Jun 192022

Questo capolavoro della letteratura inglese fu pubblicato nel 1954, grazie all’interessamento di T. S. Eliot. Il successo editoriale fu gigantesco: 14 milioni di copie vendute in Inghilterra. Quest’opera ha avuto diverse trasposizioni cinematografiche. Il primo film sul “Signore delle mosche” è del 1963 ad opera del regista Peter Brook.
Il libro non è altro che una favola moderna. Un gruppo di ragazzi sopravvive a un incidente aereo e finisce su un’isola disabitata. Il cuore dell’isola è costituito da una macchia fitta, ricca di frutti e maiali. C’è anche una montagna da cui possono scrutare l’orizzonte e guardare se passano le navi. I ragazzi hanno solo un barlume di speranza che possano portarli in salvo gli adulti perché durante il conflitto mondiale è esplosa la bomba atomica. Gli adolescenti devono adattarsi alla vita dell’isola: devono costruire rifugi, andare a caccia, fare delle leggi, eleggere un capo, tenere vivo il fuoco. Naturalmente dovranno fare tutto da soli perché non c’è la supervisione di nessun adulto. inizialmente viene eletto capo Ralph, il cui tipo di organizzazione simboleggia un’ideale di società democratica, in cui ognuno lavora per il benessere collettivo. Il capo ed i consiglieri possiedono la conchiglia, che rappresenta la conoscenza e la saggezza. Successivamente però si impone la società di Jack, basata sull’obbedienza e la subordinazione: una vera e propria dittatura. I due gruppi si scontrano e nella lotta muoiono due bambini: Simone e Piggy. Il microcosmo isolato dal mondo reale ed occasione per una rinascita dell’umanità diviene quindi un’ulteriore conferma della malvagità del genere umano: i bambini sono regrediti dalla civiltà alla barbarie.
A questo romanzo naturalmente sono state date le più svariate interpretazioni. C’è chi ha ritenuto che fosse un’allegoria religiosa, a causa del titolo. Infatti “Signore delle mosche” è uno dei tanti appellativi del diavolo. C’è chi invece ha posto l’accento sulla lotta tra il bene ed il male, cioè tra Ralph e Jack. Altri hanno visto nel romanzo il simbolo di quel che era accaduto nella seconda guerra mondiale ed hanno intuito in Jack il carisma e la forza di persuasione di Hitler.
Certamente da questo libro si possono comprendere tre concetti basilari su cui si fondano tutte le opere di Golding: 1) l'autore scrisse in un periodo della letteratura inglese, chiamato epoca tra il realismo e il modernismo. E lo scrittore riuscì ad essere sia REALISTA (perchè anche se questa storia è completamente inventata potrebbe sempre accadere) che MODERNISTA (perché fece largo uso di metafore, simboli ed allegorie) 2) il suo pessimismo riguardo la natura umana, dovuto al fatto che vide direttamente gli orrori della seconda guerra mondiale, perché fu ufficiale della marina britannica 3) la sua totale sfiducia nel sistema scolastico inglese. Questo libro infatti può essere anche inteso come una critica distruttiva nei confronti degli agenti di socializzazione dell’Inghilterra di quel tempo. I ragazzi del “Signore delle mosche” sono già andati a scuola, sono già stati deformati dalla scuola britannica. Sono già stati temprati dalla severa disciplina e dalle norme ottuse di quel periodo. Golding non a caso fu maestro e subì l’influsso della pedagogia steineriana. Steiner fu il fondatore dell’antroposofia, che potremmo definire una scienza dello spirito. Come educatore il filosofo Steiner fu straordinario. La sua pedagogia non si basa su nessuna imposizione e su nessuna ricetta. Lascia spazio alla creatività dell’insegnante, che a seconda delle sue esigenze e delle esigenze degli allievi può stabilire quali sono i modi più idonei di apprendimento. La pedagogia steineriana sostituì la disciplina ferrea con il calore umano tra allievo ed insegnante, dato che secondo il filosofo non bisognava educare solo la testa del bambino, ma anche l’intero corpo. Chiaramente Golding avendo in mente Steiner non poteva che essere contrarissimo al modo di insegnare della maggior parte degli insegnanti inglesi, così freddi ed impostati.
Jun 182022
(Nella foto Davide Morelli con l'amico di infanzia Emanuele Morelli in un selfie a Marina di Cecina. Il brufolo sulla fronte ora non c'è più. Ah ah ah!!!)
Alla voce "recensione " sulla "Treccani" si trova scritto: "1. (filol.) [fase del lavoro di edizione critica consistente nella scelta della lezione ritenuta migliore tra le varianti messe in luce dalla collazione: r. chiusa, aperta] ≈ recensio. 2. (estens.) [esame critico, in forma di articolo, di un'opera di recente pubblicazione e, anche, articolo che commenta spettacoli, film, mostre e sim.: fare, scrivere una r. favorevole, severa] ≈ ‖ articolo, commento, critica, giudizio, presentazione, scheda.". Una recensione quindi è una critica, un commento, un giudizio critico. Ma chi può scriverla? Tutti o solo gli addetti ai lavori? Tutti o solo chi se ne intende? E chi se ne intende?
Il poeta e professore Valerio Magrelli (a scanso di equivoci molto bravo come poeta) in una intervista a Fabio Fazio sosteneva (si spera in modo provocatorio) riguardo a chi poteva commentare un libro: "Ecco, io proporrei il sistema delle ore di lettura, come i piloti d’aereo. Quando si può pilotare un jumbo? Quando, per ricorrere a un’iperbole, si sono fatte 8000 ore di volo. Quando puoi scrivere il tuo parere su un libro? Quando hai letto 8000 libri di teoria, di narrativa, di poesia; altrimenti non puoi parlare. Io non voglio sapere i pareri dei lettori, non mi interessano: deve essere vietato al lettore di parlare. Ma parto dalla grande idea di Borges per cui io vado molto più fiero del mio lavoro di lettore che di quello di scrittore. Essere lettori è una cosa importantissima". Ma forse ci sono anche persone che sanno pilotare un aereo senza aver fatto 8000 ore di volo. Le capacità critiche sono date solamente dal numero di libri letti? Non è questa di Magrelli un'idea classista della letteratura? Non è un modo di fare e di dire respingente o evitante? Giustamente a mio modesto o immodesto avviso il professore e poeta Dante Maffia, candidato più volte al Nobel della letteratura, scrive sul sito letterario La presenza di Érato: "Evidentemente lui può, e anche Fazio può, perché gli ottomila volumi li hanno letti. Mi domando: li hanno digeriti? Perché i libri non basta leggerli, bisogna capirli e questo può avvenire se si riesce a stabilire con loro una certa complicità, se si riesce a entrare nelle pagine senza pregiudizi e senza spocchia, ascoltando gli autori senza sovrapporsi, senza pretendere di farli passare per la cruna del proprio ago per renderli un’appendice di se stessi. E poi… se uno di libri ne ha letto settemila e ottocento? Ma che razza di ragionamenti sono questi? Magrelli mi pare che abbia visitato in Russia la biblioteca di Boris Pasternak che raccoglie poche centinaia di volumi, quelli amati, letti (e digeriti). Un’altra delle biblioteche che ha dato cibo a Singer è di circa trecento volumi, tanto che, quando gli fu assegnato il Premio Nobel, i giornalisti, andati a intervistarlo, gli domandarono più volte dove fosse il resto dei suoi libri". Aggiungo io che la biblioteca di Petrarca ad Arquà fosse di circa 500 volumi e quella di Montaigne nella sua torre di 1000. Io di libri ne ho letti solo 3000-3500. Nella mia biblioteca attuale ce ne sono circa 1200-1300. 900 libri li ho buttati via per il trasloco. Erano troppo malandati. La biblioteca comunale non voleva i libri sottolineati. Altri 150 li ho donati alla biblioteca comunale. Molti libri letti li ho presi a prestito dalla biblioteca comunale. Non li ho comprati. Io perciò secondo Magrelli non avrei voce in capitolo. Ma "esisto anche io, malgrado le apparenze" scriveva il cantautore e poeta livornese Piero Ciampi!

(Nella foto Il poeta Valerio Magrelli. Da Wikipedia)
Veniamo a me. Ho recensito diversi libri in questi ultimi anni. Ho recensito libri di grandi autori, di autori affermati e di emergenti. A volte mi chiedo: ma se qualcuno mi facesse il terzo grado su tutte le mie recensioni cosa saprei dire? In questo caso non si tratta di problemi di apprendimento, ma di mantenere intatte le nozioni. Potrei trovarmi in difficoltà. Qualcuno potrebbe obiettare: caro Davide, scusa non richiesta accusa manifesta e poi chiedermi perché metto le mani avanti. Sarebbe impossibile per me a ogni modo ricordarmi con dovizia di particolare tutti i libri recensiti. Forse è un'impresa impossibile per ogni recensore che si rispetti. Comunque chiedo venia. Io scrivo una recensione e poi vado oltre, passo oltre. Parlando in generale, la memoria a breve termine ha i suoi limiti. Come dimostrò lo psicologo Miller nel 1956 con il suo saggio breve "Il magico numero sette, più o meno due" tutti riusciamo a memorizzare dai 5 ai 9 (di solito 7) elementi (che in psicologia si chiamano item). L'ippocampo è la parte del nostro cervello, a forma di cavalluccio marino, adibita al passaggio dei dati dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Le persone possono avere problemi di apprendimento quando l'ippocampo è danneggiato per un trauma cranico dopo un incidente stradale per esempio o se hanno lesioni microcorticali ad esso a causa di anni di grave alcolismo o perché sono tossicodipendenti. Si parla in questi casi di amnesia anterograda oppure di psicosi di Korsakoff. Uno dei problemi maggiori per tutti è l'oblio, se non si ripassa continuamente i libri letti. Un altro difetto della memoria è l'interferenza, ovvero non sempre le nozioni vengono interiorizzate, integrate tra di loro e quindi si disturbano. Inoltre libro scaccia libro talvolta, ovvero per acquisire nuove nozioni si dimenticano quelle precedenti. E allora per evitare ciò bisognerebbe rimanere forse alle quattro cose basilari delle scuole elementari? Evidentemente no perché non ci sarebbe progresso. Comunque non preoccupatevi nessuno finisce "out of memory" perché, se è vero che la memoria a breve termine ha dei limiti per tutti, quella a lungo termine è un pozzo senza fondo. E poi viene da chiedersi se sia meglio acquisire nuove conoscenze o approfondire le conoscenze già fatte nostre. Nel dubbio spesso finiamo per fossilizzarci sulle poche cose che sappiamo. A ogni modo talvolta le tracce mnestiche scompaiono. Ma non tutto è perduto! Talvolta basta riprendere da dove avevamo lasciato. Cosa sarei in grado di ricordare e di rispondere se qualcuno mi domandasse delle mie recensioni? Di poche mi ricordo i particolarial 100%. . Ho in mente vagamente il senso del libro. Dovrei rileggere la recensione che ho scritto e poi sarei in grado di spiegare cosa intendevo dire. Non recensisco tutti i libri che leggo. Sarebbe un'impresa impossibile. Recensire? Di solito rispondo come Bartleby: "I would prefer not to". Di solito preferisco fare considerazioni di carattere generale magari citando in qua e in là alcuni libri letti. Bisognerebbe sapere di cosa si scrive. Bisognerebbe scrivere di ciò che sappiamo. In realtà le nostre conoscenze non sono stabili; la nostra mente è un flusso inarrestabile. I nostri pensieri cambiano. Il nostro sapere lo stesso. La nostra in(cultura) vera o fasulla è dinamica. A volte mi immagino che esistano gli avvocati del diavolo del buon recensore o presunto tale. Mi immagino una mia vecchia insegnante di italiano che mi "inchioda" perennemente ai primi due temi del primo quadrimestre del primo anno in cui mi dava 4 e mezzo. Immagino che sia la mia inquisitrice e che mi dica che la mia scrittura è tempo perso. Immagino che mi dica che sono un incapace, un inconcludente e quello che non ho fatto nella vita è l'ennesimo risultato di come andavo male alle superiori, senza considerare la mia svogliatezza e la mia crisi interiore di quegli anni. Immagino che mi dica; tutte scuse Morelli! Immagino che mi dica: tu per me sarai sempre quel quattordicenne che mi guardava e a stento tratteneva il pianto per quelle gravi insufficienze a causa di quei temi così puerili. Non si può allora migliorare? Comunque non vorrei fare lo psicodramma di Moreno. E ad ogni modo perché dovrebbe esserci tanto accanimento nei confronti di un recensore tra i tanti? Mica si parla di beatificazione! Io recensisco talvolta libri hic et nunc. Questo é quanto. È chiaro che in quel momento conosco ciò di cui sto scrivendo. Cerco di farlo nel migliore dei modi, non tralasciando niente al caso. Poi leggo molto e diverse cose me le dimentico. Nessuno, arrivato a 50 anni, ha una memoria di ferro. Quindi potrei avere delle difficoltà se qualcuno valutasse ciò che so in questo momento di tutte le mie recensioni. Abbiate pietà: sono un semplice essere umano e non un automa perfetto. Poi non prendiamoci in giro: gli insegnanti delle superiori o i professori universitari ripassano la lezione e studiano il giorno prima di spiegare in classe o in aula. Nessuno, come si suol dire in Toscana, ha la scienza infusa, in questo caso la letteratura infusa. Se i professori venissero interrogati a tradimento, di sorpresa, potrebbero essere messi in difficoltà anche loro. Non solo ma per una recensione per la rivista letteraria Atelier mi ci vuole diverse ore a scriverla. Di solito scrivo 100, 150, 200 parole di getto. Quindi spengo il tablet e mi metto a pensare cosa dovrei ancora scrivere. Penso, aspetto un'altra idea. Quando finisco mi metto a limare. Pensavo di essere un deficiente a metterci così tanto tempo. Invece poi ho sentito un'intervista alla RAI del critico letterario Walter Pedullà, in cui diceva che ogni recensione gli costava ore di lavoro e fatica. Ritornando alla questione della memoria, perché comunque una nozione resti nella mente, per giungere al passaggio dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine, bisogna reiterarla, ovvero ripeterla mentalmente. Ci sono persone che studiano a voce alta, cioè ogni giorno dopo aver letto attentamente, provano a richiamare dalla memoria i nuovi input culturali. Altri invece studiano insieme a un compagno/a per ripassare e si fanno le domande a vicenda per sapere cosa si ricordano. Ma tutto questo può essere fatica sprecata se uno studente non sa su cosa vertono le domande degli insegnanti. Deve quindi conoscere cosa vuole sapere l'insegnante. La memoria può fare brutti tiri a chiunque, a meno che uno non abbia una memoria fotografica (ma si contano sulle dita di una mano). Decenni fa dicevano di questi individui così portati a ricordare che avevano una memoria eidetica. Va ricordato che per Husserl l'intuizione eidetica permette agli uomini di percepire una melodia e non solo delle singole note. Comunque decenni fa tutto era eidetico perché Husserl era di moda! Certo i trucchi per risolvere gli inconvenienti della memoria ci sono. Esiste la mnemotecnica. Molto semplicemente Pietro Citati, normalista e grande critico letterario, dichiarò che ogni volta che doveva dare un'intervista si preparava sempre ripassando il suo saggio su cui gli avrebbero fatto domande. Si preparava quindi come fosse un esame. A volte parlando in pubblico può sopraggiungere il timor panico e allora l'ansia può obnubilare la mente. In questi casi uno, sopraffatto dall'ansia, può richiamare nozioni alla rinfusa oppure può interrompersi il collegamento tra memoria e linguaggio, finendo per essere preda di un blackout quasi totale, ovvero la classica scena muta. Al contrario ci sono anche memorie prodigiose. Ma spesso un'ottima memoria è frutto di esercizio continuo, a meno che uno non soffra di amnesia. La verità è che certe cose le sapevo quando ho scritto la recensione. La questione di fondo è se la recensione è copiata o meno. Ci sono programmi informatici ad hoc per verificare se è stata copiata. Dire o scrivere che tizio ha copiato è diffamatorio, se non si mostra dove ha copiato, portando le prove oggettive. Importante è che la recensione sia originale. Intendiamoci comunque: recensire non mi pesa, però non date tutto per scontato perché è un impegno. Potrei anche non farlo. Quindi non diamo niente per scontato. Una recensione non è altro che una serie articolata di piccole opinioni. Non si può ricordare tutto. L'importante è essere onesti intellettualmente. Non bisogna mentire. Io per esempio scrivo solo di libri che mi sono piaciuti. Evito sempre le stroncature. Inoltre quali sono i pericoli da evitare? Per la studiosa e poetessa Carmen Gallo un recensore non deve essere un "autore mascherato". Per altri è necessario evitare di recensirsi a vicenda, ovvero fare le recensioni incrociate: quello che la professoressa e poetessa Gilda Policastro chiama ironicamente un 69 critico. Ritornando a me, non posso ricordarmi per filo e per segno tutte le mie recensioni. In definitiva ogni tanto recensisco qualche libro e cerco di farlo con cognizione di causa. Non mi risulta che per recensire bisogna essere professori universitari di letteratura. È sufficiente essere dei lettori forti o quantomeno attento. Ben vengano i recensori dilettanti. Magari sono improvvisati, però sono più sinceri. A volte i critici letterari evitano guai, hanno delle limitazioni. Insomma sono sicuramente meno liberi dei recensori qualsiasi di cui il web è una fucina inesauribile. Ciò non va preso in modo negativo: significa che i libri destano ancora interesse, che possono fare tendenza. Una delle cose da evitare naturalmente è il "recensionismo compulsivo", termine nato da un video su Youtube di Roberto Mercadini, riguardante il delirio delle recensioni su Amazon Libri Perciò potrei affermare di non sparare sul recensore! E poi perché un recensore senza infamia e senza lode, senza arte né parte deve rendere a tutti i costi conto a voi? Non è un recensore qualsiasi la causa dei vostri problemi!
N.B: tra i miei libri letti ci sono circa 60/70 classici Bompiani e Meridiani Mondadori, acquistati e in buona parte presi a prestito. In ogni opera omnia ci sono decine di opere. Quindi il numero esatto dei libri letti a onor del vero sarebbe maggiore. La mia è solo una stima per difetto.
Jun 162022
Silvio D'Arzo con "Casa d'altri" fonde armoniosamente il minimalismo esistenziale (ovvero la noia, la povertà di stimoli, di relazioni sociali) e il minimalismo narrativo. Secondo molti critici di oggi e secondo molti esponenti della neoavanguardia si può scrivere anche di niente, senza una trama avvincente, addirittura senza una trama. È proprio questo un modo per mettere alla prova e vedere chi è un autentico narratore e chi no. D'Arzo ha superato brillantemente questo esame. Il racconto, definito perfetto da Montale e il più bel racconto italiano del Novecento da diversi critici letterari, si può riassumere tutto con queste parole: "Un'assurda vecchia: un assurdo prete: tutta un'assurda storia da un soldo". È un racconto di poche decine di pagine, scritto con grazia, leggerezza e maestria, che si legge tutto d'un fiato. D'Arzo non ha avuto il tempo, essendo morto di leucemia a soli 32 anni, di scrivere il romanzo della sua generazione come voleva e neppure di veder pubblicata da una importante casa editrice i suoi racconti. Lo scrittore ha creato il suo capolavoro "Casa d'altri" sul finire della sua vita, nei suoi ultimi mesi. D'Arzo era troppo versato nella letteratura inglese e scriveva in modo lineare, mentre la vita è complessa e contraddittoria: questo potranno obiettare coloro che hanno dimenticato il grande narratore emiliano e lo hanno relegato ai margini della letteratura italiana del Novecento. D'Arzo arriva al conquibus, arriva subito al dunque, non complica ulteriormente le cose già complicate di per sé, arriva come si suol dire al nervo delle cose, non si perde in preamboli, digressioni, astrazioni: questo possono affermare con buona ragione i suoi estimatori, infischiandosene dei canoni e della fortuna critica. Pavese, direttore dell'Einaudi, rifiutò di pubblicare "Casa d'altri", ma forse più che per motivi letterari e stilistici per ragioni prettamente esistenziali perché il tema del suicidio era un suo nervo scoperto, qualcosa che gli procurava angoscia, un vero fantasma della sua mente fin da tempi immemorabili ed insospettabili, come si può desumere leggendo il suo diario. Uno scrittore può prediligere la materia inanimata, gli altri o sé stesso. Ci sono incognite e incertezze per ognuna delle tre vie. L'importante è che, indipendentemente dalla sua scelta, si tratti di predilezioni e non di ossessioni, altrimenti uno diventa monotematico. Ma non ci sono solo queste tre dimensioni del reale. Ci sono anche lo spazio, il tempo, gli accadimenti del mondo. Tutte queste dimensioni interagiscono tra di loro. Tutto dipende dall'osservatore, dal sistema di riferimento come in fisica, ma anche dal termine di paragone. La scrittura infatti è sempre paragone, accostamento, nel caso più semplice similitudine. D'Arzo è esemplare nel trattare tutti i piani della realtà e ad intrecciarli in modo poetico ed enigmatico. Ma torniamo al suo capolavoro "Casa d'altri".
C'è chi ha a noia la vita perché ha vissuto troppo o troppo poco. Una vita noiosa è altamente stereotipata, ripetitiva, alienante. C'è la depressione endogena. C'è la depressione reattiva, causata da traumi ed eventi spiacevoli. Nel caso specifico alla donna protagonista del racconto mancano le occasioni, gli eventi, una vita accettabile. Ma c'è anche la noia che assale, la monotonia che non riesce a scalfire. Sembra una montagna insormontabile per Zelinda, vedova e lavandaia. Lo spleen di Baudelaire, l'assurdo di Camus, l'anello che non tiene e il male di vivere di Montale: i riferimenti gnoseologici e culturali possono essere molti per D`Arzo. Il peso di vivere per Zelinda si fa intollerabile. La vita si presenta a lei sempre nello stesso modo: la trafila di giorni sempre uguali, le stesse cose da fare, la solita routine. Ma è anche una vita di stenti, una vita fatta di fatica, "una vita da capra".
Scrive DArzo: "Con due si cerca meglio la verità". Nietzsche scriveva che uno solo ha sempre torto, ma con due inizia la verità. Di certo gli interrogativi incessanti di Zelinda sono un fardello troppo ingombrante e troppo peso per portarli da sola.
Non trova più ragion di essere. È disperata perché ha perso speranza. Ma nel racconto D'Arzo si sofferma più sugli interrogativi angoscianti, sul suo rovello interiore causato da essi, che sul vuoto esistenziale della donna. La domanda cruciale è se può finire prima la sua vita. Il prete non trova parole. Abbiamo due protagonisti: una vedova stanca di vivere, un prete di campagna e sullo sfondo Montelice, un paese in cui non accade mai niente ("sette case addossate..due strade, un cortile che chiamano piazza,uno stagno e un canale e montagna quanta ne vuoi. Che fanno qui a Montelice? vivono e basta e poi muoiono..qui non succede niente di niente…gli uomini al pascolo..le donne a far legna..in strada una vecchia o una capra o nemmeno quello..l’inverno dura mezzo anno. due mesi continui di pioggia, due tre mesi di neve-neve. non succede niente di niente solo che nevica e piove e la gente nelle stalle a guardare la pioggia e la neve come i muli e le capre.."). Da una parte Zelinda, ovvero la credente con il suo dubbio incessante, e dall'altra il prete, con la sua dottrina, ma anche le sue perplessità. È un dialogo tra due fedeli, tra due fedi. Da un lato l'interrogativo della donna, dall'altro il prete, per cui diventa una ossessione, un cruccio, un enigma la vita di Zelinda. Entrambi sono attraversati da esitazioni. Ci si può uccidere? È questa la domanda di Zelinda al prete. Ma è questa la risposta che deve dare la letteratura. Vale la pena vivere? I suicidi sono degli impazienti scriveva Bufalino. Vale la pena pazientare? Secondo la religione cristiana il suicidio è un atto di natura violenta contro sé stessi, è l'omicidio di sé stessi. Tutte le religioni condannano il suicidio. Secondo la moderna psichiatria la stragrande maggioranza dei suicidi sono depressi e la depressione può essere curata con gli psicofarmaci e la psicoterapia. Ma ai tempi di Silvio D'Arzo queste cose non si sapevano. Di solito si cerca sempre di rimandare. Si cerca addirittura di procrastinare l'improcrastinabile. Bisogna non pensare alla morte per vivere pienamente. Bisogna pregare per salvarsi. Ma perché pensare egoisticamente alla propria salvezza individuale? Come scrive Camus a cosa serve la mia salvezza se non si salva l'umanità? Se ognuno ha le sue certamente le sue colpe, ma anche le sue giustificazioni, i suoi alibi e la possibilità di espiare allora forse sarebbe meglio sperare in un Dio talmente misericordioso da lasciare l'inferno vuoto come teorizzato da taluni teologi.
Il suicidio è talvolta questione di un istante. Il suicida per alcuni resta prigioniero di un istante, in cui azzera ogni possibilità, ogni speranza. In questo racconto invece il suicidio sembra invece il frutto di una scelta maturata da tempo e ben ponderata.
La Chiesa ammette eccezioni? Zelinda considera il suo un caso particolare. Non ha più vitalità. Non ha più voglia di vivere. E allora chiede se se ne può andare anzitempo in punta di piedi. Ritiene di aver già mangiato il suo pane, di sapere come sia la vita. Ritiene che non ci sia più niente da conoscere e da vivere. Ha fatto il suo bilancio esistenziale. Ha tirato le sue somme. Dalle cose che le sono capitate, dalle persone che ha incontrato, dalla vita che ha fatto, dalla porzione di mondo e di realtà che ha vissuto, ha tratto le sue conclusioni: non vale più la pena vivere. È una considerazione personale che per lei diventa certezza assoluta. La sorte ormai per lei non ha più niente in serbo. Non ci sarà più nessuna sorpresa. La vita per lei sarà sempre la stessa e lei non ne può più. Zelinda si è scordata che anche la vita più arida, più grama può essere riscattata, può essere un dono. Ma lei si considera una donna di 63 anni che è ormai senza futuro. Che cosa possono fare le parole di fronte a questo dramma? Che cosa può fare la religione incarnata qui da un prete? Ma qui il dramma è doppio. Anche il prete ormai è un sacerdote da sagre di paese. È prossimo alla pensione, al congedo, all'addio, alla morte. Tutto questo si svolge in un piccolo paese, in un piccolo mondo angusto. D'Arzo narra l'inenarrabile, due vite avvolte dall'insensatezza, dall'assurdità di esistere. Il linguaggio è povero di figure retoriche, ma l'intera vicenda è una macrometafora della vita e della morte, che si intrecciano in modo indissolubile.
D'Arzo è implacabile. Crea un congegno perfetto. Scrive in modo essenziale l'essenziale della vita e della morte. Toglie nello stile e nella trama ogni orpello, ogni ridondanza. Leva tutto il superfluo. Rimane per queste poche pagine il mistero che ci irretisce e ci incupisce, la sospensione. Le vite degli uomini sono tutte diverse. La sofferenza, le vicissitudini, la stanchezza di esistere non sono uguali per tutti. Alcuni vengono messi più alla prova dalla vita di altri. Secondo la teologia cristiana il suo disegno è imperscrutabile, sfugge alla logica umana, ma Dio valuta ogni caso in modo equanime, soppesando tutto, qualsiasi cosa. "Ognuno ha una ragione valida per uccidersi", scriveva Pavese. Ma si uccidono solo coloro la cui sofferenza interiore per stati d'animo o eventi nefasti ha sorpassato ogni livello di sopportazione. Se si mette sul piatto della bilancia ci sono svariate ragioni per uccidersi e svariate ragioni per continuare a vivere. Viene considerato razionale continuare a vivere. Ma è pura convenzione. Allo stesso modo viene considerato più coraggioso continuare a vivere che farla finita. Si ritiene a torto o a ragione che quando una persona si uccida o tenti di uccidersi perda il senno della ragione. D'altronde la cultura e la società devono essere biofile. Non si può fare altrimenti. Condannare il gesto estremo è un modo per dissuadere gli indecisi o coloro che si trovano in difficoltà. È un modo per interrompere l'emulazione dell'estremo gesto. Condannare il suicidio è un modo per mandare avanti il mondo, pur ammettendo la pietà cristiana per la vittima. Alla domanda di Zelinda c'è la risposta secca del prete: non sono ammesse eccezioni. Il prete risponde che per la morte propria e altrui non si decide noi, ma decide Dio. Nessuno può anticipare i tempi. Nessuno deve disperare. Zelinda però viene trovata morta. Nessuno sa se l'ha fatta finita. Forse lo scrittore emiliano lascia alla fine alla donna la libertà di autodeterminarsi. Il prete è prossimo a lasciare il paese per tornare a casa. Ma è forse la casa del Padre? Ad ogni modo il prete, che rappresenta la religione, esce sconfitto. Sicuramente la pecorella smarrita non è tornata nell'ovile. Ma probabilmente dall'ovile, dalla ortodossia religiosa si era allontanata solo con i pensieri, con i tarli della sua mente. Sorge spontanea una domanda, leggendo D'Arzo: è giusto che Dio condanni Zelinda, che ha vissuto una vita irreprensibile per una sola cattiva azione e che ha fatto del male solo a sé stessa? Dio non potrebbe fare un'eccezione ai suoi regolamenti o alle sue presunte regole? La risposta di qualsiasi prete probabilmente è che bisogna vivere cristianamente fino alla fine, fino in fondo. Il racconto di D'Arzo tratta di una situazione senza uscita, ma nessuno sa se nella vita alla fine c'è una via di uscita oppure no. Grazie alla fede si può credere all'aldilà e alla salvezza, ma la logica umana, i fatti e la scienza lasciano in sospeso la questione proprio come D`Arzo. La vecchia è morta, le cose vanno come al solito, sta “per venire la morta stagione, gli sterpi secchi, le passere uccise dal freddo, la notte che arriva alle sei, i fossi ghiacciati, i vecchi che se ne muoiono in fila…”. Talvolta la vita sembra un contorno sfumato, una domanda mal posta, un'occasione mancata. Eppure sono tante le sfaccettature della vita. Siamo così presi e immersi dalla quotidianità che ci dimentichiamo che è un dono: forse è questo il vero messaggio dello scrittore.
Jun 162022

Pier Vittorio Tondelli muore di Aids nel 1991 a soli 36 anni. E’ stato scrittore prolifico e famoso, viaggiatore instancabile e acuto osservatore delle mode e dei costumi degli anni Ottanta. E’ ancora difficile fare un bilancio obiettivo sulla sua opera. Tondelli esordisce nel 1980 con “Altri libertini”, sequestrato per oscenità e poi assolto con formula ampia.
Il processo giudiziario e la straordinaria novità del libro lo portano al successo; vende 200000 copie. Tondelli diventa così, senza volerlo, lo scrittore di una generazione, quella del '77. Con il suo primo libro riesce a dare voce a gay, travestiti, drogati e studenti fuori sede.
Nel suo secondo libro “Pao Pao” invece tratta di una caserma di soldati, delle loro peripezie sotto la naia. Mette in luce sia il cameratismo tra commilitoni che il nonnismo. Infatti Tondelli stesso dichiarò che sotto naia vige “una giustizia tribale e assoluta, tollerata dalle gerarchie che fingono di non vedere, finché non scappa il morto”. In tutta l’opera si nota il contrasto tra l’istituzione (con le sue pratiche burocratiche e le sue norme rigide) e la spontaneità dei ragazzi.
Anche in un altro suo romanzo “Rimini” il punto di vista è collettivo, come nei precedenti. Tondelli vuole mettere in mostra “la carnevalata estiva” della riviera romagnola. Le storie dei ragazzi si intrecciano nella notte. Nonostante il continuo ribaltamento del giorno con la notte, le trasgressioni, il sesso nessuno di loro troverà quel qualcosa di cui è alla ricerca. Nel suo ultimo romanzo “Camere separate” non abbiamo il dinamismo dei precedenti. Si tratta infatti di un libro intimista, in cui prevalgono lo scoramento e la solitudine del trentenne Leo. Il protagonista cerca di rielaborare il lutto del suo compagno Thomas.
Una cosa che contraddistingue Tondelli rispetto a molti altri della sua generazione è il rifiuto di ogni ideologia. Forse è per questo motivo che nonostante il successo editoriale e le opinioni benevole della critica più avanzata non gli è mai stato conferito un premio letterario. “Linea d’ombra” e il Gruppo 63 sottovalutarono sempre il suo talento. Diversi critici hanno esaminato l’opera omnia di Tondelli. Tra questi spicca il gesuita Antonio Spadaro, fondatore di Bomba Carta, che ha notato l’apertura alla trascendenza e una spiccata sensibilità religiosa nella seconda produzione di Tondelli.
Già Bonura aveva intuito questo lato religioso dello scrittore di Correggio. Un dato di fatto incontestabile della religiosità di Tondelli è per esempio l’intervista a Carlo Coccioli. Si può essere d’accordo o meno, ma il lavoro di Antonio Spadaro merita rispetto: ha passato sette anni della sua vita a leggere tutto quello che Tondelli aveva scritto. Ha letto anche tutti i suoi appunti, tutte le sue annotazioni diaristiche, tutti i libri che aveva letto Tondelli. Ha sentito tutti i suoi amici e conoscenti.
Un altro aspetto innovativo di Tondelli è la mancanza di ogni accademismo. Nella maggior parte dei suoi libri adotta il gergo giovanile. Tondelli non è libresco, il suo stile è antiletterario. Ma d’altronde - viene da chiedersi - in base a quali valori si giudica la letterarietà di un testo? In base forse ai canoni estetici, ormai antiquati, che furono ad esempio di Pascoli? Uno dei punti fermi di Tondelli è la narrativa di Silvio D’Arzo, che nella sua breve esistenza scrisse “Casa d’altri” e “L’aria della sera”. Silvio D’Arzo, anch’egli emiliano, negli anni ’20 ha uno stile originale, antinaturalista e minimalista, agli antipodi rispetto al verismo piccolo-borghese tanto in voga all’epoca. Ma ritorniamo al nostro.
A questo aspetto si aggiunga lo stile postmoderno di Tondelli, per cui nelle sue pagine si trovano brani di canzoni rock, citazioni letterarie, esclamazioni dialettali, musica pop, cinema americano, beat generation. Ma non è tutto. Tondelli cerca il ritmo della frase, che deve possedere una sua musicalità. Tondelli è maestro di quella che lui chiama “la letteratura emotiva”. Tramite questo ritmo del linguaggio parlato riesce a catturare il lettore, a fargli leggere tutto d’un fiato la pagina scritta.
La tematica centrale dei libri di Tondelli è la fuga, l’emancipazione dalla provincia asfittica. Lo scrittore scrive che l’unico modo di uscire dalla Peyton Place della provincia è Kerouac. Infatti i protagonisti giovanili dei suoi racconti girano tutta l’Europa: Londra, Berlino, Amsterdam, Barcellona. Ma sono fughe a breve termine, una sorta di “mordi e fuggi” per poi ritornare alla tanto maledetta provincia. D’altronde a queste piccole evasioni c’è solo un’altra alternativa: quella del weekend postmoderno, che in fondo è una pseudo libertà.
Oltre alle opere letterarie abbiamo anche l’attività editoriale di Tondelli. Con il progetto “Under 25” seleziona i racconti della nuova generazione. Sceglie quelli che lui definisce gli scarti che si discostano dalla norma. Tra gli autori di questi racconti prescelti, Silvia Balestra. Una ultima nota infine sul suo "Weekend postmoderno", un libro imprescindibile per chi voglia capire gli anni Ottanta italiani. Questo libro è probabilmente una miscellanea di scritti fondamentali per sapere cosa sono stati quegli anni.
Jun 152022

Questo libro raccoglie i Quaderni in cui il grande critico letterario Debenedetti stendeva le sue lezioni universitarie. La presentazione è di Eugenio Montale. Alla fine del libro si possono trovare le note, in cui sono elencati tutti i riferimenti bibliografici, e il repertorio di autori, opere, personaggi e periodici citati. Debenedetti si interroga sul concetto di contemporaneità. Analizza le epifanie di Joyce, le intermittenze del cuore e la memoria involontaria di Proust, il fu Mattia Pascal di Pirandello. Compara e accosta Italo Svevo a Joyce e Proust, Moravia a Pasternak. Ricorda il lavoro del critico Renato Serra. Studia le opere di Tozzi. Questi Quaderni sono un’ulteriore conferma del rigore e delle capacità analitiche di Debenedetti, che seppe per primo comprendere l’influenza delle scienze umane (la psicologia del profondo e la sociologia) e della microfisica nella letteratura moderna. Debenedetti è un profondo conoscitore della psicanalisi di Freud, della psicologia analitica di Jung e della fisica delle particelle. Tuttavia non c’è traccia di scientismo nel suo lavoro. Non gli interessa la ricerca totale dell’oggettività, che anni dopo sarà propria della critica strutturalista e della semiologia, che cercheranno di condannare all’oblio l’intuizionismo crociano. Debenedetti è consapevole che le intermittenze del cuore, le epifanie, l’assurdo, l’informe, il grottesco dei personaggi in sciopero degli antiromanzi non devono essere compresi tramite l’analisi delle ideologie e delle sovrastrutture. Bisogna comprendere soprattutto le infrastrutture della psiche. Lo studio della letteratura moderna non necessita di una logica positivista: Debenedetti ci avverte che la scienza moderna è entrata nella letteratura, ma non per questo egli utilizza la metodologia e l’epistemologia delle scienza per comprendere la letteratura moderna. Il grande critico ci avverte che nel panorama letterario, dopo la crisi irreversibile del naturalismo, all’improvviso è presente un ospite invisibile, un’entità del sottosuolo: l’inconscio. Epifanie, intermittenze del cuore, illuminazioni interiori, piccole rivelazioni, conflitti interiori, dissolvenze non si possono spiegare adoprando i sillogismi. La nevrosi non si può comprendere con l’ausilio della logica deduttiva, che cercherà sempre di occultare e rimuovere l’ineffabile. Debenedetti ci insegna che i comportamenti dei personaggi dei nuovi romanzi non sono la risultante dell’ideologia. Sono sintomi di un malessere che si è impadronito dell’uomo contemporaneo. Debenedetti per fare una disamina di tutto ciò si serve di un approccio interdisciplinare: non ha un metodo definito, ma allo stesso tempo ha molti metodi. Nella letteratura compare il personaggio-uomo perché la teoria dei quanta e il principio di indeterminazione spazzano via il meccanicismo e i rapporti di causa-effetto. Irrompe sulla scena un nuovo concetto: la probabilità. Ecco allora che qualsiasi azione, qualsiasi comportamento, qualsiasi evento è in sé aleatorio. Non può più esistere nessuna trama, nessuna narrazione come nei secoli scorsi. L’uomo è un essere indeterminato. Si sa ciò che è più probabile e ciò che è improbabile. Ma anche l’improbabile può avverarsi e il probabile non accadere. E se l’uomo è fatto di atomi…. allora perché la sua vita e il suo nucleo non possono essere governati dalle stesse leggi della microfisica? I conflitti sociali ed economici, gli stessi eventi storici apparentemente sembrano scaturiti dal “sovrumano”. Ma se dietro il “sovrumano” si celasse “l’infraumano”? La cultura e le stesse istituzioni sono forse preda dell’infra? L’illusione antropocentrica si dissolve in un istante, indipendentemente dal fatto che la microfisica sia il motivo profondo di una nuova dimensione antropologica dell’uomo oppure l’elemento per un parallelismo efficacissimo. Il discorso di Debenedetti, che sembrava essere solo letterario, ci porta a interrogarci anche sulle dinamiche sociali ed economiche dell’epoca moderna. D’altronde Debedenedetti per comprendere una realtà così frammentaria e irrazionale come quella del Novecento non poteva certo servirsi dell’idealismo crociano né delle filosofie irrazionali. Il grande critico ebbe il merito di capire che anche l’irrazionalità di quella realtà aveva una sua logica. La letteratura del’900 ha come protagonista l’inetto. Ma il romanzo non esiste più. I critici letterari lo chiameranno antiromanzo: un’opera d’arte così innovativa da trascendere sia la logica del mercato editoriale che quella del classico. Gli studiosi scriveranno che i romanzieri vanno a caccia di epifanie delle epifanie, di “infra della psiche”. Scopriranno che le intermittenze del cuore di Proust si fermano molto più in superficie delle rivelazioni microscopiche di Joyce, Musil, Svevo e Pirandello. Mai gli scrittori hanno scandagliato così a fondo nell’animo umano. Mai come ne l’900 hanno scavato così in profondità. Giacomo Debenedetti illuminerà tutti con il suo saggio sul personaggio-uomo, in cui riuscirà a conciliare Freud e principio di indeterminazione, inconscio e microfisica.
L’io nelle pagine memorabili della letteratura del’900 non si ripiega su se stesso, ma addirittura si frantuma. Le categorie d’analisi e la logica ordinaria scompaiono, si eclissano. E’ il congedo del “penso, dunque sono”. Scompare il soggetto, ma non la soggettività. Quel che resta comunque è il vuoto al centro e mille schegge di interiorità nelle immediate vicinanze, che tramite sensazioni e percezioni distorte e pensieri di pensieri sconnessi rivelano non più il volto dell’uomo, ma un uomo contemporaneo ormai senza più volto. La tesi di Ortega y Gasset, esposta nel suo saggio “La disumanizzazione dell’arte” trova più di una conferma. La nuova letteratura è impopolare, la grande massa è distante dalle opere letterarie, non le ama perché queste fanno una radiografia dell’uomo moderno. Molti romanzi moderni si presentano spesso al primo colpo d’occhio e alla prima lettura superficiale come una semplice finzione, come la pura e semplice rappresentazione di un gioco. In realtà svelano il malessere dell’uomo contemporaneo. Quel che poteva sembrare inverosimile e grottesco in ultima analisi non è altro che la nuda e cruda verità umana. E il lettore si trova disarmato di fronte ad una descrizione così puntigliosa ed esatta delle sue conversazioni e di ciò che pensa tra sé e sé, in definitiva di se stesso.
P.s: secondo il principio di indeterminazione non si può sapere contemporaneamente la velocità di un elettrone e la sua posizione. Secondo questo principio inoltre ogni volta che osserviamo qualcosa in modo infinitesimale modifichiamo la "scena".
Jun 152022

Ha perfettamente ragione Milan Kundera, quando scrive nel suo saggio "L'arte del romanzo", che il romanzo è soprattutto complessità. Questa opera è impegnativa per la molteplicità di temi filosofici, politici, morali, scientifici, religiosi trattati. Il lettore si trova di fronte a molti spunti di riflessione. L'autore infatti ha adoprato tutta la sua cultura per descrivere tutte le correnti di pensiero dell'epoca. Mann nella lezione per gli studenti dell'Università di Princeton dichiarò che questo è un romanzo del tempo in due sensi: "Anzitutto sul piano storico, in quanto cerca di delineare l'interiore immagine di un'epoca, quella dell'anteguerra europeo; in secondo luogo, però, perché suo argomento è il tempo puro, e questo oggetto è trattato non solo come esperienza del protagonista, ma anche in e per se stesso". Riguardo al primo punto Zecchi nel saggio "L'artista armato contro i crimini della modernità" sottolinea che la posizione assunta da Settembrini, ovvero che il nichilismo potesse essere contrastato con le scienze esatte in sinergia con le scienze dello spirito, sia stata una idea diffusa agli inizi del Novecento. Poi giunse Husserl a spiegare che il progresso scientifico aveva allontanato l'uomo dal "mondo della vita", facendogli perdere la visione globale del mondo e facendogli dimenticare l'interiorità. Per quel che riguarda l'argomento del tempo puro, ricordo che il protagonista mediterà più volte su di esso, chiedendosi quale sia l'organo specifico del cervello che che ci fa intuire lo scorrere degli istanti. Comunque iniziamo con la trama del romanzo che è semplice. Nel libro i protagonisti sono statici. Il romanzo fu ispirato da un fatto realmente accaduto a Mann. Egli stesso visse per tre settimane in un sanatorio, dove sua moglie fu curata per sei mesi. Anche Castorp, il protagonista, deve trascorrerci inizialmente solo tre settimane per far visita a suo cugino che soffre di tisi. Ma il giovane ingegnere Castorp per delle complicazioni alle vie polmonari finirà per trascorrere ben sette anni nel sanatorio svizzero. In quel periodo si innamorerà di una ragazza russa a cui si dichiarerà e che gli concederà un bacio sulle labbra. Qui avrà modo anche di conoscere il letterato Settembrini e il gesuita Naphta. Settembrini è carducciano, massone, volterriano. Naphta è un nichilista, un conservatore. Il primo è un razionalista. Il secondo invece è un irrazionalista. Castorp ascolta sempre le loro discussioni colte ed oscilla continuamente tra i due poli di questi suoi precettori. Oscilla tra l'evasione dell'arte e lo spirito religioso, tra l'impegno pratico e il riconoscimento della decadenza dei valori, tra rivoluzione e conservazione. Comprendere queste due posizioni non è facile perché contengono delle contraddizioni interne e delle antinomie. Le argomentazioni sono complesse e rappresentano tutte le scuole di pensiero dell'epoca. Ma questi due personaggi sono complessi anche perché sono incoerenti. Settembrini dichiara che a volte bisogna utilizzare la violenza, eppure quando si trova a duellare con Naphta non mira all'avversario ma spara in aria. Quest'ultimo decanta il misticismo cristiano e ciò nonostante soccombe alle proprie tare esistenziali e si suicida. Altro aspetto rilevante del libro è che tutti i personaggi sono borghesi e Mann riesce a fare un'analisi spietata della borghesia della sua epoca. Come ebbe modo di scrivere Lukacs nella prefazione alle novelle, lo scrittore fu testimone e giudice della decadenza borghese. Nel saggio "Mann e la tragedia dell'arte moderna" Lukacs scrive che Mann è uno dei grandi esponenti del realismo critico e che riesce a svelare tutte le problematiche della società borghese, rappresentando l'apice del pensiero progressista di questa. Altro aspetto importante del romanzo è il rapporto stretto tra voglia di conoscere e malattia. Se da un lato la malattia è disumana perché umilia l'uomo, dall'altro lato è occasione per Castorp per approfondire determinati argomenti che nella civiltà frenetica della pianura non avrebbe mai minimamente trattato. La sofferenza quindi aiuta ad aumentare la consapevolezza. La malattia è fonte di umanità, di conoscenza e di saggezza. Inoltre con il cristianesimo comunista di Naphta, Mann è riuscito ad intuire una delle possibilità della politica del Novecento. L'unione del cristianesimo con il marxismo in Italia fu pensata da molti, anche dallo stesso Pasolini. In America Latina fu anche applicata da preti rivoluzionari come Ernesto Cardenal, ministro della cultura del governo sandinista. Mann non era marxista, ma grazie al suo acume aveva intuito cosa sarebbe potuto accadere. A onor del vero va detto comunque che più che l'unione tra cristianesimo e marxismo si verificò almeno in Italia quella tra cattolicesimo e comunismo. Da notare infine che anche il romanzo "Diceria dell'untore" di Bufalino tratta di un sanatorio per malati di tisi, anche se è ambientato nel dopoguerra, il protagonista è un reduce, non ci sono conversazioni così impegnate e in primo piano c'è una storia di amore che finirà con la morte della donna. "La montagna incantata" è quindi completamente diverso dal libro di Bufalino. È innanzitutto un complesso romanzo di formazione, che riesce a essere sia pedagogico che ironico. Bisogna ricordare anche che a Mann ci vollero dodici anni per completare questo capolavoro: niente a che vedere con certi scrittori di oggi, che pubblicano un libro commerciale all'anno. In conclusione molti libri sono da leggere. Questo romanzo per i suddetti motivi è anche da rileggere.
Jun 152022

Questo piccolo capolavoro narra del rapporto complesso tra un medico e sua moglie. Sono una coppia giovane e felice, però lui rimarrà turbato, dopo che si raccontano l’un l’altra fantasie e segreti, che prima di allora avevano tenuto per sé. All’inizio viene descritta una scena, simbolo di un'atmosfera borghese e rassicurante: la loro figlia piccola, a cui viene letta una fiaba dai genitori, viene poi messa a letto dalla governante. Ma il giovane medico Fridolin deve uscire quella sera per recarsi da un paziente, che versa in gravi condizioni. Una volta giunto a destinazione trova l’uomo già morto e viene sedotto dalla figlia del defunto davanti alla salma. Dovrebbe tornare a casa, ma finisce per vagare tutta la notte. Si fa sedurre da una passeggiatrice, che lo porta nella sua casa, ma con cui non conclude niente. Entra in un caffè notturno e qui incontra un suo vecchio compagno di università, che ora fa il pianista. Quest’ultimo gli racconta che quella stessa notte dovrà suonare a una festa da ballo con gli occhi bendati, anzi riesce a guardare “nello specchio attraverso il fazzoletto di seta nera che copre gli occhi”. Non conosce i partecipanti della festa mascherata, né il proprietario. Fridolin rimane affascinato dalla strana storia ed esprime il desiderio di voler entrare nella villa dei misteri. Il pianista gli risponde che deve procurarsi un saio scuro e una mascherina nera. Il medico allora si reca dal mascheraio, dove ha modo di imbattersi nella piccola Pierette, forse una pazza, che viene sorpresa con due signori nel negozio.
Fridolin riesce ad entrare nella villa, ma viene smascherato. Sapeva la parola d’ingresso, ma non la parola d’ordine della casa. L’attende una punizione estremamente severa, forse dovrà pagare con la vita stessa, ma una donna lo riscatta e si dichiara di tutti. Successivamente scopre che la donna, che si è sacrificata per lui, ha pagato con la vita. Nonostante il medico viva queste esperienze al limite da solo, va detto che nelle donne, che incontra, ricerca sempre ossessivamente la moglie.
Questo romanzo breve è stato reso famoso dalla trasposizione cinematografica di Kubrick dal titolo “Eyes wide shut”. Il film però non è totalmente fedele al libro. Kubrick infatti ambienta la vicenda nella New York dei nostri giorni, mentre invece nell’opera originale ci imbattiamo nella Vienna di fine secolo. L’alta società di Vienna in quel periodo si dedicava all’edonismo sfrenato con frequenti feste di ballo forse perché non voleva affrontare direttamente i grandi cambiamenti culturali, sociali e politici di quell’epoca di transizione. Schnitzler prende spunto da questo atteggiamento mentale, assai diffuso al tempo, per indagare sulla natura umana e sui meandri della psiche, riuscendo ad esplorare zone d’ombra che nessun altro scrittore era mai riuscito a cogliere pienamente.
L’interrogativo di fondo è se sia opportuno dirsi tutto tra coniugi, rivelarsi anche le fantasie più inconfessabili o se sia meglio far prevalere il non detto. La scelta cruciale è tra l’incomunicabilità all’interno della coppia e quella che lo psicologo Bergler definiva “la delusione rispetto all’ideale dell’io”. Quest’ultima espressione significa che una persona può subire una ferita nell’animo, constatando lo scarto significativo tra l’idealizzazione del partner e l’effettivo modo di essere della persona amata. Come se non bastasse la rivelazione di fantasie sessuali può far scaturire la gelosia da parte di entrambi. Nell’opera di Schnitzler il protagonista Fridolin, dopo aver ascoltato le fantasie e i sogni della compagna, subisce uno smacco notevole, sia perché capisce la complessità delle dinamiche del desiderio femminile, sia perché implicitamente ritiene scontato un monopolio sessuale nei confronti della moglie, ritiene di avere un diritto di proprietà su di essa. Lo stesso sentimento di gelosia che prova è difficile da decifrare: è un impasto, una commistione tra desiderio di possesso esclusivo e angoscia per una possibile separazione dal proprio oggetto di amore. Ma quando una coppia inizia un percorso di conoscenza e di autoanalisi così intimo il rischio è che uno dei due scambi le fantasie dell'altra metà per tradimenti effettivamente avvenuti e mascherati sotto forma di desideri mai messi in pratica. Schnitzler è geniale ad evidenziare le contraddizioni insanabili all'interno della coppia.
Questa opera di Schnitzler potrebbe essere interpretata secondo certi criteri freudiani. Ma è altrettanto vero che Schnitzler non fu mai debitore di Freud. Entrambi giunsero alle solite conclusioni, però tramite mezzi diversi: Freud con l’analisi, l’artista con “l’autopercezione”.
Freud nei “Tre saggi sulla teoria sessuale” sostiene che “l’occhio è come il corrispondente di una zona erogena”. Il piacere di guardare non è altro che una pulsione parziale secondo Freud, che può avere come antagonista solo la vergogna ed il pudore. Il protagonista di "Doppio sogno" è preso dal piacere di guardare tutte le donne nude alla festa mascherata, però questo voyeurismo sconfina e si sublima nell’epistemofilia (nel desiderio di conoscere e di indagare la realtà). Il medico Fridolin infatti vuole conoscere le fantasie erotiche della moglie e vuole sapere chi sono le persone che hanno partecipato alla festa. Non a caso l’ultima parte del libro tratta proprio dell’investigazione privata del medico per smascherare i responsabili di quell’orgia.
Da notare inoltre il conflitto intrapsichico del protagonista maschile tra erotismo e pulsione di morte: da una parte questa forza primaria che dovrebbe unire e legare e dall’altra una tempesta che dissolve le relazioni e distrugge i legami.
Infine un’ultima considerazione: Schnitzler con questo libro sembra volerci dire che fare un’analisi dei desideri all’interno di una coppia non è detto che sia un requisito indispensabile per due sposi, anzi talvolta può rivelarsi controproducente ed inquietante.
Lo stesso Adler, fondatore della Società di psicologia individuale, riteneva che la cooperazione fosse un presupposto fondamentale per il benessere della coppia piuttosto che il soddisfacimento della pulsione sessuale o lo scandagliare i desideri repressi dell'altra metà. Ognuno dei due partner, secondo lo psicologo, deve sentirsi parte di un tutto, deve imparare a fare le cose in due, nonostante che la società educhi al lavoro individuale e raramente al lavoro di gruppo, ma mai al lavoro di coppia. I matrimoni infelici nascono quando uno dei due vuole sempre ricevere qualcosa, senza dare niente in cambio. Per Adler quindi il matrimonio è un compito comune. Emblematica a questo riguardo la singolare tradizione in una regione della Germania, che ci narra Adler. Per testare se dei fidanzati possono realizzare un matrimonio felice devono tagliare insieme un tronco d’albero con una sega con due manici. Per realizzare efficacemente questo lavoro ci vogliono coesione ed affiatamento; infatti se i due non si agiscono in modo sincronico e complementare non concludono niente.
Per Adler quindi è fondamentale la cooperazione, piuttosto che il sesso ed i desideri sessuali. E non è assolutamente detto che ricercare la cooperazione sia più difficile che trovare la fiducia reciproca per svelare le proprie fantasie.