegliere? E se fossero invece le parole, le idee, le immagini a scegliere noi? Scrivere è sempre un'attesa e al contempo una scoperta, una sorpresa. Non sai mai cosa può uscire fuori. Viene da chiedersi quanto ci sia di cosciente, razionale e quanto invece di inconscio. Anche in un ambito apparentemente razionale e logico come il giornalismo la scelta di scrivere di un argomento piuttosto che un altro, la selezione delle informazioni, la formazione delle opinioni spesso derivano da attività e aspettative inconsce. In fondo aveva ragione Popper quando diceva ai suoi allievi che osservare non è un verbo intransitivo (lui disse: "osservate" e loro gli chiesero "cosa?") e si osserva soprattutto in base all'esperienza pregressa. C'è quindi di mezzo in ogni scrittura che si rispetti l'inconscio collettivo, individuale, cognitivo, istintuale. C'è poi chi sostiene come Lukacs che l'arte debba rispecchiare la realtà. C'è chi sostiene che debba rovesciare la prospettiva ordinaria con lo straniamento. C'è chi ritiene che l'arte debba trasfigurare la realtà e che quindi una componente immaginativa, soggettiva, se vogliamo ludica e carnevalesca, ci debba essere, debba essere messa in conto. C'è chi pensa che l'arte debba creare un altro mondo, seppur fittizio. Scriveva Heidegger che l'arte è la messa in opera della verità e che la vera creazione artistica debba aprire a nuovi mondi. È sempre difficile scegliere tra oggetto e soggetto, tra esterno e interno. Esplorando la realtà ci si imbatte nell'inconoscibilità della cosa in sé, ma scavando dentro ci si accorge dell'inconoscibilità dell'uomo in sé (così potremmo definire l'insondabilità dell'animo umano). Ma poi ancora una volta siamo noi a scegliere io o mondo oppure sono la nostra personalità di base, le nostre caratteristiche intrinseche, le nostre qualità interiori? Ogni volta che si parla di creazione il mistero si infittisce, spunta l'enigma. Da giovane pensavo che ci fossero due tipi di persone che avessero toccato Dio: gli artisti ispirati da Dio, che testimoniavano la sua esistenza con delle creazioni, e le persone che ricevevano le stimmate e quindi una parte della sofferenza divina. Ma siamo sicuri che l'arte metta in comunione con Dio? A seconda dei casi può tuttavia avvicinarci, soprattutto quando proviamo stupore, rimaniamo affascinati e ammaliati dalla bravura di certi artisti. Qualche volta ci chiediamo se quella straordinario talento possa essere solo frutto dell'ingegno, del lavoro, dell'arbitrio umano. Così scrive Borges: "Una volta chiesero a Bernard Shaw se credeva che lo Spirito Santo avesse scritto la Bibbia. E rispose: «Ogni libro che valga la pena di essere riletto è stato scritto dallo Spirito». Ossia, un libro deve spingersi oltre le intenzioni del suo stesso autore. L’intenzione dell’autore è una povera cosa umana, fallibile, ma nel libro deve esserci di più". Però in fondo l'ingegno, la possibilità di potenziarlo ed esercitare sono a loro volta sempre sottomessi al volere di Dio. Quindi anche se l'arte non fosse frutto di ispirazione divina sarebbe se non opera di Dio quantomeno concessione e volontà di Dio. Viene da chiedersi se ci sia Qualcuno che ispira certi artisti. Da dove provengono le parole, i pensieri, le immagini? E se il subconscio fosse divino? Esiste l'ispirazione? Ogni cosa può essere fonte di ispirazione? Può arrivare dovunque, in qualsiasi momento, a chiunque? Esistono delle persone ispirate o quelle ritenute tali in fondo si sono prese la briga o hanno avuto il lusso di restare in ascolto di sé stesse? Naturalmente dietro questi interrogativi legittimi ci può essere sempre qualcuno che abusa della credulità popolare e si arroga il diritto di parlare in nome di Dio. Ecco quindi spuntare i santoni, gli illuminati, i nuovi profeti, gli unti del Signore. Eppure non c'è niente di oggettivo. Nessun santo sa con certezza se ha ricevuto veramente un segno divino o se ciò è una allucinazione. Dio o chi per lui non dà certezze assolute a questo mondo. Tutto deve essere sempre verificato, messo in discussione. Chi non si mette in discussione è perduto. Nessuno psichiatra può oggettivamente trovare un discrimine tra santità e follia. A questo riguardo consiglio di leggere "Benedetta follia. Dai padri del deserto ai mistici di oggi" di Andreoli. Solo la Chiesa dopo uno studio attento delle opere e delle testimonianze fatte in vita può beatificare. Inoltre affermare che la propria ispirazione sia divina molto spesso è un grande atto di presunzione oltre che di ingenuità. E se poi non fosse un tratto distintivo di certi artisti, ma se tutti gli uomini fossero ispirati da Dio e se si trattasse solo di essere disposti ad accogliere? Allo stesso tempo penso a tutti gli artisti che hanno trasgredito i comandamenti, hanno commesso peccati mortali e non dovrebbero essersi salvati. Eppure sono artisti maledetti che hanno avuto gloria postuma. Mi chiedo se non possa esserci anche una arte ispirata dal demonio. Esiste forse un'arte che fa bene e una che fa male? Non dimentichiamoci che un tempo hanno messo i libri all'indice, il nazismo ha bruciato dei libri, nel corso della storia ci sono state troppe censure. Pretendere di stabilire quali opere sono da condannare e quali no è rischioso. Non si può fare come Hitler che considerava arte degenerata quella che si opponeva alla sua dittatura. Mi chiedo se con l'arte si può raggiungere la salvezza ultraterrena, se si possa espiare con essa le colpe e i peccati. Hegel sosteneva che la lettura del giornale il mattino fosse la preghiera laica dell'uomo contemporaneo. Io mi chiedo se anche la creazione e la fruizione artistiche possano essere intese come preghiere laiche. Forse chi è veramente religioso e fedele non chiede lumi all'arte, ma talvolta certi artisti dimostrano tutta la loro religiosità nelle loro opere artistiche. Inoltre mi chiedo anche quanto valga acculturarsi ed esprimersi artisticamente. Mi chiedo non solo se sia necessario per salvarsi l'anima, ma anche se sia necessario al mondo reale e concreto. Cosa può fare l'arte per la giustizia di questo mondo, per combattere la povertà? Forse niente, realisticamente parlando. E allora vale la pena sacrificare la propria vita e sé stessi in nome dell'arte? Quanto un artista è disposto a dare di sé in nome dell'arte? Qualcuno potrebbe ironizzare dicendo: "non libri, non opere d'arte, ma opere di bene".

La poesia di Sergio Guttilla sui migranti...

mar 082023

 

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Se dovessi consigliare una poesia sui migranti, dovrei per forza di cose parlarvi di “Home” della giovane e bravissima autrice somala Warsan Shire. Ma vorrei rimanere in Italia e a dire il vero tra i poeti riconosciuti nostrani non c'è l'imbarazzo della scelta, anzi non c'è possibilità di scelta, visto e considerato che trovo scialba e scontata, insomma di maniera, la lirica rinomata di Erri De Luca. Tra tutti gli aspiranti, sedicenti, effettivi poeti nostrani molti si sono cimentati nell'impresa di scrivere poesie sui migranti, che compiono viaggi della speranza, ammassati in barconi. E a onor del vero nel 99,9% dei casi non hanno saputo andare oltre la retorica, il sentimentalismo, il pietismo, il buonismo imperanti. Insomma luoghi comuni e basta, senza se e senza ma. Pose e modi di atteggiarsi per farsi belli agli occhi del mondo, per rientrare nel novero del politicamente e dell'eticamente corretto. Ammiccamenti al lettore e niente di più. Anzi dovrebbe essere severamente proibito scrivere poesie su temi così scottanti e delicati. Che poi si sa come sono sensibili oppure sciocchi i poeti nostrani, aspiranti e non, che appena c'è un naufragio oppure un terremoto sono subito pronti a verseggiare per la tragedia che ha appena colpito i loro animi nobili! No. Bisognerebbe mettere una legge in cui non si potrebbe speculare su tragedie nazionali o internazionali, scrivendo poesie ad hoc. Inoltre non è assolutamente detto che certe poesie a tema riescano a sensibilizzare le persone. Ma a volte osservo sia tutta una gara di buoni sentimenti. No. Un poeta con un minimo di buon senso e di dirittura morale dovrebbe evitare di scrivere su certi argomenti, su cui sarebbe meglio soprassedere. Sarebbe meglio il silenzio, la pagina bianca, il non detto. A dire il vero di poesie italiane sui migranti e le loro tragedie è pieno il web. Vanno di moda. Il primo premio in qualche concorso letterario è garantito, anche se il linguaggio è desueto, arcaico, stantio. Ma c'è un'eccezione: da tanta mediocrità si salva a mio avviso Sergio Guttilla, Capo Scout Agesci nel gruppo Bolognetta1, che ogni tanto scrive poesie e canzoni, suonicchia chitarra e pianoforte. Così afferma lui. Con la sua freschezza e genuinità riesce in questa sua lirica a trascendere il paludamento di tanta poesia ufficiale e non. Riesce a dirci qualcosa di nuovo in modo semplice e chiaro. Guttilla non è nelle sabbie mobili, non è nelle catacombe come alcuni suoi colleghi poeti più illustri. E noi capiamo che di queste sue parole avevamo bisogno perché sono parole veramente "migratorie", veramente spiazzanti, che ci fanno vedere quel tragico spaccato della realtà in modo nuovo. Dirò di più: questi suoi versi così originali capovolgono la visione ottusa di tanti benpensanti, che pensano di avere la verità in tasca, che dicono che i migranti non dovrebbero partire, che i flussi migratori andrebbero a tutti i costi regolamentati, che la colpa delle tragedie in mare è esclusivamente degli scafisti, etc etc. Qualche maligno potrebbe dire che questa poesia è un pezzo facile, che non è letteraria, che non ha dignità letteraria, che è enfatica, che stuzzica troppo il cuore, etc, etc. No. Sono tutte critiche pretestuose. Questa lirica è bella e veramente ispirata. Non è colpa di nessuno se a volte l'ispirazione va a trovare coloro che non sono reputati dei "poeti laureati" e che si dimostrano a onor del vero molto più poeti dei poeti ufficiali. Non è colpa di nessuno se questi versi sono veramente umani e se l'autore è veramente umano, a differenza di tanti piccoli geni incompresi, che fingono di sprizzare umanità da tutti i pori. Questa lirica è da antologia senza ombra di dubbio. Diffondete anche voi questi versi, citando l'autore, perché sia queste parole che il poeta in questione meritano di essere noti tra tanti impostori delle patrie lettere, tra tanti facitori di versi ormai patentati e celebrati. Sergio Guttilla riesce a emozionare e riesce nello straniamento; coglie nel segno, a differenza di tanti letterati nostrani, professionisti dell'intellettualismo radical chic. Questa lirica ci dimostra una cosa: che per scrivere di qualcosa bisogna aver visto una realtà da vicino in presa diretta. Ma ci dimostra anche che per scrivere di argomenti così sensibili bisogna essere non conformisti ma con un animo puro e uno sguardo lucido sul mondo. Ecco la poesia, che sta diventando meritatamente virale nel web:

 


Sergio Guttilla

 


29 giugno 2018
Dedicata a i 100 morti in mare, morti affogati
in attesa di una nave che li salvasse.

"Se fosse tuo figlio
riempiresti il mare di navi
di qualsiasi bandiera.

Vorresti che tutte insieme
a milioni
facessero da ponte
per farlo passare.

Premuroso,
non lo lasceresti mai da solo
faresti ombra
per non far bruciare i suoi occhi,
lo copriresti
per non farlo bagnare
dagli schizzi d’acqua salata.

Se fosse tuo figlio ti getteresti in mare,
uccideresti il pescatore che non presta la barca,
urleresti per chiedere aiuto,
busseresti alle porte dei governi
per rivendicare la vita.

Se fosse tuo figlio oggi saresti a lutto,
odieresti il mondo, odieresti i porti
pieni di navi attraccate.
Odieresti chi le tiene ferme e lontane
Da chi, nel frattempo
sostituisce le urla
Con acqua di mare.

Se fosse tuo figlio li chiameresti
vigliacchi disumani, gli sputeresti addosso.
Dovrebbero fermarti, tenerti, bloccarti
vorresti spaccargli la faccia,
annegarli tutti nello stesso mare.

Ma stai tranquillo, nella tua tiepida casa
non è tuo figlio, non è tuo figlio.

Puoi dormire tranquillo
E sopratutto sicuro.
Non è tuo figlio.

È solo un figlio dell’umanità perduta,
dell’umanità sporca, che non fa rumore.

Non è tuo figlio, non è tuo figlio.
Dormi tranquillo, certamente
non è il tuo."

 

Considerazioni di un umarell, l'incontro col teschio, i bastoncini di Shangai...

dic 272022

 

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Queste riflessioni sono scontate. Sono i piccoli pensieri quotidiani di un umarell, che giorno dopo giorno guarda come procedono i lavori della ristrutturazione dell'ecomostro davanti casa. Questi lavori sono fatti a circa duecento metri da casa mia e non mi disturbano per niente. Non sento i rumori. Non ho problemi con la polvere. Prendo il caffè in cucina e mi metto a riflettere. Guardo fuori dalla finestra. Anche questo è un modo di passare il tempo. Ogni cosa ha il suo tempo e ogni tempo ha le sue cose, secondo l'Ecclesiaste. Non sono più giovane. Esco raramente, il minimo indispensabile. Telefono pochissimo. Una telefonata ogni settimana. Eppure da giovane avevo tante amicizie. Ora resta qualche ricordo sbiadito. Gli amici di un tempo li ho persi per strada. Ognuno ha la sua vita. Non voglio essere malinconico. È una semplice constatazione di fatto. Ci sono gli impegni lavorativi, familiari per molti amici. Il tempo libero a disposizione è poco. Ma forse siamo troppo cambiati e non ci sapremmo più veramente riconoscere. Forse le mie sono nostalgie di uno che ha molto tempo da perdere. Forse come dicono banalmente alcuni il senso della vita è vivere. Forse ogni elucubrazione è qualcosa che ci allontana dalla vita stessa. Forse la vita e Dio scelgono come prediletti persone molto semplici e perciò innocenti. Forse molti ragionamenti sono intellettualismi vuoti; sono ciò che Freud chiamava razionalizzazioni, ovvero dei meccanismi di difesa dell'io. Da giovani comunque si cerca di vincere la morte con l'amore, con il sesso. Dirò di più: la morte molto spesso resta sottotraccia. Non ci si pensa. Da adulti avviene una scissione nella psiche. Da una parte il desiderio biogrammatico di immortalità, che alcuni vogliono soddisfare facendo figli oppure cercando la posteritå.

 

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Dall'altra parte come scrisse Totò nella sua celebre 'A livella "Nuje simmo serie, appartenimmo à morte!". Dall'altra parte la rassegnazione che tutti gli uomini appartengono alla morte, per quanto cerchino di divincolarsi invano dalla sua morsa. L'amore sembra vincere la morte, ma anch'esso è destinato a finire. Scrive in una sua poesia Sanguineti: "ho insegnato ai miei figli che mio padre è stato un uomo straordinario:/ [( potranno/ raccontarlo, così, a qualcuno, volendo, nel tempo): e poi, che tutti/ gli uomini sono straordinari:/ e che di un uomo sopravvivono, non so,/ ma dieci frasi, forse ( mettendo tutto insieme: i tic,/ i detti memorabili, i lapsus):/ e questi sono i casi fortunati". Il grande poeta genovese ci ricorda che per quanto ci si sforzi di lasciare una traccia i posteri saranno dormienti, per dirla alla Eraclito. Mi ricordo del Caffè delle giubbe rosse, frequentato decenni fa da Montale, Luzi, Parronchi, Bigongiari, etc etc. Leggevo della Repubblica dei poeti al Mulino di Bazzano negli anni '70, ideata da Adriano Spatola, Corrado Costa, Giulia Niccolai. Leggevo di Pennabilli, un paese ad hoc per la poesia di Tonino Guerra. Cercavo notizie sulla rivista "Prato Pagano" negli anni '80, diretta da Gabriella Sica, a cui collaborarono Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Silvia Bre. Ebbene alla fine tutto passa. Solo pochi studenti di lettere, pochi studiosi di letteratura, pochi appartenenti alla comunità poetica si ricorderanno di queste belle esperienze poetiche, che meriterebbero di essere ricordate dai più. Ma l'oblio è tiranno. L'oblio cala anche su molti protagonisti dello show-business, del cinema, della musica. C'è poco spazio per le commemorazioni veramente sentite, che non siano una mera passerella di personaggi in cerca di visibilità con i loro perenni "io l'ho conosciuto", "a me una volta confessò", "quando collaborammo assieme", scadendo spesso in un amarcord falso e melenso. Molto probabilmente saranno in tutt'altre faccende affaccendati i posteri, indipendentemente dal fatto che molti morti lascino una cospicua eredità morale, intellettuale, creativa. Da tempo ho accettato il dominio incontrastato dell'oblio. Che se ne fa uno della gloria postuma? E poi è una bella pretesa la posterità: per essere ricordati bisogna aver fatto qualcosa di memorabile. Non solo ma in Italia le culle sono vuote. Gli italiani fanno sempre meno figli. E allora in futuro chi leggerà poeti e scrittori italiani? Quando l'italiano sarà una lingua morta anche la letteratura italiana sarà definitivamente morta o quasi. Ma non siamo catastrofici e non poniamo limiti alla Provvidenza. Per ora in Italia solo nel 2021 sono 85.551 i titoli usciti (il 22% in più rispetto al 2020 e il 16% in più rispetto al 2019). Durante gli anni pandemici l'editoria ha fatturato di più. Certo ci sono moltissime pubblicazioni a pagamento, moltissime copie che finiscono al macero. Non tutti i libri avrebbero ragione di esistere, ma per ogni autore il suo libro deve essere stampato. In fondo la pubblicazione di un libro, seppure a pagamento, in alcuni piccoli paesi di provincia è una sorta di piccola promozione sociale oltre a essere quella che i letterati chiamano una "legittimazione culturale", ovvero se si vuole essere presi in seria considerazione dai critici ci vuole la pubblicazione cartacea. Riviste letterarie, literary blog spuntano come funghi. Certo quando si scrive per il web spesso ci si chiede se anche questo sia tutto inutile, destinato a scomparire nel mare magnum di Internet. Ci sono meno presentazioni di libri ma molte più dirette Facebook. C'è molto fermento. Tutto quindi lascia ben sperare. Roberto Vecchioni nella sua canzone "La stazione di Zima" (ricordando il poeta russo Evtusenko) scrive che "ci facciamo del male perché non ci capiamo niente". Siamo confusi, smarriti di fronte al mistero della vita, dell'amore, della morte. Come scrive in un suo aforisma Morandotti "tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l'uso e la data di scadenza". La vita è complessa perché fatta a strati molteplici come una cipolla (come Tommaso Landolfi definì la sua opera) e allo stesso tempo ci sono quelli che Guénon chiama gli "stati molteplici dell'essere". Senza pensare al fatto che è sempre ardimentoso prendere coscienza pienamente della nostra coscienza (mi si scusi il gioco di parole, ma rende bene l'idea). La vita è già molto difficile viverla. Capirla è quasi impossibile. Ci sono dei momenti in cui abbiamo delle epifanie e ci sembra di aver afferrato tutto. Ma un istante dopo ritorna l'opacità. Forse non siamo fatti per capire la vita. Eppure ognuno ha le sue certezze in tasca, ha le sue piccole verità, costruite sulla base delle sue conoscenze e della sua esperienza, sempre limitate rispetto alla materia infinita della vita. Sorgono spontanee dal basso delle domande, ma di difficile soluzione, visto che non c'è un comune accordo: alcuni dicono che esistono delle leggi generali nella vita e altri dicono che ognuno è fatto a modo suo e ha la sua storia. Ci chiediamo nel corso della vita che senso abbia tutto, se esista Dio, come relazionare carnalità e spiritualità, come rapportarsi con la morte, come vivere, cosa pensare, come espiare i nostri peccati, se siamo colpevoli, come essere pienamente consapevoli e risponsabili delle nostre azioni. E poi ci chiediamo cosa è rimasto del passato? Dove è finito il passato? Dove si è involato? Siamo qui in questo tempo intermedio e tutto si fa incerto. Abbiamo in testa molti interrogativi, dubbi ed ipotesi. L'amore non va tradotto in senso letterale e non bisogna lasciarsi sopraffare dal nonsenso della morte. Continuiamo però a sbagliare, nonostante avvertenze e controindicazioni sulla vita. Il tempo scorre inesorabile fino al guasto irreparabile per vizio, destino o logorio....Così sarà per quel poco che ci rimane....forse Dio sa solo giudicare e non spiegare le nostre scelte: siamo noi uomini, sospesi tra bisogni primari e cose ultime, il paradosso dei paradossi. Io ultimamente mi chiedo sempre più spesso se qualcosa veramente ci appartiene e se noi veramente apparteniamo a qualcosa di più grande. Non è un caso che per Gadda la realtà fosse uno gnommero e per Montale una matassa che lui non era mai riuscito a sbrogliare. Tutto è un grande mistero se si pensa che ogni vita è un segmento, che talvolta i segmenti si intersecano, che si incontrano oppure che corrono paralleli per sempre. A volte facciamo un tratto di strada assieme a certe persone che poi ci lasceranno o che poi noi lasceremo. Resta qualcosa alla fine? Qualcuno lascerà a noi il testimone? Noi lo lasceremo a qualcuno il testimone? Ci vuole anche del tempismo per saper raccogliere il testimone.

 

 

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Come ebbi a scrivere in alcuni scarni versicoli qualche anno fa:


Recitiamo un copione o un canovaccio?
Si recita a soggetto? Si naviga a vista?
Oppure forse siamo dei bastoncini disuguali
di Shangai e non sappiamo chi ci ha mischiato
e neanche quali mani supreme ci muovono
e giocano con noi? Le nostre vite sono forse linee
che talvolta si intersecano, talvolta corrono parallele,
talvolta combaciano per tratti più o meno lunghi?
Dal punto di una linea non si può comprendere tutto
questo groviglio inestricabile, questo mondo di linee:
ecco perché forse non si può capire
mai il mistero della nostra vita e di quelle altrui.
Forse non c'è alcuna logica nei nostri istanti.
Troppe le variabili e le variazioni infinitesimali.
In ogni caso è impossibile cogliere tutti i nessi.
Anche se fossimo linee
(regolari, frastagliate o curve chissà?).
il disegno non è lineare e ci trascende.


Sappiamo veramente apprezzare gli altri e gli altri ci sanno veramente apprezzare? Oppure è tutta fatica sprecata? Oppure tutto è destinato a cadere nel vuoto, nel nulla? Qualche filosofo ci insegna che siamo esseri finiti educati all'infinito. Ma forse ogni congettura, ogni simbolo squadernato, ogni mito amato è inutile. Forse niente vince la morte. Forse ogni lavoro, ogni passione è un passatempo per non pensare alla morte, come intuì Pascal. Noi dobbiamo per forza pensare ad altro. Si finisce anche per pensare che il problema è sempre un altro. Allora molti per scongiurare la morte cercano di inebriarsi a più non posso della vita. Il loro è un vitalismo disperato. Spesso però il loro tentativo è goffo e ignari si gettano a capofitto tra le braccia della morte, finendo nel vortice dell'autodistruzione. Il loro più grande rimpianto è sempre quello di non aver vissuto pienamente, di non aver colto adeguatamente tutte le occasioni della vita. Alcuni vorrebbero essere tutto o almeno molto. Finiscono per fare e disfare troppo; finiscono col vivere di eccessi. È molto difficile trovare l'equilibrio tra tutte le istanze psichiche. È molto difficile sapersi accontentare perché bisogna anche sapersi accettare e anche saper rinunciare.

 

Ancora e di nuovo su un mio rovello, ovvero la solitudine (tra letteratura, psicologia e mistica)...

dic 162022

 

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Siamo animali sociali, ma talvolta abbiamo bisogno di stare da soli. La vita oscilla tra questi due poli: socialità e isolamento. Talvolta c'è bisogno di stare da soli, riflettere sulla nostra vita, cercare di capire in quale direzione stiamo andando, farsi un esame di coscienza, come insegnava Ignazio di Loyola. La cosa migliore sarebbe trovare un equilibrio interiore, fondato su una sana alternanza tra questi due poli. La solitudine come la castità è molto più sopportabile se è una libera scelta e non una costrizione, dovuta a ostracismo, a emarginazione sociale. Anche stare troppo a contatto con gli altri può essere snervante, può esaurire. Alcuni lavoratori, che svolgono professioni di aiuto, soffrono di burn out, a forza di stare troppo a contatto col pubblico. Il grande poeta Kavafis scriveva: "E se non hai la vita che desideri cerca di non sprecarla nel troppo commercio con la gente". Si può essere soli perché si ha un problema, si vive una determinata condizione esistenziale, si soffre di un certo disagio. Gli altri però possono essere terapeutici così come possono essere l'inferno secondo Sartre. Filosoficamente qualcuno potrebbe affermare che stare con gli altri ci dà solo l'illusione di sentirsi meno soli, ma anche questa parvenza di convivialità è necessaria. Secondo uno studio del 2013 della Ohio University chi vive solo ha più probabilità di avere anomalie cardiache, di soffrire di depressione, di avere un sistema immunitario meno efficiente.
Oggi viviamo in una società senza comunità nella maggioranza dei casi. Alcuni si sentono soli e dicono che la città in cui vivono non dà loro niente, ma al mondo di oggi forse una città può offrire solo servizi e non sconfiggere la solitudine dei cittadini. Durkheim aveva coniato il termine anomia per indicare il disordine morale, la sensazione di anonimato, la mancanza di solidarietà della civiltà moderna e aveva chiamato anomico il suicidio dovuto proprio a questi fattori. Oggi quindi si è più soli probabilmente di un tempo. Nel mantovano e in provincia di Padova comunque è stato replicato il caso di Villa del Conte per vincere l’isolamento delle persone. Sono stati creati degli assessorati alla solitudine. Nell'antichità la solitudine era ricercata più spesso. Alcuni poeti antichi avevano un ideale di vita solitaria e bucolica. "Beata solitudo" dicevano i latini. Oggi siamo molto più connessi e più soli di un tempo. Gli psicologi chiamano tutto ciò solitudine digitale. Il caso esemplare sono i giovanissimi Hikikomori giapponesi che si rinchiudono tutto il giorno nella loro stanza per stare al computer. Il ritiro sociale è uno dei sintomi della schizofrenia, ma non è assolutamente detto che sia sempre patologico. La propria psiche è come un contenitore che non si può unicamente riempire del mondo o del proprio io. Probabilmente propendere verso il mondo o l'io dipende anche dalla personalità di base, dalla estroversione o introversione di un individuo. Cosa è che può vincere la solitudine? L'amore innanzitutto, poi l'amicizia, il senso di appartenenza a una comunità oppure a una generazione. Ma oggi non esistono più i movimenti studenteschi. Un tempo esisteva una fauna studentesca che apparentemente era lì per il famigerato pezzo di carta da portare ai genitori e poi in realtà reclamava il sacrosanto diritto di divertirsi, acculturarsi al di fuori degli schemi precostituiti, scopare, viaggiare, ballare. Erano stati scritti tre romanzi sulla realtà studentesca rappresentativi delle varie epoche: "Porci con le ali" (anni '70), "Altri libertini" (anni '80) e "Jack Frusciante è uscito dal gruppo" (anni '90). Forse questi romanzi avevano detto tutto sul mondo studentesco italiano. Dopo l'università non era più stata un momento di discussione, che talvolta diventava di scontro ideologico esasperato, ma un vero e proprio esamificio. Dagli anni '90 in poi si avvertiva che l'unica cosa che accomunava la generazione era l'autodistruzione. Si intuiva perfettamente ciò con il libro della Santacroce "Rimini", il primo della serie. Coloro che invece cercano di vincere la solitudine con l'amore possono imbattersi nell'insoddisfazione sessuale, nelle carenze affettive, nella delusione sentimentale. È difficile essere veramente soddisfatti in amore su tutti i fronti. Ci sono amori platonici e rapporti occasionali caratterizzati dall'impersonalità e l'anaffettività. È difficile avere tutto, trovare una perfetta corrispondenza d'amorosi sensi. L'abbraccio è sconosciuto a molti. Non ci si abbraccia più. È sconveniente. Bisogna essere formali. Ogni dimostrazione di affetto, ogni prova di calore umano viene considerata inopportuna. Lo stesso Papa Bergoglio ha sostenuto che per accorgersi dell'umanità altrui oltre all'ascolto ci vuole il tatto, che secondo il Pontefice è il senso più importante. Una ricerca, condotta da pediatri coordinati da Siavash Beiranvand, docente di anestesiologia, ha coinvolto 120 bambini tra i 2 e i 6 mesi e ha dimostrato che coloro che venivano abbracciati dalla madre piangevano molto di meno dopo un'iniezione. C'è chi per ovviare a questa carenze affettive si compra un animale domestico. La solitudine viene però caldamente consigliata dai mistici. I Padri del deserto si ritirarono appunto nel deserto per fuggire dalle tentazioni del mondo e del diavolo, come fece Cristo per 40 giorni. Per San Giovanni della Croce bisogna meditare in solitudine, pregare per combattere i tre nemici dell'anima, ovvero il mondo, la carne, il demonio. Anche per Santa Teresa d'Avila l'autoperfezionamento passa attraverso la solitudine e la preghiera. Eckhart scriveva che non è necessario essere soli per raccogliersi interiormente e trovare Dio: il vero credente porterà Dio con sé in ogni luogo e con qualsiasi persona, nella chiesa, nella solitudine, perfino in prigione. Per Simone Weil la solitudine va preservata e cercare di sfuggire a essa è una vigliaccaggine. Il mondo quindi distrae, tenta, fa peccare, sporca l'anima. Per i Sufi il vero essere spirituale sa raccogliersi così tanto da essere solo in mezzo alla folla, da non prestare alcuna attenzione alle voci della folla. Secondo i buddisti non bisogna farsi prendere dallo sconforto della solitudine, che può essere anche ritemprante e rilassante. Monaci e suore di clausura, nonostante gli inviti della mistica cristiana alla solitudine, vivono però anch'essi in comunità. Gli stessi eremiti moderni accolgono visitatori e curiosi, pubblicano le loro meditazioni in gruppi Facebook. Secondo i mistici cristiani e non, nonostante le debolezze e le pecche umane, l'isolamento sociale conduce a Dio e Dio è tutto il contrario della solitudine: Dio è amore. Il mondo stesso è fondato sull'interdipendenza degli individui. In un racconto di Calvino un uomo non si sa allacciare le scarpe e fortunatamente trova un uomo che gli fa questo favore: perfino in Hegel è il padrone ad avere più bisogno del servo perché è quest'ultimo che sa fare delle cose che il padrone non sa fare più. Al di là di questo tutti abbiamo un bisogno psicologico degli altri, di avvertire le loro voci, di udire il rumore del mondo. La camera anecoica degli Orfield Labs di Minneapolis, Stati Uniti, è un luogo insopportabile: nessuno ci resiste per più di un'ora. È insopportabile il silenzio assoluto, scalfito solo dal battito del proprio cuore.

 

 

 

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Una differenza fondamentale è quella tra essere soli e sentirsi soli. Ciò che fa veramente male spesso è la percezione soggettiva della solitudine più che il riscontro oggettivo. Ci sono situazioni limite in cui si è malati e ci si trova soli di fronte alla morte: allora si avverte più che mai il bisogno degli altri. Si ha bisogno del conforto. Ci si ricordi dei familiari al capezzale del morente. C'è anche chi prova la solitudine perché si sente incompreso. Bisogna essere molto forti e godere di buona salute per amare la solitudine, come scrisse Pasolini in una sua poesia. Per molti il problema è come rompere la solitudine. Alcuni non sanno comunicare la solitudine. Beckett, Ionesco, Michelangelo Antonioni esprimono questa inadeguatezza. Altri si vergognano di dire che sono soli. Altri ancora si ritengono troppo giovani o troppo vecchi per dire che sono soli. Per i più comunicare la propria solitudine è sinonimo di debolezza. Al contempo la società post-industriale si basa su due opposte polarità: individualismo e conformismo. Molto spesso le persone trovano un compromesso a queste due esigenze sociali accettando un'omologazione dalle varianti minimali, cioè seguono le mode ma si discostano da esse in modo infinitesimale, aggiungendo un piccolo tocco personale. È anch'esso un modo per non sentirsi soli, per identificarsi in qualcosa, per far parte di qualcosa, di essere con gli altri, anche se è un'illusione effimera e momentanea. La propria identità sociale si basa sull'appartenenza a dei gruppi, a delle categorie sociali. Non sentirsi pecora nera è anch'esso un modo per non sentirsi soli. In letteratura H.Hesse propone "Il lupo della steppa", ma alla fine Erminia la donna amata va con un altro e in un raptus di gelosia il protagonista la uccide: imparare a ballare il fox trot non basta per uscire da sé stessi. Sartre ne "La nausea" ci comunica che il mondo, l'esistenza non hanno alcun senso. La stessa cultura impersonificata dall'autodidatta è inutile, non soddisfa le aspettative perché anche quest'ultimo è sorpreso a molestare un adolescente e viene mandato via dalla biblioteca per questa ragione. Thomas Bernhard ne "L'origine" tratta di un collegio, in cui si mischiano sadicamente nazismo e cattolicesimo. L'unico modo per salvarsi dal suicidio, dovuto al disagio per questo microcosmo concentrazionario, è allora suonare il violino. Primo Levi si suicidò perché non seppe convivere con l'orrore inenarrabile e inesprimibile del lager. Pavese si sentiva padrone da solo al buio a meditare, ma sarà proprio "la mania di solitudine", che aveva spesso tramutato in ozio creativo a ucciderlo. Sempre Pavese e Carlo Levi sperimentarono la solitudine del confino. Bassani tratta dell'emarginazione ebraica ai tempi del fascismo e ne "Gli occhiali d'oro" determinata dall'omosessualità. Ne "Lo straniero" di Camus il protagonista prima non versa una lacrima alla notizia della morte della madre, quindi uccide per futili motivi sulla spiaggia un uomo, infine quando viene condannato a morte è impassibile. Siamo quindi tutti stranieri di fronte all'assurdo, che sfugge alla nostra logica. Anche Moravia porta tutto alle estreme conseguenze con il romanzo "1934". Il protagonista, un intellettuale, vuole compiere un suicidio a due con una donna. Ma alla fine sarà beffato perché due donne si prenderanno gioco di lui. Come a dire che la disperazione non si può condividere, che si finisce per essere beffati da chi dimostra avere più attitudine alla vita. Al protagonista non resta che continuare a vivere da solo con la sua disperazione. Ma ora veniamo alla poesia del' 900. Giuseppe Ungaretti scrive sulla tragedia della Prima Guerra Mondiale: “Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto” in San Martino del Carso e finisce la poesia con “E’ il mio cuore / Il paese più straziato”. Pascoli si sente così abbandonato “come l’aratro in mezzo alla maggese”. Quasimodo scrive: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”. Per Kenneth Patchen la solitudine è "un coltello sporco puntato alla gola". Si possono avere molte amicizie e l'amore ma per molti al cospetto della morte siamo tutti soli. Per altri non bisogna sentirsi soli perché non lo siamo mai: c'è sempre qualcuno a questo mondo che ci capisce e condivide quello che sentiamo e proviamo, basta solo cercarlo.

 

 

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Infine chiudiamo con un poeta della musica come Claudio Lolli, che cantava negli anni Settanta questo brano sul suicidio:

"Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Quante ore, quante ore che ho passato,
Accanto a un termosifone per avere un poco di calore.
Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,
Mentre nessuno vedeva, mentre, nessuno mi guardava.

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Dietro i vetri gialli e sporchi di una stanza,
Che aprono una città di ferro, senza voce, e senza una parola.
Quanto amore, quanto amore ho riversato.
Nelle cose più impensate e più banali,
Facendo collezione di farfalle o di vecchi giornali.

Le persone che ho fermato per la strada,
Sinceramente possono testimoniare,
Quanto amore ho cercato, ieri, prima, di essermi impiccato,
Ieri, prima di essermi impiccato.
Quanto amore, quanto amore, quanto amore, che ho cercato …"

 

Ancora e di nuovo sulla poesia, ovvero alcune caratteristiche della poesia contemporanea...

dic 112022

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Il verso libero:
Nel corso del' 900 si è diffuso il verso libero. Questo è avvenuto non solo tra quelli che vengono definiti dai cattedratici poeti dilettanti ma anche da grandi poeti stranieri e italiani. Laforgue fu il primo grande poeta ad adoprare il verso libero e a tal proposito scrisse: "mi dimentico di rimare, mi dimentico il numero delle sillabe, mi dimentico la distribuzione delle strofe". Anche Pound fece un uso moderato nelle proprie liriche del verso libero. I poeti dell'imagismo scrivevano tutti in versi liberi. E. Lee Masters nella celeberrima Antologia di Spoon River adoprò spesso nei suoi epitaffi versi liberi e non prestò molta attenzione al rispetto della metrica. Per quel che riguarda il nostro paese i crepuscolari Corazzini, Gozzano, Govoni, pur utilizzando anche forme metriche tradizionali, introdussero il verso libero nella poesia italiana. Anche il poeta simbolista Gian Pietro Lucini scriveva soprattutto versi liberi e dichiarò che al momento della creazione non cercava "misure prestabilite (versi), né sequenze numerate di misure (strofe)", né il posizionamento di accenti tonici. Inoltre bisogna ricordare che i poeti vociani Jahier e Boine scrissero solo prose poetiche. Infine i futuristi utilizzarono solo ed esclusivamente il verso libero. Se in poesia e in letteratura devono essere messe delle regole forse devono riguardare il rapporto tra l'arte e il tentativo di ideologizzazione dell'arte stessa. Ritornando al verso libero alcuni intellettuali ritengono che la vera libertà si acquisisca nell'ambito delle regole imposte e degli schemi precostituiti o almeno questa è la loro giustificazione alla loro concezione di una poesia, che per essere tale deve adoprare le forme metriche classiche. Altri intellettuali ritengono invece che nell'arte la libertà non esista, per cui devono essere accettate le regole imposte dalla tradizione. Per il poeta Robert Frost "scrivere versi liberi è come giocare a tennis senza rete».
Ma non è detto che chi scriva versi liberi e non rispetti la metrica tradizionale non si imponga altre regole riguardanti altri ambiti. Un tempo erano presenti dei canoni estetici. Oggi forse è più problematico valutare un poeta. Sono rari i casi di coloro che scrivono endecasillabi canonici. I più scrivono in versi liberi.


La crisi della poesia:
Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall'osservazione o dalla trasfigurazione. Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel Novecento tutto diventa ancora più complesso. Basta pensare a Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio. Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del Novecento l'Ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l'Orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli, analogie e sinestesie. Negli anni Sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l'Ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anch'essi non erano di facile comprensione. Da un lato i poeti di Officina avevano buoni intenti: volevano il rinnovamento, erano contro l'intimismo degli ermetici, erano contro i reazionari. Dall'altro lato erano anche contro il Neorealismo, uno dei pochi ismi del Novecento (insieme ai crepuscolari) i cui autori si facevano capire da tutti. Forse nel Neosperimentalismo erano presenti troppe premesse teoriche. Anche la Neoavanguardia era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l'egemonia culturale e l'estetica dominante, contro la mercificazione dell'arte. Però spesso spiazzava i lettori per i suoi non sensi, il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi. Infine la poesia degli anni Settanta con il neo-orfismo cambia di nuovo le carte in tavola perché prende le distanze sia dalla neoavanguardia che dal neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico è sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: "La parola innamorata" e "Il pubblico della poesia". Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C'è anche troppa creazione ma è scarsa la fruizione. La poesia contemporanea è determinata talvolta dall'egocentrismo, dal narcisismo, dall'autobiografismo. È una poesia talvolta autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio talvolta non è chiaro. Il gradimento del pubblico è scarso. I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. Il fatturato dei libri di poesia in Italia è inferiore all'1% del fatturato globale. I libri di poesia nella stragrande maggioranza dei casi finiscono al macero. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori. Sono molteplici i motivi di questa situazione e non li analizzeremo ora. Comunque oggi i poeti viventi sono sconosciuti al grande pubblico. Come sono cambiati i tempi da quando Vico scriveva che i poeti sono i primi storici delle nazioni! Oggi è innegabile che la poesia di questi anni è in crisi e alcuni critici l'hanno definita minimalista. La lirica di questi tempi è talvolta illeggibile e non memorabile. Comunque non bisogna essere ottimisti né apocalittici.


Poesia e moralità:
È sempre difficile giudicare la qualità delle poesie. È vero che è improponibile il paragone tra la poesia di un bambino di prima elementare e una di Montale. Ma spesso le differenze non sono così marcate. Un tempo si consideravano la metrica e l'eufonia. Oggi non più. Decenni fa in Italia si considerava anche la persona del poeta, che doveva essere assennato e ponderato. Al poeta si richiedevano delle virtù come una certa moralità e la saggezza. Se era sregolato allora era solo un erudito e/o un immaturo. Non poteva considerarsi persona di cultura. Si guardava il comportamento. Si considerava soprattutto l'etica. Si giudicava la condotta. C'era molto moralismo. D'altronde anche la Neoavanguardia valutava la persona (che doveva essere schierata ideologicamente). Loro erano gli unici puri e onesti. Consideravano anche la poetica. Quindi il contenuto veniva giudicato in modo fazioso perché secondo loro il linguaggio era "ideologia". Insomma si doveva combattere. Erano in trincea. Bisognava condannare la borghesia. Quindi bisognava per forza di cose odiare i piccoli borghesi. È chiaro che la Neoavanguardia ha avuto anche dei meriti come quello di rinnovare il linguaggio, inventare il pluristilismo, etc etc. Le due "chiese" comunque si sono appropriate della cultura nella seconda metà del Novecento. La maggioranza della gente se ne fregava. Negli anni Settanta le nuove generazioni erano perse nella droga o nella politica. La letteratura era ritenuta cosa di poco conto e non incisiva. Addirittura era ritenuta evasione. Molti giovani di allora pensavano ad altro e si rovinavano con altro: l'eroina o il terrorismo. La stessa poesia da allora è stata relegata ai margini e non si è più ripresa. Giudicare le poesie è sempre impresa ardua e risente di una certa soggettività. Spesso è questione di gusto più che di criteri estetici.

 

 

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Poesia e ideologia:
Quali qualità deve possedere un artista per essere tale? Sono sicuro che a questa domanda molti risponderebbero che deve avere talento. Ma forse questo è un prerequisito fondamentale ma non sufficiente. Vittorio Sgarbi in "Lezioni private" scrive che un artista deve avere uno stile. Per esempio un poeta deve avere una visione del mondo. Successivamente avrebbe una poetica (ovvero una dichiarazione di intenti) e uno stile. Un artista di conseguenza secondo tale concezione deve anche essere un intellettuale, che riflette sul mondo e che rappresenta una coscienza critica per gli altri. Secondo Sgarbi l'artista è tale innanzitutto per il proprio pensiero (che deve contraddistinguersi per una certa originalità) e questo è valido sia per chi appartiene alla tradizione che per chi appartiene ad una avanguardia. Secondo altri si può scrivere anche senza una piena consapevolezza di sé stessi e del mondo, ma in fondo sono un'esigua minoranza. Molti critici la pensano come Sgarbi. Altra cosa importante oltre al pensiero è quella che alcuni chiamano la posizione intellettuale. Un artista può esprimere dissenso, consenso o non schierarsi rispetto alla politica e al potere. Per Gramsci ogni artista doveva essere un intellettuale organico. Sartre nella presentazione a "I tempi moderni" proponeva l'engagement. Lo scrittore era da ritenersi sempre responsabile. Non doveva scrivere per i posteri ma per i contemporanei. Non doveva evadere dalla realtà ma essere sempre testimone. Però molti altri erano per una posizione intellettuale meno impegnata politicamente. Per Saba i poeti dovevano essere "sacerdoti dell'eros". Anche D'Annunzio faceva dire a Claudio Cantelmo ne "Le vergini delle rocce" che gli artisti dovevano soltanto difendere la bellezza. Ma in fondo era in buona compagnia. Lo stesso Dostoevskij scriveva che la bellezza avrebbe salvato il mondo. Chissà cosa avrebbero pensato oggi di questa epoca in cui l'arte è soprattutto ricerca del nuovo a tutti i costi e provocazione fine a sé stessa?
Lo stile comunque può essere giudicato subito dai critici letterari, mentre le scelte politiche devono essere comprese e interpretate almeno dopo qualche decennio. Il rischio infatti è quello di essere troppo faziosi e di confondere l'estetica con l'ideologia. In alcuni casi c'è la possibilità di confondere l'estetica con l'etica. Non ci scordiamo che in alcuni autori l'appartenenza politica è più che una presa di posizione politica una scelta dettata da idealismo. Per alcuni artisti il liberalismo, il comunismo, il socialismo, la socialdemocrazia, l'anarchia sono categorie dello spirito. Non dimentichiamoci neanche che furono pochi gli intellettuali a opporsi all'entrata in guerra e al fascismo. Condanniamo pure il loro fascismo ma bisogna anche considerare obiettivamente le loro opere artistiche. Lo stesso dicasi per altre ideologie e altri regimi. Facciamoli però processare dagli storici, anche se si può legittimamente mostrare una certa repulsione per i loro atteggiamenti e comportamenti. Condanniamoli pure come uomini ma non rimuoviamo totalmente gli artisti che sono stati e neanche quello che hanno rappresentato per gli uomini della loro epoca.

 

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Poeti di ricerca e neolirici:
Forse è troppo riduttiva la distinzione tra poesia di ricerca (sperimentatori del verso) e poesia neolirica. Non è detto che tutto lo sperimentalismo porti per forza di cosa sempre al rinnovamento del linguaggio e al rovesciamento di prospettive. In fondo anche alcuni poeti lirici o neo-orfici possono essere originali ed innovativi: non è assolutamente detto che siano sempre dei manieristi o degli epigoni. Non è detto inoltre che questa distinzione tra i due generi di poesia possa racchiudere tutte le dicotomie concettuali ed espressive (comprensibile/difficile, tradizione/innovazione, impegnato/reazionario, etc. etc.). Per quanto riguarda la comprensibilità dei testi la Dickinson scriveva che si doveva dire la verità in modo criptico, mentre K. Popper sosteneva che niente è così facile che scrivere in modo difficile e che tutti coloro che scrivono devono porsi come dovere la chiarezza espositiva (però era un filosofo). La realtà in poesia è che i componimenti dovrebbero in teoria cercare sempre di raggiungere i vertici della significazione. Però i poeti spesso cercano termini ricercati, talvolta antiquati, perché li considerano più consoni. I poeti tra gambo e stelo scelgono sempre il secondo vocabolo, anche se non sarebbe necessario. Anche i poeti in fondo hanno il loro gergo. Mi sembra che Pasolini avesse dichiarato a riguardo che esistesse in poesia un codice classista del linguaggio. Ma non è forse riduttiva questa distinzione tra poesia di ricerca e neolirici? Non potrebbe essere considerata anche una poesia aforistica come quella dell'ultimo Montale, degli Shorts di Auden, dell'ultimo Cesare Viviani? Non sarebbe forse originale se questo genere di poesia aiutasse a chiarire i pensieri, portasse talvolta a "pensare contro sé stessi" per dirla alla Cioran (il riferimento è alla sua opera "La tentazione di esistere")? Naturalmente una scrittura aforistica rischia sempre di essere troppo didascalica oppure ostensiva. Ma in fondo anche gli sperimentatori o i neolirici rischiano anch'essi di perdersi in virtuosismi, di innamorarsi troppo delle parole. I rischi ci sono per tutti. Comunque la distinzione autentica che dovrebbe essere fatta è tra chi cerca di descrivere/raggiungere/ rendere tutta la complessità del reale (il rischio è quello di rendere ancora più complicato e di più difficile comprensione ciò che è già complesso) e tra chi cerca di semplificare la realtà (il rischio è quello di rendere tutto troppo semplicistico, di creare delle smagliature da cui evade il reale). Queste dovrebbero essere le due scuole di pensiero (ma forse sarebbe meglio dire due atteggiamenti esistenziali) di una poesia, che allora potrebbe essere veramente ricerca di senso. Ma forse è solo una utopia. Però la distinzione basilare è tra chi cerca di raggiungere la soglia del dicibile e chi cerca la sostanza delle cose, l'essenziale. Questi a mio modesto avviso sono i due modi di porsi in estrema sintesi. Poi a prescindere dal tipo di atteggiamento chiunque può essere o meno innovativo. Per cercare l'essenziale intendo l'estrema sintesi del reale. La soglia del dicibile non è detto che sia estrema sintesi. L'essenziale lo si raggiunge con il levare. È la caratteristica tipica della scrittura epigrammatica. La soglia del dicibile invece la si raggiunge con il battere, con l'accumulo: significa cercare di descrivere in modo esaustivo la realtà, di comprenderla in modo totalizzante.

 

 

Sulla scrittura e sulla poesia contemporanea...

nov 302022

 

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(Nella foto il parco della Sozzifanti a mezzanotte)

 

 

Pubblico un mio scritto del 2005. Come potete rendervi conto la situazione in Italia non è ancora cambiata:

 

 

SCRIVERE, OVVERO UN MODO PER ESPLORARE SE STESSI:
Si parte col cercare di scrivere l'imprevedibile, l'inafferrabile, l'ineffabile. Nessuno vuole rifarsi alla veggenza di un Rimbaud, alla divinazione del simbolismo e del decadentismo, ad un dannunzianesimo di ritorno, ma comunque si rimane in attesa di una rivelazione. Si cerca uno scarto dal senso comune e dal linguaggio convenzionale, un ribaltamento del senso, una parola che indaga, che testimonia l'incredulità di fronte all'assurdità del mondo e che insegue una parvenza di verità. Si spera di descrivere l'oscillazione dei propri umori e dei propri stati psichici, di trovare nel proprio stile un'armonia dei contrasti e dei dissidi. Si cerca anche la complementarità (e non l'antinomia) tra istinto e razionalità, l'espressione più autentica di se stessi. Si finisce spesso col fare della metapoesia e del metalinguaggio o per cadere nel poetichese più stucchevole e più ovvio (sentimentalismo, retorica, narcisismo, autocompiacimento). Si inizia a scrivere, facendo leva sulla propria spontaneità (leggi anche ingenuità) e si finisce per avere maggiore consapevolezza e perciò più inibizioni, che censurano e cestinano gli ultimi scritti. Si credeva inizialmente che la propria parola fosse realmente una "parola innamorata" e a conti fatti si finisce per ritenere che tutto ciò che è stato scritto è puro diarismo consolatorio e intimismo patetico. Si voleva originariamente esplorare il proprio sé e manifestare il dissenso nei confronti di una società paradossale e dopo alcuni anni ci si convince che questo tentativo era utopico. Si cercava, si cerca comunque di abitare le parole, ognuno nel modo più confacente alla sua individualità (e abitare le parole non significa affidarsi esclusivamente all'ispirazione. L'ispirazione è un falso mito. Prima che qualsiasi opera abbia una consistenza unitaria definitiva molte sono le revisioni:cancellature, aggiunte, tagli).
Si scrive e si continua a scrivere perché il mondo è vanità e la scrittura è terapia. La poesia fa intravedere l’inaccessibilità dell’essere al linguaggio e l’inconoscibilità dell’in sé. Esiste una profondità a cui non si può attingere. Mettere in conto questo non significa irrazionalismo, ma premessa che da sola la logica non è sufficiente. Non ha alcun valore e nessuna efficacia la creazione di freddi schemi concettuali, che catalogano la realtà. L’astrazione da sola resta sempre in superficie, genera continuamente illusioni e disillusioni. Esiste il mistero, l’enigma, l’ignoto, che ci irretisce e ci angoscia. Siamo tutti attanagliati dall'incertezza e dalla precarietà dell'esistenza. In questo percorso è facile perdersi e difficile ritrovarsi. Si cerca dei nessi logici e ci si ritrova da soli con le proprie interrogazioni metafisiche nel divenire incessante e dionisiaco, che continuamente crea e distrugge sé stesso. Si cerca un piccolo nucleo del vero e ci si accorge che soltanto il Nulla si è esplicitato. Si vorrebbe vivere totalmente, ma l'unificazione di pensieri, valori e vita è impossibile. Si finisce invece spesso per analizzare un valore con i valori, un pensiero con i pensieri, per non parlare poi dell'esistenza che rimane inafferrabile sia per il pensiero che per i valori. Ci si guarda dentro e ci si rende conto di essere sempre più incomprensibili a noi stessi. Ciascuno vorrebbe esistere pienamente, veramente, andare oltre il vissuto e trascendersi. Ma i tentativi risultano sempre goffi e allora ci si rifugia nella superficialità e si finisce per essere circondati dal vuoto. Per questo motivo molti si parlano addosso e chiacchierano in modo insulso su cose stupide, banali, risapute: divertirsi, scopare, spettegolare. Paura del divenire, dell’infinito e della morte. Il parlare comune è abuso perpetrato sulle parole, è rinuncia quotidiana alla particolarità, singolarità, irripetibilità insita in ciascuno. La poesia -anche quella meno riuscita- non è riproduzione della reale, ma emanazione, intuizione, rischiaramento. C’è un periodo in cui non si scrive niente e magari si incamera malumori. Anche questa fase apparentemente improduttiva è periodo di fermentazione, di gestazione. Poi all’improvviso qualcosa ci fa vibrare dentro come una corda. un’impressione, un dettaglio insignificante, un’idea che non si sa dove è nata, però sappiamo che deve essere fermata. Scrivere dunque e non per puro piacere, ma perché è un’attività che può significare l’inizio di una libertà interiore. Scrivere può significare prendere possesso di sé stessi gradualmente, scoprire sé stessi, conquistare sé stessi.

MARGINALITA' DELLA POESIA DI OGGI:
Secondo i recenti studi della psicopatologia dell'espressione le persone psicotiche sono più creative, nonostante le loro crisi dissociative, le loro distorsioni percettive, i loro vissuti fantasmatici ed i loro deliri. Quindi la follia è vicina alla poesia da sempre secondo queste analisi, però mai come ora la poesia è stata vicina alla follia. Se prima la follia talvolta poteva divenire espressione artistica, ora è la poesia vera talvolta a toccare in pieno la follia. Infatti mai come oggi i poeti hanno rischiato di impazzire veramente. Mai come ora il poeta ha rischiato di impazzire per il dominio del consumismo e della civiltà dell'immagine e al contempo per la scarsa considerazione della poesia. Ma procediamo con ordine. Il gruppo 93 in questi ultimi anni, accoppiando critica e poesia, ha analizzato in modo creativo le contraddizioni della scrittura in quest'epoca e ha proposto nuove possibili forme di sperimentazione/contestazione della società. Si è rifatto alle avanguardie senza una reiterazione meccanica e stereotipata di queste, ha rivalutato l'allegoria per la sua polisemia -riprendendo la definizione di W.Benjamin ("l'allegoria non è una tecnica giocosa per produrre immagini, bensì espressione, così com'è espressione il linguaggio, e, anzi: la scrittura" in "Sull'origine del dramma barocco tedesco")- e posto l'accento sulla marginalità della poesia in questa società massmediatica. E proprio da questa marginalità vorrei partire. E' amaro constatare che la poesia oggi in generale sia solo e soltanto un evento marginale, sia per quel che riguarda il consumo che la ricerca. La scuola non aiuta ad avvicinare i giovani alla poesia perché l'insegnamento di questa è troppo pedante e nozionistico. I programmi ministeriali delle superiori lasciano molto a desiderare perché i poeti contemporanei italiani che stranieri non vengono fatti leggere. La scuola italica così riesce ad essere una scuola umanistica (visto che il tempo dedicato all'insegnamento dell'italiano è cospicuo), però al contempo ad essere anche il primo agente di socializzazione, che allontana i giovani dalla letteratura. Non è quindi un caso che in un simile analfabetismo di ritorno generalizzato divengano best-seller i libri di Lara Cardella e di Melissa P. , oppure "Il codice da Vinci" di Dan Brown, che si basa su falsi storici (come il congiungimento carnale tra Cristo e la Maddalena, il viaggio di questa in Francia, etc, etc). Non è un caso nemmeno che allo stato attuale delle cose molti ingenuamente pensino che la canzone sia poesia. I cantanti quindi hanno preso il posto che spettava un tempo ai poeti. Poesia e canzone possono qualche volta essere simili, ma non si possono far equivalere innanzitutto per questioni stilistiche, sintattiche, verbali. Il linguaggio delle canzoni spesso è banale ed ovvio. Non solo, ma le canzoni difficilmente si occupano di descrivere la molteplicità del reale e il disagio esistenziale. La qualità e la quantità delle tematiche trattate nelle canzoni di oggi è nettamente inferiore a quelle della poesia. La canzone è soprattutto l’espressione dei propri sentimenti amorosi in tre-quattro minuti e la rima amore e cuore spadroneggia ancora oggi. I poeti invece anche quando parlano d’amore lo fanno cercando di innalzarsi dalle passioni, evitando le sdolcinatezze e i luoghi comuni. Questo naturalmente non significa che non esistano grandi cantautori, che trattino adeguatamente problematiche sociali o descrivano dignitosamente i loro sentimenti amorosi. La dimostrazione del fatto che la canzone e la poesia siano due attività davvero diverse è che grandi cantautori hanno scritto poesie con esiti non felici e che grandi poeti hanno scritto canzoni con risultati mediocri. In Italia l'unico grande poeta che si è dimostrato essere un valido autore di canzoni è solo Roberto Roversi, che ha scritto testi per Lucio Dalla. L’equivoco sempre più diffuso che la canzone sia poesia è dovuto a mio avviso non solo a una mancanza di conoscenza nei confronti della poesia, ma anche a precise scelte poetiche, che facendo equivalere ideologia e linguaggio, si contrapponevano al linguaggio ordinario per rifiutare il conformismo borghese. Un altro effetto di questa situazione è l'esterofilia dilagante, che regna nel cinema, nella musica, nella letteratura.
A mio modesto avviso non solo la poesia viene letta da pochi, ma la sua ricerca nella maggioranza dei casi è purtroppo vana perché per dirla alla Pound non riesce a mantenere in efficienza il linguaggio del nostro Paese. Infatti sono i mass-media della televisione e della carta stampata coloro che impongono i nuovi canoni linguistici. Ma bisogna ricordare anche la profezia di Pound: alla decadenza della letteratura di una nazione consegue la decadenza della nazione stessa. Viene da chiedersi se la colpa sia attribuibile ai poeti moderni, perché i loro idioletti sono talvolta anacronistici e incomprensibili. Lo snobismo e l'elitarismo della poesia moderna e della critica letteraria sono sempre stati presenti, tuttavia è impresa non da poco chiedere l'azzeramento totale, una parola cristallina e rarefatta, così lineare e chiara da giungere al grado zero della scrittura. Il rischio che il proprio idioletto divenga un linguaggio privato, un insieme di sottocodici connotativi ignoto alla maggioranza, esiste, ma non siamo naturalmente ai livelli del paradosso filosofico di Kripke-Wittgenstein. D'altro canto come pensava Yeats "la bellezza è difficile", anche se va sempre tenuto presente il carattere di intersoggettività della poesia. Questo non significa necessariamente la morte della poesia, perché se è vero che è marginale e non ha più un pubblico, è altrettanto vero -come sostiene Pasquale Vitagliano- che ha una sua comunità (si pensi alle riviste on line così come agli Slam Poetry del poeta Lello Voce). Certamente sono poche le possibilità per un giovane facitore di versi di avere visibilità, sia per la gerontocrazia letteraria che per la crescita esorbitante di casi editrici a pagamento, che non hanno nemmeno una rete di distribuzione. Altro discorso poi andrebbe fatto per le antologie considerate autorevoli dei poeti delle nuove generazioni. Spesso gli addetti ai lavori recensiscono superficialmente e non fanno un'analisi approfondita dei nodi tematici, delle affinità stilistiche, degli aspetti sincronici dei lavori dei prescelti. Molti esperti hanno parlato di morte della critica. Senz'altro quando si vuole dimostrare che la critica letteraria è morta o moribonda si fa sempre l'esempio facile della scomparsa delle stroncature, come quelle di Papini per intenderci. Io invece sono dell'idea che i critici letterari inizino con l'esegesi dei testi e finiscano per fare quasi esclusivamente i propagandisti, i divulgatori o i saggisti. La pecca maggiore di molti è il recensire in base a scambi di favore o in base ad interessi economici. Inoltre a mio avviso un'altra pecca è la loro mancanza di equilibrio e di serenità nel giudicare i più giovani. E' raro riscontrare dei critici letterari, che -tramite un processo di analisi e creazione- interpretino approfonditamente e con equanimità i nuovi autori. Per un nuovo autore sicuramente il modo più economico e più efficace per avere visibilità è farsi un sito internet, prendendo in esame le varie possibilità di hosting gratuito che offre la rete. Questa soluzione permette anche di entrare in contatto con altri appassionati di poesia moderna. La speranza è che questa comunità poetica non divenga un insieme di cricche faziose (che agiscono in base alla ricattabilità, al clientelismo, alle logiche di spartizione, ai timori reverenziali nei confronti degli autori di successo), altrimenti molti saranno propensi a credere che la poesia sia solo un genere in disuso per un'italianistica sempre più in crisi o un'abile operazione di marketing, che abbina saltuariamente i grandi poeti ai quotidiani. Lasciare la poesia al mondo del giornalismo e quindi del sensazionale significherebbe far cadere una parte della letteratura moderna nell'indistinto delle mistificazioni e delle iperboli, in fin dei conti del senso di vuoto globale, che ci circonda e ci attanaglia.

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LA NUOVA LETTERATURA COME PROLIFERAZIONE DI UN RIZOMA:
Chi cerca di dare una definizione di poesia si trova sempre nella stessa medesima situazione paradossale del protagonista di un racconto del "Dialogo dei massimi sistemi" di Tommaso Landolfi, in cui si cerca di stabilire se possa essere veramente considerata poesia un componimento scritto in una lingua sconosciuta. Nessuno è depositario di una verità assoluta, più come mai oggi. Perfino per la scienza moderna non esistono previsioni infallibili né certezze assolute. La logica scientifica è divenuta ormai ipotetica e probabilistica. Se i neopositivisti sentenziavano che non esiste una sintesi a priori nell'arte e nella filosofia e nessuna cifra trascendente nella metafisica e nella mistica, Popper con il suo principio di falsificazione e la dimostrazione che la ricerca scientifica avviene per congetture e confutazioni ha fatto ritornare l'epistemologia al convenzionalismo o all'anarchismo metodologico. Anche in ambito scientifico quindi non è più tempo di determinismo e meccanicismo, ma più realisticamente è tempo di accettare che il rapporto con qualsiasi forma di oggettività e di verità è sempre più provvisorio, instabile e precario (cito ad esempio la teoria del caos). Questi fatti dovrebbero ricordarseli anche alcuni di coloro che ritengono di essere la Corte di Cassazione nell'ambito della letteratura di oggi. Benedetto Croce tempo addietro aveva fatto coincidere intuizione ed espressione, aveva considerato l'arte come un atto di creazione dello spirito, aveva posto l'accento sulla purezza dell'atto artistico, ma anche egli pur dichiarando una netta distinzione tra poetico e impoetico non era riuscito a fornire un metodo estetico rigoroso per distinguere ciò che era arte da ciò che non era arte. La poesia è spesso come la proliferazione imprevedibile di un rizoma. La conoscenza umana oggi è sempre più disomogenea, non lineare in questo passaggio inarrestabile dagli atomi ai bit, descritto da Negroponte. Si pensi ai nuovi artefatti tecnologici, al mondo del www e del link, alle nuove forme di ibridazione culturale da esso derivate. Il mondo dell'ipertestuale e dell'ipermediale non è lineare. Di conseguenza nemmeno la fruizione dell'editoria elettronica (riviste on line, e-book, biblioteche digitali) sarà lineare come gli antichi libri. Non solo, ma per dirla alla W. Benjamin l'hic et il nunc sarà svalutato completamente, la riproducibilità dell'opera d'arte sarà totale. Difficile perciò in questo frangente tracciare linee di demarcazione, catalogare, classificare, far rientrare l'universo letterario in categorie prestabilite. Naturalmente anche il mondo del web ha i suoi pregi ed i suoi difetti: se da un lato aumenta a dismisura le interconnessioni tra gli individui e la rapidità della comunicazione, dall'altro pone problemi non di poco conto riguardo al diritto d'autore e alla salvaguardia della proprietà intellettuale.

 

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LA FUNZIONE SOCIALE DELLA POESIA IN UN MONDO PRAGMATICO:
Difficile anche stabilire oggi la funzione sociale della poesia. Gadda al commissario Ingravallo di "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana" fa dire che la maggioranza delle azioni degli uomini sono compiute per "interesse ed erotia". Scrivere poesie o presunte tali significa porsi quindi al di fuori della logica comune e della stragrande maggioranza dell'agire umano. La poesia rispetto a questo mondo fatto di "interesse ed erotia" è inusuale, per i più sprovveduti qualcosa addirittura di inquietante, qualcosa che si colloca al di fuori dell'orizzonte materialista, pragmatico, utilitario, scientista dei nostri giorni. Questo naturalmente non significa che chi scrive componimenti poetici sia casto, moralista o non abbia qualche interesse economico (bisogna pur sempre mangiare). Chi si occupa di poesia e di letteratura non può essere moralista ad oltranza perché la sensibilità letteraria non è perbenismo. Non può essere moralista anche perché una sottile linea di confine divide il masochismo erotico dal masochismo morale di chi scrive in questa società dei consumi. Il masochista morale è colui che è destinato alla sconfitta per vocazione, è colui che si autodistrugge lentamente in un circolo vizioso di azioni autolesionistiche e tardivi sensi di colpa. Nonostante ciò ha anche un suo punto di forza: il masochista morale è dentro l'orizzonte della Legge, eppure è anche contro. E' colui che sceglie un'altra tirannia. E' colui che accetta la tirannia dell'umanesimo a scapito della tirannia del Potere. La scrittura può divenire eversiva, non solo per il contenuto espressamente dichiarato in un'opera, ma per ciò che è implicito e non è presente nel testo e a cui il testo rimanda. La scrittura può essere un contropotere, anche se esile rispetto alla forza immane delle multinazionali, indipendentemente dal fatto che la maggioranza la percepisca come una controcultura o una sottocultura. Ma per divenire effettivamente contropotere gli autori devono emanciparsi dal potere, essere indipendenti e autonomi dalle pressioni e dai condizionamenti occulti di esso; devono purificarsi dal potere e scarnificarsi; devono oltrepassare gli strati epidermici più superficiali, quelli che quotidianamente si sono assuefatti al potere. Autoflagellarsi interiormente e cerebralmente per purificarsi. Autoflagellarsi come esercizio di stile, come esercizio continuo per maturare uno stile, che sia efficace nel denunciare i soprusi del potere e le mille genealogie della morale, che ancora oggi nel 2000 ottundono le menti. In questo senso gli autori devono assolvere un duplice mandato: mettersi a nudo e dichiarare che il re è nudo. Ecco allora che questa duplice oscenità può divenire disarmante, in alcuni casi provocatoria, dissacrante, addirittura blasfema per i più sprovveduti. Scrittura è contropotere ed esercitare un contropotere ha i suoi rischi. Nel denunciare la logica perversa e le strategie occulte del dividi et impera del potere centralizzato l'autore si espone al rischio di essere considerato un buffone, oppure se considerato elemento di grave disturbo per le coscienze può rischiare la ghettizzazione, se non in alcuni casi l'incolumità e la vita (si pensi a Pasolini).
Spesso chi scrive viene messo in ridicolo o finisce per mettersi in ridicolo, come il poeta. In fondo già Baudelaire aveva parlato di perdita d'aureola del poeta. In Italia Gozzano si vergogna di essere poeta, Corazzini si definisce un piccolo fanciullo che piange, Palazzeschi invece più ludicamente un saltimbanco della propria anima e Vallini vuole vivere una vita tranquilla e meschina.
Mai come nel'900 il poeta è stato messo alla gogna. Viene considerato un buffone, però spesso non gli si concede la libertà di espressione. Il festival di poesia di Castel Porziano ne è l'esempio più lampante: fu un happening di 30000 persone, in cui poeti valenti furono contestati, denigrati, offesi e messi in ridicolo. Facendo zapping in una notte insonne anni fa ebbi modo di vedere su Rai 3 i documenti filmati di quel festival. Vidi una grande poetessa come Amelia Rosselli, contestata duramente da una ragazza -salita sul palco senza chiedere il permesso a nessuno- che le diceva in modo molto diretto che le sue poesie non significavano niente. Molti inoltre furono fischiati. Le loro performance poetiche furono spesso interrotte da urla e commenti volgari. Certamente va ricordato che in quegli anni il letterato era considerato un individuo sospetto, una persona che privilegiava l'isolamento alla partecipazione collettiva e all'impegno politico. C'era l'errata concezione che la poesia fosse un modo per evadere dalle grandi problematiche e una potenziale causa di isolamento e di separazione tra le persone. Però quei giovani non avevano il minimo rispetto per autori loro coetanei, che si mettevano così in gioco. Questa massa di giovani avevano un'altra scusa: non avevano capito i profondi mutamenti della poesia di quegli anni. La poesia non era più mera nominazione, piuttosto dalla seconda metà del '900 irrideva, demistificava, provocava, cercava lo shock: inventava. Per questa ragione le opere poetiche erano costellate da allitterazioni, nonsense, onomatopee, cortocircuiti verbali, lapsus, sillabazioni inusitate, ambiguità semantiche. Il poeta sembrava soffrire di disturbi del linguaggio, di strani tipi di afasie. La poesia non poteva più essere memorizzata, sembrava condurre all'amnesia delle parole. Ciò nonostante quella massa di giovani non cercava minimamente di capire, non chiedeva spiegazioni, ma giudicava senza sapere.

Pontedera, 2005

 

 

"Il Meridione rugge" ovvero due parole sulla poesia meridionale...

ott 312022

 

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Cantava decenni fa Piero Ciampi: "il Meridione rugge, il Nord non ha salite…". È passato molto tempo dai versi di questa canzone. Sono cambiate molte cose. L'Italia ha mutato faccia. Però ancora oggi il Meridione rugge, ma non tutti lo ascoltano, soprattutto in poesia. Ci sono diversi poeti meridionali validi, da ricordare, che non sono conosciuti come dovrebbero perché schivi, appartati. Alcuni poeti meridionali si sentono incompresi e forse hanno ragione. Pensano, soprattutto i più anziani, di essere testimoni o custodi preziosi di una realtà che gli altri non possono capire. Ma non ci sono solo quelli che quasi si autoescludono dalla vita. Ci sono anche quelli ostracizzati, emarginati, feriti nell'animo, esclusi dalla comunità poetica, apparentemente tanto accogliente ma talvolta faziosa, troppo esclusiva. La realtà è che le grandi case editrici, gli incontri letterari, le riunioni culturali che contano veramente sono a Roma, a Milano oppure nel Nord. Un poeta meridionale parte svantaggiato. L'industria culturale almeno nei decenni precedenti ha promosso tutt'altro, ma non la poesia meridionale. Prima di tutto per autopromuoversi poeticamente ci vogliono tempo, soldi, opportunità per creare sodalizi, incontrare letterati, partecipare a dei premi. Un poeta disoccupato siciliano è già di per sé escluso a livello logistico ed economico ad esempio. La realtà è che per molti anni in poesia ha prevalso la linea lombarda, mentre invece non ha avuto adeguata rilevanza culturale, editoriale, mediatica la poesia del Sud. Si pensi solo a tutto quel fiorire di riviste letterarie napoletane o campane che sono nate negli anni '70, '90, '90 e la critica letteraria che conta non ne ha mai capito l'importanza, non le ha mai considerate veramente. Sembra quasi che a un pregiudizio sottoculturale di stampo pseudoleghista si associ un pregiudizio puramente letterario nei confronti dei poeti del Sud. Tra poeti del Sud ci sono ottimi e buoni autodidatti, che però vengono snobbati dalle accademie e dalle università. Alcuni poeti del Sud non vengono stimati perché scrivono in dialetto e la critica letteraria neanche li considera degni di nota. Certamente cercare di rendere pan per focaccia e iniziare una guerra umana e letteraria tra Sud e Nord non ha senso, è estremamente dannoso e controproducente. Non porta a niente ricambiare l'odio da parte dei poeti del Sud nei confronti del Nord, né porta a niente l'autocommiserazione perenne. Non ha nemmeno senso crogiolarsi nella sofferenza interiore e/o trincerarsi in un complesso di inferiorità o superiorità. Non ha senso neanche mettersi a criticare quello che c'è di buono nella poesia del resto d'Italia oppure chiudersi a riccio e fare esclusivamente sette di poeti meridionali. Un rischio insito nella poesia meridionale è quello di fare cricca, di fare massoneria per difendersi, di considerarsi superiori, perché più puri e incontaminati, per sopravvivere. Il sistema chiuso invece non porta a niente. Ecco perché i poeti meridionali che l'hanno capito usano sempre più Internet e interagiscono con persone di ogni provenienza e cultura. Il sistema per forza di cose deve essere aperto. Non ha nemmeno senso pensare di essere troppo rancorosi, vendicativi, violenti e pensare di "menare le mani". Per quel che la conosco la poesia del Sud può rinnovare la tradizione poetica o continuarla egregiamente, può riprendere la tradizione del nuovo (ovvero la neoavanguardia), può essere ottima poesia visiva o comunque sperimentale. Una qualità dei poeti del Sud, per come li conosco io, è senz'altro che sono più refrattari a seguire le mode letterarie, culturali, poetiche e cercano di non farsele imporre. Un difetto a mio avviso presente in alcuni luoghi del Sud è che chi scrive quattro versi la domenica a tempo perso spesso viene considerato poeta, mentre invece poeta è una parola grossa, da usare con parsimonia e cautela. Un rischio per alcuni poeti meridionali è quello di farsi attanagliare però dal conformismo culturale, ma anche dal moralismo (questo vale per i più anziani, i cosiddetti boomers), insomma da quel decoro piccolo-borghese che Mastronardi chiamava "catrame", visto che il Sud è fatto soprattutto di borghi dove tutti sanno tutto di tutti. C'è bisogno dei poeti meridionali che cantano la bellezza del paesaggio e della terra del Sud, ma anche le contraddizioni e le difficoltà di quella realtà (e intendiamoci bene ogni realtà ha i suoi punti critici. Non siamo certamente più ai tempi di Carlo Levi). La letteratura italiana ha bisogno della poesia meridionale, che è un poco più defilata e marginale rispetto ad altre zone italiane. Inoltre i poeti meridionali devono lottare contro una realtà culturale più difficile. In alcune zone del Sud (e penso di poterlo scrivere senza alcuna ombra di pregiudizio... che poi io non sono mica del profondo Nord) fare cultura è più difficile. In alcune zone del Sud, dove la criminalità organizzata ha il controllo del territorio, scrivere poesia significa poter denunciare quello stato di cose, rompere gli schemi, andare contro la sottocultura. Per alcuni uomini di onore chi scrive poesia è un mezz'uomo, uno che rincorre farfalle, un poveretto, etc etc. In realtà scrivere anche poesia in certe realtà è pericoloso e chi scrive è ritenuto una persona scomoda. Viene guardato con sospetto, con molta diffidenza. Questo purtroppo è ancora un retropensiero diffuso. La politica meridionale dovrebbe valorizzare molto meglio la poesia del Sud con la creazione di premi e festival letterari, che potrebbero innescare un piccolo circolo virtuoso e aumentare in piccola parte il turismo culturale. Eppure Pirandello, Quasimodo e molti altri grandi letterati erano meridionali. La poesia italiana nasce con la scuola siciliana, se non erro. Quindi ogni pregiudizio contro la poesia del Sud contemporanea è infondato. Chi può a onor del vero cantare la bellezza del Mediterraneo, se non i poeti del Sud? Chi è troppo ingenuo o ignorante in letteratura pensa che il Sud sia un mondo a parte, un mondo lontano, un'altra realtà. Invece con la poesia meridionale bisogna fare i conti, non si può relegare ai margini. Lo so benissimo che alcuni penseranno che io deliri o sia totalmente fuori strada, che ormai queste sono cose antiche o inesistenti, ma basta leggere soltanto alcune pagine di qualche saggio del poeta Giorgio Moio per capire che anche recentemente la poesia meridionale non ha avuto l'attenzione che si meritava. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che nelle antologie scolastiche Alfonso Gatto, Sinisgalli, Scotellaro, Calogero, Pierro, etc etc ci sono tutti. Ma quanti vengono messi nei programmi scolastici e quanti poeti del Sud vengono fatti studiare? Proprio al Sud ci sono molti giovani che si laureano brillantemente in materie umanistiche e scrivono cose egregie. Proprio nel Sud ci sono delle isole felici, diverse associazioni culturali, diversi circoli culturali, che premiano i poeti, ancora più che in altre zone di Italia. Il Sud talvolta mi sembra quasi spaccato culturalmente, in precario equilibrio, a metà strada tra due fuochi: il fuoco della criminalità e quello del vero Rinascimento letterario. In questi ultimi anni si registra comunque una maggiore attenzione nei confronti della poesia meridionale e, diciamocelo francamente, Internet ha ridotto le distanze e le ingiustizie critiche, visto che oggi tutto viene pubblicato e reso noto al pubblico online.

 

 

Cose da tener presenti e regole di comportamento per un/a giovane per sopravvivere nella giungla della comunità poetica...

ott 292022

 

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Cose da tener presente e regole di comportamento per un/a giovane per sopravvivere nella giungla  della comunità poetica:


Ai poeti e naturalmente anche alle poetesse, veri/e, aspiranti, sedicenti dai sempre ragione, anche quando hanno torto marcio. Non te li inimicare mai. Possono cercare vendette, possono fartela pagare. Come? In ogni modo. Niente a loro è precluso. Sono pronti a calpestarti in ogni modo senza umanità e senza rispetto per la tua dignità. Al peggio non c'è fine. Se provi a ferirli minimamente nell'orgoglio possono diventare criminali. Una poetessa riconosciuta mi scriveva che alcuni letterati e poeti, che ce l'avevano con lei, la sottoponevano online ad esempio a delle vere e proprie shit storm, termine ormai comprensibile a tutti.


Per le poetesse e i poeti, veri e presunti, esistono solo dei libri importanti, necessari, prioritari: i loro. Oppure quelli dei loro maestri/mentori, ma possono ammettere ciò solo per pura formalità e perché non possono fare altrimenti, dato che i loro mentori sono un elemento imprescindibile della loro biografia.


Loro sono superiori agli altri. Devi naturalmente riconoscere la loro grandezza. È un atto dovuto. Se non lo fai diventi un loro nemico. Oppure sei un mentecatto ignorante e illetterato.


Alcuni poetesse e alcuni poeti, veri o presunti, hanno iniziato da così tanto tempo a scrivere che si sono veramente dimenticati/e la ragione per cui hanno iniziato. E ora non trovano il modo per smettere, anche se molte ragioni plausibili ce le avrebbero, ma loro non ne tengono mai di conto.


Secondo alcune testimonianze femminili il mondo della poesia italiana è un mondo di mani morte senza guardare in faccia nessuna e senza remore. Le ragazze devono stare attente a chi promette loro mari e monti in cambio di sesso. I lestofanti libidinosi sono sempre dietro l'angolo, ma in fondo non c'è niente di male a diventare l'amante ingenua di un poeta riconosciuto, anche se il talento poetico non c'entra nulla.


Ormai il sovrappiù del capitalista non è dato più dalla forza-lavoro dell'operaio ma anche dal marketing, dalla pubblicità, dell'ingegneria gestionale. La speculazione finanziaria in borsa domina sulla produttività industriale. Però molti letterati continuano a dirsi marxisti senza alcuna riserva. Abbracciano senza se e senza ma il determinismo economico marxiano di più di un secolo fa, condividendo totalmente l'analisi economica di una realtà, di un mondo che non c'è più. E se glielo scrivi si arrabbiano in modo furioso e cercano vendetta letteraria.


A meno che tu non sia di bell'aspetto, non sia ricco, non sia un professore universitario o un poeta affermato a scrivere poesie non si cucca. Se vuoi cuccare comprati a rate una bella macchina o passa molte ore del tuo tempo libero a farti il fisico in palestra.

 


Non ti fare spennare dalle case editrici a pagamento.


Capirai col tempo che più si accumulano le frustrazioni e più l'ego si gonfia. Come scriveva Adler dietro ogni complesso di superiorità si cela un complesso di inferiorità.


La poesia devi prenderla come una semplice passione. Non ti può guarire né ti può avvelenare, se hai i piedi ben saldi a terra. Probabilmente non sarà per te neanche un altro lavoro. Se avrai un lavoro al massimo sarà un dopolavoro.


La concezione del mondo di poetesse e poeti, veri o presunti, si basa sulla poesia che è superiore alla prosa, agli articoli, ai saggi brevi. Ti citano Bukowski quando scriveva: "La poesia dice troppo in pochissimo tempo, la prosa dice poco e ne impiega troppo". E naturalmente la loro poesia, vera o presunta, viene prima di tutto o di tutti.


Il mondo va in tutt'altra direzione. Tutto rema contro ai poeti. La cultura di massa sta fagocitando ogni giorno la poesia. Lo si vede anche dai quiz televisivi sempre più visti, dove per domande di cultura generale si intendono domande di sottocultura. Però l'importante per i poeti è crederci e volerlo.


Se sono riconosciuti considerano la comunità letteraria meritocratica e talentocratica. Si sentono in pace con il mondo. Se non sono riconosciuti allora sono dei geni incompresi e parlano di mafia letteraria. Ma nessuno si presenta come non riconosciuto. Questa cosa nessuno la ammette. Tutti si pavoneggiano per la pubblicazione di quel libro a pagamento, per la pubblicazione su quella rivista, per essere stati inseriti in quella antologia. Se leggi le note biografiche di poeti, veri o presunti, sono tutti riconosciuti. Alla vanagloria, al narcisismo non c'è fine, nel senso che non devi assolutamente mettere in dubbio la loro bravura e i loro consensi critici perché rischieresti l'incolumità fisica e la discussione non avrebbe termine.


Le poetesse e i poeti, veri o presunti, sono quasi tutti di sinistra, ma è meglio non dirlo per evitare guai.


Ogni poeta e poetessa se la suona e se la canta. Gli altri fingono di leggere e di capire. In realtà nessuno ascolta nessuno. Tutto è bello e insignificante al tempo stesso. Il tasso di incomunicabilità è elevato e l'ipocrisia, la finzione regnano sovrane.


Sembra talvolta che alcuni/e facciano di tutto per non farsi comprendere. Va bene che la poesia è nominazione pura, ma spesso usano termini desueti e ormai non familiari a nessuno perché così credono di impreziosire le loro poesie. Credono di essere tanto incomprensibili e oscuri quanto poetici. Oppure probabilmente sono solo legati troppo a canoni letteraria troppo antiquati. Oppure forse vogliono solo divertirsi e pensano che quando saranno morti gli italianisti non riusciranno a capire il senso delle loro liriche. In realtà gli italianisti tra un secolo forse non ci saranno più perché l'italiano sarà ormai una lingua morta e non studiata più da nessuno. E poi perché i posteri dovrebbero occuparsi di loro se ai contemporanei di loro non importa niente? Come mai ripongono tutta questa speranza nei posteri?


Devi tener presente che la poesia contemporanea italiana è una piccolissima fabbrica di illusioni per uno sparuto gruppo di persone, se lo si confronta con il resto della popolazione a cui non gliene importa davvero niente. Essere poeti o poetesse è del tutto legittimo, ma al resto del mondo non interessa minimamente e di questo bisogna che chi scrive versi ne prenda atto e coscienza.


Nessuno può parlare male dei poeti, nemmeno i poeti riconosciuti. Chi lo fa è un nemico, un invidioso, un poeta fallito, un disfattista qualunquista oppure tutte queste cose insieme. Di solito l'accusa principale è l'invidia. Siamo tutti invidiosi dei poeti, veri o presunti, che ormai li considerano davvero pochi, mentre il mondo è delle multinazionali, degli sceicchi, delle influencer, degli showman televisivi.


Le poetesse e i poeti, più presunti che veri, hanno spesso qualche disturbo psicologico o psichiatrico, ma non devi minimamente sospettarlo né dirlo. La "follia" è un fenomeno di proiezione, come l'amore del resto. Pazzi sono sempre gli altri. Se io ammetto che ho qualche problema psicologico, ma mi curo e sto molto bene loro mi considerano un individuo altamente problematico, un poveretto. Poi tra molti di loro c'è feeling, intesa, affinità elettiva e tutto ciò è una corrispondenza di amorosi sensi tra persone con problemi psicologici o psichiatrici che non si curano. Si sostengono a vicenda. Ci vuole un minimo di sopportazione e di acquiescenza di fronte a loro, ma non devi necessariamente improvvisarti terapeuta o improvvisarti sodale per risolvere le loro tare psicologiche/psichiatriche perché non la finiresti più. Cerca di assecondarli e di essere comprensivo.


I poeti e le poetesse sono tutti amici e amiche. Poi la realtà effettiva è un'altra. A onor del vero colpi bassi senza alcun complimento, appena uno si assenta.


Visto e considerato che tutte le isole sono state trovate (ricordando Gozzano), visto che è difficile lo straniamento o anche solo rinnovare il linguaggio, i poeti veri o presunti, non approdando a traguardi immaginifici, si trascinano stancamente a scrivere i loro versi. Il fine ultimo è la gloria postuma.


La poesia di ogni poeta in questione è immortale. Devi a ogni costo riconoscere che è memorabile. Magari certi versi te li scordi il giorno stesso averli letti, ma il postulato è che quei versi sono capolavori e se non lo senti o non lo pensi è perché non hai adeguata preparazione culturale, adeguata sensibilità artistica, sufficiente intelligenza, sufficiente gusto estetico.


I poeti, veri o presunti, ti cercano solo quando hanno bisogno o solo quando gli fa comodo.


Molte poetesse e molti poeti, veri o presunti, ti possono accettare solo come loro accolito. Devi andare a bottega da loro. Loro poi possono anche atteggiarsi a maestri di vita. Tu non puoi che essere un discepolo.


Non perdere tempo in lotte di potere tra cricche, scuole di pensiero, fazioni. Il vero potere di un poeta è quello di trasmettere emozioni sotto forma di bellezza letteraria a quante più persone. Molti cantanti sanno comunicare ed esprimere emozioni, ma non sotto forma di bellezza letteraria. Un problema insormontabile è quale sia, cosa sia la bellezza letteraria oggi.


Tutte le alleanze, gli amori, le antipatie, i litigi tra poeti, veri o presunti, non finiranno nella storia della letteratura. Sono praticamente ininfluenti. Non farti cattivo sangue. Nella storia della letteratura ci restano pochissimi.


Il mondo va alla malora e forse scrivere o leggere poesia è un passatempo come un altro. Non si fa del male al mondo e nemmeno lo si salva. Un minimo di realismo non guasterebbe. Meno smania di grandezza e meno manie di protagonismo non guasterebbero.

 


Ne vale veramente la pena di leggere o scrivere poesia? Senza ombra di dubbio. Basta leggere Apollinaire, Ginsberg, Montale, Pasolini, Zanzotto, Merini o la Rosselli. Non costa nulla partecipare e dare il proprio piccolissimo contributo, possibilmente in punta di piedi, con modestia, senza alzare la voce e senza essere molesti.

Sempre su poeti, veri, aspiranti, sedicenti...

ott 252022

 

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Ė la solita schermaglia. Alcuni critici e alcuni poeti "arrivati" dicono e scrivono che i giudizi sono oggettivi, quando i criteri di un tempo, i vecchi canoni come la metrica e l'eufonia sono stati abbandonati. Chi non si afferma poeticamente talvolta grida che è tutto un contendersi tra conventicole, che è tutta una cricca e si dichiara incompreso/a. Ad onor del vero esistono le amicizie, i favoritismi, le idiosincrasie: sarebbe disonesto non ammetterlo. Siamo in Italia insomma. Io non conosco personalmente nessun poeta o critico. Non ho amici o amiche nel settore. Lo scrivo a scanso di equivoci. Conosco poco l'ambiente della poesia. Osservo quello che accade su Internet. Naturalmente sono del tutto legittimi i rapporti di stima reciproci. Talvolta mi chiedo se c'è del marcio nella comunità poetica, ma non ho sufficienti elementi per rispondere. Alcuni letterati arrivati vogliono pontificare, legiferare. Alcuni non arrivati vogliono fare un quarantotto. Ci sono anche persone che vorrebbero affermarsi ancora di più, approdare alla grande editoria e accusano che è tutto un sistema che mistifica, che è ingiusto, che falsa i veri valori. La comunità letteraria sembra essere basata sul discrimine autorità/frustrazione. La domanda da porsi è se il talento o il genio attualmente in poesia siano oggettivamente riconosciuti e riconoscibili. Nutro dei dubbi. Alcuni che sono arrivati vorrebbero imporsi, quasi sopraffare, zittire il resto di quella che per loro è una ciurma. Gli aspiranti e i sedicenti poeti, coloro che non sono affermati si basano molto più sui contentini che gli vengono dati che sulle porte sbattute in faccia. Ma ancora una volta mi chiedo quanta obiettività ci sia nei giudizi critici odierni. L'ottima poetessa Maria Borio in un suo saggio breve parla di valutare un testo poetico in base allo stile, all'implicito e all'autenticità oggi. Ma anche così facendo si resta nell'ambito dell'opinabile.
Mi fanno un poco sorridere quegli autori che pagando una pubblicazione a proprie spese si vantano del giudizio elogiativo dell'editore, che ha tutti gli interessi di abbindolarli, di blandirli per convincerli a pubblicare altri libri a pagamento. Spesso il piccolo editore a pagamento li facilita, li mette sulla buona strada, li aiuta a pubblicare su riviste, li incanala nelle giuste conoscenze/binari poetici. Noto che un libro pubblicato a pagamento viehe più considerato di un ebook pubblicato gratis su una rivista online. È un falso prestigio basato su premesse errate. Innanzitutto spesso l'editoria a pagamento non è affatto selettiva, non distingue il grano dal loglio. Molto spesso anche il più improvvisato degli aspiranti poeti trova da pubblicare. Non nascondiamoci dietro ad un dito: spesso molte piccole case editrici a pagamento non premiano la qualità e sono come delle tipografie. Forse viene considerato di più un libro pubblicato a proprie spese perché si tiene conto dell'onere economico più o meno gravoso a cui ha dovuto far fronte. Forse si chiudono gli occhi e si fa finta di non vedere perché è una prassi troppo diffusa e così fan tutti/e. C'è gente che ha un curriculum poetico fatto da una caterva di pubblicazioni a pagamento. Ma che curriculum artistici sono? Bisognerebbe guardare solo la qualità degli scritti. Io non guardo se un libro è pubblicato con una piccola, media o grande casa editrice. Valuto se mi piace oppure no. C'è del buono, anzi dell'ottimo nell'editoria a pagamento. C'è una editoria a pagamento anche che sa scegliere il buono dal pessimo. Ma è meglio non vantarsi di una pubblicazione cartacea. Non c'è nessuna asticella superata nel pubblicare a proprie spese. Basta avere i soldi, essere disposti a spendere, poi un editore si trova. Spesso sarà un editore che obbligherà all'acquisto di cento copie, non si interesserà alla distribuzione, etc etc. Io considero una persona poeta o poetessa a prescindere delle pubblicazioni, ma solo in base a ciò che scrive. Mi sembra che questo modo di giudicare sia il più onesto intellettualmente, anche se di primo acchito può sembrare presuntuoso. Il mio giudizio però non è assolutamente interessato. Il giudizio di certi piccoli editori a pagamento invece è interessato.

Il poeta del web e il poeta riconosciuto (tra il serio e il faceto)...

ott 182022

 

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Se Il poeta riconosciuto pubblica con la Mondadori, l'Einaudi, la Feltrinelli, la Garzanti, il poeta del web pubblica nel suo blog letterario (o aspirante tale) i suoi versi. Ogni tanto fa qualche altra apparizione in altri lit-blog di amici oppure in una rivista online a cui collabora. Se il poeta riconosciuto viene elogiato da una miriade di aspiranti poeti, che si dicono amici (ma la loro amicizia è molto interessata e finalizzata a far parte delle patrie lettere), ebbene il poeta del web ha come amici dei sodali. In realtà il poeta riconosciuto e il poeta del web hanno entrambi pochi amici veri nel loro mondo artistico e invece molti conoscenti: il primo viene più invidiato che ammirato, il secondo è in competizione con gli altri e anche se non gareggia sono gli altri che sono comunque in gara con lui (pochi capiscono come Ferlinghetti che la poesia non è una gara). D'altro lato la poesia è anche pubbliche relazioni, consiste anche nello stringere alleanze. Il poeta riconosciuto frequenta solo i propri pari. Il poeta del web frequenta tutti oppure si autoesclude dalla vita. Se il poeta riconosciuto per un motivo imprecisato cade in disgrazia nessuno lo considera più. Il poeta del web se ha successo acquista molti falsi amici, ma perde anche qualche amico vero. Fino a quando il poeta del web è un carneade i suoi amici (o apparenti tali) gli danno manforte, gli danno sostegno emotivo/psicologico. Il poeta riconosciuto pubblica per tutti. Il poeta del web pubblica per la propria bolla ma anche per nessuno.


Il poeta del web si deve sudare collaborazioni in blog e riviste online oppure anche delle apparizioni in angoli di web. Spesso ricorre a delle pubblicazioni a pagamento di libri per dire che ha pubblicato anche lui e per essere più accreditato. Il poeta riconosciuto spesso è un cattedratico o ha buone entrature nel mondo universitario. Non ha problemi a trovare una casa editrice che non lo fa pagare perché sa che il suo nome è una garanzia e permetterà almeno un piccolo ritorno economico. Il poeta riconosciuto sa che il suo libro avrà molte recensioni sui quotidiani e che i suoi seguaci lo compreranno. Il poeta riconosciuto viene già antologizzato in qualche manuale scolastico. Nessuno regala niente al poeta del web. Talvolta chiede aiuto economico ai suoi familiari per pubblicare un libro di poesie. Fa dei sacrifici risparmiando per tutto l'anno oppure li fa fare ai suoi familiari. Nel corso degli anni potrà scrivere sul suo curriculum che ha pubblicato diversi libri. Inoltre ogni pubblicazione online è una piccola conquista, un piccolo passo avanti. Ma verso dove? Essere pubblicato su qualche sito letterario in più cambierà forse la sua vita, lo farà svoltare (come si dice a Roma) oppure migliorerà la sua arte? In ogni caso è un passatempo, un hobby...

 

 

 

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Per essere poeti riconosciuti bisogna avere capacità intellettuali, cultura umanistica, saper sfruttare le giuste occasioni (per dirla alla Montale), la fortuna di avere almeno un maestro (io sostengo che la cosa più importante a tal riguardo sia avere una buona maestra elementare perché parte tutto da lì), ma spesso bisogna anche avere un trauma da superare, un lutto da rielaborare, essere considerati dei diversi per qualsiasi motivo, avere un grande amore non corrisposto, essere disadattati, avere una psicopatologia oppure essere poveri: una sola di queste cose o più cose insieme. I grandi poeti e le grandi poetesse sono tutti in un certo qual modo traumatizzati almeno da un evento della vita oppure in senso lato dalla vita stessa. Per essere poeti o poetesse bisogna soffrire. Non a caso alcuni critici talvolta scrivono agli aspiranti poeti: "bravo ma freddino" oppure più semplicemente "non sai ancora cosa vuol dire soffrire". Ci vuole quindi qualcosa che segni per sempre in modo indelebile. I casi sono due: vivere normalmente o soffrire e scrivere. Ma non è sufficiente. I casi sono ancora due: vivere o capire. Il poeta riconosciuto soffre, capisce, scrive. Il poeta del web pensa di capire, pensa di soffrire, nel frattempo scrive. Inoltre il poeta riconosciuto deve essere contro la mentalità comune, contro la logica del sistema, contro il potere costituito. Associando queste due caratteristiche, utilizzando le parole di De André, potremmo affermare che ogni poeta autentico, riconosciuto o meno, "viaggia in direzione ostinata e contraria, con il suo marchio speciale di speciale disperazione".

 


Il poeta del web spesso si guarda bene dal non mettere tutto in piazza. Se ha dei traumi non vuole metterli in piazza, neanche in una piazza virtuale. Sa che i suoi compaesani o i suoi concittadini potrebbero usare tutto ciò che scrive contro di lui. Cerca quindi di non autospubblicarsi. L'autopubblicazione va bene, ma non l'autospubblicazione. Prima di scrivere qualcosa di compromettente si autocensura pensando ai suoi familiari, ai suoi parenti, alle sue amicizie. D'altronde è con loro che deve convivere. Non tutti sono disposti a dare tutti sé stessi in pasto a tutti. Che poi anche i datori di lavoro o i potenziali datori di lavoro possono leggere le cose pubblicate sul web. Basta fare una semplice ricerca. Insomma di solito il poeta del web ha minore talento del poeta riconosciuto, ma non osa mai tanto. Si risparmia. È più pudico. È meno coraggioso. Ha una reputazione da difendere nel suo paese o nella sua cittadina. Il suo lavoro, il lavoro dei suoi familiari dipendono in buona parte anche dalla reputazione. Il poeta del web ha molto da perdere e forse il gioco non vale la candela. Il poeta riconosciuto ha le spalle molto più larghe. Sa che è un personaggio pubblico o semipubblico e che in questo villaggio globale ormai di chi è noto tutti sanno tutto di lui. Il poeta del web invece tratta difficilmente di sesso. Non fa invettive. Non combatte draghi né fantasmi mentali. Non fa nomi dei propri nemici per paura di denunce per diffamazione. Ma ci sono anche poeti del web che si lasciano andare a diarismo e intimismo. In linea di massimo diciamo che il poeta del web anche se si confida o entra nell'intimità gli prestano attenzione in pochi, mentre il poeta riconosciuto fa più notizia, anche se solo nella comunità poetica. Il poeta del web e il poeta riconosciuto hanno la stessa passione, hanno sempre avuto la stessa ambizione, coltivano da sempre il loro talento, sono entrambi alla ricerca della verità o della sua parvenza. Il poeta del web e il poeta riconosciuto si possono scambiare i ruoli, la faccia, la vita perché probabilmente sono ognuno la faccia della stessa medaglia o addirittura la stessa persona (chi è l'originale e chi la copia? Oppure sono due sosia che nessuno riconosce come tali).

Due parole soltanto su poesia e inconscio...

ott 082022

 

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L’inconscio per Freud è tutto ciò che non affiora alla coscienza. Secondo Freud si può accedere all’inconscio tramite le associazioni libere, l’ipnosi regressiva, l’interpretazione dei sogni, l’analisi della psicopatologia quotidiana (dimenticanze, lapsus, errori). Per intenderci potremmo definire questo come inconscio personale o individuale. Esiste anche l’inconscio collettivo, scoperto da Jung, che invece è formato da istinti ed archetipi. Un archetipo è un principio arcaico universale e al contempo un’immagine primordiale, presente nella psiche umana dagli albori. Riguardo agli istinti c'è chi sostiene che anche noi esseri umani li abbiamo e studiosi che pensano che li abbiano solo gli animali. Quindi la cosa è dubbia. Comunque gli archetipi esistono. Non è assolutamente detto che inconscio sia sinonimo di irrazionalità perché anche l’inconscio ha la sua logica. A riguardo si pensi al celebre aforisma di Lacan, secondo cui “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”. Inoltre esiste anche l’inconscio cognitivo. Si pensi ad esempio alle recenti ricerche sulle euristiche di Tversky & Kahneman. Le euristiche, semplificando, sono delle scorciatoie mentali errate, che utilizziamo perché la nostra memoria a breve termine è limitata. Messi di fronte a certi problemi non decidiamo quindi come dei decisori esperti, che utilizzerebbero il calcolo delle probabilità. Ogni rimatore si confronta quotidianamente con il proprio inconscio cognitivo e con l'euristica della disponibilità. Ci sono infatti parole che vengono più alla mente e sono più disponibili, anche se magari sono meno frequenti di altre nel vocabolario. Oppure molto più banalmente si pensi a tutte quelle operazioni mentali, che sono divenute degli automatismi della psiche e che non giungono più alla soglia della coscienza. Si pensi quindi ad attività come guidare una macchina o suonare uno strumento musicale. In poesia a mio avviso esistono anche autori, che cercano di rimuovere il più possibile dalla loro scrittura qualsiasi tipo di inconscio. I loro scritti sono colmi di razionalizzazioni. Esistono e sono esistiti anche autori (ad esempio i surrealisti e i futuristi), che hanno lasciato che l’inconscio prevalesse su tutto e su tutti. È da ritenere che ci debba essere una giusta misura, un giusto equilibrio tra conscio e inconscio: la parte conscia però deve sempre prevalere sulla parte inconscia, anche se non può censurare tutto l’inconscio. Infatti è da ritenere che, quando prevale eccessivamente il conscio, si registra un’eccessiva intellettualizzazione. Invece quando prevale l’inconscio si assiste negli autori meno capaci a dei versi incomprensibili e illeggibili. Comunque far riaffiorare l’inconscio è un ottimo atto di autoterapia. Quando la scrittura si apre all’inconscio, rileggendosi, si può avere delle piccole sorprese: delle piccole rivelazioni. Talvolta scaturiscono espressioni inaspettate, che possono essere delle piccole scoperte e che aiutano a conoscere meglio sé stessi. Scrivere quindi è utile (prima di tutto per sé stessi). Gli ermetici sprigionavano il loro inconscio soprattutto tramite le analogie. La Neoavanguardia scatenava l’inconscio con l’asintattismo. Montale invece spesso rimuoveva l’inconscio. Amelia Rosselli e Zanzotto, pur avendo poetiche razionali e un’elevata intellettualità, liberavano spesso il loro inconscio. Di solito l’inconscio viene utilizzato nel dettaglio, nella figura retorica, nell’espressione verbale. L’inconscio può consentire la creazione di nuove immagini poetiche e di accostamenti inusuali, originali di parole. I poeti neo-orfici negli anni Settanta in Italia hanno instaurato un nuovo rapporto con l’inconscio. Sono stati dei poeti “innamorati” della parola. I neo-orfici hanno creduto nella funzione sacrale della poesia e nell’assolutezza della parola. Hanno preferito il prelogico al logico, unendo a ciò nei loro testi oscuri la mitologia. Inconscio individuale e inconscio collettivo si fondevano quindi armoniosamente. L’uomo moderno non può riflettere troppo perché diventerebbe pericoloso per il sistema produttivo; potrebbe infatti chiedersi quale senso abbia effettivamente il suo lavoro o potrebbe diventare un consumatore molto critico. La filosofia, la letteratura, la poesia sono quindi pericolose per il sistema perché possono creare degli umanisti, che esercitano nella vita il loro senso critico e la loro autonomia di pensiero. Il potere inoltre vuole dominare totalmente l’inconscio. Invece tramite la poesia qualsiasi persona si riappropria del proprio inconscio. Ecco perché la poesia viene considerata inutile dalla società odierna (fondata sulla razionalità tecnologica e scientifica) e chi scrive versi invece viene considerato un perditempo!!! La poesia è anche espressione della razionalità umana (per quel che è possibile). La parola poetica può dirci sempre qualcosa di nuovo sul mondo e sull’animo umano. La parola poetica può mettere ordine nel mondo: innanzitutto nel mondo interiore di chi scrive. Da questo punto di vista la bellezza non è solo verità, ma la riflessione poetica-filosofica può condurre alla verità umana (per cui sempre provvisoria e instabile, mai definitiva). Quindi molti poeti sono razionalisti e umanisti moderni. Poi naturalmente bisognerà anche valutare gli esiti. Come scriveva Saba in “Cose leggere e vaganti”: “anche i versi somigliano alle bolle di sapone; una sale e un’altra no”.

 

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