Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Due parole su amicizia e stima tra letterati e poeti, veri o presunti

May 202023

 

undefined

 

 

 

 

 

Nel mondo letterario si parla tanto di mafia culturale ed è a mio avviso un termine inappropriato perché la vera mafia si spartisce grandi quantità di soldi e tanto potere, mentre la comunità letteraria ad esempio si spartisce solo le briciole e sono tantissimi i galli nel pollaio. Non è quindi tanto la modalità o la tipologia ma lo scarso giro di affari e il mercato di vacche magre a rendere la cultura poco mafiosa. A essere malevoli si può parlare di mafia culturale, intendendo una mafia con la m minuscola (che non uccide le persone ma la vera cultura), quella dei favoritismi, degli abusi di potere, delle ingiustizie, dei privilegi, delle cattedre per nepotismo, clientelismo, etc etc. Insomma la mafia culturale è una mafia non solo da colletti bianchi ma anche da innocui dilettanti, che però dovrebbero dare per primi il buon esempio e invece non lo danno. Non solo ma il circolo virtuoso d'un tempo non esiste più, perché non necessariamente il prestigio culturale dà prestigio sociale e il prestigio sociale dà soldi. C'è chi sostiene che l'amicizia tra poeti o tra letterati, quella vera, non esista, ma esista solo quella interessata (insomma scambi di favori, do ut des, etc etc). I letterati dovrebbero stimarsi e poi diventare amici, mentre accade spesso che prima diventano amici e poi si stimano, ma poi è vera stima? Ancora una volta viene da chiedersi se esiste la stima disinteressata o soltanto nell'Iperuranio. L'importante, realisticamente parlando, non è la stima effettiva ma quella percepita: ricordate l'immanentismo di Berkeley, ovvero l'essere è essere percepito? Anche qui la stima è la stima percepita e così l'amicizia. Che poi si può stimare chi non si dimostra amico veramente? Si può stimare chi non ci stima e nutre un'idiosincrasia nei nostri confronti? Quanto sforzo ci vuole? Ci vorrebbe un'invidiabile obiettività e imperturbabilità d'animo, che pochissimi hanno francamente. Allo stesso tempo ci vuole imperturbabilità d'animo, stoicismo, grande correttezza nello stroncare un amico o dirgli anche solo privatamente che non ci piace il suo libro. Di solito uno non stronca e non esprime giudizi negativi per quieto vivere, per evitare rappresaglie e vendette. Poi ci sono le alleanze non solo tra sodali apparentemente disinteressati, ma anche tra letterati della stessa città, della stessa casa editrice, dello stesso partito, della stessa università. Quanti attestati di stima sono falsi e inautentici? Quanta disistima viene taciuta per interessi di ordine superiore, per cause di forza maggiore? Viene naturale per amor proprio stimare chi dimostra di stimarci, ma è molto difficile, quasi impossibile il contrario. Se qualcuno ci dimostra stima, finiamo per vedere di primo acchito solo i suoi punti di forza e i suoi lati positivi. Allo stesso modo se un genio ti critica finisci per cercare difetti, per trovare il pelo nell'uovo e sminuirlo. Ci vuole molta umiltà, assennatezza, modestia per accettare serenamente delle critiche, anche perché purtroppo anche nel mondo letterario a pensare male si fa peccato ma ci si indovina sempre e dietro a delle critiche o a delle stroncature c'è quasi sempre un motivo personale o ideologico, perché di solito i letterati non cercano guai e hanno un atteggiamento conciliante. Di solito il meccanismo è semplice. Queste sono le tattiche messe in atto dai letterati: se tu mi stimi, io ti stimo; se tu non mi stimi, io non ti stimo; se tu mi attacchi, io ti attacco; se tu non mi pesti i piedi, io non ti pesto i piedi. Di solito viene evitato l'attacco fine a sé stesso, la polemica sterile. Al contempo nessuno fa niente per niente, quasi niente viene fatto gratuitamente, a meno che a uno non gli importi niente di fare carriera letteraria (come me del resto), e chi fa un piccolo favore vuole essere ricompensato prima o poi. Esiste inoltre la polemica a distanza senza fare i nomi (si dice il peccato ma non il peccatore e anche si dice a nuora perché intenda suocera). Come se non bastasse l'amore e il sesso complicano tutto terribilmente. È tutto semplice fino a quando un genio come Giovanni Raboni si mette con un genio come Patrizia Valduga e scrivono poesie immortali, ma come la mettiamo con i compromessi sessuali o anche con le aspiranti poetesse sopravvalutate, proprio perché amate da un grande letterato? Come saggiamente cantano i Baustelle: "Perché l'amore rende ciechi se c'è e non distingui Sylvia Plath da un parassita". Tutte queste cose facevano dire alla Merini che il mondo dei poeti non è poi così male, ma è terribile il sottobosco poetico. Concludendo, sono due le scuole di pensiero a riguardo della mafia culturale: 1) c'è sempre stata, c'è, ci sarà ed è universale 2) è un male, un malcostume prettamente italico.
Nel frattempo la psicologia e la sociologia di poeti, scrittori, letterati italiani è molto semplice, quasi elementare, a tratti pavloviana procede per riflessi condizionati, a tratti risente del condizionamento operante con rinforzi positivi e negativi, e soprattutto è fatta di una buona dose di egocentrismo, vanagloria e meschinità, ma qualcuno obietterà che funziona così in tutti i settori e fa parte della natura umana. Basta lisciare il pelo o infastidire il letterato per vedere reazioni spropositate. L'ego dei poeti infine è ipertrofico, vuoi spesso per disturbo di personalità di base, vuoi per per troppe frustrazioni; basta davvero poco per essere amati oppure odiati, con l'aggiunta di un piccolo particolare da tener presente: se lodi un poeta lo ritiene un atto dovuto e dopo qualche giorno si scorderà di te, se invece lo critichi negativamente ti odierà a vita e se la legherà per sempre al dito (basta togliere un'amicizia o bloccare qualcuno su Facebook per essere odiati a vita per lesa maestà e queste ragioni prettamente personali non hanno niente a che vedere con la poesia né con la letteratura). Che poi niente è certo nel mondo letterario. Chi può davvero stabilire con certezza se tizio o caio è un poeta? Lo stabiliranno solo i posteri. In matematica di un un insieme si può stabilire con certezza se un certo elemento ne fa parte oppure no. In letteratura è men che meno in poesia questa certezza non c'è. Ogni autore, ogni poeta subisce un processo. Ai contemporanei spettano solo le indagini preliminari, ma la vera corte di cassazione sono i posteri, se i posteri ci saranno.

Due parole su arte, vita, piccole meschinità...

Apr 122023

 

undefined

 

 

 

Scriveva Bukowski che nessun uomo è forte come le sue idee. Ho appena passato mezzo secolo e conosco un minimo la natura umana per sapere quanto avesse ragione. Da giovani molti hanno grandi ideali, che puntualmente tradiscono con azioni riprovevoli. È così facile cadere e/o ricadere. Non parlo moralisticamente di peccati o vizi (non pensiamo solo al sesso, che è poca cosa, un peccato veniale, se non viene fatto male ad altri), ma di errori in senso lato nella vita e di come è facile ricadere nei soliti errori, insomma essere recidivi. Ho conosciuto persone che da giovani volevano condurre una vita irreprensibile e dopo hanno sconfessato totalmente i loro ideali. Vale sempre per tutti il detto: "Soldi e santità, la metà della metà". Ma conosco anche un poco la comunità poetica e a volte mi chiedo quanto sia difficile per un artista non solo non tradire i suoi valori, ma vivere all'altezza delle sue parole. Spesso anche i poeti, i sedicenti e aspiranti tali si rovinano il fegato in piccolezze (meschinità, grettezza d'animo, invidia, gelosia, frustrazione, complessi di superiorità dietro a cui si celano complessi di inferiorità come insegna Adler, vanagloria, presunzione, smania di grandezza, egocentrismo, etc etc). Insomma sembra una cosa banale, però non sempre c'è correttezza nei rapporti umani (dallo scambio di favori, al compromesso sessuale, alla recensione pretesa come atto dovuto, alle alleanze interessate, all'arruffianamento, alla polemica sterile per ottenere visibilità). Che poi non si sa bene dove inizi e dove finisca la comunità poetica, né si sanno con certezza i criteri con cui si stabilisce che uno ne faccia parte o meno! Si ritorna al solito binomio arte e vita, letteratura e vita. Come faceva dire D'Annunzio ad Andrea Sperelli: «Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte». Più recentemente anche il sociologo Bauman ha scritto che bisogna fare della nostra vita un'opera d'arte e lo scriveva senza alcuna traccia di superomismo. Ma spesso in passato si voleva che l'artista desse il buon esempio con la sua condotta di vita, che fosse di specchiata moralità. Se questa regola fosse valida per tutti allora avrebbero ragione quelli del politically correct e anche quelli della cancel culture a rimuovere opere e artisti discutibili. Ma ci sono molti casi limite. Lo stesso D'Annunzio e molti futuristi non erano forse dei guerrafondai? Caravaggio non era forse un assassino? Althusser non strangolò forse la moglie che voleva lasciarlo? Dovremmo cancellarli, rimuoverli? E la lista potrebbe continuare. Senza andare troppo indietro negli anni e limitandosi al mondo dello spettacolo italiano basta ricordare il presunto scandalo di Mina, che era incinta e non sposata. C'è vita nell'arte e arte nella vita. L'arte a onor del vero si dovrebbe occupare della vita. L'arte dovrebbe imitare la vita, riprodurla, tradurla, trasfigurarla, invece del contrario. Il grande Carlo Bo scrisse che la letteratura dovesse essere come la vita. Ma era giovane e non ne poteva più degli intellettuali succubi del fascismo. All'epoca si doveva prendere le distanze da certi compromessi e si doveva indicare una nuova strada maestra. Alcuni decenni più tardi lo stesso Bo scrisse invece: «Il critico deve tenere conto della vita dello scrittore oppure deve limitare la sua indagine soltanto ed esclusivamente all'opera? La questione è antica: per il maestro di tutti, Sainte Beuve, la conoscenza della vita era più che utile, insuperabile. Per altri, a cominciare da Croce e da Proust, se ne poteva fare a meno, anzi era bene stringere lo studio alla valutazione pura dell'opera». La critica biografica purtroppo sopravvaluta la vita e considera poco le opere di un artista. La critica biografica pone troppo l'accento sulla sessualità di un artista e alimenta la pruderie, se non addirittura cerca lo scandalo. Da Freud in poi questo filone della critica spiega le opere in base alla sessualità di uno scrittore, un poeta, un pittore. Ma è davvero necessario? Un poeta dovrebbe essere considerato soprattutto per la sua arte e invece spesso si finisce per ricordarlo solo per i dettagli scabrosi o anche solo piccanti della sua vita. A mio avviso la morale sessuale, a meno che uno non sia uno stupratore o un pedofilo, dovrebbe passare in secondo piano. Certamente si dovrebbe guardare più all'etica e meno alla moralità sessuale in senso stretto. C'è una scuola di pensiero, nata dai poeti maledetti, che basa tutto sulla distinzione tra borghese e artista: all'artista sono concessi certi eccessi, però perde la rispettabilità borghese, a meno che non si penta e ritorni nell'ovile come una pecorella smarrita. Un pregio della comunità poetica è che Pasolini è stato per nostra fortuna uno scandalo vivente e chi veniva dopo ha imparato a non scandalizzarsi mai. Almeno i poeti più avveduti e meno cretini si salvano così dal perbenismo moralistico, tanto presente nella mentalità comune. Vecchioni comunque in una canzone dedicata alla Merini scrive: "Basta un niente per essere felici. Basta vivere come le cose che dici". Ma quanti ci riescono veramente? Quasi nessun poeta, se conosciuto realmente, è all'altezza dei suoi versi, che sono la parte più pura di sé; il critico dovrebbe considerare quanta purezza c'è a suo avviso nella parte più pura di un poeta, ovvero in un'opera. La vita di un artista dovrebbe essere considerata spesso come materiale spurio, grezzo, addirittura in molti casi irrilevante. Invece si è giunti spesso all'eccesso opposto, ovvero a un eccessivo psicologismo, a considerare un'opera come un test proiettivo di personalità. Si ritorna alla celebre frase hegeliana che nessun eroe è tale per il suo cameriere. Oggi più che la vita di un autore interessa il personaggio che riesce a far credere di essere. Oggi uno scrittore deve crearsi un personaggio, diventare riconoscibile, adirittura inconfondibile più con la sua figura che con il suo stile. L'importante a ogni modo è salvare la faccia e le forme, dare un'ottima impressione di sé, fare una bella figura perché anche i poeti, veri o presunti, al mondo d'oggi vivono di apparenza e immagine. E allora avremo il poeta che si vanta delle sue conquiste femminili, dei suoi premi, dei suoi consensi, delle sue pubblicazioni. Avremo poeti che sminuiscono altri poeti per affermare sé stessi, che dicono di essere invidiati da tizio, che dicono che caio è un pazzo o che sempronio è un poveretto. Oppure avremo delle poetesse che scimmiottano le veline perché oggi per essere, per esistere, per essere accettati bisogna fare così e l'apparire diventa non più il mezzo ma il fine. Salvo poi di meschinità in meschinità, di snobismo in snobismo, di presunta selettività in presunta selettività, di pretesa esclusività in pretesa esclusività, di malcelato disprezzo in malcelato disprezzo ritrovarsi a non vendere i propri capolavori e maledire il popolo bue che non sa apprezzare cotanto talento e tanta originalità!

 

Ancora una breve riflessione sulla poesia contemporanea, troppo cerebrale...

Apr 012023

 

undefined

 

 

Prima arrivano le immagini e la musica, poi le parole scritte. Così forse in una frase si potrebbe riassumere quello che sta accadendo alla poesia contemporanea italiana. Ma è solo questo? Il celebre Vittorio Sgarbi nella sua prima apparizione al Maurizio Costanzo Show dichiarò che la stragrande maggioranza dei pittori non erano intellettuali. Disse che lui di solito spiegava a loro il significato dei quadri. Era come se la pittura trascendesse gli artisti. Era come se fossero ignari di quello che stavano facendo. Non so se sia vero. Lo prendo per buono, vista e considerata la grandissima competenza in materia di Sgarbi. Erano gli anni Ottanta. Forse oggi le cose sono cambiate, dato che ci sono nell'arte contemporanea molti artisti concettuali e molti registi che fanno installazioni. Ma ancora oggi possono esistere pittori naif, pittori per dirla alla buona tutti inconscio. La stessa cosa non può avvenire nella poesia contemporanea, dove ci deve essere una sintesi tra conscio e inconscio e dove talvolta si cerca di rimuovere l'inconscio. Nell'arte contemporanea l'intellettualità è lasciata in modo preponderante ai critici d'arte. Diciamo che un pittore o uno scultore possono conoscere e metabolizzare tutta l'arte passata, tutta la tradizione in modo inconscio, mentre i poeti devono apprendere e rielaborare soprattutto consciamente. La grande poesia del Novecento, ad iniziare da Eliot e Pound per finire con il gruppo 63, è stata tutta intellettuale. Difficile stabilire i motivi per cui la poesia è più mediata dalla ragione, dalla lucidità, dalla coscienza. Oserei affermare che conti di più la poetica della poesia. Forse è solo questione di Kunstvollen, ma è difficile fare il processo alle intenzioni, alla volontà, dato che esiste sempre l'eterogeneità dei fini anche nell'arte. Ho scritto all'inizio che le immagini arrivano prima, forse perché siamo nella cosiddetta civiltà delle immagini e quindi queste acquistano priorità assoluta, forse invece perché la cosiddetta "emozione retinica" di un quadro o di una scultura arrivano prima, colpiscono di più il fruitore. Forse la fruizione di un quadro o di una scultura è più diretta, più immediata, più accessibile a tutti. Anche se un fruitore ignorante di un quadro non può spiegare esattamente quello che prova a vederlo, comunque quell'opera gli suscita una emozione, gli smuove qualcosa dentro. La poesia contemporanea invece non provoca più shock, non disturba i lettori, né li incanta o li suggestiona più. Questo probabilmente perché il pubblico non è educato al gusto, non riesce a cogliere più la poesia autentica, ma solo i suoi surrogati. Oppure forse questo può accadere anche nell'arte contemporanea, dove un pubblicitario come Oliviero Toscani e un artista come Cattelan spesso sembrano scambiarsi i ruoli? Chissà?!? Ai poeti è chiesto di essere prima, durante e dopo l'atto della creazione degli intellettuali lucidi e sorvegliati. Finisce che non si lasciano più andare alle emozioni e così i più non emozionano gli altri. Sembra quasi che ci sia una regola scritta nella poesia contemporanea per cui non bisogna emozionarsi né emozionare. Come sembra un'altra regola non scritta quella di complicare le cose, scrivere in modo difficile e colmo di paroloni per apparire più intelligenti. Disse Picasso che tutti i bambini sono degli artisti nati, il problema è restarlo da grandi. I grandi pittori si sono saputi riscoprire bambini. Ciò non succede a buona parte dei poeti, troppo impostati, troppo assennati. I poeti nel corso del Novecento, parlo di quelli passati alla storia, sono forse troppo cerebrali. Nella lirica contemporanea la maggioranza degli stessi poeti a loro volta vestono i panni anche dei critici o dei saggisti: pontificano, spiegano, giudicano, ma non emozionano più il pubblico. Li ho definiti troppo cerebrali, come un tempo si definivano quei mariti, oggi etichettati come cuckold, che amavano guardare la moglie fare sesso con amanti occasionali. È come se la poesia avesse perso il senso delle cose, la vera dimensione dell'essere. La situazione in cui si vengono a trovare i poeti oggi è innaturale. Hanno perso il contatto con il pubblico o meglio l'unico pubblico che esiste è quello della comunità poetica, in cui tutti scrivono versi, indipendentemente dal fatto che siano aspiranti, sedicenti o poeti riconosciuti. Un altro problema più basilare è che spesso tra contemporanei e connazionali neanche ci si legge. Molti scrivono e pochi leggono. Ancor meno sono quelli che leggono, hanno gli strumenti per valutare e poi giudicano obiettivamente. Tutto ciò è asfittico, mancano spiragli, l'orizzonte è angusto. La poesia non ha pubblico né mercato. Questo significa che c'è assoluta libertà interiore e di azione (i più però non agiscono in libertà perché hanno paura di rovinarsi la reputazione), ma che allo stesso tempo non essendo mercificabile in questa società consumistica non ha alcun valore o quasi. Eppure oggi molte poetesse italiane e molti poeti italiani varrebbe la pena di leggerli e anche di rileggerli. Sicuramente c'è anche del buono, anche se gli italiani sembrano non accorgersene minimamente. 

 

Ispirazione, scrittura e salvezza...

Mar 252023

 

undefined

 

 

 


C'è chi scrive come gli dicono di dover scrivere. Ma c'è anche chi non si discosta dai suoi maestri, c'è chi volontariamente li imita pedantemente, c'è chi diventa talvolta senza volerlo un epigono, un manierista. Ci sono teorie della letteratura e scuole di scrittura che impongono stili e canoni. In fondo bisogna saper rispettare il cosiddetto spirito dei tempi. Per anni ad esempio sono andate per la maggiore la Neoavanguardia, l'autonomia del significante, la letteratura come menzogna. C'è chi scrive come vuole scrivere. È una libertà interiore che dovrebbe rivendicare ogni autore, al di là delle mode. È un modo inequivocabile per essere veramente sé stessi. Significa scrivere come ci piace e quello che ci piace, scegliendo deliberatamente modalità, stile e tematiche. C'è chi si accontenta di scrivere come sa. Alcuni finiscono perciò per essere troppo schematici e ripetitivi. Un poco come un bambino che disegna sempre un albero perché sa fare bene solo quello. Ciò nonostante ci sono sempre margini di miglioramento in ognuno di noi. Non poniamo limiti all'acculturazione, né alla plasticità neuronale. Tutti abbiamo dei limiti e delle possibilità, ma è difficile stabilire quali. Alcuni hanno delle potenzialità inespresse che non riescono a tirar fuori, a concretizzare. I test attitudinali possono dire ben poco sulla creatività umana, che rimane un mistero inenarrabile. C'è chi giunge ad un compromesso tra queste tre istanze (dovere, volere, potere scrivere). Bisogna sempre scegliere cosa scrivere e come scrivere. Ma siamo davvero sicuri di scegliere? E se fossero invece le parole, le idee, le immagini a scegliere noi? Scrivere è sempre un'attesa e al contempo una scoperta, una sorpresa. Non sai mai cosa può uscire fuori. Viene da chiedersi quanto ci sia di cosciente, razionale e quanto invece di inconscio. Anche in un ambito apparentemente razionale e logico come il giornalismo la scelta di scrivere di un argomento piuttosto che un altro, la selezione delle informazioni, la formazione delle opinioni spesso derivano da attività e aspettative inconsce. In fondo aveva ragione Popper quando diceva ai suoi allievi che osservare non è un verbo intransitivo (lui disse: "osservate" e loro gli chiesero "cosa?") e si osserva soprattutto in base all'esperienza pregressa. C'è quindi di mezzo in ogni scrittura che si rispetti l'inconscio collettivo, individuale, cognitivo, istintuale. C'è poi chi sostiene come Lukacs che l'arte debba rispecchiare la realtà. C'è chi sostiene che debba rovesciare la prospettiva ordinaria con lo straniamento. C'è chi ritiene che l'arte debba trasfigurare la realtà e che quindi una componente immaginativa, soggettiva, se vogliamo ludica e carnevalesca, ci debba essere, debba essere messa in conto. C'è chi pensa che l'arte debba creare un altro mondo, seppur fittizio. Scriveva Heidegger che l'arte è la messa in opera della verità e che la vera creazione artistica debba aprire a nuovi mondi. È sempre difficile scegliere tra oggetto e soggetto, tra esterno e interno. Esplorando la realtà ci si imbatte nell'inconoscibilità della cosa in sé, ma scavando dentro ci si accorge dell'inconoscibilità dell'uomo in sé (così potremmo definire l'insondabilità dell'animo umano). Ma poi ancora una volta siamo noi a scegliere io o mondo oppure sono la nostra personalità di base, le nostre caratteristiche intrinseche, le nostre qualità interiori? Ogni volta che si parla di creazione il mistero si infittisce, spunta l'enigma. Da giovane pensavo che ci fossero due tipi di persone che avessero toccato Dio: gli artisti ispirati da Dio, che testimoniavano la sua esistenza con delle creazioni, e le persone che ricevevano le stimmate e quindi una parte della sofferenza divina. Ma siamo sicuri che l'arte metta in comunione con Dio? A seconda dei casi può tuttavia avvicinarci, soprattutto quando proviamo stupore, rimaniamo affascinati e ammaliati dalla bravura di certi artisti. Qualche volta ci chiediamo se quella straordinario talento possa essere solo frutto dell'ingegno, del lavoro, dell'arbitrio umano. Così scrive Borges: "Una volta chiesero a Bernard Shaw se credeva che lo Spirito Santo avesse scritto la Bibbia. E rispose: «Ogni libro che valga la pena di essere riletto è stato scritto dallo Spirito». Ossia, un libro deve spingersi oltre le intenzioni del suo stesso autore. L’intenzione dell’autore è una povera cosa umana, fallibile, ma nel libro deve esserci di più". Però in fondo l'ingegno, la possibilità di potenziarlo ed esercitare sono a loro volta sempre sottomessi al volere di Dio. Quindi anche se l'arte non fosse frutto di ispirazione divina sarebbe se non opera di Dio quantomeno concessione e volontà di Dio. Viene da chiedersi se ci sia Qualcuno che ispira certi artisti. Da dove provengono le parole, i pensieri, le immagini? E se il subconscio fosse divino? Esiste l'ispirazione? Ogni cosa può essere fonte di ispirazione? Può arrivare dovunque, in qualsiasi momento, a chiunque? Esistono delle persone ispirate o quelle ritenute tali in fondo si sono prese la briga o hanno avuto il lusso di restare in ascolto di sé stesse? Naturalmente dietro questi interrogativi legittimi ci può essere sempre qualcuno che abusa della credulità popolare e si arroga il diritto di parlare in nome di Dio. Ecco quindi spuntare i santoni, gli illuminati, i nuovi profeti, gli unti del Signore. Eppure non c'è niente di oggettivo. Nessun santo sa con certezza se ha ricevuto veramente un segno divino o se ciò è una allucinazione. Dio o chi per lui non dà certezze assolute a questo mondo. Tutto deve essere sempre verificato, messo in discussione. Chi non si mette in discussione è perduto. Nessuno psichiatra può oggettivamente trovare un discrimine tra santità e follia. A questo riguardo consiglio di leggere "Benedetta follia. Dai padri del deserto ai mistici di oggi" di Andreoli. Solo la Chiesa dopo uno studio attento delle opere e delle testimonianze fatte in vita può beatificare. Inoltre affermare che la propria ispirazione sia divina molto spesso è un grande atto di presunzione oltre che di ingenuità. E se poi non fosse un tratto distintivo di certi artisti, ma se tutti gli uomini fossero ispirati da Dio e se si trattasse solo di essere disposti ad accogliere? Allo stesso tempo penso a tutti gli artisti che hanno trasgredito i comandamenti, hanno commesso peccati mortali e non dovrebbero essersi salvati. Eppure sono artisti maledetti che hanno avuto gloria postuma. Mi chiedo se non possa esserci anche una arte ispirata dal demonio. Esiste forse un'arte che fa bene e una che fa male? Non dimentichiamoci che un tempo hanno messo i libri all'indice, il nazismo ha bruciato dei libri, nel corso della storia ci sono state troppe censure. Pretendere di stabilire quali opere sono da condannare e quali no è rischioso. Non si può fare come Hitler che considerava arte degenerata quella che si opponeva alla sua dittatura. Mi chiedo se con l'arte si può raggiungere la salvezza ultraterrena, se si possa espiare con essa le colpe e i peccati. Hegel sosteneva che la lettura del giornale il mattino fosse la preghiera laica dell'uomo contemporaneo. Io mi chiedo se anche la creazione e la fruizione artistiche possano essere intese come preghiere laiche. Forse chi è veramente religioso e fedele non chiede lumi all'arte, ma talvolta certi artisti dimostrano tutta la loro religiosità nelle loro opere artistiche. Inoltre mi chiedo anche quanto valga acculturarsi ed esprimersi artisticamente. Mi chiedo non solo se sia necessario per salvarsi l'anima, ma anche se sia necessario al mondo reale e concreto. Cosa può fare l'arte per la giustizia di questo mondo, per combattere la povertà? Forse niente, realisticamente parlando. E allora vale la pena sacrificare la propria vita e sé stessi in nome dell'arte? Quanto un artista è disposto a dare di sé in nome dell'arte? Qualcuno potrebbe ironizzare dicendo: "non libri, non opere d'arte, ma opere di bene".

La poesia di Sergio Guttilla sui migranti...

Mar 082023

 

undefined

 

 

Se dovessi consigliare una poesia sui migranti, dovrei per forza di cose parlarvi di “Home” della giovane e bravissima autrice somala Warsan Shire. Ma vorrei rimanere in Italia e a dire il vero tra i poeti riconosciuti nostrani non c'è l'imbarazzo della scelta, anzi non c'è possibilità di scelta, visto e considerato che trovo scialba e scontata, insomma di maniera, la lirica rinomata di Erri De Luca. Tra tutti gli aspiranti, sedicenti, effettivi poeti nostrani molti si sono cimentati nell'impresa di scrivere poesie sui migranti, che compiono viaggi della speranza, ammassati in barconi. E a onor del vero nel 99,9% dei casi non hanno saputo andare oltre la retorica, il sentimentalismo, il pietismo, il buonismo imperanti. Insomma luoghi comuni e basta, senza se e senza ma. Pose e modi di atteggiarsi per farsi belli agli occhi del mondo, per rientrare nel novero del politicamente e dell'eticamente corretto. Ammiccamenti al lettore e niente di più. Anzi dovrebbe essere severamente proibito scrivere poesie su temi così scottanti e delicati. Che poi si sa come sono sensibili oppure sciocchi i poeti nostrani, aspiranti e non, che appena c'è un naufragio oppure un terremoto sono subito pronti a verseggiare per la tragedia che ha appena colpito i loro animi nobili! No. Bisognerebbe mettere una legge in cui non si potrebbe speculare su tragedie nazionali o internazionali, scrivendo poesie ad hoc. Inoltre non è assolutamente detto che certe poesie a tema riescano a sensibilizzare le persone. Ma a volte osservo sia tutta una gara di buoni sentimenti. No. Un poeta con un minimo di buon senso e di dirittura morale dovrebbe evitare di scrivere su certi argomenti, su cui sarebbe meglio soprassedere. Sarebbe meglio il silenzio, la pagina bianca, il non detto. A dire il vero di poesie italiane sui migranti e le loro tragedie è pieno il web. Vanno di moda. Il primo premio in qualche concorso letterario è garantito, anche se il linguaggio è desueto, arcaico, stantio. Ma c'è un'eccezione: da tanta mediocrità si salva a mio avviso Sergio Guttilla, Capo Scout Agesci nel gruppo Bolognetta1, che ogni tanto scrive poesie e canzoni, suonicchia chitarra e pianoforte. Così afferma lui. Con la sua freschezza e genuinità riesce in questa sua lirica a trascendere il paludamento di tanta poesia ufficiale e non. Riesce a dirci qualcosa di nuovo in modo semplice e chiaro. Guttilla non è nelle sabbie mobili, non è nelle catacombe come alcuni suoi colleghi poeti più illustri. E noi capiamo che di queste sue parole avevamo bisogno perché sono parole veramente "migratorie", veramente spiazzanti, che ci fanno vedere quel tragico spaccato della realtà in modo nuovo. Dirò di più: questi suoi versi così originali capovolgono la visione ottusa di tanti benpensanti, che pensano di avere la verità in tasca, che dicono che i migranti non dovrebbero partire, che i flussi migratori andrebbero a tutti i costi regolamentati, che la colpa delle tragedie in mare è esclusivamente degli scafisti, etc etc. Qualche maligno potrebbe dire che questa poesia è un pezzo facile, che non è letteraria, che non ha dignità letteraria, che è enfatica, che stuzzica troppo il cuore, etc, etc. No. Sono tutte critiche pretestuose. Questa lirica è bella e veramente ispirata. Non è colpa di nessuno se a volte l'ispirazione va a trovare coloro che non sono reputati dei "poeti laureati" e che si dimostrano a onor del vero molto più poeti dei poeti ufficiali. Non è colpa di nessuno se questi versi sono veramente umani e se l'autore è veramente umano, a differenza di tanti piccoli geni incompresi, che fingono di sprizzare umanità da tutti i pori. Questa lirica è da antologia senza ombra di dubbio. Diffondete anche voi questi versi, citando l'autore, perché sia queste parole che il poeta in questione meritano di essere noti tra tanti impostori delle patrie lettere, tra tanti facitori di versi ormai patentati e celebrati. Sergio Guttilla riesce a emozionare e riesce nello straniamento; coglie nel segno, a differenza di tanti letterati nostrani, professionisti dell'intellettualismo radical chic. Questa lirica ci dimostra una cosa: che per scrivere di qualcosa bisogna aver visto una realtà da vicino in presa diretta. Ma ci dimostra anche che per scrivere di argomenti così sensibili bisogna essere non conformisti ma con un animo puro e uno sguardo lucido sul mondo. Ecco la poesia, che sta diventando meritatamente virale nel web:

 


Sergio Guttilla

 


29 giugno 2018
Dedicata a i 100 morti in mare, morti affogati
in attesa di una nave che li salvasse.

"Se fosse tuo figlio
riempiresti il mare di navi
di qualsiasi bandiera.

Vorresti che tutte insieme
a milioni
facessero da ponte
per farlo passare.

Premuroso,
non lo lasceresti mai da solo
faresti ombra
per non far bruciare i suoi occhi,
lo copriresti
per non farlo bagnare
dagli schizzi d’acqua salata.

Se fosse tuo figlio ti getteresti in mare,
uccideresti il pescatore che non presta la barca,
urleresti per chiedere aiuto,
busseresti alle porte dei governi
per rivendicare la vita.

Se fosse tuo figlio oggi saresti a lutto,
odieresti il mondo, odieresti i porti
pieni di navi attraccate.
Odieresti chi le tiene ferme e lontane
Da chi, nel frattempo
sostituisce le urla
Con acqua di mare.

Se fosse tuo figlio li chiameresti
vigliacchi disumani, gli sputeresti addosso.
Dovrebbero fermarti, tenerti, bloccarti
vorresti spaccargli la faccia,
annegarli tutti nello stesso mare.

Ma stai tranquillo, nella tua tiepida casa
non è tuo figlio, non è tuo figlio.

Puoi dormire tranquillo
E sopratutto sicuro.
Non è tuo figlio.

È solo un figlio dell’umanità perduta,
dell’umanità sporca, che non fa rumore.

Non è tuo figlio, non è tuo figlio.
Dormi tranquillo, certamente
non è il tuo."

 

Considerazioni di un umarell, l'incontro col teschio, i bastoncini di Shangai...

Dec 272022

 

undefined

 


Queste riflessioni sono scontate. Sono i piccoli pensieri quotidiani di un umarell, che giorno dopo giorno guarda come procedono i lavori della ristrutturazione dell'ecomostro davanti casa. Questi lavori sono fatti a circa duecento metri da casa mia e non mi disturbano per niente. Non sento i rumori. Non ho problemi con la polvere. Prendo il caffè in cucina e mi metto a riflettere. Guardo fuori dalla finestra. Anche questo è un modo di passare il tempo. Ogni cosa ha il suo tempo e ogni tempo ha le sue cose, secondo l'Ecclesiaste. Non sono più giovane. Esco raramente, il minimo indispensabile. Telefono pochissimo. Una telefonata ogni settimana. Eppure da giovane avevo tante amicizie. Ora resta qualche ricordo sbiadito. Gli amici di un tempo li ho persi per strada. Ognuno ha la sua vita. Non voglio essere malinconico. È una semplice constatazione di fatto. Ci sono gli impegni lavorativi, familiari per molti amici. Il tempo libero a disposizione è poco. Ma forse siamo troppo cambiati e non ci sapremmo più veramente riconoscere. Forse le mie sono nostalgie di uno che ha molto tempo da perdere. Forse come dicono banalmente alcuni il senso della vita è vivere. Forse ogni elucubrazione è qualcosa che ci allontana dalla vita stessa. Forse la vita e Dio scelgono come prediletti persone molto semplici e perciò innocenti. Forse molti ragionamenti sono intellettualismi vuoti; sono ciò che Freud chiamava razionalizzazioni, ovvero dei meccanismi di difesa dell'io. Da giovani comunque si cerca di vincere la morte con l'amore, con il sesso. Dirò di più: la morte molto spesso resta sottotraccia. Non ci si pensa. Da adulti avviene una scissione nella psiche. Da una parte il desiderio biogrammatico di immortalità, che alcuni vogliono soddisfare facendo figli oppure cercando la posteritå.

 

undefined

 

 

 

Dall'altra parte come scrisse Totò nella sua celebre 'A livella "Nuje simmo serie, appartenimmo à morte!". Dall'altra parte la rassegnazione che tutti gli uomini appartengono alla morte, per quanto cerchino di divincolarsi invano dalla sua morsa. L'amore sembra vincere la morte, ma anch'esso è destinato a finire. Scrive in una sua poesia Sanguineti: "ho insegnato ai miei figli che mio padre è stato un uomo straordinario:/ [( potranno/ raccontarlo, così, a qualcuno, volendo, nel tempo): e poi, che tutti/ gli uomini sono straordinari:/ e che di un uomo sopravvivono, non so,/ ma dieci frasi, forse ( mettendo tutto insieme: i tic,/ i detti memorabili, i lapsus):/ e questi sono i casi fortunati". Il grande poeta genovese ci ricorda che per quanto ci si sforzi di lasciare una traccia i posteri saranno dormienti, per dirla alla Eraclito. Mi ricordo del Caffè delle giubbe rosse, frequentato decenni fa da Montale, Luzi, Parronchi, Bigongiari, etc etc. Leggevo della Repubblica dei poeti al Mulino di Bazzano negli anni '70, ideata da Adriano Spatola, Corrado Costa, Giulia Niccolai. Leggevo di Pennabilli, un paese ad hoc per la poesia di Tonino Guerra. Cercavo notizie sulla rivista "Prato Pagano" negli anni '80, diretta da Gabriella Sica, a cui collaborarono Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Silvia Bre. Ebbene alla fine tutto passa. Solo pochi studenti di lettere, pochi studiosi di letteratura, pochi appartenenti alla comunità poetica si ricorderanno di queste belle esperienze poetiche, che meriterebbero di essere ricordate dai più. Ma l'oblio è tiranno. L'oblio cala anche su molti protagonisti dello show-business, del cinema, della musica. C'è poco spazio per le commemorazioni veramente sentite, che non siano una mera passerella di personaggi in cerca di visibilità con i loro perenni "io l'ho conosciuto", "a me una volta confessò", "quando collaborammo assieme", scadendo spesso in un amarcord falso e melenso. Molto probabilmente saranno in tutt'altre faccende affaccendati i posteri, indipendentemente dal fatto che molti morti lascino una cospicua eredità morale, intellettuale, creativa. Da tempo ho accettato il dominio incontrastato dell'oblio. Che se ne fa uno della gloria postuma? E poi è una bella pretesa la posterità: per essere ricordati bisogna aver fatto qualcosa di memorabile. Non solo ma in Italia le culle sono vuote. Gli italiani fanno sempre meno figli. E allora in futuro chi leggerà poeti e scrittori italiani? Quando l'italiano sarà una lingua morta anche la letteratura italiana sarà definitivamente morta o quasi. Ma non siamo catastrofici e non poniamo limiti alla Provvidenza. Per ora in Italia solo nel 2021 sono 85.551 i titoli usciti (il 22% in più rispetto al 2020 e il 16% in più rispetto al 2019). Durante gli anni pandemici l'editoria ha fatturato di più. Certo ci sono moltissime pubblicazioni a pagamento, moltissime copie che finiscono al macero. Non tutti i libri avrebbero ragione di esistere, ma per ogni autore il suo libro deve essere stampato. In fondo la pubblicazione di un libro, seppure a pagamento, in alcuni piccoli paesi di provincia è una sorta di piccola promozione sociale oltre a essere quella che i letterati chiamano una "legittimazione culturale", ovvero se si vuole essere presi in seria considerazione dai critici ci vuole la pubblicazione cartacea. Riviste letterarie, literary blog spuntano come funghi. Certo quando si scrive per il web spesso ci si chiede se anche questo sia tutto inutile, destinato a scomparire nel mare magnum di Internet. Ci sono meno presentazioni di libri ma molte più dirette Facebook. C'è molto fermento. Tutto quindi lascia ben sperare. Roberto Vecchioni nella sua canzone "La stazione di Zima" (ricordando il poeta russo Evtusenko) scrive che "ci facciamo del male perché non ci capiamo niente". Siamo confusi, smarriti di fronte al mistero della vita, dell'amore, della morte. Come scrive in un suo aforisma Morandotti "tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l'uso e la data di scadenza". La vita è complessa perché fatta a strati molteplici come una cipolla (come Tommaso Landolfi definì la sua opera) e allo stesso tempo ci sono quelli che Guénon chiama gli "stati molteplici dell'essere". Senza pensare al fatto che è sempre ardimentoso prendere coscienza pienamente della nostra coscienza (mi si scusi il gioco di parole, ma rende bene l'idea). La vita è già molto difficile viverla. Capirla è quasi impossibile. Ci sono dei momenti in cui abbiamo delle epifanie e ci sembra di aver afferrato tutto. Ma un istante dopo ritorna l'opacità. Forse non siamo fatti per capire la vita. Eppure ognuno ha le sue certezze in tasca, ha le sue piccole verità, costruite sulla base delle sue conoscenze e della sua esperienza, sempre limitate rispetto alla materia infinita della vita. Sorgono spontanee dal basso delle domande, ma di difficile soluzione, visto che non c'è un comune accordo: alcuni dicono che esistono delle leggi generali nella vita e altri dicono che ognuno è fatto a modo suo e ha la sua storia. Ci chiediamo nel corso della vita che senso abbia tutto, se esista Dio, come relazionare carnalità e spiritualità, come rapportarsi con la morte, come vivere, cosa pensare, come espiare i nostri peccati, se siamo colpevoli, come essere pienamente consapevoli e risponsabili delle nostre azioni. E poi ci chiediamo cosa è rimasto del passato? Dove è finito il passato? Dove si è involato? Siamo qui in questo tempo intermedio e tutto si fa incerto. Abbiamo in testa molti interrogativi, dubbi ed ipotesi. L'amore non va tradotto in senso letterale e non bisogna lasciarsi sopraffare dal nonsenso della morte. Continuiamo però a sbagliare, nonostante avvertenze e controindicazioni sulla vita. Il tempo scorre inesorabile fino al guasto irreparabile per vizio, destino o logorio....Così sarà per quel poco che ci rimane....forse Dio sa solo giudicare e non spiegare le nostre scelte: siamo noi uomini, sospesi tra bisogni primari e cose ultime, il paradosso dei paradossi. Io ultimamente mi chiedo sempre più spesso se qualcosa veramente ci appartiene e se noi veramente apparteniamo a qualcosa di più grande. Non è un caso che per Gadda la realtà fosse uno gnommero e per Montale una matassa che lui non era mai riuscito a sbrogliare. Tutto è un grande mistero se si pensa che ogni vita è un segmento, che talvolta i segmenti si intersecano, che si incontrano oppure che corrono paralleli per sempre. A volte facciamo un tratto di strada assieme a certe persone che poi ci lasceranno o che poi noi lasceremo. Resta qualcosa alla fine? Qualcuno lascerà a noi il testimone? Noi lo lasceremo a qualcuno il testimone? Ci vuole anche del tempismo per saper raccogliere il testimone.

 

 

undefined

 


Come ebbi a scrivere in alcuni scarni versicoli qualche anno fa:


Recitiamo un copione o un canovaccio?
Si recita a soggetto? Si naviga a vista?
Oppure forse siamo dei bastoncini disuguali
di Shangai e non sappiamo chi ci ha mischiato
e neanche quali mani supreme ci muovono
e giocano con noi? Le nostre vite sono forse linee
che talvolta si intersecano, talvolta corrono parallele,
talvolta combaciano per tratti più o meno lunghi?
Dal punto di una linea non si può comprendere tutto
questo groviglio inestricabile, questo mondo di linee:
ecco perché forse non si può capire
mai il mistero della nostra vita e di quelle altrui.
Forse non c'è alcuna logica nei nostri istanti.
Troppe le variabili e le variazioni infinitesimali.
In ogni caso è impossibile cogliere tutti i nessi.
Anche se fossimo linee
(regolari, frastagliate o curve chissà?).
il disegno non è lineare e ci trascende.


Sappiamo veramente apprezzare gli altri e gli altri ci sanno veramente apprezzare? Oppure è tutta fatica sprecata? Oppure tutto è destinato a cadere nel vuoto, nel nulla? Qualche filosofo ci insegna che siamo esseri finiti educati all'infinito. Ma forse ogni congettura, ogni simbolo squadernato, ogni mito amato è inutile. Forse niente vince la morte. Forse ogni lavoro, ogni passione è un passatempo per non pensare alla morte, come intuì Pascal. Noi dobbiamo per forza pensare ad altro. Si finisce anche per pensare che il problema è sempre un altro. Allora molti per scongiurare la morte cercano di inebriarsi a più non posso della vita. Il loro è un vitalismo disperato. Spesso però il loro tentativo è goffo e ignari si gettano a capofitto tra le braccia della morte, finendo nel vortice dell'autodistruzione. Il loro più grande rimpianto è sempre quello di non aver vissuto pienamente, di non aver colto adeguatamente tutte le occasioni della vita. Alcuni vorrebbero essere tutto o almeno molto. Finiscono per fare e disfare troppo; finiscono col vivere di eccessi. È molto difficile trovare l'equilibrio tra tutte le istanze psichiche. È molto difficile sapersi accontentare perché bisogna anche sapersi accettare e anche saper rinunciare.

 

Ancora e di nuovo su un mio rovello, ovvero la solitudine (tra letteratura, psicologia e mistica)...

Dec 162022

 

undefined

 

Siamo animali sociali, ma talvolta abbiamo bisogno di stare da soli. La vita oscilla tra questi due poli: socialità e isolamento. Talvolta c'è bisogno di stare da soli, riflettere sulla nostra vita, cercare di capire in quale direzione stiamo andando, farsi un esame di coscienza, come insegnava Ignazio di Loyola. La cosa migliore sarebbe trovare un equilibrio interiore, fondato su una sana alternanza tra questi due poli. La solitudine come la castità è molto più sopportabile se è una libera scelta e non una costrizione, dovuta a ostracismo, a emarginazione sociale. Anche stare troppo a contatto con gli altri può essere snervante, può esaurire. Alcuni lavoratori, che svolgono professioni di aiuto, soffrono di burn out, a forza di stare troppo a contatto col pubblico. Il grande poeta Kavafis scriveva: "E se non hai la vita che desideri cerca di non sprecarla nel troppo commercio con la gente". Si può essere soli perché si ha un problema, si vive una determinata condizione esistenziale, si soffre di un certo disagio. Gli altri però possono essere terapeutici così come possono essere l'inferno secondo Sartre. Filosoficamente qualcuno potrebbe affermare che stare con gli altri ci dà solo l'illusione di sentirsi meno soli, ma anche questa parvenza di convivialità è necessaria. Secondo uno studio del 2013 della Ohio University chi vive solo ha più probabilità di avere anomalie cardiache, di soffrire di depressione, di avere un sistema immunitario meno efficiente.
Oggi viviamo in una società senza comunità nella maggioranza dei casi. Alcuni si sentono soli e dicono che la città in cui vivono non dà loro niente, ma al mondo di oggi forse una città può offrire solo servizi e non sconfiggere la solitudine dei cittadini. Durkheim aveva coniato il termine anomia per indicare il disordine morale, la sensazione di anonimato, la mancanza di solidarietà della civiltà moderna e aveva chiamato anomico il suicidio dovuto proprio a questi fattori. Oggi quindi si è più soli probabilmente di un tempo. Nel mantovano e in provincia di Padova comunque è stato replicato il caso di Villa del Conte per vincere l’isolamento delle persone. Sono stati creati degli assessorati alla solitudine. Nell'antichità la solitudine era ricercata più spesso. Alcuni poeti antichi avevano un ideale di vita solitaria e bucolica. "Beata solitudo" dicevano i latini. Oggi siamo molto più connessi e più soli di un tempo. Gli psicologi chiamano tutto ciò solitudine digitale. Il caso esemplare sono i giovanissimi Hikikomori giapponesi che si rinchiudono tutto il giorno nella loro stanza per stare al computer. Il ritiro sociale è uno dei sintomi della schizofrenia, ma non è assolutamente detto che sia sempre patologico. La propria psiche è come un contenitore che non si può unicamente riempire del mondo o del proprio io. Probabilmente propendere verso il mondo o l'io dipende anche dalla personalità di base, dalla estroversione o introversione di un individuo. Cosa è che può vincere la solitudine? L'amore innanzitutto, poi l'amicizia, il senso di appartenenza a una comunità oppure a una generazione. Ma oggi non esistono più i movimenti studenteschi. Un tempo esisteva una fauna studentesca che apparentemente era lì per il famigerato pezzo di carta da portare ai genitori e poi in realtà reclamava il sacrosanto diritto di divertirsi, acculturarsi al di fuori degli schemi precostituiti, scopare, viaggiare, ballare. Erano stati scritti tre romanzi sulla realtà studentesca rappresentativi delle varie epoche: "Porci con le ali" (anni '70), "Altri libertini" (anni '80) e "Jack Frusciante è uscito dal gruppo" (anni '90). Forse questi romanzi avevano detto tutto sul mondo studentesco italiano. Dopo l'università non era più stata un momento di discussione, che talvolta diventava di scontro ideologico esasperato, ma un vero e proprio esamificio. Dagli anni '90 in poi si avvertiva che l'unica cosa che accomunava la generazione era l'autodistruzione. Si intuiva perfettamente ciò con il libro della Santacroce "Rimini", il primo della serie. Coloro che invece cercano di vincere la solitudine con l'amore possono imbattersi nell'insoddisfazione sessuale, nelle carenze affettive, nella delusione sentimentale. È difficile essere veramente soddisfatti in amore su tutti i fronti. Ci sono amori platonici e rapporti occasionali caratterizzati dall'impersonalità e l'anaffettività. È difficile avere tutto, trovare una perfetta corrispondenza d'amorosi sensi. L'abbraccio è sconosciuto a molti. Non ci si abbraccia più. È sconveniente. Bisogna essere formali. Ogni dimostrazione di affetto, ogni prova di calore umano viene considerata inopportuna. Lo stesso Papa Bergoglio ha sostenuto che per accorgersi dell'umanità altrui oltre all'ascolto ci vuole il tatto, che secondo il Pontefice è il senso più importante. Una ricerca, condotta da pediatri coordinati da Siavash Beiranvand, docente di anestesiologia, ha coinvolto 120 bambini tra i 2 e i 6 mesi e ha dimostrato che coloro che venivano abbracciati dalla madre piangevano molto di meno dopo un'iniezione. C'è chi per ovviare a questa carenze affettive si compra un animale domestico. La solitudine viene però caldamente consigliata dai mistici. I Padri del deserto si ritirarono appunto nel deserto per fuggire dalle tentazioni del mondo e del diavolo, come fece Cristo per 40 giorni. Per San Giovanni della Croce bisogna meditare in solitudine, pregare per combattere i tre nemici dell'anima, ovvero il mondo, la carne, il demonio. Anche per Santa Teresa d'Avila l'autoperfezionamento passa attraverso la solitudine e la preghiera. Eckhart scriveva che non è necessario essere soli per raccogliersi interiormente e trovare Dio: il vero credente porterà Dio con sé in ogni luogo e con qualsiasi persona, nella chiesa, nella solitudine, perfino in prigione. Per Simone Weil la solitudine va preservata e cercare di sfuggire a essa è una vigliaccaggine. Il mondo quindi distrae, tenta, fa peccare, sporca l'anima. Per i Sufi il vero essere spirituale sa raccogliersi così tanto da essere solo in mezzo alla folla, da non prestare alcuna attenzione alle voci della folla. Secondo i buddisti non bisogna farsi prendere dallo sconforto della solitudine, che può essere anche ritemprante e rilassante. Monaci e suore di clausura, nonostante gli inviti della mistica cristiana alla solitudine, vivono però anch'essi in comunità. Gli stessi eremiti moderni accolgono visitatori e curiosi, pubblicano le loro meditazioni in gruppi Facebook. Secondo i mistici cristiani e non, nonostante le debolezze e le pecche umane, l'isolamento sociale conduce a Dio e Dio è tutto il contrario della solitudine: Dio è amore. Il mondo stesso è fondato sull'interdipendenza degli individui. In un racconto di Calvino un uomo non si sa allacciare le scarpe e fortunatamente trova un uomo che gli fa questo favore: perfino in Hegel è il padrone ad avere più bisogno del servo perché è quest'ultimo che sa fare delle cose che il padrone non sa fare più. Al di là di questo tutti abbiamo un bisogno psicologico degli altri, di avvertire le loro voci, di udire il rumore del mondo. La camera anecoica degli Orfield Labs di Minneapolis, Stati Uniti, è un luogo insopportabile: nessuno ci resiste per più di un'ora. È insopportabile il silenzio assoluto, scalfito solo dal battito del proprio cuore.

 

 

 

undefined
Una differenza fondamentale è quella tra essere soli e sentirsi soli. Ciò che fa veramente male spesso è la percezione soggettiva della solitudine più che il riscontro oggettivo. Ci sono situazioni limite in cui si è malati e ci si trova soli di fronte alla morte: allora si avverte più che mai il bisogno degli altri. Si ha bisogno del conforto. Ci si ricordi dei familiari al capezzale del morente. C'è anche chi prova la solitudine perché si sente incompreso. Bisogna essere molto forti e godere di buona salute per amare la solitudine, come scrisse Pasolini in una sua poesia. Per molti il problema è come rompere la solitudine. Alcuni non sanno comunicare la solitudine. Beckett, Ionesco, Michelangelo Antonioni esprimono questa inadeguatezza. Altri si vergognano di dire che sono soli. Altri ancora si ritengono troppo giovani o troppo vecchi per dire che sono soli. Per i più comunicare la propria solitudine è sinonimo di debolezza. Al contempo la società post-industriale si basa su due opposte polarità: individualismo e conformismo. Molto spesso le persone trovano un compromesso a queste due esigenze sociali accettando un'omologazione dalle varianti minimali, cioè seguono le mode ma si discostano da esse in modo infinitesimale, aggiungendo un piccolo tocco personale. È anch'esso un modo per non sentirsi soli, per identificarsi in qualcosa, per far parte di qualcosa, di essere con gli altri, anche se è un'illusione effimera e momentanea. La propria identità sociale si basa sull'appartenenza a dei gruppi, a delle categorie sociali. Non sentirsi pecora nera è anch'esso un modo per non sentirsi soli. In letteratura H.Hesse propone "Il lupo della steppa", ma alla fine Erminia la donna amata va con un altro e in un raptus di gelosia il protagonista la uccide: imparare a ballare il fox trot non basta per uscire da sé stessi. Sartre ne "La nausea" ci comunica che il mondo, l'esistenza non hanno alcun senso. La stessa cultura impersonificata dall'autodidatta è inutile, non soddisfa le aspettative perché anche quest'ultimo è sorpreso a molestare un adolescente e viene mandato via dalla biblioteca per questa ragione. Thomas Bernhard ne "L'origine" tratta di un collegio, in cui si mischiano sadicamente nazismo e cattolicesimo. L'unico modo per salvarsi dal suicidio, dovuto al disagio per questo microcosmo concentrazionario, è allora suonare il violino. Primo Levi si suicidò perché non seppe convivere con l'orrore inenarrabile e inesprimibile del lager. Pavese si sentiva padrone da solo al buio a meditare, ma sarà proprio "la mania di solitudine", che aveva spesso tramutato in ozio creativo a ucciderlo. Sempre Pavese e Carlo Levi sperimentarono la solitudine del confino. Bassani tratta dell'emarginazione ebraica ai tempi del fascismo e ne "Gli occhiali d'oro" determinata dall'omosessualità. Ne "Lo straniero" di Camus il protagonista prima non versa una lacrima alla notizia della morte della madre, quindi uccide per futili motivi sulla spiaggia un uomo, infine quando viene condannato a morte è impassibile. Siamo quindi tutti stranieri di fronte all'assurdo, che sfugge alla nostra logica. Anche Moravia porta tutto alle estreme conseguenze con il romanzo "1934". Il protagonista, un intellettuale, vuole compiere un suicidio a due con una donna. Ma alla fine sarà beffato perché due donne si prenderanno gioco di lui. Come a dire che la disperazione non si può condividere, che si finisce per essere beffati da chi dimostra avere più attitudine alla vita. Al protagonista non resta che continuare a vivere da solo con la sua disperazione. Ma ora veniamo alla poesia del' 900. Giuseppe Ungaretti scrive sulla tragedia della Prima Guerra Mondiale: “Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto” in San Martino del Carso e finisce la poesia con “E’ il mio cuore / Il paese più straziato”. Pascoli si sente così abbandonato “come l’aratro in mezzo alla maggese”. Quasimodo scrive: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”. Per Kenneth Patchen la solitudine è "un coltello sporco puntato alla gola". Si possono avere molte amicizie e l'amore ma per molti al cospetto della morte siamo tutti soli. Per altri non bisogna sentirsi soli perché non lo siamo mai: c'è sempre qualcuno a questo mondo che ci capisce e condivide quello che sentiamo e proviamo, basta solo cercarlo.

 

 

undefined


Infine chiudiamo con un poeta della musica come Claudio Lolli, che cantava negli anni Settanta questo brano sul suicidio:

"Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Quante ore, quante ore che ho passato,
Accanto a un termosifone per avere un poco di calore.
Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,
Mentre nessuno vedeva, mentre, nessuno mi guardava.

Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Dietro i vetri gialli e sporchi di una stanza,
Che aprono una città di ferro, senza voce, e senza una parola.
Quanto amore, quanto amore ho riversato.
Nelle cose più impensate e più banali,
Facendo collezione di farfalle o di vecchi giornali.

Le persone che ho fermato per la strada,
Sinceramente possono testimoniare,
Quanto amore ho cercato, ieri, prima, di essermi impiccato,
Ieri, prima di essermi impiccato.
Quanto amore, quanto amore, quanto amore, che ho cercato …"

 

Ancora e di nuovo sulla poesia, ovvero alcune caratteristiche della poesia contemporanea...

Dec 112022

undefined


Il verso libero:
Nel corso del' 900 si è diffuso il verso libero. Questo è avvenuto non solo tra quelli che vengono definiti dai cattedratici poeti dilettanti ma anche da grandi poeti stranieri e italiani. Laforgue fu il primo grande poeta ad adoprare il verso libero e a tal proposito scrisse: "mi dimentico di rimare, mi dimentico il numero delle sillabe, mi dimentico la distribuzione delle strofe". Anche Pound fece un uso moderato nelle proprie liriche del verso libero. I poeti dell'imagismo scrivevano tutti in versi liberi. E. Lee Masters nella celeberrima Antologia di Spoon River adoprò spesso nei suoi epitaffi versi liberi e non prestò molta attenzione al rispetto della metrica. Per quel che riguarda il nostro paese i crepuscolari Corazzini, Gozzano, Govoni, pur utilizzando anche forme metriche tradizionali, introdussero il verso libero nella poesia italiana. Anche il poeta simbolista Gian Pietro Lucini scriveva soprattutto versi liberi e dichiarò che al momento della creazione non cercava "misure prestabilite (versi), né sequenze numerate di misure (strofe)", né il posizionamento di accenti tonici. Inoltre bisogna ricordare che i poeti vociani Jahier e Boine scrissero solo prose poetiche. Infine i futuristi utilizzarono solo ed esclusivamente il verso libero. Se in poesia e in letteratura devono essere messe delle regole forse devono riguardare il rapporto tra l'arte e il tentativo di ideologizzazione dell'arte stessa. Ritornando al verso libero alcuni intellettuali ritengono che la vera libertà si acquisisca nell'ambito delle regole imposte e degli schemi precostituiti o almeno questa è la loro giustificazione alla loro concezione di una poesia, che per essere tale deve adoprare le forme metriche classiche. Altri intellettuali ritengono invece che nell'arte la libertà non esista, per cui devono essere accettate le regole imposte dalla tradizione. Per il poeta Robert Frost "scrivere versi liberi è come giocare a tennis senza rete».
Ma non è detto che chi scriva versi liberi e non rispetti la metrica tradizionale non si imponga altre regole riguardanti altri ambiti. Un tempo erano presenti dei canoni estetici. Oggi forse è più problematico valutare un poeta. Sono rari i casi di coloro che scrivono endecasillabi canonici. I più scrivono in versi liberi.


La crisi della poesia:
Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall'osservazione o dalla trasfigurazione. Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel Novecento tutto diventa ancora più complesso. Basta pensare a Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio. Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del Novecento l'Ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l'Orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli, analogie e sinestesie. Negli anni Sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l'Ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anch'essi non erano di facile comprensione. Da un lato i poeti di Officina avevano buoni intenti: volevano il rinnovamento, erano contro l'intimismo degli ermetici, erano contro i reazionari. Dall'altro lato erano anche contro il Neorealismo, uno dei pochi ismi del Novecento (insieme ai crepuscolari) i cui autori si facevano capire da tutti. Forse nel Neosperimentalismo erano presenti troppe premesse teoriche. Anche la Neoavanguardia era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l'egemonia culturale e l'estetica dominante, contro la mercificazione dell'arte. Però spesso spiazzava i lettori per i suoi non sensi, il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi. Infine la poesia degli anni Settanta con il neo-orfismo cambia di nuovo le carte in tavola perché prende le distanze sia dalla neoavanguardia che dal neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico è sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: "La parola innamorata" e "Il pubblico della poesia". Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C'è anche troppa creazione ma è scarsa la fruizione. La poesia contemporanea è determinata talvolta dall'egocentrismo, dal narcisismo, dall'autobiografismo. È una poesia talvolta autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio talvolta non è chiaro. Il gradimento del pubblico è scarso. I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. Il fatturato dei libri di poesia in Italia è inferiore all'1% del fatturato globale. I libri di poesia nella stragrande maggioranza dei casi finiscono al macero. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori. Sono molteplici i motivi di questa situazione e non li analizzeremo ora. Comunque oggi i poeti viventi sono sconosciuti al grande pubblico. Come sono cambiati i tempi da quando Vico scriveva che i poeti sono i primi storici delle nazioni! Oggi è innegabile che la poesia di questi anni è in crisi e alcuni critici l'hanno definita minimalista. La lirica di questi tempi è talvolta illeggibile e non memorabile. Comunque non bisogna essere ottimisti né apocalittici.


Poesia e moralità:
È sempre difficile giudicare la qualità delle poesie. È vero che è improponibile il paragone tra la poesia di un bambino di prima elementare e una di Montale. Ma spesso le differenze non sono così marcate. Un tempo si consideravano la metrica e l'eufonia. Oggi non più. Decenni fa in Italia si considerava anche la persona del poeta, che doveva essere assennato e ponderato. Al poeta si richiedevano delle virtù come una certa moralità e la saggezza. Se era sregolato allora era solo un erudito e/o un immaturo. Non poteva considerarsi persona di cultura. Si guardava il comportamento. Si considerava soprattutto l'etica. Si giudicava la condotta. C'era molto moralismo. D'altronde anche la Neoavanguardia valutava la persona (che doveva essere schierata ideologicamente). Loro erano gli unici puri e onesti. Consideravano anche la poetica. Quindi il contenuto veniva giudicato in modo fazioso perché secondo loro il linguaggio era "ideologia". Insomma si doveva combattere. Erano in trincea. Bisognava condannare la borghesia. Quindi bisognava per forza di cose odiare i piccoli borghesi. È chiaro che la Neoavanguardia ha avuto anche dei meriti come quello di rinnovare il linguaggio, inventare il pluristilismo, etc etc. Le due "chiese" comunque si sono appropriate della cultura nella seconda metà del Novecento. La maggioranza della gente se ne fregava. Negli anni Settanta le nuove generazioni erano perse nella droga o nella politica. La letteratura era ritenuta cosa di poco conto e non incisiva. Addirittura era ritenuta evasione. Molti giovani di allora pensavano ad altro e si rovinavano con altro: l'eroina o il terrorismo. La stessa poesia da allora è stata relegata ai margini e non si è più ripresa. Giudicare le poesie è sempre impresa ardua e risente di una certa soggettività. Spesso è questione di gusto più che di criteri estetici.

 

 

undefined

 

Poesia e ideologia:
Quali qualità deve possedere un artista per essere tale? Sono sicuro che a questa domanda molti risponderebbero che deve avere talento. Ma forse questo è un prerequisito fondamentale ma non sufficiente. Vittorio Sgarbi in "Lezioni private" scrive che un artista deve avere uno stile. Per esempio un poeta deve avere una visione del mondo. Successivamente avrebbe una poetica (ovvero una dichiarazione di intenti) e uno stile. Un artista di conseguenza secondo tale concezione deve anche essere un intellettuale, che riflette sul mondo e che rappresenta una coscienza critica per gli altri. Secondo Sgarbi l'artista è tale innanzitutto per il proprio pensiero (che deve contraddistinguersi per una certa originalità) e questo è valido sia per chi appartiene alla tradizione che per chi appartiene ad una avanguardia. Secondo altri si può scrivere anche senza una piena consapevolezza di sé stessi e del mondo, ma in fondo sono un'esigua minoranza. Molti critici la pensano come Sgarbi. Altra cosa importante oltre al pensiero è quella che alcuni chiamano la posizione intellettuale. Un artista può esprimere dissenso, consenso o non schierarsi rispetto alla politica e al potere. Per Gramsci ogni artista doveva essere un intellettuale organico. Sartre nella presentazione a "I tempi moderni" proponeva l'engagement. Lo scrittore era da ritenersi sempre responsabile. Non doveva scrivere per i posteri ma per i contemporanei. Non doveva evadere dalla realtà ma essere sempre testimone. Però molti altri erano per una posizione intellettuale meno impegnata politicamente. Per Saba i poeti dovevano essere "sacerdoti dell'eros". Anche D'Annunzio faceva dire a Claudio Cantelmo ne "Le vergini delle rocce" che gli artisti dovevano soltanto difendere la bellezza. Ma in fondo era in buona compagnia. Lo stesso Dostoevskij scriveva che la bellezza avrebbe salvato il mondo. Chissà cosa avrebbero pensato oggi di questa epoca in cui l'arte è soprattutto ricerca del nuovo a tutti i costi e provocazione fine a sé stessa?
Lo stile comunque può essere giudicato subito dai critici letterari, mentre le scelte politiche devono essere comprese e interpretate almeno dopo qualche decennio. Il rischio infatti è quello di essere troppo faziosi e di confondere l'estetica con l'ideologia. In alcuni casi c'è la possibilità di confondere l'estetica con l'etica. Non ci scordiamo che in alcuni autori l'appartenenza politica è più che una presa di posizione politica una scelta dettata da idealismo. Per alcuni artisti il liberalismo, il comunismo, il socialismo, la socialdemocrazia, l'anarchia sono categorie dello spirito. Non dimentichiamoci neanche che furono pochi gli intellettuali a opporsi all'entrata in guerra e al fascismo. Condanniamo pure il loro fascismo ma bisogna anche considerare obiettivamente le loro opere artistiche. Lo stesso dicasi per altre ideologie e altri regimi. Facciamoli però processare dagli storici, anche se si può legittimamente mostrare una certa repulsione per i loro atteggiamenti e comportamenti. Condanniamoli pure come uomini ma non rimuoviamo totalmente gli artisti che sono stati e neanche quello che hanno rappresentato per gli uomini della loro epoca.

 

undefined

 


Poeti di ricerca e neolirici:
Forse è troppo riduttiva la distinzione tra poesia di ricerca (sperimentatori del verso) e poesia neolirica. Non è detto che tutto lo sperimentalismo porti per forza di cosa sempre al rinnovamento del linguaggio e al rovesciamento di prospettive. In fondo anche alcuni poeti lirici o neo-orfici possono essere originali ed innovativi: non è assolutamente detto che siano sempre dei manieristi o degli epigoni. Non è detto inoltre che questa distinzione tra i due generi di poesia possa racchiudere tutte le dicotomie concettuali ed espressive (comprensibile/difficile, tradizione/innovazione, impegnato/reazionario, etc. etc.). Per quanto riguarda la comprensibilità dei testi la Dickinson scriveva che si doveva dire la verità in modo criptico, mentre K. Popper sosteneva che niente è così facile che scrivere in modo difficile e che tutti coloro che scrivono devono porsi come dovere la chiarezza espositiva (però era un filosofo). La realtà in poesia è che i componimenti dovrebbero in teoria cercare sempre di raggiungere i vertici della significazione. Però i poeti spesso cercano termini ricercati, talvolta antiquati, perché li considerano più consoni. I poeti tra gambo e stelo scelgono sempre il secondo vocabolo, anche se non sarebbe necessario. Anche i poeti in fondo hanno il loro gergo. Mi sembra che Pasolini avesse dichiarato a riguardo che esistesse in poesia un codice classista del linguaggio. Ma non è forse riduttiva questa distinzione tra poesia di ricerca e neolirici? Non potrebbe essere considerata anche una poesia aforistica come quella dell'ultimo Montale, degli Shorts di Auden, dell'ultimo Cesare Viviani? Non sarebbe forse originale se questo genere di poesia aiutasse a chiarire i pensieri, portasse talvolta a "pensare contro sé stessi" per dirla alla Cioran (il riferimento è alla sua opera "La tentazione di esistere")? Naturalmente una scrittura aforistica rischia sempre di essere troppo didascalica oppure ostensiva. Ma in fondo anche gli sperimentatori o i neolirici rischiano anch'essi di perdersi in virtuosismi, di innamorarsi troppo delle parole. I rischi ci sono per tutti. Comunque la distinzione autentica che dovrebbe essere fatta è tra chi cerca di descrivere/raggiungere/ rendere tutta la complessità del reale (il rischio è quello di rendere ancora più complicato e di più difficile comprensione ciò che è già complesso) e tra chi cerca di semplificare la realtà (il rischio è quello di rendere tutto troppo semplicistico, di creare delle smagliature da cui evade il reale). Queste dovrebbero essere le due scuole di pensiero (ma forse sarebbe meglio dire due atteggiamenti esistenziali) di una poesia, che allora potrebbe essere veramente ricerca di senso. Ma forse è solo una utopia. Però la distinzione basilare è tra chi cerca di raggiungere la soglia del dicibile e chi cerca la sostanza delle cose, l'essenziale. Questi a mio modesto avviso sono i due modi di porsi in estrema sintesi. Poi a prescindere dal tipo di atteggiamento chiunque può essere o meno innovativo. Per cercare l'essenziale intendo l'estrema sintesi del reale. La soglia del dicibile non è detto che sia estrema sintesi. L'essenziale lo si raggiunge con il levare. È la caratteristica tipica della scrittura epigrammatica. La soglia del dicibile invece la si raggiunge con il battere, con l'accumulo: significa cercare di descrivere in modo esaustivo la realtà, di comprenderla in modo totalizzante.

 

 

Sulla scrittura e sulla poesia contemporanea...

Nov 302022

 

undefined

 

(Nella foto il parco della Sozzifanti a mezzanotte)

 

 

Pubblico un mio scritto del 2005. Come potete rendervi conto la situazione in Italia non è ancora cambiata:

 

 

SCRIVERE, OVVERO UN MODO PER ESPLORARE SE STESSI:
Si parte col cercare di scrivere l'imprevedibile, l'inafferrabile, l'ineffabile. Nessuno vuole rifarsi alla veggenza di un Rimbaud, alla divinazione del simbolismo e del decadentismo, ad un dannunzianesimo di ritorno, ma comunque si rimane in attesa di una rivelazione. Si cerca uno scarto dal senso comune e dal linguaggio convenzionale, un ribaltamento del senso, una parola che indaga, che testimonia l'incredulità di fronte all'assurdità del mondo e che insegue una parvenza di verità. Si spera di descrivere l'oscillazione dei propri umori e dei propri stati psichici, di trovare nel proprio stile un'armonia dei contrasti e dei dissidi. Si cerca anche la complementarità (e non l'antinomia) tra istinto e razionalità, l'espressione più autentica di se stessi. Si finisce spesso col fare della metapoesia e del metalinguaggio o per cadere nel poetichese più stucchevole e più ovvio (sentimentalismo, retorica, narcisismo, autocompiacimento). Si inizia a scrivere, facendo leva sulla propria spontaneità (leggi anche ingenuità) e si finisce per avere maggiore consapevolezza e perciò più inibizioni, che censurano e cestinano gli ultimi scritti. Si credeva inizialmente che la propria parola fosse realmente una "parola innamorata" e a conti fatti si finisce per ritenere che tutto ciò che è stato scritto è puro diarismo consolatorio e intimismo patetico. Si voleva originariamente esplorare il proprio sé e manifestare il dissenso nei confronti di una società paradossale e dopo alcuni anni ci si convince che questo tentativo era utopico. Si cercava, si cerca comunque di abitare le parole, ognuno nel modo più confacente alla sua individualità (e abitare le parole non significa affidarsi esclusivamente all'ispirazione. L'ispirazione è un falso mito. Prima che qualsiasi opera abbia una consistenza unitaria definitiva molte sono le revisioni:cancellature, aggiunte, tagli).
Si scrive e si continua a scrivere perché il mondo è vanità e la scrittura è terapia. La poesia fa intravedere l’inaccessibilità dell’essere al linguaggio e l’inconoscibilità dell’in sé. Esiste una profondità a cui non si può attingere. Mettere in conto questo non significa irrazionalismo, ma premessa che da sola la logica non è sufficiente. Non ha alcun valore e nessuna efficacia la creazione di freddi schemi concettuali, che catalogano la realtà. L’astrazione da sola resta sempre in superficie, genera continuamente illusioni e disillusioni. Esiste il mistero, l’enigma, l’ignoto, che ci irretisce e ci angoscia. Siamo tutti attanagliati dall'incertezza e dalla precarietà dell'esistenza. In questo percorso è facile perdersi e difficile ritrovarsi. Si cerca dei nessi logici e ci si ritrova da soli con le proprie interrogazioni metafisiche nel divenire incessante e dionisiaco, che continuamente crea e distrugge sé stesso. Si cerca un piccolo nucleo del vero e ci si accorge che soltanto il Nulla si è esplicitato. Si vorrebbe vivere totalmente, ma l'unificazione di pensieri, valori e vita è impossibile. Si finisce invece spesso per analizzare un valore con i valori, un pensiero con i pensieri, per non parlare poi dell'esistenza che rimane inafferrabile sia per il pensiero che per i valori. Ci si guarda dentro e ci si rende conto di essere sempre più incomprensibili a noi stessi. Ciascuno vorrebbe esistere pienamente, veramente, andare oltre il vissuto e trascendersi. Ma i tentativi risultano sempre goffi e allora ci si rifugia nella superficialità e si finisce per essere circondati dal vuoto. Per questo motivo molti si parlano addosso e chiacchierano in modo insulso su cose stupide, banali, risapute: divertirsi, scopare, spettegolare. Paura del divenire, dell’infinito e della morte. Il parlare comune è abuso perpetrato sulle parole, è rinuncia quotidiana alla particolarità, singolarità, irripetibilità insita in ciascuno. La poesia -anche quella meno riuscita- non è riproduzione della reale, ma emanazione, intuizione, rischiaramento. C’è un periodo in cui non si scrive niente e magari si incamera malumori. Anche questa fase apparentemente improduttiva è periodo di fermentazione, di gestazione. Poi all’improvviso qualcosa ci fa vibrare dentro come una corda. un’impressione, un dettaglio insignificante, un’idea che non si sa dove è nata, però sappiamo che deve essere fermata. Scrivere dunque e non per puro piacere, ma perché è un’attività che può significare l’inizio di una libertà interiore. Scrivere può significare prendere possesso di sé stessi gradualmente, scoprire sé stessi, conquistare sé stessi.

MARGINALITA' DELLA POESIA DI OGGI:
Secondo i recenti studi della psicopatologia dell'espressione le persone psicotiche sono più creative, nonostante le loro crisi dissociative, le loro distorsioni percettive, i loro vissuti fantasmatici ed i loro deliri. Quindi la follia è vicina alla poesia da sempre secondo queste analisi, però mai come ora la poesia è stata vicina alla follia. Se prima la follia talvolta poteva divenire espressione artistica, ora è la poesia vera talvolta a toccare in pieno la follia. Infatti mai come oggi i poeti hanno rischiato di impazzire veramente. Mai come ora il poeta ha rischiato di impazzire per il dominio del consumismo e della civiltà dell'immagine e al contempo per la scarsa considerazione della poesia. Ma procediamo con ordine. Il gruppo 93 in questi ultimi anni, accoppiando critica e poesia, ha analizzato in modo creativo le contraddizioni della scrittura in quest'epoca e ha proposto nuove possibili forme di sperimentazione/contestazione della società. Si è rifatto alle avanguardie senza una reiterazione meccanica e stereotipata di queste, ha rivalutato l'allegoria per la sua polisemia -riprendendo la definizione di W.Benjamin ("l'allegoria non è una tecnica giocosa per produrre immagini, bensì espressione, così com'è espressione il linguaggio, e, anzi: la scrittura" in "Sull'origine del dramma barocco tedesco")- e posto l'accento sulla marginalità della poesia in questa società massmediatica. E proprio da questa marginalità vorrei partire. E' amaro constatare che la poesia oggi in generale sia solo e soltanto un evento marginale, sia per quel che riguarda il consumo che la ricerca. La scuola non aiuta ad avvicinare i giovani alla poesia perché l'insegnamento di questa è troppo pedante e nozionistico. I programmi ministeriali delle superiori lasciano molto a desiderare perché i poeti contemporanei italiani che stranieri non vengono fatti leggere. La scuola italica così riesce ad essere una scuola umanistica (visto che il tempo dedicato all'insegnamento dell'italiano è cospicuo), però al contempo ad essere anche il primo agente di socializzazione, che allontana i giovani dalla letteratura. Non è quindi un caso che in un simile analfabetismo di ritorno generalizzato divengano best-seller i libri di Lara Cardella e di Melissa P. , oppure "Il codice da Vinci" di Dan Brown, che si basa su falsi storici (come il congiungimento carnale tra Cristo e la Maddalena, il viaggio di questa in Francia, etc, etc). Non è un caso nemmeno che allo stato attuale delle cose molti ingenuamente pensino che la canzone sia poesia. I cantanti quindi hanno preso il posto che spettava un tempo ai poeti. Poesia e canzone possono qualche volta essere simili, ma non si possono far equivalere innanzitutto per questioni stilistiche, sintattiche, verbali. Il linguaggio delle canzoni spesso è banale ed ovvio. Non solo, ma le canzoni difficilmente si occupano di descrivere la molteplicità del reale e il disagio esistenziale. La qualità e la quantità delle tematiche trattate nelle canzoni di oggi è nettamente inferiore a quelle della poesia. La canzone è soprattutto l’espressione dei propri sentimenti amorosi in tre-quattro minuti e la rima amore e cuore spadroneggia ancora oggi. I poeti invece anche quando parlano d’amore lo fanno cercando di innalzarsi dalle passioni, evitando le sdolcinatezze e i luoghi comuni. Questo naturalmente non significa che non esistano grandi cantautori, che trattino adeguatamente problematiche sociali o descrivano dignitosamente i loro sentimenti amorosi. La dimostrazione del fatto che la canzone e la poesia siano due attività davvero diverse è che grandi cantautori hanno scritto poesie con esiti non felici e che grandi poeti hanno scritto canzoni con risultati mediocri. In Italia l'unico grande poeta che si è dimostrato essere un valido autore di canzoni è solo Roberto Roversi, che ha scritto testi per Lucio Dalla. L’equivoco sempre più diffuso che la canzone sia poesia è dovuto a mio avviso non solo a una mancanza di conoscenza nei confronti della poesia, ma anche a precise scelte poetiche, che facendo equivalere ideologia e linguaggio, si contrapponevano al linguaggio ordinario per rifiutare il conformismo borghese. Un altro effetto di questa situazione è l'esterofilia dilagante, che regna nel cinema, nella musica, nella letteratura.
A mio modesto avviso non solo la poesia viene letta da pochi, ma la sua ricerca nella maggioranza dei casi è purtroppo vana perché per dirla alla Pound non riesce a mantenere in efficienza il linguaggio del nostro Paese. Infatti sono i mass-media della televisione e della carta stampata coloro che impongono i nuovi canoni linguistici. Ma bisogna ricordare anche la profezia di Pound: alla decadenza della letteratura di una nazione consegue la decadenza della nazione stessa. Viene da chiedersi se la colpa sia attribuibile ai poeti moderni, perché i loro idioletti sono talvolta anacronistici e incomprensibili. Lo snobismo e l'elitarismo della poesia moderna e della critica letteraria sono sempre stati presenti, tuttavia è impresa non da poco chiedere l'azzeramento totale, una parola cristallina e rarefatta, così lineare e chiara da giungere al grado zero della scrittura. Il rischio che il proprio idioletto divenga un linguaggio privato, un insieme di sottocodici connotativi ignoto alla maggioranza, esiste, ma non siamo naturalmente ai livelli del paradosso filosofico di Kripke-Wittgenstein. D'altro canto come pensava Yeats "la bellezza è difficile", anche se va sempre tenuto presente il carattere di intersoggettività della poesia. Questo non significa necessariamente la morte della poesia, perché se è vero che è marginale e non ha più un pubblico, è altrettanto vero -come sostiene Pasquale Vitagliano- che ha una sua comunità (si pensi alle riviste on line così come agli Slam Poetry del poeta Lello Voce). Certamente sono poche le possibilità per un giovane facitore di versi di avere visibilità, sia per la gerontocrazia letteraria che per la crescita esorbitante di casi editrici a pagamento, che non hanno nemmeno una rete di distribuzione. Altro discorso poi andrebbe fatto per le antologie considerate autorevoli dei poeti delle nuove generazioni. Spesso gli addetti ai lavori recensiscono superficialmente e non fanno un'analisi approfondita dei nodi tematici, delle affinità stilistiche, degli aspetti sincronici dei lavori dei prescelti. Molti esperti hanno parlato di morte della critica. Senz'altro quando si vuole dimostrare che la critica letteraria è morta o moribonda si fa sempre l'esempio facile della scomparsa delle stroncature, come quelle di Papini per intenderci. Io invece sono dell'idea che i critici letterari inizino con l'esegesi dei testi e finiscano per fare quasi esclusivamente i propagandisti, i divulgatori o i saggisti. La pecca maggiore di molti è il recensire in base a scambi di favore o in base ad interessi economici. Inoltre a mio avviso un'altra pecca è la loro mancanza di equilibrio e di serenità nel giudicare i più giovani. E' raro riscontrare dei critici letterari, che -tramite un processo di analisi e creazione- interpretino approfonditamente e con equanimità i nuovi autori. Per un nuovo autore sicuramente il modo più economico e più efficace per avere visibilità è farsi un sito internet, prendendo in esame le varie possibilità di hosting gratuito che offre la rete. Questa soluzione permette anche di entrare in contatto con altri appassionati di poesia moderna. La speranza è che questa comunità poetica non divenga un insieme di cricche faziose (che agiscono in base alla ricattabilità, al clientelismo, alle logiche di spartizione, ai timori reverenziali nei confronti degli autori di successo), altrimenti molti saranno propensi a credere che la poesia sia solo un genere in disuso per un'italianistica sempre più in crisi o un'abile operazione di marketing, che abbina saltuariamente i grandi poeti ai quotidiani. Lasciare la poesia al mondo del giornalismo e quindi del sensazionale significherebbe far cadere una parte della letteratura moderna nell'indistinto delle mistificazioni e delle iperboli, in fin dei conti del senso di vuoto globale, che ci circonda e ci attanaglia.

 undefined

 


LA NUOVA LETTERATURA COME PROLIFERAZIONE DI UN RIZOMA:
Chi cerca di dare una definizione di poesia si trova sempre nella stessa medesima situazione paradossale del protagonista di un racconto del "Dialogo dei massimi sistemi" di Tommaso Landolfi, in cui si cerca di stabilire se possa essere veramente considerata poesia un componimento scritto in una lingua sconosciuta. Nessuno è depositario di una verità assoluta, più come mai oggi. Perfino per la scienza moderna non esistono previsioni infallibili né certezze assolute. La logica scientifica è divenuta ormai ipotetica e probabilistica. Se i neopositivisti sentenziavano che non esiste una sintesi a priori nell'arte e nella filosofia e nessuna cifra trascendente nella metafisica e nella mistica, Popper con il suo principio di falsificazione e la dimostrazione che la ricerca scientifica avviene per congetture e confutazioni ha fatto ritornare l'epistemologia al convenzionalismo o all'anarchismo metodologico. Anche in ambito scientifico quindi non è più tempo di determinismo e meccanicismo, ma più realisticamente è tempo di accettare che il rapporto con qualsiasi forma di oggettività e di verità è sempre più provvisorio, instabile e precario (cito ad esempio la teoria del caos). Questi fatti dovrebbero ricordarseli anche alcuni di coloro che ritengono di essere la Corte di Cassazione nell'ambito della letteratura di oggi. Benedetto Croce tempo addietro aveva fatto coincidere intuizione ed espressione, aveva considerato l'arte come un atto di creazione dello spirito, aveva posto l'accento sulla purezza dell'atto artistico, ma anche egli pur dichiarando una netta distinzione tra poetico e impoetico non era riuscito a fornire un metodo estetico rigoroso per distinguere ciò che era arte da ciò che non era arte. La poesia è spesso come la proliferazione imprevedibile di un rizoma. La conoscenza umana oggi è sempre più disomogenea, non lineare in questo passaggio inarrestabile dagli atomi ai bit, descritto da Negroponte. Si pensi ai nuovi artefatti tecnologici, al mondo del www e del link, alle nuove forme di ibridazione culturale da esso derivate. Il mondo dell'ipertestuale e dell'ipermediale non è lineare. Di conseguenza nemmeno la fruizione dell'editoria elettronica (riviste on line, e-book, biblioteche digitali) sarà lineare come gli antichi libri. Non solo, ma per dirla alla W. Benjamin l'hic et il nunc sarà svalutato completamente, la riproducibilità dell'opera d'arte sarà totale. Difficile perciò in questo frangente tracciare linee di demarcazione, catalogare, classificare, far rientrare l'universo letterario in categorie prestabilite. Naturalmente anche il mondo del web ha i suoi pregi ed i suoi difetti: se da un lato aumenta a dismisura le interconnessioni tra gli individui e la rapidità della comunicazione, dall'altro pone problemi non di poco conto riguardo al diritto d'autore e alla salvaguardia della proprietà intellettuale.

 

undefined

 

LA FUNZIONE SOCIALE DELLA POESIA IN UN MONDO PRAGMATICO:
Difficile anche stabilire oggi la funzione sociale della poesia. Gadda al commissario Ingravallo di "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana" fa dire che la maggioranza delle azioni degli uomini sono compiute per "interesse ed erotia". Scrivere poesie o presunte tali significa porsi quindi al di fuori della logica comune e della stragrande maggioranza dell'agire umano. La poesia rispetto a questo mondo fatto di "interesse ed erotia" è inusuale, per i più sprovveduti qualcosa addirittura di inquietante, qualcosa che si colloca al di fuori dell'orizzonte materialista, pragmatico, utilitario, scientista dei nostri giorni. Questo naturalmente non significa che chi scrive componimenti poetici sia casto, moralista o non abbia qualche interesse economico (bisogna pur sempre mangiare). Chi si occupa di poesia e di letteratura non può essere moralista ad oltranza perché la sensibilità letteraria non è perbenismo. Non può essere moralista anche perché una sottile linea di confine divide il masochismo erotico dal masochismo morale di chi scrive in questa società dei consumi. Il masochista morale è colui che è destinato alla sconfitta per vocazione, è colui che si autodistrugge lentamente in un circolo vizioso di azioni autolesionistiche e tardivi sensi di colpa. Nonostante ciò ha anche un suo punto di forza: il masochista morale è dentro l'orizzonte della Legge, eppure è anche contro. E' colui che sceglie un'altra tirannia. E' colui che accetta la tirannia dell'umanesimo a scapito della tirannia del Potere. La scrittura può divenire eversiva, non solo per il contenuto espressamente dichiarato in un'opera, ma per ciò che è implicito e non è presente nel testo e a cui il testo rimanda. La scrittura può essere un contropotere, anche se esile rispetto alla forza immane delle multinazionali, indipendentemente dal fatto che la maggioranza la percepisca come una controcultura o una sottocultura. Ma per divenire effettivamente contropotere gli autori devono emanciparsi dal potere, essere indipendenti e autonomi dalle pressioni e dai condizionamenti occulti di esso; devono purificarsi dal potere e scarnificarsi; devono oltrepassare gli strati epidermici più superficiali, quelli che quotidianamente si sono assuefatti al potere. Autoflagellarsi interiormente e cerebralmente per purificarsi. Autoflagellarsi come esercizio di stile, come esercizio continuo per maturare uno stile, che sia efficace nel denunciare i soprusi del potere e le mille genealogie della morale, che ancora oggi nel 2000 ottundono le menti. In questo senso gli autori devono assolvere un duplice mandato: mettersi a nudo e dichiarare che il re è nudo. Ecco allora che questa duplice oscenità può divenire disarmante, in alcuni casi provocatoria, dissacrante, addirittura blasfema per i più sprovveduti. Scrittura è contropotere ed esercitare un contropotere ha i suoi rischi. Nel denunciare la logica perversa e le strategie occulte del dividi et impera del potere centralizzato l'autore si espone al rischio di essere considerato un buffone, oppure se considerato elemento di grave disturbo per le coscienze può rischiare la ghettizzazione, se non in alcuni casi l'incolumità e la vita (si pensi a Pasolini).
Spesso chi scrive viene messo in ridicolo o finisce per mettersi in ridicolo, come il poeta. In fondo già Baudelaire aveva parlato di perdita d'aureola del poeta. In Italia Gozzano si vergogna di essere poeta, Corazzini si definisce un piccolo fanciullo che piange, Palazzeschi invece più ludicamente un saltimbanco della propria anima e Vallini vuole vivere una vita tranquilla e meschina.
Mai come nel'900 il poeta è stato messo alla gogna. Viene considerato un buffone, però spesso non gli si concede la libertà di espressione. Il festival di poesia di Castel Porziano ne è l'esempio più lampante: fu un happening di 30000 persone, in cui poeti valenti furono contestati, denigrati, offesi e messi in ridicolo. Facendo zapping in una notte insonne anni fa ebbi modo di vedere su Rai 3 i documenti filmati di quel festival. Vidi una grande poetessa come Amelia Rosselli, contestata duramente da una ragazza -salita sul palco senza chiedere il permesso a nessuno- che le diceva in modo molto diretto che le sue poesie non significavano niente. Molti inoltre furono fischiati. Le loro performance poetiche furono spesso interrotte da urla e commenti volgari. Certamente va ricordato che in quegli anni il letterato era considerato un individuo sospetto, una persona che privilegiava l'isolamento alla partecipazione collettiva e all'impegno politico. C'era l'errata concezione che la poesia fosse un modo per evadere dalle grandi problematiche e una potenziale causa di isolamento e di separazione tra le persone. Però quei giovani non avevano il minimo rispetto per autori loro coetanei, che si mettevano così in gioco. Questa massa di giovani avevano un'altra scusa: non avevano capito i profondi mutamenti della poesia di quegli anni. La poesia non era più mera nominazione, piuttosto dalla seconda metà del '900 irrideva, demistificava, provocava, cercava lo shock: inventava. Per questa ragione le opere poetiche erano costellate da allitterazioni, nonsense, onomatopee, cortocircuiti verbali, lapsus, sillabazioni inusitate, ambiguità semantiche. Il poeta sembrava soffrire di disturbi del linguaggio, di strani tipi di afasie. La poesia non poteva più essere memorizzata, sembrava condurre all'amnesia delle parole. Ciò nonostante quella massa di giovani non cercava minimamente di capire, non chiedeva spiegazioni, ma giudicava senza sapere.

Pontedera, 2005

 

 

"Il Meridione rugge" ovvero due parole sulla poesia meridionale...

Oct 312022

 

undefined

 

 

Cantava decenni fa Piero Ciampi: "il Meridione rugge, il Nord non ha salite…". È passato molto tempo dai versi di questa canzone. Sono cambiate molte cose. L'Italia ha mutato faccia. Però ancora oggi il Meridione rugge, ma non tutti lo ascoltano, soprattutto in poesia. Ci sono diversi poeti meridionali validi, da ricordare, che non sono conosciuti come dovrebbero perché schivi, appartati. Alcuni poeti meridionali si sentono incompresi e forse hanno ragione. Pensano, soprattutto i più anziani, di essere testimoni o custodi preziosi di una realtà che gli altri non possono capire. Ma non ci sono solo quelli che quasi si autoescludono dalla vita. Ci sono anche quelli ostracizzati, emarginati, feriti nell'animo, esclusi dalla comunità poetica, apparentemente tanto accogliente ma talvolta faziosa, troppo esclusiva. La realtà è che le grandi case editrici, gli incontri letterari, le riunioni culturali che contano veramente sono a Roma, a Milano oppure nel Nord. Un poeta meridionale parte svantaggiato. L'industria culturale almeno nei decenni precedenti ha promosso tutt'altro, ma non la poesia meridionale. Prima di tutto per autopromuoversi poeticamente ci vogliono tempo, soldi, opportunità per creare sodalizi, incontrare letterati, partecipare a dei premi. Un poeta disoccupato siciliano è già di per sé escluso a livello logistico ed economico ad esempio. La realtà è che per molti anni in poesia ha prevalso la linea lombarda, mentre invece non ha avuto adeguata rilevanza culturale, editoriale, mediatica la poesia del Sud. Si pensi solo a tutto quel fiorire di riviste letterarie napoletane o campane che sono nate negli anni '70, '90, '90 e la critica letteraria che conta non ne ha mai capito l'importanza, non le ha mai considerate veramente. Sembra quasi che a un pregiudizio sottoculturale di stampo pseudoleghista si associ un pregiudizio puramente letterario nei confronti dei poeti del Sud. Tra poeti del Sud ci sono ottimi e buoni autodidatti, che però vengono snobbati dalle accademie e dalle università. Alcuni poeti del Sud non vengono stimati perché scrivono in dialetto e la critica letteraria neanche li considera degni di nota. Certamente cercare di rendere pan per focaccia e iniziare una guerra umana e letteraria tra Sud e Nord non ha senso, è estremamente dannoso e controproducente. Non porta a niente ricambiare l'odio da parte dei poeti del Sud nei confronti del Nord, né porta a niente l'autocommiserazione perenne. Non ha nemmeno senso crogiolarsi nella sofferenza interiore e/o trincerarsi in un complesso di inferiorità o superiorità. Non ha senso neanche mettersi a criticare quello che c'è di buono nella poesia del resto d'Italia oppure chiudersi a riccio e fare esclusivamente sette di poeti meridionali. Un rischio insito nella poesia meridionale è quello di fare cricca, di fare massoneria per difendersi, di considerarsi superiori, perché più puri e incontaminati, per sopravvivere. Il sistema chiuso invece non porta a niente. Ecco perché i poeti meridionali che l'hanno capito usano sempre più Internet e interagiscono con persone di ogni provenienza e cultura. Il sistema per forza di cose deve essere aperto. Non ha nemmeno senso pensare di essere troppo rancorosi, vendicativi, violenti e pensare di "menare le mani". Per quel che la conosco la poesia del Sud può rinnovare la tradizione poetica o continuarla egregiamente, può riprendere la tradizione del nuovo (ovvero la neoavanguardia), può essere ottima poesia visiva o comunque sperimentale. Una qualità dei poeti del Sud, per come li conosco io, è senz'altro che sono più refrattari a seguire le mode letterarie, culturali, poetiche e cercano di non farsele imporre. Un difetto a mio avviso presente in alcuni luoghi del Sud è che chi scrive quattro versi la domenica a tempo perso spesso viene considerato poeta, mentre invece poeta è una parola grossa, da usare con parsimonia e cautela. Un rischio per alcuni poeti meridionali è quello di farsi attanagliare però dal conformismo culturale, ma anche dal moralismo (questo vale per i più anziani, i cosiddetti boomers), insomma da quel decoro piccolo-borghese che Mastronardi chiamava "catrame", visto che il Sud è fatto soprattutto di borghi dove tutti sanno tutto di tutti. C'è bisogno dei poeti meridionali che cantano la bellezza del paesaggio e della terra del Sud, ma anche le contraddizioni e le difficoltà di quella realtà (e intendiamoci bene ogni realtà ha i suoi punti critici. Non siamo certamente più ai tempi di Carlo Levi). La letteratura italiana ha bisogno della poesia meridionale, che è un poco più defilata e marginale rispetto ad altre zone italiane. Inoltre i poeti meridionali devono lottare contro una realtà culturale più difficile. In alcune zone del Sud (e penso di poterlo scrivere senza alcuna ombra di pregiudizio... che poi io non sono mica del profondo Nord) fare cultura è più difficile. In alcune zone del Sud, dove la criminalità organizzata ha il controllo del territorio, scrivere poesia significa poter denunciare quello stato di cose, rompere gli schemi, andare contro la sottocultura. Per alcuni uomini di onore chi scrive poesia è un mezz'uomo, uno che rincorre farfalle, un poveretto, etc etc. In realtà scrivere anche poesia in certe realtà è pericoloso e chi scrive è ritenuto una persona scomoda. Viene guardato con sospetto, con molta diffidenza. Questo purtroppo è ancora un retropensiero diffuso. La politica meridionale dovrebbe valorizzare molto meglio la poesia del Sud con la creazione di premi e festival letterari, che potrebbero innescare un piccolo circolo virtuoso e aumentare in piccola parte il turismo culturale. Eppure Pirandello, Quasimodo e molti altri grandi letterati erano meridionali. La poesia italiana nasce con la scuola siciliana, se non erro. Quindi ogni pregiudizio contro la poesia del Sud contemporanea è infondato. Chi può a onor del vero cantare la bellezza del Mediterraneo, se non i poeti del Sud? Chi è troppo ingenuo o ignorante in letteratura pensa che il Sud sia un mondo a parte, un mondo lontano, un'altra realtà. Invece con la poesia meridionale bisogna fare i conti, non si può relegare ai margini. Lo so benissimo che alcuni penseranno che io deliri o sia totalmente fuori strada, che ormai queste sono cose antiche o inesistenti, ma basta leggere soltanto alcune pagine di qualche saggio del poeta Giorgio Moio per capire che anche recentemente la poesia meridionale non ha avuto l'attenzione che si meritava. Qualcuno potrebbe obiettare dicendo che nelle antologie scolastiche Alfonso Gatto, Sinisgalli, Scotellaro, Calogero, Pierro, etc etc ci sono tutti. Ma quanti vengono messi nei programmi scolastici e quanti poeti del Sud vengono fatti studiare? Proprio al Sud ci sono molti giovani che si laureano brillantemente in materie umanistiche e scrivono cose egregie. Proprio nel Sud ci sono delle isole felici, diverse associazioni culturali, diversi circoli culturali, che premiano i poeti, ancora più che in altre zone di Italia. Il Sud talvolta mi sembra quasi spaccato culturalmente, in precario equilibrio, a metà strada tra due fuochi: il fuoco della criminalità e quello del vero Rinascimento letterario. In questi ultimi anni si registra comunque una maggiore attenzione nei confronti della poesia meridionale e, diciamocelo francamente, Internet ha ridotto le distanze e le ingiustizie critiche, visto che oggi tutto viene pubblicato e reso noto al pubblico online.

 

 

Cose da tener presenti e regole di comportamento per un/a giovane per sopravvivere nella giungla della comunità poetica...

Oct 292022

 

undefined

 

Cose da tener presente e regole di comportamento per un/a giovane per sopravvivere nella giungla  della comunità poetica:


Ai poeti e naturalmente anche alle poetesse, veri/e, aspiranti, sedicenti dai sempre ragione, anche quando hanno torto marcio. Non te li inimicare mai. Possono cercare vendette, possono fartela pagare. Come? In ogni modo. Niente a loro è precluso. Sono pronti a calpestarti in ogni modo senza umanità e senza rispetto per la tua dignità. Al peggio non c'è fine. Se provi a ferirli minimamente nell'orgoglio possono diventare criminali. Una poetessa riconosciuta mi scriveva che alcuni letterati e poeti, che ce l'avevano con lei, la sottoponevano online ad esempio a delle vere e proprie shit storm, termine ormai comprensibile a tutti.


Per le poetesse e i poeti, veri e presunti, esistono solo dei libri importanti, necessari, prioritari: i loro. Oppure quelli dei loro maestri/mentori, ma possono ammettere ciò solo per pura formalità e perché non possono fare altrimenti, dato che i loro mentori sono un elemento imprescindibile della loro biografia.


Loro sono superiori agli altri. Devi naturalmente riconoscere la loro grandezza. È un atto dovuto. Se non lo fai diventi un loro nemico. Oppure sei un mentecatto ignorante e illetterato.


Alcuni poetesse e alcuni poeti, veri o presunti, hanno iniziato da così tanto tempo a scrivere che si sono veramente dimenticati/e la ragione per cui hanno iniziato. E ora non trovano il modo per smettere, anche se molte ragioni plausibili ce le avrebbero, ma loro non ne tengono mai di conto.


Secondo alcune testimonianze femminili il mondo della poesia italiana è un mondo di mani morte senza guardare in faccia nessuna e senza remore. Le ragazze devono stare attente a chi promette loro mari e monti in cambio di sesso. I lestofanti libidinosi sono sempre dietro l'angolo, ma in fondo non c'è niente di male a diventare l'amante ingenua di un poeta riconosciuto, anche se il talento poetico non c'entra nulla.


Ormai il sovrappiù del capitalista non è dato più dalla forza-lavoro dell'operaio ma anche dal marketing, dalla pubblicità, dell'ingegneria gestionale. La speculazione finanziaria in borsa domina sulla produttività industriale. Però molti letterati continuano a dirsi marxisti senza alcuna riserva. Abbracciano senza se e senza ma il determinismo economico marxiano di più di un secolo fa, condividendo totalmente l'analisi economica di una realtà, di un mondo che non c'è più. E se glielo scrivi si arrabbiano in modo furioso e cercano vendetta letteraria.


A meno che tu non sia di bell'aspetto, non sia ricco, non sia un professore universitario o un poeta affermato a scrivere poesie non si cucca. Se vuoi cuccare comprati a rate una bella macchina o passa molte ore del tuo tempo libero a farti il fisico in palestra.

 


Non ti fare spennare dalle case editrici a pagamento.


Capirai col tempo che più si accumulano le frustrazioni e più l'ego si gonfia. Come scriveva Adler dietro ogni complesso di superiorità si cela un complesso di inferiorità.


La poesia devi prenderla come una semplice passione. Non ti può guarire né ti può avvelenare, se hai i piedi ben saldi a terra. Probabilmente non sarà per te neanche un altro lavoro. Se avrai un lavoro al massimo sarà un dopolavoro.


La concezione del mondo di poetesse e poeti, veri o presunti, si basa sulla poesia che è superiore alla prosa, agli articoli, ai saggi brevi. Ti citano Bukowski quando scriveva: "La poesia dice troppo in pochissimo tempo, la prosa dice poco e ne impiega troppo". E naturalmente la loro poesia, vera o presunta, viene prima di tutto o di tutti.


Il mondo va in tutt'altra direzione. Tutto rema contro ai poeti. La cultura di massa sta fagocitando ogni giorno la poesia. Lo si vede anche dai quiz televisivi sempre più visti, dove per domande di cultura generale si intendono domande di sottocultura. Però l'importante per i poeti è crederci e volerlo.


Se sono riconosciuti considerano la comunità letteraria meritocratica e talentocratica. Si sentono in pace con il mondo. Se non sono riconosciuti allora sono dei geni incompresi e parlano di mafia letteraria. Ma nessuno si presenta come non riconosciuto. Questa cosa nessuno la ammette. Tutti si pavoneggiano per la pubblicazione di quel libro a pagamento, per la pubblicazione su quella rivista, per essere stati inseriti in quella antologia. Se leggi le note biografiche di poeti, veri o presunti, sono tutti riconosciuti. Alla vanagloria, al narcisismo non c'è fine, nel senso che non devi assolutamente mettere in dubbio la loro bravura e i loro consensi critici perché rischieresti l'incolumità fisica e la discussione non avrebbe termine.


Le poetesse e i poeti, veri o presunti, sono quasi tutti di sinistra, ma è meglio non dirlo per evitare guai.


Ogni poeta e poetessa se la suona e se la canta. Gli altri fingono di leggere e di capire. In realtà nessuno ascolta nessuno. Tutto è bello e insignificante al tempo stesso. Il tasso di incomunicabilità è elevato e l'ipocrisia, la finzione regnano sovrane.


Sembra talvolta che alcuni/e facciano di tutto per non farsi comprendere. Va bene che la poesia è nominazione pura, ma spesso usano termini desueti e ormai non familiari a nessuno perché così credono di impreziosire le loro poesie. Credono di essere tanto incomprensibili e oscuri quanto poetici. Oppure probabilmente sono solo legati troppo a canoni letteraria troppo antiquati. Oppure forse vogliono solo divertirsi e pensano che quando saranno morti gli italianisti non riusciranno a capire il senso delle loro liriche. In realtà gli italianisti tra un secolo forse non ci saranno più perché l'italiano sarà ormai una lingua morta e non studiata più da nessuno. E poi perché i posteri dovrebbero occuparsi di loro se ai contemporanei di loro non importa niente? Come mai ripongono tutta questa speranza nei posteri?


Devi tener presente che la poesia contemporanea italiana è una piccolissima fabbrica di illusioni per uno sparuto gruppo di persone, se lo si confronta con il resto della popolazione a cui non gliene importa davvero niente. Essere poeti o poetesse è del tutto legittimo, ma al resto del mondo non interessa minimamente e di questo bisogna che chi scrive versi ne prenda atto e coscienza.


Nessuno può parlare male dei poeti, nemmeno i poeti riconosciuti. Chi lo fa è un nemico, un invidioso, un poeta fallito, un disfattista qualunquista oppure tutte queste cose insieme. Di solito l'accusa principale è l'invidia. Siamo tutti invidiosi dei poeti, veri o presunti, che ormai li considerano davvero pochi, mentre il mondo è delle multinazionali, degli sceicchi, delle influencer, degli showman televisivi.


Le poetesse e i poeti, più presunti che veri, hanno spesso qualche disturbo psicologico o psichiatrico, ma non devi minimamente sospettarlo né dirlo. La "follia" è un fenomeno di proiezione, come l'amore del resto. Pazzi sono sempre gli altri. Se io ammetto che ho qualche problema psicologico, ma mi curo e sto molto bene loro mi considerano un individuo altamente problematico, un poveretto. Poi tra molti di loro c'è feeling, intesa, affinità elettiva e tutto ciò è una corrispondenza di amorosi sensi tra persone con problemi psicologici o psichiatrici che non si curano. Si sostengono a vicenda. Ci vuole un minimo di sopportazione e di acquiescenza di fronte a loro, ma non devi necessariamente improvvisarti terapeuta o improvvisarti sodale per risolvere le loro tare psicologiche/psichiatriche perché non la finiresti più. Cerca di assecondarli e di essere comprensivo.


I poeti e le poetesse sono tutti amici e amiche. Poi la realtà effettiva è un'altra. A onor del vero colpi bassi senza alcun complimento, appena uno si assenta.


Visto e considerato che tutte le isole sono state trovate (ricordando Gozzano), visto che è difficile lo straniamento o anche solo rinnovare il linguaggio, i poeti veri o presunti, non approdando a traguardi immaginifici, si trascinano stancamente a scrivere i loro versi. Il fine ultimo è la gloria postuma.


La poesia di ogni poeta in questione è immortale. Devi a ogni costo riconoscere che è memorabile. Magari certi versi te li scordi il giorno stesso averli letti, ma il postulato è che quei versi sono capolavori e se non lo senti o non lo pensi è perché non hai adeguata preparazione culturale, adeguata sensibilità artistica, sufficiente intelligenza, sufficiente gusto estetico.


I poeti, veri o presunti, ti cercano solo quando hanno bisogno o solo quando gli fa comodo.


Molte poetesse e molti poeti, veri o presunti, ti possono accettare solo come loro accolito. Devi andare a bottega da loro. Loro poi possono anche atteggiarsi a maestri di vita. Tu non puoi che essere un discepolo.


Non perdere tempo in lotte di potere tra cricche, scuole di pensiero, fazioni. Il vero potere di un poeta è quello di trasmettere emozioni sotto forma di bellezza letteraria a quante più persone. Molti cantanti sanno comunicare ed esprimere emozioni, ma non sotto forma di bellezza letteraria. Un problema insormontabile è quale sia, cosa sia la bellezza letteraria oggi.


Tutte le alleanze, gli amori, le antipatie, i litigi tra poeti, veri o presunti, non finiranno nella storia della letteratura. Sono praticamente ininfluenti. Non farti cattivo sangue. Nella storia della letteratura ci restano pochissimi.


Il mondo va alla malora e forse scrivere o leggere poesia è un passatempo come un altro. Non si fa del male al mondo e nemmeno lo si salva. Un minimo di realismo non guasterebbe. Meno smania di grandezza e meno manie di protagonismo non guasterebbero.

 


Ne vale veramente la pena di leggere o scrivere poesia? Senza ombra di dubbio. Basta leggere Apollinaire, Ginsberg, Montale, Pasolini, Zanzotto, Merini o la Rosselli. Non costa nulla partecipare e dare il proprio piccolissimo contributo, possibilmente in punta di piedi, con modestia, senza alzare la voce e senza essere molesti.

Sempre su poeti, veri, aspiranti, sedicenti...

Oct 252022

 

undefined

 

Ė la solita schermaglia. Alcuni critici e alcuni poeti "arrivati" dicono e scrivono che i giudizi sono oggettivi, quando i criteri di un tempo, i vecchi canoni come la metrica e l'eufonia sono stati abbandonati. Chi non si afferma poeticamente talvolta grida che è tutto un contendersi tra conventicole, che è tutta una cricca e si dichiara incompreso/a. Ad onor del vero esistono le amicizie, i favoritismi, le idiosincrasie: sarebbe disonesto non ammetterlo. Siamo in Italia insomma. Io non conosco personalmente nessun poeta o critico. Non ho amici o amiche nel settore. Lo scrivo a scanso di equivoci. Conosco poco l'ambiente della poesia. Osservo quello che accade su Internet. Naturalmente sono del tutto legittimi i rapporti di stima reciproci. Talvolta mi chiedo se c'è del marcio nella comunità poetica, ma non ho sufficienti elementi per rispondere. Alcuni letterati arrivati vogliono pontificare, legiferare. Alcuni non arrivati vogliono fare un quarantotto. Ci sono anche persone che vorrebbero affermarsi ancora di più, approdare alla grande editoria e accusano che è tutto un sistema che mistifica, che è ingiusto, che falsa i veri valori. La comunità letteraria sembra essere basata sul discrimine autorità/frustrazione. La domanda da porsi è se il talento o il genio attualmente in poesia siano oggettivamente riconosciuti e riconoscibili. Nutro dei dubbi. Alcuni che sono arrivati vorrebbero imporsi, quasi sopraffare, zittire il resto di quella che per loro è una ciurma. Gli aspiranti e i sedicenti poeti, coloro che non sono affermati si basano molto più sui contentini che gli vengono dati che sulle porte sbattute in faccia. Ma ancora una volta mi chiedo quanta obiettività ci sia nei giudizi critici odierni. L'ottima poetessa Maria Borio in un suo saggio breve parla di valutare un testo poetico in base allo stile, all'implicito e all'autenticità oggi. Ma anche così facendo si resta nell'ambito dell'opinabile.
Mi fanno un poco sorridere quegli autori che pagando una pubblicazione a proprie spese si vantano del giudizio elogiativo dell'editore, che ha tutti gli interessi di abbindolarli, di blandirli per convincerli a pubblicare altri libri a pagamento. Spesso il piccolo editore a pagamento li facilita, li mette sulla buona strada, li aiuta a pubblicare su riviste, li incanala nelle giuste conoscenze/binari poetici. Noto che un libro pubblicato a pagamento viehe più considerato di un ebook pubblicato gratis su una rivista online. È un falso prestigio basato su premesse errate. Innanzitutto spesso l'editoria a pagamento non è affatto selettiva, non distingue il grano dal loglio. Molto spesso anche il più improvvisato degli aspiranti poeti trova da pubblicare. Non nascondiamoci dietro ad un dito: spesso molte piccole case editrici a pagamento non premiano la qualità e sono come delle tipografie. Forse viene considerato di più un libro pubblicato a proprie spese perché si tiene conto dell'onere economico più o meno gravoso a cui ha dovuto far fronte. Forse si chiudono gli occhi e si fa finta di non vedere perché è una prassi troppo diffusa e così fan tutti/e. C'è gente che ha un curriculum poetico fatto da una caterva di pubblicazioni a pagamento. Ma che curriculum artistici sono? Bisognerebbe guardare solo la qualità degli scritti. Io non guardo se un libro è pubblicato con una piccola, media o grande casa editrice. Valuto se mi piace oppure no. C'è del buono, anzi dell'ottimo nell'editoria a pagamento. C'è una editoria a pagamento anche che sa scegliere il buono dal pessimo. Ma è meglio non vantarsi di una pubblicazione cartacea. Non c'è nessuna asticella superata nel pubblicare a proprie spese. Basta avere i soldi, essere disposti a spendere, poi un editore si trova. Spesso sarà un editore che obbligherà all'acquisto di cento copie, non si interesserà alla distribuzione, etc etc. Io considero una persona poeta o poetessa a prescindere delle pubblicazioni, ma solo in base a ciò che scrive. Mi sembra che questo modo di giudicare sia il più onesto intellettualmente, anche se di primo acchito può sembrare presuntuoso. Il mio giudizio però non è assolutamente interessato. Il giudizio di certi piccoli editori a pagamento invece è interessato.

Il poeta del web e il poeta riconosciuto (tra il serio e il faceto)...

Oct 182022

 

undefined

 

 

Se Il poeta riconosciuto pubblica con la Mondadori, l'Einaudi, la Feltrinelli, la Garzanti, il poeta del web pubblica nel suo blog letterario (o aspirante tale) i suoi versi. Ogni tanto fa qualche altra apparizione in altri lit-blog di amici oppure in una rivista online a cui collabora. Se il poeta riconosciuto viene elogiato da una miriade di aspiranti poeti, che si dicono amici (ma la loro amicizia è molto interessata e finalizzata a far parte delle patrie lettere), ebbene il poeta del web ha come amici dei sodali. In realtà il poeta riconosciuto e il poeta del web hanno entrambi pochi amici veri nel loro mondo artistico e invece molti conoscenti: il primo viene più invidiato che ammirato, il secondo è in competizione con gli altri e anche se non gareggia sono gli altri che sono comunque in gara con lui (pochi capiscono come Ferlinghetti che la poesia non è una gara). D'altro lato la poesia è anche pubbliche relazioni, consiste anche nello stringere alleanze. Il poeta riconosciuto frequenta solo i propri pari. Il poeta del web frequenta tutti oppure si autoesclude dalla vita. Se il poeta riconosciuto per un motivo imprecisato cade in disgrazia nessuno lo considera più. Il poeta del web se ha successo acquista molti falsi amici, ma perde anche qualche amico vero. Fino a quando il poeta del web è un carneade i suoi amici (o apparenti tali) gli danno manforte, gli danno sostegno emotivo/psicologico. Il poeta riconosciuto pubblica per tutti. Il poeta del web pubblica per la propria bolla ma anche per nessuno.


Il poeta del web si deve sudare collaborazioni in blog e riviste online oppure anche delle apparizioni in angoli di web. Spesso ricorre a delle pubblicazioni a pagamento di libri per dire che ha pubblicato anche lui e per essere più accreditato. Il poeta riconosciuto spesso è un cattedratico o ha buone entrature nel mondo universitario. Non ha problemi a trovare una casa editrice che non lo fa pagare perché sa che il suo nome è una garanzia e permetterà almeno un piccolo ritorno economico. Il poeta riconosciuto sa che il suo libro avrà molte recensioni sui quotidiani e che i suoi seguaci lo compreranno. Il poeta riconosciuto viene già antologizzato in qualche manuale scolastico. Nessuno regala niente al poeta del web. Talvolta chiede aiuto economico ai suoi familiari per pubblicare un libro di poesie. Fa dei sacrifici risparmiando per tutto l'anno oppure li fa fare ai suoi familiari. Nel corso degli anni potrà scrivere sul suo curriculum che ha pubblicato diversi libri. Inoltre ogni pubblicazione online è una piccola conquista, un piccolo passo avanti. Ma verso dove? Essere pubblicato su qualche sito letterario in più cambierà forse la sua vita, lo farà svoltare (come si dice a Roma) oppure migliorerà la sua arte? In ogni caso è un passatempo, un hobby...

 

 

 

undefined

 

Per essere poeti riconosciuti bisogna avere capacità intellettuali, cultura umanistica, saper sfruttare le giuste occasioni (per dirla alla Montale), la fortuna di avere almeno un maestro (io sostengo che la cosa più importante a tal riguardo sia avere una buona maestra elementare perché parte tutto da lì), ma spesso bisogna anche avere un trauma da superare, un lutto da rielaborare, essere considerati dei diversi per qualsiasi motivo, avere un grande amore non corrisposto, essere disadattati, avere una psicopatologia oppure essere poveri: una sola di queste cose o più cose insieme. I grandi poeti e le grandi poetesse sono tutti in un certo qual modo traumatizzati almeno da un evento della vita oppure in senso lato dalla vita stessa. Per essere poeti o poetesse bisogna soffrire. Non a caso alcuni critici talvolta scrivono agli aspiranti poeti: "bravo ma freddino" oppure più semplicemente "non sai ancora cosa vuol dire soffrire". Ci vuole quindi qualcosa che segni per sempre in modo indelebile. I casi sono due: vivere normalmente o soffrire e scrivere. Ma non è sufficiente. I casi sono ancora due: vivere o capire. Il poeta riconosciuto soffre, capisce, scrive. Il poeta del web pensa di capire, pensa di soffrire, nel frattempo scrive. Inoltre il poeta riconosciuto deve essere contro la mentalità comune, contro la logica del sistema, contro il potere costituito. Associando queste due caratteristiche, utilizzando le parole di De André, potremmo affermare che ogni poeta autentico, riconosciuto o meno, "viaggia in direzione ostinata e contraria, con il suo marchio speciale di speciale disperazione".

 


Il poeta del web spesso si guarda bene dal non mettere tutto in piazza. Se ha dei traumi non vuole metterli in piazza, neanche in una piazza virtuale. Sa che i suoi compaesani o i suoi concittadini potrebbero usare tutto ciò che scrive contro di lui. Cerca quindi di non autospubblicarsi. L'autopubblicazione va bene, ma non l'autospubblicazione. Prima di scrivere qualcosa di compromettente si autocensura pensando ai suoi familiari, ai suoi parenti, alle sue amicizie. D'altronde è con loro che deve convivere. Non tutti sono disposti a dare tutti sé stessi in pasto a tutti. Che poi anche i datori di lavoro o i potenziali datori di lavoro possono leggere le cose pubblicate sul web. Basta fare una semplice ricerca. Insomma di solito il poeta del web ha minore talento del poeta riconosciuto, ma non osa mai tanto. Si risparmia. È più pudico. È meno coraggioso. Ha una reputazione da difendere nel suo paese o nella sua cittadina. Il suo lavoro, il lavoro dei suoi familiari dipendono in buona parte anche dalla reputazione. Il poeta del web ha molto da perdere e forse il gioco non vale la candela. Il poeta riconosciuto ha le spalle molto più larghe. Sa che è un personaggio pubblico o semipubblico e che in questo villaggio globale ormai di chi è noto tutti sanno tutto di lui. Il poeta del web invece tratta difficilmente di sesso. Non fa invettive. Non combatte draghi né fantasmi mentali. Non fa nomi dei propri nemici per paura di denunce per diffamazione. Ma ci sono anche poeti del web che si lasciano andare a diarismo e intimismo. In linea di massimo diciamo che il poeta del web anche se si confida o entra nell'intimità gli prestano attenzione in pochi, mentre il poeta riconosciuto fa più notizia, anche se solo nella comunità poetica. Il poeta del web e il poeta riconosciuto hanno la stessa passione, hanno sempre avuto la stessa ambizione, coltivano da sempre il loro talento, sono entrambi alla ricerca della verità o della sua parvenza. Il poeta del web e il poeta riconosciuto si possono scambiare i ruoli, la faccia, la vita perché probabilmente sono ognuno la faccia della stessa medaglia o addirittura la stessa persona (chi è l'originale e chi la copia? Oppure sono due sosia che nessuno riconosce come tali).

Due parole soltanto su poesia e inconscio...

Oct 082022

 

 undefined

 

 

L’inconscio per Freud è tutto ciò che non affiora alla coscienza. Secondo Freud si può accedere all’inconscio tramite le associazioni libere, l’ipnosi regressiva, l’interpretazione dei sogni, l’analisi della psicopatologia quotidiana (dimenticanze, lapsus, errori). Per intenderci potremmo definire questo come inconscio personale o individuale. Esiste anche l’inconscio collettivo, scoperto da Jung, che invece è formato da istinti ed archetipi. Un archetipo è un principio arcaico universale e al contempo un’immagine primordiale, presente nella psiche umana dagli albori. Riguardo agli istinti c'è chi sostiene che anche noi esseri umani li abbiamo e studiosi che pensano che li abbiano solo gli animali. Quindi la cosa è dubbia. Comunque gli archetipi esistono. Non è assolutamente detto che inconscio sia sinonimo di irrazionalità perché anche l’inconscio ha la sua logica. A riguardo si pensi al celebre aforisma di Lacan, secondo cui “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”. Inoltre esiste anche l’inconscio cognitivo. Si pensi ad esempio alle recenti ricerche sulle euristiche di Tversky & Kahneman. Le euristiche, semplificando, sono delle scorciatoie mentali errate, che utilizziamo perché la nostra memoria a breve termine è limitata. Messi di fronte a certi problemi non decidiamo quindi come dei decisori esperti, che utilizzerebbero il calcolo delle probabilità. Ogni rimatore si confronta quotidianamente con il proprio inconscio cognitivo e con l'euristica della disponibilità. Ci sono infatti parole che vengono più alla mente e sono più disponibili, anche se magari sono meno frequenti di altre nel vocabolario. Oppure molto più banalmente si pensi a tutte quelle operazioni mentali, che sono divenute degli automatismi della psiche e che non giungono più alla soglia della coscienza. Si pensi quindi ad attività come guidare una macchina o suonare uno strumento musicale. In poesia a mio avviso esistono anche autori, che cercano di rimuovere il più possibile dalla loro scrittura qualsiasi tipo di inconscio. I loro scritti sono colmi di razionalizzazioni. Esistono e sono esistiti anche autori (ad esempio i surrealisti e i futuristi), che hanno lasciato che l’inconscio prevalesse su tutto e su tutti. È da ritenere che ci debba essere una giusta misura, un giusto equilibrio tra conscio e inconscio: la parte conscia però deve sempre prevalere sulla parte inconscia, anche se non può censurare tutto l’inconscio. Infatti è da ritenere che, quando prevale eccessivamente il conscio, si registra un’eccessiva intellettualizzazione. Invece quando prevale l’inconscio si assiste negli autori meno capaci a dei versi incomprensibili e illeggibili. Comunque far riaffiorare l’inconscio è un ottimo atto di autoterapia. Quando la scrittura si apre all’inconscio, rileggendosi, si può avere delle piccole sorprese: delle piccole rivelazioni. Talvolta scaturiscono espressioni inaspettate, che possono essere delle piccole scoperte e che aiutano a conoscere meglio sé stessi. Scrivere quindi è utile (prima di tutto per sé stessi). Gli ermetici sprigionavano il loro inconscio soprattutto tramite le analogie. La Neoavanguardia scatenava l’inconscio con l’asintattismo. Montale invece spesso rimuoveva l’inconscio. Amelia Rosselli e Zanzotto, pur avendo poetiche razionali e un’elevata intellettualità, liberavano spesso il loro inconscio. Di solito l’inconscio viene utilizzato nel dettaglio, nella figura retorica, nell’espressione verbale. L’inconscio può consentire la creazione di nuove immagini poetiche e di accostamenti inusuali, originali di parole. I poeti neo-orfici negli anni Settanta in Italia hanno instaurato un nuovo rapporto con l’inconscio. Sono stati dei poeti “innamorati” della parola. I neo-orfici hanno creduto nella funzione sacrale della poesia e nell’assolutezza della parola. Hanno preferito il prelogico al logico, unendo a ciò nei loro testi oscuri la mitologia. Inconscio individuale e inconscio collettivo si fondevano quindi armoniosamente. L’uomo moderno non può riflettere troppo perché diventerebbe pericoloso per il sistema produttivo; potrebbe infatti chiedersi quale senso abbia effettivamente il suo lavoro o potrebbe diventare un consumatore molto critico. La filosofia, la letteratura, la poesia sono quindi pericolose per il sistema perché possono creare degli umanisti, che esercitano nella vita il loro senso critico e la loro autonomia di pensiero. Il potere inoltre vuole dominare totalmente l’inconscio. Invece tramite la poesia qualsiasi persona si riappropria del proprio inconscio. Ecco perché la poesia viene considerata inutile dalla società odierna (fondata sulla razionalità tecnologica e scientifica) e chi scrive versi invece viene considerato un perditempo!!! La poesia è anche espressione della razionalità umana (per quel che è possibile). La parola poetica può dirci sempre qualcosa di nuovo sul mondo e sull’animo umano. La parola poetica può mettere ordine nel mondo: innanzitutto nel mondo interiore di chi scrive. Da questo punto di vista la bellezza non è solo verità, ma la riflessione poetica-filosofica può condurre alla verità umana (per cui sempre provvisoria e instabile, mai definitiva). Quindi molti poeti sono razionalisti e umanisti moderni. Poi naturalmente bisognerà anche valutare gli esiti. Come scriveva Saba in “Cose leggere e vaganti”: “anche i versi somigliano alle bolle di sapone; una sale e un’altra no”.

 

Forse restano da scrivere solo note a margine perché tutto è già stato scritto...

Sep 252022

 

 

undefined

 

Forse tutto è già stato scritto e quello che non è stato scritto forse non meritava di essere scritto, non era degno di nota, era puro nonsense.

Forse -dicevo- tutto è già stato scritto.

La Neoavanguardia già nel dopoguerra sembrava aver divorato tutte le poetiche. È impresa ardua, quasi improponibile cercare di riformulare dei codici espressivi. Il ‘900 letterario è stato artefice di grandi stravolgimenti. Il panorama nell’ambito della poesia è mutato completamente. Per secoli ha predominato una tradizione aulica, intessuta di preziosismi, latinismi, grecismi. Per secoli il linguaggio poetico è stato vago, raffinato e circoscritto. Le sperimentazioni tutt’al più erano metriche.

Tutto a un tratto nel 1900 ecco una miriade strabiliante di innovazioni sintattiche, morfologiche e lessicali. Ecco affacciarsi l’antilirica, se si paragona la poesia moderna a quella dei secoli addietro. Un’antilirica, che sempre più si disinteressa della metrica e pone tutto il suo interesse nelle poetiche e nell’ampliamento del lessico. Non esiste più la poesia come entità autonoma di conoscenza e produzione, di corrispondenza prelogica e preconscia tra l’essenza delle cose e l’essenza dell’animo umano. Avviene il dominio del contenuto sulla forma, della poesia del fare poesia sulla poesia, dell’arte dell’arte sull’arte.

Alcuni critici riprendono il concetto hegeliano di “morte dell’arte”, ma piuttosto si tratta di serie di radicali trasformazioni, della dissoluzione di canoni preesistenti ormai sclerotizzati. Non esiste una “morte dell’arte”, ma il prevalere della poetica sulla poesia e ciò comporta una maggiore consapevolezza del proprio fare artistico e talvolta un eccessivo smontaggio analitico delle opere creative. Ogni aspetto del reale può ispirare, anche ciò che un tempo poteva essere considerato impoetico per eccellenza. Ogni termine di qualsiasi campo semantico può diventare poetico. Si pensi ai tecnicismi di Zanzotto recentemente, ma a dire il vero avevano iniziato Pascoli e Montale, profondi conoscitori della botanica. Ecco comparire all’improvviso l’inconscio con il surrealismo e il paroliberismo dei futuristi: i sintagmi sono in libertà, non c’è alcuna struttura interna.

Nella poesia sembra essere ammesso quello che ordinariamente non è ammesso altrove. Per seguire i flussi di coscienza l’artista spesso procede per associazioni, frammenti, immagini-frase.

Nel’900 è vietato ogni presupposto assolutistico. I poeti sono politeisti dell’arte. Ci si può perdere di primo acchito in questo caleidoscopio, in questa confusione di linguaggi che ha come comune denominatore il relativismo e il prospettivismo (la realtà viene indagata da più angolazioni).

Niente sembra più stabile e il cultore di poesia non sa più di chi e cosa fidarsi in questo apparente disordine, in questa molteplicità stilistica. Dopo lo schizoformismo di Giuliani, la prosa poetica di Nanni Balestrini, l’asintattismo di Elio Pagliarani, la Palus Putredinis di Sanguineti, il ritmo di Amelia Rosselli, il tono colloquiale e privato di Dario Bellezza, “Il disperso” di Maurizio Cucchi, le folgorazioni di Milo De Angelis è difficile non essere banali. È fuori luogo poi essere loro manieristi. Altra era la temperie culturale vissuta da questi grandi autori, altro era il contesto sociale del ‘900 e le problematiche annesse e connesse (boom economico, unificazione linguistica, comparsa della televisione, scomparsa della civiltà contadina, migrazioni interne dal Sud al Nord, contestazione studentesca, anni di piombo, il ruolo e lo status del letterato nell’era industriale, netta divisione tra cultura di massa e cultura alta).

Molte poi sono le scuole (l’idealismo, il crocianesimo, lo storicismo gramsciano, la critica formalista, lo strutturalismo, la semiologia), gli ismi letterari (il simbolismo, il crepuscolarismo, il surrealismo, l’ermetismo, il futurismo, il neorealismo, il neosperimentalismo, la neoavanguardia, il neo-orfismo), i maestri di pensiero (i più recenti ad esempio: Lacan e l’inconscio come linguaggio, Wittgenstein e i suoi giochi linguistici, Lyotard e il postmoderno, Heidegger e la sua ontologia della poesia, Gadamer e la sua ermeneutica, Foucalt ed il suo concetto di potere, Derrida ed il suo decostruzionismo e ancora… R. Barthes, Levi-Strauss, Chomsky, Marcuse, etc, etc) a cui un autore può fare riferimento. Molte sono le strade percorribili. Svariate sono le problematiche stilistiche: scegliere tra suggerire e nominare, tra prosaico e lirico, tra tradizione e innovazione, tra metafora e analogia, tra un linguaggio puro e astorico e uno ricco di contaminazioni.

Difficile oggi poi fare una mappatura esaustiva della poesia italiana, difficile definire attualmente che cosa sia in quest’epoca di “tradizione del nuovo”, di autori neo e post la vera poesia.

Simposi, convegni, corsi di creative writing, articoli, saggi hanno cercato e cercano di pontificare a riguardo.

Analisi e commento di "Così siamo" di Andrea Zanzotto...

Sep 142022

 

 undefined

 

Analisi e commento di "Così siamo" di Andrea Zanzotto:

 

Dicevano, a Padova, “anch’io”

gli amici “l’ho conosciuto”.

E c’era il romorio d’un’acqua sporca

prossima, e d’una sporca fabbrica:

stupende nel silenzio.

Perché era notte. “Anch’io

l’ho conosciuto”.

Vitalmente ho pensato

a te che ora

non sei né soggetto né oggetto

né lingua usuale né gergo

né quiete né movimento

neppure il né che negava

e che per quanto s’affondino

gli occhi miei dentro la sua cruna

mai ti nega abbastanza.

 


E così sia: ma io

credo con altrettanta

forza in tutto il mio nulla,

perciò non ti ho perduto

o, più ti perdo e più ti perdi,

più mi sei simile, più m'avvicini. 

 

 

 

Sarò possibilista dal punto di vista metrico. Il primo verso potrebbe essere un endecasillabo, se usiamo la dialefe. Il secondo verso è un decasillabo. Il terzo verso è un doppio settenario, sempre se consideriamo la dialefe. Il quarto verso è un endecasillabo, sempre con dialefe. Il quinto verso è un settenario. Nei primi cinque versi di Zanzotto, in questi due primi periodi, mi sembra che le parole debbano essere soppesate, ponderate. Nessuna parola è di troppo in questa lirica e ogni parola è al posto giusto: ciò denota una precisione chirurgica nella nominazione. Se non utilizziamo la dialefe invece gli endecasillabi sono solo due (uno è l’ultimo verso della poesia). Inizialmente si noti l’iperbato. Il romorio è un termine desueto per indicare un rumore persistente, incessante. Solo l’acqua sporca e la fabbrica scalfiscono il silenzio. Nelle prime due frasi il grande poeta si rifà metricamente alla tradizione, alternando due endecasillabi (uno solo se non contiamo con la dialefe) a un doppio settenario e a due settenari. Successivamente ci sono diversi ottonari, diversi novenari, diversi settenari e svariati enjambements. I versi sono liberi, ma c’è il rispetto delle regole metriche. In questa lirica non abbiamo ancora lo Zanzotto de “Il galateo in bosco”, che con il suo ipersonetto rinnova la tradizione del sonetto “classico”. Qui Zanzotto non tratta del petèl (della lingua dei lattanti) né della “psicanalessi” né utilizza il suo plurilinguismo. Qui Zanzotto non gioca con il linguaggio, non è in bilico tra balbettio e sproloquio, né tra afasia e amnesia. Qui non c’è ancora lo Zanzotto che tratta degli ossari del Montello. Qui ancora non c’è l’io “male sbozzolato” e neanche “Io – in tremiti continui, – io – disperso e presente”. Il poeta mette da parte psicologismi e nevrosi, insomma “l’esistere psichicamente”. Zanzotto qui doveva ancora diventare il poeta sperimentale, quello che si riferiva al significante (a Saussure, a Lacan), assolutamente non legato alla neoavanguardia, ma che però aveva fatto la sua gita a Chiasso (come voleva Arbasino) e aveva cultura non provinciale ma europea. Il poeta doveva ancora utilizzare il dialetto. Zanzotto doveva ancora diventare il poeta che voleva salvaguardare a tutti i costi il suo amato Veneto dall’industrializzazione selvaggia, dallo scempio edilizio, dall’inquinamento. C’è un fatto personale da un certo punto di vista che mi lega alla grande poesia di Zanzotto: avevo amici in giovinezza a Pieve di Soligo, Conegliano, Vittorio Veneto. Sono stato in quei posti. I miei amici mi raccontavano di questo loro grande poeta, di questo loro grande concittadino, schivo e riservato. Ho conosciuto anche io quei luoghi. Sia ben inteso che il Veneto che ho visto io è più quello cantato da Zanzotto che quello narrato a tinte fosche da Carlotto (con tutto il rispetto e la stima per quest’ultimo). A ogni modo questo componimento è tratto da “IX ecloghe”, raccolta scritta tra il 1957 e il 1960. Zanzotto doveva far ancora sua la frase di Hölderlin “siamo segni senza significato”, anche se leggendo attentamente questi versi memorabili c’erano già tutte le premesse, ma è altrettanto vero che qui il poeta è alla spasmodica ricerca di un’autentica significazione, che però naturalmente non trova, dato che di fronte alla morte ogni parola di conforto, di consolazione è vana. In questa lirica c’è un lutto e il suo tentativo di rielaborare il lutto. Ora anche il poeta è morto da anni, ma questo capolavoro è ancora attuale, ci parla ancora a noi e di noi perché la grande poesia è eterna. In fondo suo padre è morto, ma è stato eternato, immortalato. Zanzotto è morto, ma ha avuto gloria postuma e noi ancora lo leggiamo. La grande poesia quindi rende immortali. Qui c’è solo un brevissimo cenno descrittivo al contesto, all’ambiente nel terzo, quarto, quinto verso. Non c’è nessun bozzetto paesaggistico e non c’è nessuna descrizione minuziosa, ma vengono riportate alcune frasi degli amici del padre (a cui questa poesia è dedicata). Il verso più terribile è questo: “neppure il né che negava”. Il padre ormai se pensiamo al mondo dei viventi e al mondo del visibile non è più nulla. Però anche il poeta è allo stesso tempo nulla perché vive nella precarietà esistenziale e come tutti è prossimo alla fine. Il poeta cerca uno spiraglio, una fessura (la cruna), ma invano. Non è con la percezione usuale e nemmeno con la ragione che si trova un pertugio di speranza, ma come vedremo più tardi solo con un atto di fede nella propria umanità e nella propria interiorità (ricordando cosa diceva Sant’Agostino sul rapporto tra interiorità e verità). È impossibile per la ragione umana pensare a qualcuno che esiste ma che è non è più niente né nessuno, né oggetto né soggetto.

 

undefined

 

 

 

Mentre nella parte centrale era il “né”, ripetuto più volte (queste iterazioni determinano il ritmo di questi versi) a condizionare ogni periodo e a negare la presenza del padre su questa Terra, è decisiva negli ultimi sei versi la particella avversaria “ma”, che determina tutto. Nella parte centrale c’era quell’avverbio “vitalmente” poi seguito da “ho pensato” che era una sorta di eufemismo, un modo elegante e meno brusco per non usare le parole “morte”, “morto”: Zanzotto infatti non utilizza concetti banali come “passato a miglior vita”, eppure non utilizza nemmeno termini mortuari né necrofili. Se nei primi versi sembrerebbe che di un morto resti soltanto l’averlo conosciuto di persona, nell’ultima parte c’è l’affermazione della memoria, della vita, di una nuova vita, anche se mai esplicitata pienamente. Lo testimonia l’espressione “E così sia”, ripresa dalle formule liturgiche, che dimostra il fatto che questa splendida poesia è una preghiera laica. Zanzotto credeva nel divino. Non fu casuale a mio modesto avviso se criticò positivamente e promosse la poesia di David Maria Turoldo. Ritornando a questo componimento, a onor del vero, sono importanti tre parole che condizionano il discorso: “ma io credo”. Zanzotto fa un atto di fede, quello di credere con tutta la sua forza in tutto il suo nulla (dato che ogni uomo è poca cosa, essendo carnale e mortale). Altrettanto importante è la convinzione che ne consegue: “perciò non ti ho perduto” perché le parole, i gesti dei morti restano nella memoria dei vivi e prepotentemente ritornano quando meno uno se lo aspetta. A mio avviso in questo modo anche non essere più il né che nega significa ancora una volta che la doppia negazione afferma. Eppure la morte è terribile perché è fortissimo il contrasto tra assenza e presenza. L’autore ebbe a dichiarare che la poesia è “un elogio della vita”, però -aggiungo io- la morte nullifica non solo ogni poter essere ma ogni nostra dicibilità. La morte è l’evento clou, il trauma finale. Se esiste il trauma della nascita, quello della separazione dalla madre, esiste anche il trauma della morte, quello della separazione dai propri cari dal morente e del morente dai propri cari. Comunque è da notare è che il grande poeta quando tratta della morte lo fa con chiarezza memorabile, evitando citazioni, astrazioni, raffinatezze. Zanzotto di fronte alla morte non è mai troppo sentimentale né distaccato, ma sempre coinvolto e partecipe. Non è mai troppo semplice né troppo complesso. Sa trovare la giusta distanza e la giusta dimensione. Sa trovare le parole esatte. Si veda ad esempio “Idioma”, raccolta scritta tra il 1975 e il 1986, in cui compaiono una poesia dedicata a Maria Fresu, vittima della strage di Bologna (di cui non restò più niente, morta insieme alla figlia), e il Tato padovano. In quest’ultimo componimento l’autore scrive dell’anima immortale. In fondo questa concezione religiosa, ma prima di tutto metafisica, era già presente in questo componimento. Non è un caso che in ogni civiltà per fondare un’etica o anche solo una nuova cultura ci sono sempre stati due punti insostituibili: l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio o delle divinità. È stato così per gli antichi greci. È stato così per gli illuministi, che credevano nella ragione in modo quasi totalizzante, ma erano anche deisti (credevano cioè in una sorta di panteismo). In fondo non è necessario e non l’ho fatta apposta una parafrasi di questo testo. Basta ricordarsi del titolo: “Così siamo”. Per ognuno, indistintamente, suona la campana, citando Hemingway.

Analisi e commento di "Ha un bel dire con tutti i suoi platani Firenze" di Mario Luzi

Sep 082022

 

 undefined

Ha un bel dire con tutti i suoi platani Firenze.
Non è uguale la musica, non può esserlo.
Ma uguale a che, la stessa di quando -
discetta perdutamente il senso
non trovando fondale a quel risucchio
di mancamento o rimorso.
Né so cosa m'intenerisce di lei,
se davvero la spina che le è infissa della mia vita
o quell'aria di congedo in lei da me, in me da lei. O il niente
di questo.

 


Mario Luzi è stato uno dei protagonisti della poesia italiana del Novecento. Attraversò quasi tutto il secolo breve. É stato anche senatore a vita. Fu candidato per anni al Nobel della letteratura. Consiglio a tutti di leggere le sue opere e magari anche di leggere  "Saggio su Mario Luzi" di Anna Panicali. Luzi fu uno dei protagonisti al Caffè delle Giubbe Rosse. Fu professore universitario e saggista oltre che grande poeta. Apparentemente in questa lirica sembra che Luzi vada a capo quando vuole senza rispettare alcuna regola. In realtà si tratta di versi liberi che rispecchiano i canoni della metrica italiana, tutti con i giusti accenti tonici, anche se senza rime e con alcuni enjambements. Luzi utilizza alcune volte la sinalefe perché questa è la consuetudine tra poeti, mentre la dialefe è l'eccezione. La sinalefe infatti è più eufonica, mentre la dialefe è più disarmonica e più entropica. Ci sono anche degli endecasillabi canonici in questo testo. Non vi traggano in inganno alcuni versi più lunghi del componimento perché sono anch'essi metricamente ineccepibili. Mario Luzi nel corso di tutta la sua carriera poetica non è mai andato a capo a caso, come molti versoliberisti (forse a torto, più probabilmente a ragione). Il primo verso ad esempio è un doppio settenario con sinalefe. Il terzultimo verso è un doppio novenario, scandendo normalmente le sillabe. Il penultimo verso è un doppio ottonario con sinalefe. Certamente la sua prima produzione poetica era metricamente più rigorosa di quella in età matura e in vecchiaia, ma il poeta ha dimostrato sempre grande prolificità, capacità di rinnovarsi, una scrittura impeccabile. In questa poesia esprime sia un'idea che un sentimento. Non si perde nel dettaglio del dettaglio. È una lirica che va presa nella sua gestalt globale. È una poesia breve, ma solo apparentemente semplice.
"Ha un bel dire con tutti i suoi platani Firenze" è una personificazione. Firenze sembra parlare con i suoi platani. Luzi non cita la Firenze celebrata da cartolina, dei grandi capolavori artistici. Non rievoca neppure Firenze come grande città di marmo, come lui stesso ebbe modo di definirla. I platani appartengono al campo semantico della natura ma anche a quello associativo della familiarità (leggi anche della consuetudine).
Luzi è un grande poeta ermetico, che usa sapientemente le analogie e le metafore.
In questo senso è anche simbolista. Per lui fare poesia significa ricercare "corrispondenze", come nella celebre lirica di Baudelaire, e allora dopo aver trovato corrispondenze tra i propri stati d'animo e i paesaggi ogni città diventa un luogo dell'anima, un posto interiore, una "foresta di simboli", sempre per riprendere il poeta maledetto francese. Ma cosa significa "Non è uguale la musica, non può esserlo"? Significa che le corrispondenze cambiano continuamente, incessantemente perché cambia continuamente la città e cambiano sempre i moti dell'animo dell'autore. "Discetta" significa esamina. "Non trovando fondale a quel risucchio/ di mancamento o rimorso" significa che se la parola per Luzi deve volare verso il vertice della significazione (lo zenit) la memoria invece è un abisso, non ha fondo, eppure è un grande vortice, un grande gorgo. Ma di cosa? Di assenza (mancamento), perché mancano visi, volti, luoghi di un tempo, e di rimorso, ovvero di sensi di colpa per gli errori commessi. Si noti anche tutta l'umiltà e il basso profilo del grande poeta fiorentino che naturalmente non attribuisce niente di negativo a Firenze (non parla di nessun borgo selvaggio), ma paragona la propria vita a una spina infissa dentro la sua città. Ma cosa significa "quell'aria di congedo in lei da me, in me da lei"? Significa probabilmente che la Firenze di quei giorni non sarà più la stessa e forse non avrà più tutti i suoi bei platani, ma anche qui Luzi pensa alla sua dipartita. Oppure una terza opzione: Luzi chiude con "...o il niente di/ questo", con un versicolo ungarettiano di una sola parola, una clausola dal tono dimesso, che però significa che il poeta non è certo di niente, non sa davvero il senso della sua tenerezza, sa solo dell'affetto profondo che lo lega a quei luoghi senza saperne i motivi. Firenze per Luzi non è un posto come un altro. Leggendo questi versi sorgono in me alcuni interrogativi. Quanti anni bisogna vivere una città per conoscerla veramente? Quante strade bisogna conoscere? Quanti luoghi bisogna aver frequentato? Quante persone bisogna aver incontrato? Quante storie bisogna aver avuto? E se questo rapporto fosse una catena indissolubile? Cosa è che ci lega veramente a questo posto? Di cosa sentiremo la mancanza? Non ci sono risposte, ma solo impressioni e un vago sentore di essere abitudinari o recidivi. Approssimativamente posso solo dire che ogni paese ha il suo cielo e ogni cittadino ha un angolo di cielo, a cui spesso rimane fedele negli anni. Ma questa poesia mi dice altre cose, mi suggerisce altre cose. Quando descriviamo un paesaggio in realtà descriviamo il nostro punto di vista. Quando parliamo del mondo in realtà parliamo della nostra visione del mondo. L’umanità è una moltitudine incredibile di punti di vista, di visioni del mondo. Ognuno è una sintesi di interno ed esterno, di idee e cose, di soggettività e oggettività. Forse siamo fatti male, ma è così ad onor del vero. Questo è ciò che mi fa ricordare questa poesia. In definitiva Firenze sembra voler dire tante cose e sembra voler significare molte cose al grande poeta. Sempre Mario Luzi in una sua intervista dichiarava riguardo alla città: "La raffigurazione, naturalmente, è reale e simbolica nello stesso tempo e vuole denunciare che la città umana senza idea vitale si sfascia". Non a caso a conti fatti è difficile, anzi è quasi impossibile trovare il senso compiuto di una città, anche se è cara e familiare.

Alcune poesie di Maria Turtura...

Aug 132022

undefined

 

 

 

Maria Turtura (1930-1972) fu un medico bolognese, sorella della sindacalista Donatella, prima donna nel 1980 a far parte della segreteria generale della Cgil. La poetessa si suicidò dopo essere stata lasciata dal marito. Pubblicò "Qualcosa deve venire" (Rebellato, 1966) e "I cancelli della mattina" (Argalia, 1970). Unico critico letterario ad averla considerata è stato il grande Franco Fortini in "Poeti del Novecento", che ha definito la sua poesia "significativa" e di lei ha scritto che era una voce "severa e profonda". È stata una mia cugina di secondo grado, ma è morta l'anno che sono nato. Ecco alcune sue poesie:

 

 

Caro dottore che mi curi i nervi
voglio dirti in questi giorni com'è andata
affinché tu ti possa regolare
per quello che mi serve in questi giorni:
ho dei sintomi al cuore
nella parte che nessuno vede:
sapessi che disastro, dottore!
Il mattino lavoro
il pomeriggio lavoro
e di sera ho la netta sensazione
di essere un guscio vuoto in un cartoccio.
Ho altri mali che non dico
perché la lista è molto piena
e non posso far tardi soprattutto
ho quel mal di cuore
nella parte che nessuno vede:
ti consiglio di ascoltarmi, dottore.

 


Questi occhi che hai
non dimenticati
con dentro un'ombra
di mare del Nord tempestoso
che cosa guardano stasera
nel tuo freddo paese, amico,
mentre io mi ricordo
di una luce sul lago e di una
esile speranza, così esile
come solo può essere
un amore al principio.

 

 


Alberi di neve che non vedi
respiro corto della terra e voci
da luoghi ignorati
mentre suonano passi sul tuo capo
e la notte si prepara anche per gli altri.
Io non trovo più Dio, bambino cieco,
nel celeste sospeso dei tuoi occhi
nelle cose che indovini con parole ardite:
"Questo luogo è chiuso da mura".
Io so che fuori non sono centauri
né terre di lunga corsa.
Altre mura
chiudono altri luoghi.
Ogni recluso ha un orologio
che batte sbagliato i quarti.
Questo è tutto, e qualcosa
deve venire
a distruggere i muri
e all'ora giusta confondere i luoghi,
a cancellare gli ordini di Dio
perché valga la pena di vedere.

 

 


(Di lei che ama un mio amico sposato
e ha una malattia difficile da guarire,
di lei in ogni caso
padrona di sé stessa):
cara amica, io ti ho visto
su un ponte di primavera
tu eri là guardando in avanti
con uno sguardo che pareva azzurro,
dicendo parole di quieta meraviglia
e muovendo le tue esili mani.

 

 

 


La sua bontà capovolta
il rifiuto delle cose assolute
per un mondo di treni
e di letti da rifare,
il suo vestito, ai piedi
di uno da non confondere con altri.
Sempre lei, che di mattina
si prepara con cura
a un altro giorno di silenzio.

 

 

 

Si oscura l'aria sul tuo prato, Anna,
e con lenti giri
cala il falco.
Una notte di pioggia è in cammino
per accordare il tuo respiro al calmo
frusciare dell'acqua.

 

 


Stasera un cielo di inchiostro veleggiava sulle case
e la città muta guardava dalle finestre di maggio.
Un caldo vento mi spingeva innanzi
traendo il suono sospeso di un telaio.
Io venni alla tua casa
per un discorso che mi urgeva
nato da quelle immagini.
Tu sorridevi alla porta.

 

 

Alle undici Gesù è risorto.
Sulla Certosa il sole era alto.
Poiché non ho pregato: - Prendi per mano mio padre
e portalo con te a fare un giro nel cielo -
il babbo è rimasto dietro la sua pietra
e Gesù se n'è andato per conto suo.
Prima che scomparisse gli ho gridato:
- Fai morire quelli che uccidono i Viet! -

 

 


La luce è calata di una luce
e ora pare sera
ma l'uomo dai capelli bianchi
alto sullo sfondo dei vetri
deve avere in sua mano
il segreto finire del giorno.

 

 


L'ora di notte mi porta
alla piazza delle Sette Chiese
dai silenziosi cipressi.
Un inverno di piccoli passi
si irraggia verso il punto che tardi
chiamai la casa, luogo che nulla
dice agli altri, breve
inverno stellare, dove l'anima
tende a riavvolgersi.

 

 

 

Per aver visto il suo nome
su tre cose che gli altri
dicono belle, io vorrei
bere pazzamente e battermi
con la mia sfortuna fino a perdere,
fino a far sangue,
tanto mi sottrasse la donna
che si mise nella sua ombra
ed era in niente
migliore di me.

 

 


Si sono accese insieme nell'acqua
due luci; il giardino ha rumori;
con veste bianca e chino il capo
due donne dall'infermeria
mentre geme un autunno
di muri e di alberi
inseguiti dal vento.

 


Se avessi avuto un cappotto
con un colletto di pelliccia
forse non mi avresti lasciato.
Se un fischio arguto
avesse accompagnato i miei discorsi
ti saresti così confuso
da ritenermi importante.
Invece non sapevo fischiare
e avendo mal di gola
parlavo piano, per via di quel colletto
di pelliccia che non possedevo.

 

 

 


Quando il bambino
avrà finito di battere sul suo tamburo
comincerà la danza
delle zanzare,
suonerà qualcuno alla porta
o mi sentirò così triste
di qualcosa che ora non conosco.

 

 


Nel silenzio della campagna
a un tratto
chiamava una voce.
Veniva da una siepe oscura
presso gli alberi di confine,
mi gridava di ritornare.
Io cammino così
sotto le nuvole bianche
per raggiungere un sogno
di mezzogiorno.

 

 

Non disturbate questa
bellezza degli amanti giovani
che guardano solo dentro i loro occhi
e vivono come i rami degli alberi
strettamente confusi
alteri e senza presagi
della terra che tiene le loro radici.

 

 

Come le lettere bianche
sulla tenda azzurra del macellaio
come quest'aria di paese
così confidenziale e nuova
i miei pensieri.

 

 

 

Noi ci amammo poveramente.
Solo una luce di fanali
una tiepida pioggia
nella città di notte, e poco altro
ci diedero per amarci. Ma noi fummo
per il distacco e il ricordo
per la gioia di ritrovarci
sempre grati a noi stessi
di non esserci persi
nelle strade e nei porti
che mai vedemmo.

 

 

 

 

 

 

Atom

Powered by Nibbleblog per Letteratour.it