Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Divagazioni sulla scienza, la fantascienza, la cosiddetta normalità, il genere post-apocalittico...

giu 222022

 

 

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La fantascienza, nonostante i capolavori di Asimov e P. Dick, è stata per molto tempo considerata un genere minore. Eppure descrive le nostre paure, le nostre angosce, anticipa i tempi, ci proietta nel futuro. Non tratta solo delle invasioni degli alieni o di macchine del tempo. Talvolta alcuni racconti sono incentrati sullo straniamento, inteso come rovesciamento di prospettiva: si veda ad esempio il celebre racconto breve di F. Brown “La sentinella”. La fantascienza talvolta è il futuribile e stimola la fantasia, che è fondamentale per la conoscenza umana. Anche la letteratura combinatoria di Perec, Queneau, Calvino può stimolare l’immaginazione. E che dire dei celebri racconti di Borges o di Augusto Monterroso? Anche questa letteratura come la fantascienza si volge agli infiniti possibili, descrive universi paralleli. Per Popper la scienza è fatta di congetture e confutazioni. Gli scienziati devono usare la fantasia per formulare ipotesi. Lo stesso Einstein sosteneva che “la logica porta da a a b, mentre l’immaginazione porta ovunque”. La scienza per noi uomini comuni procede dall’ignoto al noto, ma per i ricercatori procede dal certo (i dati) al probabile (le scoperte, le nuove teorie). La fantascienza ci mostra “Le meraviglie del possibile” (dal titolo di una celebre antologia di racconti). Possiamo esercitare la nostra fantasia, ma oggi non sappiamo come nascono certe intuizioni. È difficile essere individui veramente completi o come si suol dire saper utilizzare entrambi gli emisferi. Alcune persone giungono all’insight, riescono a ristrutturare cognitivamente un problema e a risolverlo, ma non sappiamo il motivo. Possiamo per ogni scoperta scientifica descrivere l’intuizione che ha portato alla soluzione, ma non possiamo definire in modo esaustivo e calzante l’intuizione: ogni definizione generica per ora è astrusa. Forse potremmo dire che l’intuizione è una illuminazione, un salto intellettivo fondamentale per il problem solving. Niente di più. Possiamo solo affermare che noi esseri umani siamo fortunati perché i nostri stati mentali corrispondono con la realtà. Possiamo anche affermare che non sappiamo se il progresso sia infinito perché non sappiamo se la conoscenza umana sia infinita. Realisticamente potremmo dire che se non sappiamo risolvere certi rompicapo per un meccanismo di compensazione vorrà dire che ne sapremo risolvere altri. Un’altra cosa da tenere presente è che bisogna sempre usare il rasoio di Occam: non si deve moltiplicare gli enti. Lo stesso Einstein era dell’idea che si doveva togliere, levare. Infatti affermò che bisogna rendere le cose nel modo più semplice possibile ma senza semplificarle. Gianni Rodari ha scritto una grammatica della fantasia, analizzando tutti gli usi della parola e tanti modi per inventarsi storie. In ambito scientifico e nella psicologia del pensiero sono state scritte migliaia di guide alla creatività, ma questa rimane allo stato attuale delle conoscenze un mistero. Per Enrico Fermi la creatività scientifica poteva essere stimolata cercando di fare stime approssimative e insolite come ad esempio cercare di calcolare quanti accordatori di pianoforti c’erano in un paese di un certo numero di abitanti o come calcolare quante bevande di una certa marca vendesse in una settimana un negozio di alimentari in una certa città. Molto spesso i suoi studenti rimanevano spiazzati dalle sue domande. Solo pochi dimostravano una certa capacità analitica. L’analisi di un problema può essere nota. Sappiamo quali sono le regole della logica deduttiva e induttiva. La questione controversa è come giungere alla sintesi e non all’analisi. Secondo Piaget per risolvere i rompicapo scientifici bisogna avvalersi del pensiero ipotetico-deduttivo, si deve cioè pensare a ogni possibile combinazione e a ogni possibile aspetto del problema. In una parola sola bisognerebbe vagliare tutte le ipotesi. Secondo alcuni psicologi la creatività può essere stimolata con il brainstorming, la meditazione, il training autogeno, delle lunghe camminate, il bere caffè, stare a contatto con la natura. Talvolta si tratta di riformulare il problema, altre volte si deve cercare nuove associazioni idee. Molto spesso bisogna chiedersi cosa succederebbe se si facesse in un altro modo, ma ciò che è difficile è trovare il modo giusto. Talvolta si ha la sensazione che alcuni scienziati si inventino col senno del poi nuove teorie della conoscenza scientifica. La stessa epistemologia può essere illuminante come filosofia della scienza, ma può lasciare a desiderare come metodologia della ricerca scientifica. Si pensi solo a Lakatos che teorizza l’anarchia metodologica. Insomma si brancola ancora nel buio o quantomeno si procede a tentoni in un terreno accidentato. C’è anche chi ritiene che la creatività non esista o che sia una terra di nessuno e che non si debba fare una mitologia del lampo di genio. Per queste persone sarebbe solo questione di fortuna e come pensava Pasteur “la fortuna aiuta le menti preparate”. Sicuramente gli scienziati procedono per prove ed errori. In fondo i comportamentisti scoprirono che anche questa era una forma di apprendimento efficace.

 

 

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Dopo aver accennato molto sinteticamente alla relazione tra scienza e fantascienza, vorrei trattare del genere distopico, in particolare del genere post-apocalittico, anche se non sono un cultore della materia. Alcune volte certe distopie si sono avverate, ma vorrei ora parlare di alcuni dubbi che ho su certi romanzi e certi film. Ci siamo evoluti culturalmente ma non cerebralmente rispetto a migliaia di anni fa. Per creare utensili tipici degli uomini primitivi ci vogliono oggi pazienza certosina e ore di lavoro. Hanno fatto degli esperimenti con degli studenti universitari. Si pensi che non è affatto semplice accendere il fuoco senza fiammiferi, senza accendino o senza gas. Siamo come si suol dire dei nani sulle spalle dei giganti. Tutte le conquiste della nostra civiltà occidentale, ovvero tutti gli artefatti della tecnologia li diamo per scontati, eppure senza di essi non avremmo mai avuto la nostra zona di comfort, la nostra qualità della vita e la nostra aspettativa di vita.  Essere umani significa vivere in società e avvalersi delle competenze altrui. Tutto questo mi ricorda un racconto breve di Calvino in cui il protagonista non sa allacciarsi le scarpe e ha bisogno di qualcuno per questo. Nessuno di noi è veramente autosufficiente. Bisognerebbe ricordarselo più spesso. Queste cose mi sembrano in genere sottovalutate o addirittura non prese in esame dagli scrittori che si immaginano scenari post-apocalittici. Gli stessi scrittori molto spesso non ci forniscono motivi plausibili per cui uno o pochissimi sono sopravvissuti e invece il resto dell’umanità no. Mi sembrano a mio modesto avviso ipotesi illogiche, poco realistiche e oserei definirle impossibili. Qualcuno potrebbe chiamarle controfattuali. Insomma per scenario post-apocalittico si intende la fine dell’umanità meno uno o meno pochissimi: un controsenso se pensiamo a rigor di logica. Così come nei libri di questo genere gli autori non si soffermano mai sulle conseguenze psicologiche che avrebbe la deprivazione sociale del protagonista o dei protagonisti. Uno scenario post-apocalittico potrebbe avere dei risvolti positivi dal punto di vista ecologico, ma nutro dei seri dubbi che potrebbe averli dal punto di vista antropologico. Però è solo questione di punti di vista. Siamo nell’ambito dell’opinabile. Nessuno sa con certezza cosa accadrebbe e come reagirebbero i sopravvissuti. Queste sono le critiche che faccio io. Naturalmente siamo nel genere fantascientifico che non è solo science fiction ma in cui si può conciliare l’inconciliabile, immaginare l’inimmaginabile; un genere che è contrassegnato anche dal gusto del paradosso. Comunque io nutrirò sempre delle perplessità riguardo a questo genere. Spesso viene trattato uno scampolo di umanità sopravvissuta a una catastrofe superficialmente dal punto di vista umano. Non è questione in questi casi di immaginare per assurdo, attività più che lecita. Anche quando si vuole descrivere un universo parallelo lo si deve però fare in modo completo e senza tralasciare elementi essenziali. Spesso nella fattispecie vengono omesse alcune qualità e caratteristiche fondamentali, imprescindibili dell’essere umano. Ammettiamo pure che tutto sia possibile (anche l’impossibile) nel futuribile, ma l’essere umano dovrebbe essere considerato ancora umano. Come scrisse Terenzio: “sono uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me”. A mio modesto avviso i libri di questo genere non contemplano a sufficienza l’interdipendenza degli esseri umani, solo per fare un esempio. Purtroppo gli ingegneri hanno bisogno di medici, i medici hanno bisogno di ingegneri, ma anche i barbieri hanno bisogno di altri barbieri, i medici hanno bisogno di altri medici, i preti hanno bisogno di altri preti, gli psichiatri di altri psichiatri supervisori, eccetera eccetera. Qualsiasi comunità si basa sulla divisione del lavoro, che significa anche suddivisione delle competenze. Senza uno straccio di comunità il singolo individuo vivrebbe pochissimo. La cosiddetta “sospensione di incredulità” a mio avviso deve essere supportata da conoscenze scientifiche e da una ricostruzione attendibile dal punto di vista psicologico, sociologico, antropologico. Questa formula “sospensione di incredulità” può significare anche credere all’incredibile, esattamente come una religione (solo che la fantascienza fino ad ora non ha mai fatto miracoli). Qui forse non si tratta più di ragionare, criticare costruttivamente. Il vero discrimine forse è quello di credere o non credere. Più esattamente lo scrittore in questi casi immagina per assurdo e il lettore crede per assurdo. Tutti i cultori della fantascienza hanno il diritto di ragionare per assurdo. E gli altri? I miscredenti non possono ragionare in modo non dico razionale ma ragionevole? È forse da stolti per esempio cercare l’intellegibile in questo mondo assurdo? Calvino inoltre sosteneva che la creatività fosse costituita da una fetta di pane con la marmellata: mi dispiace ma spesso trovo questo genere troppo melenso e senza adeguate infrastrutture. È vero che in caso di scenario post-apocalittico le strutture economiche e le sovrastrutture ideologiche verrebbero meno ma le infrastrutture psichiche ad esempio rimarrebbero. Bisogna considerare ciò. Altrimenti la rappresentazione è distorta e falsa. Altrimenti “l’esperimento mentale” e l’esercizio di immaginazione servono a poco. Molto probabilmente siamo tutti o quasi “polli di allevamento” come cantava Gaber. Non resisteremmo che qualche giorno in uno scenario del genere. Molto probabilmente non sapremmo far fronte alle emergenze e ai pericoli della natura. Fanno corsi di sopravvivenza per manager, reality televisivi in cui i partecipanti vivono per qualche giorno in situazioni estreme. Però ci sono sempre tutor oppure delle troupe che li supportano. Se questi soggetti fossero lasciati soli a sé stessi avrebbero vita molto breve. Se si pensa invece al genere post-apocalittico come critica all’antropocentrismo e alla società attuale a mio modesto avviso ciò può essere più utile. Ritengo anche che questo genere potrebbe far scaturire degli interrogativi di fondo interessanti: che ne sarebbe in condizioni così estreme di tutte le mutazioni antropologiche e dell’uomo postumano? Cosa succederebbe all’uomo non più inserito in una società fondata sulla creazione di falsi bisogni come scriveva Marx? Cosa sarebbe veramente necessario? Ma mi chiedo anche se abbiamo veramente bisogno di essere stimolati dalla fantascienza per porsi questi interrogativi. In fondo per riflettere sul destino del nostro pianeta basta leggere una intervista di un astronauta, che in orbita ha provato dolore per questo mondo e ha sentito un vero legame con la Terra. Abbiamo veramente bisogno del genere post-apocalittico per meditare su una umanità veramente autentica e su una esistenza veramente autentica? Nello scenario post-apocalittico che cosa resta dell’uomo? Non c’è più ricambio cellulare e non rimarrà più niente della pelle morta nel corpo del pianeta. A mio avviso non vengono prese in esame tutte le caratteristiche umane in modo veritiero. Vengono per così dire falsate. Per analizzare e descrivere la natura umana e le dinamiche sociali, anche quelle di poche persone, a mio avviso non bisogna pensare l’homo homini lupus e neanche l’homo homini deus ma semplicemente l’homo homini homo. Mi sembra che alcune problematiche dell’essere umano vengano tralasciate in certi romanzi e in certi film. Forse lo fanno per questione di sintesi, forse rispettare i canoni della letterarietà. La casistica della vita allo stato brado non è infinita ma quasi. Forse lo fanno per esigenze di spazio o per non essere particolarmente crudi. Forse certi dettagli non interesserebbero che pochi lettori e preferiscono sorvolare. Ci sono ancora oggi popoli che vivono in tribù allo stato quasi primitivo. Forse è più educativo leggere qualcosa sui loro usi e costumi che leggere una distopia. Però naturalmente è una mia opinione, senza nulla togliere alle visioni e alle intuizioni degli scrittori di fantascienza. Infine vorrei sottolineare che di solito gli scrittori di fantascienza talvolta sono degli scienziati ma di solito hanno scarse conoscenze sociologiche, psicologiche, antropologiche. Infine faccio una considerazione molto amara. Per  quel che mi riguarda sono dell’idea che la cosiddetta normalità ci sta conducendo all’estinzione della specie. I cosiddetti folli al massimo commettono qualche omicidio o suicidio: roba da niente al confronto! Per non parlare poi della cosiddetta demopatia strettamente connessa all’oligarchia patologica (ed entrambe ampiamente tollerate)! La normalità tanto sbandierata non esiste di fatto. Questo è un mondo folle e di folli. Quando c’erano i manicomi qualcuno diceva e scriveva che i pazzi erano fuori. Siamo così sicuri che i normali siano veramente normali e i folli veramente follii? Per il momento sono solo apocalittico e non ancora post-apocalittico.

 

Intellettuali, impegno, violenza...

giu 212022

 "Sulla violenza? Non si può rispondere a un mondo assurdo con un gesto assurdo" (Davide Morelli alla terza birra in un bar imprecisato)

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Per Dario Fo intellettuale è colui che ha un rapporto dialettico con la realtà. Bisogna notare che molti si credono intellettuali perché intrattengono soltanto un apparente rapporto dialettico con altri intellettuali.  Invece il rapporto dialettico deve essere innanzitutto con la realtà. Mi sembra appropriata e calzante come definizione, quella di Dario Fo. Premetto che di carne da mettere al fuoco ce ne sarebbe tanta. Cercherò di essere il più sintetico possibile. Ma il problema principale non è tanto dare una definizione di intellettuale o di cultura quanto quello del ruolo dell'intellettuale, ovvero se deve essere impegnato o disimpegnato. Può arrivare per esempio a uccidere per cambiare la società? Il filosofo Popper sembra risolvere la questione, quando ne "La società aperta e i suoi nemici" scrive che l'omicidio è legittimo se la vittima è un dittatore.

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(Nella foto Popper)

 

Parafrasando Pavese, secondo cui ognuno ha una ragione valida per uccidersi, oserei dire che, seguendo Popper, ognuno potrebbe avere una valida ragione per uccidere. Perché non uccidere degli oligarchi sanguinari o dei governanti democratici ma lestofanti e corrotti? In fondo ogni intellettuale potrebbe dichiararsi rivoluzionario e decidere di uccidere. Però viene da chiedersi anche se un artista può essere ritenuto tale se ha commesso un'azione riprovevole. Caravaggio fu un assassino. D'Annunzio e i futuristi ebbero delle responsabilità per l'entrata in guerra dell'Italia. Croce in "Etica e politica" faceva una netta distinzione tra arte e vita. Quasimodo invece pensava che chi avesse fatto la spia per i fascisti in guerra non potesse scrivere poesie. Prendiamo il caso del celebre Marco Paolini. Ha tamponato una macchina, uccidendo una donna. È risultato negativo all'alcol test e non era al cellulare. Tutto è accaduto involontariamente. Dovremmo forse condannarlo ed ergerci a giudici? Non l'ha fatto apposta. Paghi pure in sede civile e penale (i giudici ci sono per questo), ma eticamente potremmo forse condannarlo? La risposta certa è no. Comunque ritorniamo all'omicidio volontario. Ognuno avrebbe una ragione valida per uccidere. Ognuno potrebbe avere una giusta causa. Secondo la celebre opera teatrale di Sartre per fare la rivoluzione d'altronde bisogna "sporcarsi le mani". E che dire di coloro che subiscono un'ingiustizia o degli intellettuali che potrebbero diventare giustizieri? Non avrebbero i familiari delle vittime, per esempio, tutto il diritto di passare alle vie di fatto? E che dire dell'atto gratuito di "Delitto e castigo" o del Lafcadio di Gide? Qualcuno potrebbe giustificare anche chi spara a caso sulla folla. In fondo forse ogni incontro non è un numero random e il mondo non è forse un generatore di numeri casuali? Però dovremmo ricordarci come disse Sanguineti che sparare sulla folla non può essere considerato un gesto d'avanguardia.  Potremmo pensare alla teoria di Ivan Karamazov secondo cui "se Dio non c'è tutto è permesso". Però non sempre è così perché i nichilisti russi non furono mai sanguinari, anche se come Bazarov non credevano nei vecchi valori, credevano nella scienza e disprezzavano l'umanesimo. Non è poi assolutamente detto che tutti gli artisti innovatori siano automaticamente dei rivoluzionari: non tutta l'avanguardia è calda come si suol dire, cioè legata alla contestazione e alla rivolta. Per i cristiani non si dovrebbe agire "occhio per occhio" e ogni omicidio dovrebbe essere considerato un deicidio. La società occidentale teoricamente ha come principio la sacralità della vita. Specifichiamo meglio: ha a cuore la vita dei propri cittadini, mentre se ne strafotte dei cittadini del terzo mondo (penso di poterlo scrivere senza essere accusato di terzomondismo). Gli intellettuali non possono arrogarsi il diritto di uccidere in nome di nobili principi, sostituendosi a Dio o giustificandosi dicendo che è un sacrificio necessario. Devono essere biofili e non necrofili, anche se c'è stato in passato chi seguendo Marx ha ucciso per trasformare la realtà o chi ha ucciso seguendo Nietzsche per una trasmutazione dei valori. Diciamocelo francamente, le ideologie covavano della violenza. La volontà di potenza era insita in ogni ideologia, anche in quella marxista. La violenza esiste anche nel liberalismo, quando esporta a ogni costo la democrazia o quando i governanti non attuano un valido welfare. La violenza è in ogni sistema di pensiero perché anche se esso non è violento sono in un certo qual modo violenti gli uomini che lo mettono in pratica. Questo sistema però può anche essere combattuto civilmente dall'interno e a questo proposito essere militanti non significa essere capziosi e neanche faziosi, bollando gli altri come piccolo-borghesi, romantici o reazionari. La realtà non si suddivide in falchi e colombe e non sempre la vita è un gioco a somma zero. E allora un intellettuale deve abbracciare l'engagement? Deve essere così impegnato politicamente da prendere le armi?

 

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(Nella foto Camus)

La risposta a tutto ciò è l'introduzione de "L'uomo in rivolta" in cui Camus scrive che bisogna opporsi al "delitto logico", quello dovuto all'azione dell'ideologia. Sempre Camus scrive che "al tempo della negazione bisognava trattare del suicidio. Nell'epoca dell'ideologia bisogna discutere di omicidio". Il grande scrittore afferma anche che in quegli anni "il delitto è legge". La formula di Camus è la seguente: "mi rivolto, dunque siamo". Per Camus la rivolta deve essere metafisica, artistica: l'uomo non deve esercitare violenza nei confronti dei suoi simili. Secondo  Camus gli uomini devono affratellarsi dopo aver compreso l'assurdità del mondo e della vita.

 

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(Nella foto Sartre)

Dopo la pubblicazione de "L'uomo in rivolta", scaturirà una polemica, assai complessa e articolata, all'ultimo sangue tra Camus, Sartre e altri intellettuali francesi. Sartre e Camus non saranno più amici per divergenza di vedute. Alla base di tutto c'è una netta contrapposizione tra chi è filosovietico come Sartre e chi no come Camus. Solo con la morte prematura di quest'ultimo si placheranno gli animi. Comunque tutti dovremmo rileggere continuamente il saggio di Moravia "L'uomo come fine". C'è scritto tutto lì. È un libro smilzo, profondo, chiaro e comprensibile. Purtroppo l'uomo è un mezzo e il consumismo, l'utile, la tecnica, il progresso, l'affermazione sugli altri sono i soli fini.

"Uno, nessuno, centomila" di Pirandello

giu 212022

 

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La questione principale di questo romanzo di Pirandello è come possa esistere una parte del proprio self inconoscibile ai propri occhi. La topica del naso, l’ombra di Genge, le sopracciglia circonflesse portano il Moscarda a uno slittamento della propria coscienza. Il protagonista vorrebbe porsi fuori di sé per osservarsi e riappropriarsi delle immagini che gli altri hanno di lui, per ricomporre definitivamente con questa serie di frammenti il proprio io. Moscarda scopre che gli altri vedono una parte di sé stesso che lui non può vedere e nel procedere in questa analisi si accorge che gli altri non percepiscono soltanto delle semplici immagini, a seconda delle angolazioni e delle prospettive da cui lo osservano, ma anche la sua maschera sociale, la “Persona”, che indossa. La tematica centrale di questo romanzo riguarda la scoperta da parte dell’io del protagonista che altre identità con le loro percezioni possono scoprire i suoi punti deboli, i suoi difetti, i suoi lati oscuri di cui lui può addirittura ignorare l’esistenza. Ma gli interrogativi che suscitano questo romanzo allora sono: ma gli altri possono davvero - come ritiene Pirandello – conoscere più del soggetto? La conoscenza degli altri riguardo ad un individuo (in questo caso Moscarda) supera quindi l’autoconoscenza, l’autoconsapevolezza e l’autocoscienza dell’individuo stesso? La telecamera può essere considerata lo specchio moderno di Moscarda. Meglio ancora, è come se fosse un enorme specchio circolare, che può rimandare immagini di tutte le parti del corpo, di tutte le movenze e di tutte le posture dell’individuo. Rivedersi in un filmato di una telecamera, può allora essere un’esperienza non dico traumatica, ma spesso deludente: ci si accorge che la propria voce può essere più baritonale di quello che credevamo, che di profilo il nostro naso risulta più pronunciato di quello che pensavamo, che ripresi di spalle siamo più curvi di quello che credevamo, etc etc. La telecamera è come un grande occhio esterno che ci può analizzare e registrare da tutte le possibili angolazioni.

 

 

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Anche gli altri che scrutano Moscarda sono occhi esterni, che hanno la stessa possibilità della telecamera di vedere e registrare da tutte le prospettive. Ma viene da chiedersi: la loro registrazione è altrettanto fedele e oggettiva? Inoltre le riprese della telecamera possono indicarci se siamo o meno telegenici, ma la telecamera non ricompone tutte le immagini di noi stessi e non si fa un’opinione globale, come fanno gli altri. La telecamera è un punto di partenza per l’autoconoscenza della propria corporeità, non della nostra identità psichica, sociale, culturale, come invece sono gli altri per noi. E’ stato il fondatore della psicologia americana William James a dare un contributo notevole a riguardo. Il Sé di ogni persona possiede fondamentalmente due dimensioni: l’io (ovvero tutte le capacità di autoconoscenza: il conoscitore del Sé) e il Me (ovvero tutti quegli attributi e quei tratti di personalità che l’Io riesce a conoscere dell’individuo: il conosciuto del Sé). James fa un’ulteriore distinzione per quel che riguarda il conosciuto del Sé: esiste un Me materiale (tutto ciò che l’individuo conosce del proprio corpo, dei propri oggetti, della propria casa, degli ambienti in cui vive), un Me sociale (tutte le rappresentazioni sociali che gli altri hanno dell’individuo), un Me spirituale (tutto ciò che l’individuo conosce della propria personalità, della propria interiorità e della propria identità psichica). Considerando queste distinzioni di William James ci accorgiamo allora che nel romanzo di Pirandello il protagonista inizia il proprio percorso di autoconoscenza dal Me materiale, continua con l’esplorare il Me sociale, per approdare infine al Me spirituale. L’originalità e la genialità dell’opera di Pirandello è aver posto l’accento su questo fatto: l’io (il conoscitore) non riuscirà mai a sapere tutto del Sé perché questo avrà sempre zone inesplorate ed inesplorabili, che non potranno mai far parte dei vari Me (ossia del conosciuto). Esisteranno sempre regioni della psiche in cui dominano incontrastati ciò che è rimosso, ciò che è represso e quello che è semplicemente non conoscibile dal soggetto.

 

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Ma oltre a aver affrontato questo problema il romanzo di Pirandello fa scaturire anche una domanda fondamentale: gli altri, avendo possibilità di osservare da prospettive sconosciute all’individuo e dall’esterno un individuo, possono potenzialmente conoscere più di quello che una persona conosce di sé stessa, essendo questa più continua e dettagliata nell’osservazione e nello studio di se stessa? In definitiva: è maggiore fonte di conoscenza riguardo alla propria individualità l’esterno o l’interno? La moderna psicologia a riguardo ci fa sapere che c’è una continua interazione tra interno ed esterno: un incessante interscambio tra intrapsichico ed interpsichico. Addirittura secondo la teoria dell’immagine l’idea che ci facciamo di noi stessi dipende in modo determinante dalla considerazione e dalla stima che gli altri hanno di noi. Secondo questa teoria sviluppata da Beach e Mitchell anche le decisioni che prendiamo nel corso della vita non sono basate tanto su un’analisi dei costi e dei benefici, quanto piuttosto dall’insieme di valori, norme, credenze, aspettative: insomma dalla concezione che noi abbiamo di noi stessi. Però allo stesso tempo gli psicologi sociali ci indicano che, quando noi stessi giudichiamo gli altri o quando gli altri giudicano noi, il giudizio spesso è errato, semplicistico, perché esistono nella mente umana scorciatoie cognitive errate, tratti impliciti di personalità, correlazioni illusorie, stereotipi infondati che possono portare a pareri erronei sulla persona o sulle persone osservate. Siamo cattivi giudici degli altri e gli altri sono cattivi giudici di noi stessi. Ma Pirandello è anche un anticipatore dei tempi odierni: è riuscito a intuire la frammentarietà dell’Io, problema reale dell’epoca moderna, se si pensa alla pericolosa sindrome che ne è scaturita, ovverosia la personalità multipla. Nonostante questa continua interazione o interdipendenza tra intrapsichico ed interpersonale l’assurdo inteso alla Camus dell’opera di Pirandello rimane però inalterato. L’uomo continuerà ancora a cercare di estrapolare dalle relazioni dal mondo esterno per assurgere a un principio chiarificatore, a una sintesi che possa cogliere e abbracciare la totalità della propria essenza. Nonostante ciò “l’assurdo” (che si verifica quando l’intelligenza dell’uomo si accorge di essere alle prese con la realtà che la supera) rimarrà una categoria astorica dell’umanità, perché il mondo esterno neanche in futuro sarà completamente raffigurabile e l’interno rimarrà per certi versi ancora inafferrabile, indicibile, inconoscibile.

La nuova lingua italiana e i mass media: il dominio del Nord

giu 202022

 

 

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Ci sono alcuni studiosi della lingua che pensano che in fatto di linguaggio siamo conservatori. Ciò era un’ipotesi accreditata ai tempi in cui era necessaria un’invasione straniera per il cambiamento di una lingua. Ma oggi? Oggi a mio avviso assistiamo a uno stravolgimento continuo dell’italiano comune, che ci hanno insegnato a scuola. Quante nuove parole ci vengono imposte dal linguaggio omologato dei nuovi mass media, dai gerghi giovanili, dai linguaggi settoriali delle nuove scienze, dall'informatica e dall'economia? Chi parla più oggi veramente italiano? Diciamo che attualmente riusciamo ancora a scrivere in italiano perché forse la sintassi e l’ortografia sono più “salde” della fonetica e del lessico. Nel nostro Paese c’è sempre stata una linea di demarcazione netta tra parlato e scritto. Sono stati pochi gli scrittori che hanno scritto nello stesso modo in cui parlava realmente la popolazione. Scrittori e poeti hanno scelto prevalentemente il toscano. La lingua adoprata dagli intellettuali è stato il volgare di Dante, Petrarca, Boccaccio. Lo stesso Ariosto rivide il suo “Orlando Furioso”, eliminò molti termini padovani e introdusse molti toscanismi. Anche Galilei utilizzò il toscano per la divulgazione scientifica. E’ da secoli che è avvenuta la toscanizzazione della letteratura italiana. Per non parlare poi di Manzoni che andò a sciacquarsi i panni in Arno. Fu proprio Manzoni a capo di una commissione del ministero della Pubblica Istruzione a stabilire che la lingua nazionale dovesse essere il fiorentino. Chiaramente non tutte le caratteristiche del dialetto fiorentino sono diventate lingua nazionale, come per esempio la c intervocalica aspirata, il togliere la desinenza re all’infinito dei verbi, il coniugare noi e il si impersonale. Don Milani anni fa era dell’idea che i poveri rinnovassero la lingua e che i ricchi la cristallizzassero. Ritengo che adesso i nuovi mass media siano gli unici capaci di rinnovare e cristallizzare la lingua italiana. E penso anche che le televisioni soprattutto ci impongano un nuovo italiano: un italiano milanesizzato, che prende spesso a prestito termini dei linguaggi settoriali, espressioni colorite dei gerghi giovanili, inglesismi vari. D'altronde Mediaset è a Cologno Monzese, le grandi case editrici si trovano quasi tutte nel Nord. Alla RAI si adeguano a parlare il milanese. Al Centro e al Sud è rimasto ben poco. Quando i giornalisti televisivi intervistano le persone molto spesso vanno nel centro di Milano. Tutto il resto dell'Italia sembra periferico. Chomsky qualche anno fa sostenne che un dialetto poteva diventare una lingua nazionale grazie ad un esercito. In Italia la lingua nazionale è stata imposta grazie a un’egemonia culturale. Da qui in avanti sarà imposta tramite un’egemonia mediatica (gli scrittori oggi contano ben poco): un'egemonia mediatica, che in fin dei conti rappresenta anche l'egemonia industriale del Nord. Le televisioni generaliste non ci propongono continuamente forse la parlata milanese come dizione corretta dell’italiano? Le show-girl che fanno i corsi di dizione non imparano forse a parlare un milanese privo di termini dialettali? I conduttori non adoprano forse una cadenza milanese o settentrionale? In fondo chi è del Sud e del Centro e vuole entrare a far parte del mondo dello spettacolo deve correggere la sua dizione, come si suol dire.

 

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 (Nella foto il poeta fiorentino Mario Luzi)

Oggi se uno va in televisione deve farlo senza inflessione dialettale, a meno che non sia un comico oppure a meno che non sia il familiare di una vittima o un cosiddetto caso umano. Per tutti gli altri non ci sono scusanti. Neanche la parlata toscana è più consentita. È avvenuta da tempo la milanesizzazione della lingua italiana. Oggi un Leopardi con una cadenza marchigiana forse non "bucherebbe" il piccolo schermo. E tutto ciò mi sembra ingiusto e inappropriato. Dirò di più: mi sembra alquanto stupido perché presuppone la concezione implicita che chi risiede al Nord sia superiore a chi vive nelle isole, nel Centro e nel Sud. Eppure il Nord così produttivo per arricchirsi ha avuto bisogno in passato e ancora oggi ha bisogno di tutti gli italiani. Milano sarebbe ben poco se fosse stata solo dei milanesi. Anche Torino sarebbe stata ben poca cosa con i soli torinesi. Infine nascere al Centro o al Sud non è una colpa, così come non è una colpa avere un accento toscano o meridionale.

 

Considerazioni sul corpo, Montale, Pasolini, Ruzzante...

giu 192022

Innanzitutto il corpo. Siamo carnali e mortali. Ecco perché il corpo è un’ossessione, soprattutto per noi occidentali. Il corpo apparentemente è un tramite per il piacere. È lo strumento prediletto per noi occidentali per avere il piacere. La maggioranza dell’io di noi occidentali è corporeo. Stare bene con sé stessi per un adolescente o un giovane significa stare bene e stare bene col proprio corpo, accettarlo. I soldi sono importanti per noi perché cibano, proteggono, salvaguardano il corpo, lo fanno stare bene, lo possono migliorare con la chirurgia, addirittura lo estendono con delle protesi come per esempio la macchina, il computer, etc etc. Al corpo viene attribuita importanza anche in filosofia con Merleau-Ponty perché è esso stesso coscienza ed è grazie al nostro organismo che percepiamo il mondo. Ma Merleau-Ponty è fondamentale anche per la psicologia della Gestalt. Comunque la filosofia del ‘900 è anche materialista, pragmatica, utilitarista, realista, funzionalista e perciò mette in primo piano il corpo. L’idealismo, lo spiritualismo, il cristianesimo vengono relegati ai margini da molti intellettuali. Le fantasie di noi occidentali sono erotiche e riguardano il corpo. Noi occidentali dobbiamo quantificare il piacere, quantificare il corpo. Il corpo nostro interagendo con un altro corpo stimola il nucleo accumbens e viene raggiunto l’orgasmo. Il nostro immaginario viene stimolato dalla pornografia: corpi prestanti che si avvinghiano ad altri corpi prestanti. Viene celebrato il corpo, soprattutto la bellezza del corpo. Ogni bel corpo va mostrato, esibito, messo in evidenza. Ma il corpo viene cristianamente anche mortificato. Il corpo ci ricorda che siamo finiti e determinati biologicamente. Secoli fa le persone si flagellavano, usavano il cilicio sui loro corpi. Adesso il cilicio castiga la psiche con i sensi di colpa, coi rimorsi. Un altro nemico della libertà del corpo, dell’espressività fisica e sessuale è la rispettabilità borghese, il cosiddetto perbenismo. Alice (al secolo Carla Bissi) in una sua canzone scriveva “parenti miei, cinture di castità e di quel poco che resta”. Spesso si ha paura del giudizio dei propri cari e si viene limitati in amore proprio da persone a cui si vuol bene. Si ha meno libertà sessuale. Si guarda anche alla convenienza sociale. Così certi uomini non si fidanzano perché hanno paura di portare a casa dalla madre una donna. Ma vale anche il contrario. Le rispettive famiglie dei due fidanzati mettono alla prova, sotto esame i due. Queste dinamiche psicologiche familiari si ripeteranno in modo più o meno conflittuale per tutta la vita. Oppure alcuni/e sono costretti dalle regole borghesi alla doppia vita. La schizofrenia sessuale/morale di noi italiani si ritrova tutta nel 1975: l’anno del Nobel a Montale, poeta borghese per antonomasia, e anno dell’uccisione di Pasolini, che col corpo e la mente suscitava scandalo, era scandalo.

 

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Ancora oggi sembra che si debba scegliere tra Pasolini e Montale, due grandi poeti che si odiarono. Montale soprannominò Pasolini Malvolio in una sua poesia. Pasolini aveva criticato la raccolta Satura perché secondo lui non impegnata socialmente né politicamente, non trattando delle tematiche attuali come la guerra nel Vietnam, etc etc. Montale rispose così: 

 

Non s'è trattato mai d'una mia fuga, Malvolio,

e neanche di un mio flair che annusi il peggio

a mille miglia. Questa è una virtù

che tu possiedi e non t'invidio anche

perchè non potrei trarne vantaggio.

No,

non si trattò mai d'una fuga

ma solo di un rispettabile

prendere le distanze.

Non fu molto difficile dapprima,

quando le separazioni erano nette,

l'orrore da una parte e la decenza,

oh solo una decenza infinitesima

dall'altra parte. No, non fu difficile,

bastava scantonare scolorire,

rendersi invisibili,

forse esserlo. Ma dopo.

Ma dopo che le stalle si vuotarono

l'onore e l'indecenza stretti in un solo patto

fondarono l'ossimoro permanente

e non fu più questione

di fughe e di ripari. Era l'ora

della focomelia concettuale

e il distorto era il dritto, su ogni altro

derisione e silenzio.

Fu la tua ora e non è finita.

Con quale agilità rimescolavi

materialismo storico e pauperismo evangelico,

pornografia e riscatto, nausea per l'odore

di trifola, il denaro che ti giungeva.

No, non hai torto Malvolio, la scienza del cuore

non è ancora nata, ciascuno la inventa come vuole.

Ma lascia andare le fughe ora che appena si può

cercare la speranza nel suo negativo.

Lascia che la mia fuga immobile possa dire

forza a qualcuno o a me stesso che la partita è aperta,

che la partita è chiusa per chi rifiuta

le distanze e s'affretta come tu fai, Malvolio,

perchè sai che domani sarà impossibile anche

alla tua astuzia.

(Diario del '71 e del '72)

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Mai come in questo secolo c’è così tanta insoddisfazione sessuale: il desiderio è incessante a causa del bombardamento pornografico a cui siamo sottoposti. Ecco perché la monogamia è un’utopia. Ecco perché come scrissi tempo fa questa è l’epoca in cui gli stessi amanti sono cornuti. È l’epoca del poliamore, della pansessualità ed è totalmente legittimo: lo scrivo senza moralismi. Molti sono dipendenti dal sesso, alcuni vanno a disintossicarsi nelle cliniche. Al sesso, al corpo viene attribuita un’enorme importanza. Anche un intellettuale serissimo come Fortini in "Verifica dei poteri" non può far a meno di trattare dell’emanicipazione sessuale delle impiegate di allora. Ma il desiderio fisiologicamente scema con l’età. Ci sono la menopausa, l’andropausa, i cali del desiderio fisici e psicologici. Alcuni che hanno mancato l’appuntamento con la giovinezza si imbottiscono di Viagra, cercando l’elisir di eterna giovinezza. Passano gli anni. Il padre di un mio carissimo amico gli consigliava sempre di fare sesso, di non aspettare perché si invecchia presto. In là con gli anni spesso si trova il declino inarrestabile o la morte. Si può anche essere impossibilitati a prendere il Viagra per una cardiopatia (la famosa pillola può far male al cuore). Vivere significa per dirla alla Luzi affrontare il corpo oscuro della metamorfosi, prima di tutto le metamorfosi del nostro corpo. Riprendendo una canzone di Piero Pelù il nostro corpo cambia continuamente. Il problema della letteratura italiana è quello di essere troppo incentrata su Dante. La letteratura italiana è più spirituale e idealista; spesso reprime il corpo. Il rapporto tra i sessi viene mitizzato, idealizzato da molti letterati. Voi mi potreste dire: abbiamo anche il Boccaccio. Ma qualche pagina di Boccaccio da sola non basta, finisce per essere innocua, non prepara alla vita vera.  Parafrasando il celebre detto neoavanguardistico bisognerebbe fare tutti una salutare gita a Pernumia invece che a Chiasso! Bisognerebbe guardare anche a Ruzzante. Bisognerebbe leggere le sue storie di povera gente veneta. Troppo materialista la popolazione italiana e troppo idealista,  etereo il mainstream della letteratura italiana! Nelle scuole italiane dovrebbero far leggere anche Rabelais e Montaigne: tutta gente carnevalesca e che non reprimeva il corpo. Ma Montaigne, Rabelais, Ruzzante sapevano anche ridere di sé stessi e del corpo. In questo periodo siamo in crisi perché il pericolo nucleare minaccia i nostri corpi, le nostre vite. Molti hanno comprato pasticche di iodio per salvaguardare la tiroide da un tumore in caso di radiazioni. Stiamo uscendo dalla pandemia, che ha minacciato i nostri corpi anch’essa. Qualcuno ricordava che dopo la peste molti si diedero alle orge e alcuni  vorrebbero farlo anche loro dopo la sconfitta del Coronavirus. Oggi come sempre si inneggia alla corporeità, si celebra la fisicità. Gli uomini devono essere forti, prestanti, aitanti, vigorosi. Le donne devono essere sinuose e longilinee. Chi non rispetta o non si adegua a questi canoni è out. Chi critica tutto ciò è addirittura un nemico da abbattere. Sul corpo vengono costruiti idoli e templi. Bisogna insegnare a ridere del corpo ai ragazzi. Bisogna far leggere gli autori suddetti e non solo Dante, che era senz'altro un genio immenso per strutturare l'aldilà e il Medioevo in terzine incatenate (il primo verso della terzina rima con il terzo verso della stessa terzina, il secondo verso della terzina rima con il primo e il terzo della terzina successiva  e così via, ad libitum),  endecasillabi quasi tutti canonici (si dicono così gli endecasillabi che hanno l'accento tonico sulla quarta o sulla sesta sillaba oltre che naturalmente sulla decima), in buona parte a maiore (cioè con l'accento tonico sulla sesta sillaba oltre che naturalmente sulla decima). Non si può però far vivere i ragazzi nell'Iperuranio letterario, nel dolce stil novo. Il corpo va affrontato anche in letteratura.  Sul corpo c’è tutto un business mondiale. In Occidente esistono due polarità contrapposte: la carnalità e la spiritualità. Si creano così doppiezza, atteggiamenti schizofrenici. Sembra che non si possano coniugare le due cose. Da  una parte l’orgasmo e dall’altra l’estasi mistica. Ma c’è chi basa tutto sul sesso e non raggiunge l’orgasmo. C’è chi vuole il rapimento mistico e in realtà riduce tutto alla solita, misera preghiera interessata. Ma siamo sicuri che non ci sia un intreccio tra i due aspetti? Dopo l’Eros sperimentiamo Thanatos. Dopo Thanatos rivogliamo Eros. Le due cose si richiamano a vicenda: la vita nella morte, la morte nella vita.

 

Considerazione sulla poesia ai tempi del Covid....

giu 192022

Questi pensieri disincantati e disillusi  sono stati scritti nel bel mezzo della pandemia. Sono molto pessimisti perché risentivano del fatto che allora non vedevo assolutamente una via di uscita (se c'è una via di uscita o meno non lo sa però nessuno con certezza). Ne riporto fedelmente i contenuti senza modifiche. Tenete però presente il mio stato d'animo di allora. 

 

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La poesia contemporanea italiana è in crisi da decenni. Mi manca comunque il raffronto con le altre nazioni che non conosco. È difficile ad ogni modo giudicare e valutare i poeti. Il grado di oggettività è minimo nella valutazione perché la poesia è anche “parola” (e non solo “langue”), è anche connotazione. Esiste poi la cosiddetta polisemia nella lirica. Inoltre come scrisse Sereni la poesia è “custode non di anni ma di attimi”. È qualcosa di impalpabile. Nessuno può comunque avere pretesa di esaustività nel definire la comunità poetica. Personalmente sono pessimista sulla poesia contemporanea italiana. Forse sono io che chiedo troppo alla poesia. Chiedo che non sia uno sfogatoio e che non abbia carattere privatistico, ma che abbia universalità. Chiedo che non sia pretestuosa né intellettualistica. Chiedo che non crei mondi fittizi, ma che sia in presa diretta con la realtà. Chiedo che non sia finzione e che le sue parole non siano evanescenti. Chiedo che critichi le istituzioni senza cadere in un vuoto ribellismo. Chiedo che sia una forma di arricchimento della personalità. Chiedo che mostri il lato irrazionale in una società basata sul razionalismo. Chiedo una poesia che almeno abbia sullo sfondo le patologie sociali, le sopraffazioni, le ingiustizie. Chiedo che cerchi di dare un senso alla vita. Forse è troppo. E poi cosa è mai questa poesia contemporanea? Ha forse un volto riconoscibile? Cosa c’è dietro un apparente fermento? È difficile offrire una panoramica vasta. Il fenomeno è complesso. Attualmente sono mutate molte cose (c’è stata una pandemia con milioni di morti nel mondo e più di centomila in Italia, c’è una gravissima crisi economica, c’è il debito pubblico alle stelle, eccetera eccetera). Intendiamoci bene: c’è chi fa cose più mostruose o inique di scrivere versi. Al mondo c’è chi ammazza, chi è pedofilo, chi fa il trafficante d’armi. Come può però una poesia, a tratti elitaria e illeggibile come quella contemporanea italiana dire qualcosa ai cittadini? Si possono dire le cose in modo più semplice? Un poeta farebbe sempre meglio a chiedersi: che sto a dire? Come lo sto a dire? Per quanto riguarda la comprensibilità dei testi la Dickinson scriveva che si doveva dire la verità in modo criptico, mentre K. Popper sosteneva che niente è così facile che scrivere in modo difficile e che tutti coloro che scrivono devono porsi come dovere la chiarezza espositiva (però era un filosofo). La realtà in poesia è che i componimenti dovrebbero in teoria cercare sempre di raggiungere i vertici della significazione. Però i poeti spesso cercano termini ricercati, talvolta antiquati, perché li considerano più consoni. I poeti tra gambo e stelo scelgono sempre il secondo vocabolo, anche se non sarebbe necessario. Anche i poeti in fondo hanno il loro gergo. I più dicono di farlo per la eufonia, la musicalità. Io ho i miei dubbi. Mi sembra che Pasolini avesse dichiarato a riguardo che esistesse in poesia un codice classista del linguaggio. Disse che nella sua prima poesia da bambino aveva utilizzato i termini “usignolo” “verzura”, anche se li conosceva vagamente. Comunque è vero che la realtà è complessa e per dirla alla Gadda "la vita è barocca ". L'esistenza è ciò che pensiamo e sentiamo in base a quello che ci accade. Ma stare a raccontare i nostri fatti inessenziali è oggetto di prosa. Esprimere pensieri ed emozioni, costruire simboli, metafore e analogie significa sapersi innalzare dalle cose della vita e fare poesia. La letteratura e con essa la poesia è una forma di conoscenza intuitiva e provvisoria. Non a caso Antonio Pizzuto riassume tutto in questi termini: "A è A, se A è A, finché A è A".  Nella poesia il cuore comunque è nella parola ma anche nell'immagine. Spesso fare poesia significa mettere la testa sopra la melma.

La poesia italiana comunque  versava già da tempo in gravi condizioni. Che cosa può dire un poeta o una poetessa a persone in difficoltà? Che cosa può dire un poeta o una poetessa a un malato di Covid o a un familiare di una vittima del maledetto virus? Oppure di fronte a un familiare di una vittima sul lavoro? Oppure di fronte alla fame nel mondo? Come verbalizzare e rendere credibile la verbalizzazione del nostro vissuto e delle nostre vicissitudini di fronte ai traumi così devastanti di chi non ha un euro o ha un familiare morto di Covid? Può un poeta trattare delle tragedie altrui, del Covid altrui senza incorrere nella retorica e nella inautenticità? I poeti attualmente non rischiano di scrivere in una lingua morta? La poesia può davvero essere testimonianza di quello che sta accadendo? Questi argomenti non sono assolutamente triti e ritriti. Nessuno ne dibatte oggi. Invece dovrebbero essere studiati attentamente. Prima di difendere strenuamente i poeti, dire che la poesia migliora la vita e salvaguardare la poesia bisogna riflettere a livello ontologico, etico ed epistemologico sulla scrittura in versi. Bisogna come minimo portare avanti dei ragionamenti e vedere quali sono gli ostacoli. Ognuno deve fare i conti con sé stesso, a costo di mettere in crisi certezze ed identità. Non è questione di indicare un approccio rivoluzionario. Nessuno sa quale è la strada migliore da seguire, ma non fare ciò significa mancare di nuovo a un appuntamento fondamentale, quello della storia. Oggi scrivere versi, guardando al proprio ombelico, non è più possibile a mio modesto avviso. C'è il rischio della fine del mondo. Pochi riflettono veramente sulla grave crisi in cui versa il mondo nel cosiddetto Antropocene. Inoltre i poeti dovrebbero chiedersi se davvero ne vale la pena, visto che non ci guadagnano e che la gloria nella maggioranza dei casi si fa attendere. Dovrebbero farsi un esame di coscienza, che è allo stesso tempo sia un atto di onestà intellettuale che un atto di umiltà. Ciò nonostante molti non si pongono queste domande essenziali. In molti predomina il narcisismo e il compiacimento. La visibilità è scarsissima, risibile in questa arte. Alcuni sono frustrati e soffrono di smanie di grandezza. Per un meccanismo di compensazione si autoingannano, mentendo a sé stessi. La poesia ha una scarsa condizione in questa società capitalistica e tecnologica. Che fare allora? Fare la rivoluzione? Diventare uomini in rivolta? Essere tecnofobi? Rifiutare tutti i paradigmi scientifici e le conquiste della scienza? Ritornare allo stato di natura? Un poeta o una poetessa dovrebbe chiedersi se è degno di nota come poetica e come stile, se è valido veramente sia da un punto di vista contenutistico che formalistico. Qualcuno potrebbe obiettare ciò che scrivo e sostenere che ognuno deve fare la sua parte. Ma i poeti possono reggere l’onda d’urto del Covid per  esempio?

 

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Il rischio infine è che la poesia in Italia diventi ancora più marginale di quello che è già. Una domanda sorge allora spontanea: cosa può fare di fronte alla pandemia e alla conseguente crisi economica la poesia italiana, già precedentemente poverissima ancella della società attuale? Questi sono gli interrogativi cruciali. Sicuramente la poesia italiana sopravviverà. Non lo metto in dubbio. La poesia morirà con l’ultimo uomo. Non voglio disquisire se la poesia salvi l’uomo oppure no. A proposito del fatto che la poesia non vende e delle classifiche dei libri fatte solo in base alle vendite ricordo cosa dichiarò Arbasino in una intervista, ovvero che non si può considerare McDonald’s il miglior ristorante del mondo perché la maggioranza lo frequenta. Ritorniamo al binomio pandemia/poesia. Non si può fare finta di niente e mettersi delle fette di prosciutto sugli occhi. Cito testualmente Adorno: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie e ciò avvelena la consapevolezza stessa del perché è divenuto impossibile oggi scrivere poesia.” (Theodor Adorno, “Critica della cultura e società”). Valgono anche oggi le parole di Adorno? È meglio a mio modesto avviso per molti “poeti”, per dirla alla Freud, abbandonare il principio di piacere e abbracciare il principio di realtà. Ognuno prima di scrivere si autovaluti con la coscienziosità del buon padre di famiglia e l’onestà intellettuale di un critico disincantato, smaliziato. Nessuno ora può esimersi dall’esame di realtà. Questa situazione, la crisi del mondo attuale, da qualsiasi punto di vista la si guardi, è tragica. È una situazione che nientifica, nullifica la fruizione di ogni esperienza estetica. Questo è il problema principale, che va affrontato seriamente. Non ci sono scappatoie né vie di uscita. Non si può eludere. Non si può girare intorno, a meno che uno non viva in un mondo tutto suo e che si accontenti di tanto in tanto di un trafiletto in cronaca locale o di vincere un premio ininfluente di un paesino sperduto. Siamo franchi; non sono più i poeti a suggestionare ma la TV, gli influencer e i guru della crescita personale, della programmazione neurolinguistica, del neuromarketing. Oggi al massimo i poeti si autosuggestionano. Non tutte le parole scritte diventano poesia, come non tutte le pietre lanciate rimbalzano sull'acqua. La stragrande maggioranza delle parole si inabissano subito. In ogni caso tutti i pensieri scritti finiscono in una serie di cerchi concentrici, scaturiti dal sasso che finisce nello stagno. Ogni poeta è come un sasso che alza il livello dello stagno, dando il suo apporto culturale. I poeti degni di nota sono sassi che sono rimbalzati sullo specchio d'acqua. Ma sono eccezioni. Probabilmente tutto è vanità (come è scritto nell'Ecclesiaste) e tutto è inutile (come scriveva Guido Morselli nel suo diario). C’è chi per soddisfare il suo bisogno di immortalità fa figli e chi per trascendere la sua morte scrive versi. Io non farò nessuna delle due cose. Un tempo scrivevo versi. Ma ora non più. Cosa significa poi pubblicare poesie sul web? Sono forse messaggi in bottiglie nell’oceano in un tempo in cui tutti lasciano messaggi nelle bottiglie? Viene da chiedersi se da questa passione si può trarre giovamento e se con essa si possa raggiungere il famoso benessere psicologico. È soggettivo. Ci sono anche qui le contrarietà e non solo le soddisfazioni. È questione di fare una analisi costi/benefici. C’è anche chi si accontenta di qualche contentino, di pochissimo, quasi di nulla. Ma forse è soprattutto questione di buonsenso. Bisognerebbe forse raccogliere l'esortazione del grande Fortini: "Non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi". Però non c’è solo il benessere psicologico di chi scrive ma anche di chi legge e ciò non è un fattore secondario, anzi dovrebbe avere la priorità assoluta. La poesia infine può contribuire alla felicità come una bella passeggiata, qualche carezza al cane, una cena tra amici. Sono molteplici le occasioni che ci possono rendere felici. Personalmente guarderò in disparte. Leggere poesia e osservare la comunità poetica è una singolare e strana avventura.

Davide Morelli – 6/7 gennaio 2021

Due parole su Borges...

giu 162022

 

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Borges è stato il più grande scrittore e poeta argentino del Novecento. La sua cultura è stata enciclopedica. La sua memoria è stata prodigiosa. Forse talvolta Borges ha avuto paura di essere come il suo Funes. Ricordo che per il Funes la memoria sprovvista di filtro e incapace di oblio era diventata "un deposito di rifiuti" e aveva reso il personaggio sovraccarico di letture e di sensazioni al punto da non riuscire più a pensare. Forse questa era una sua ossessione. Di sicuro sappiamo di altre sue ossessioni. Per esempio odiava il calcio perché aveva paura delle folle. Aveva l'ossessione degli specchi perché moltiplicavano l'uomo e la copula. A qualcuno talvolta Borges potrebbe apparire come un reazionario. Ma se è vero che non si impegnò mai in politica, è altrettanto vero che fu cieco per buona parte della sua vita. Infatti perse la vista sia perché affetto da una grave forma di miopia, sia perché leggeva forsennatamente. Va ricordato anche che per Borges il miglior assetto politico e sociale era quello che conciliava il massimo della libertà individuale con un minimo di governo. Non un reazionario quindi, ma un intellettuale disincantato.
I suoi scritti sono colmi di miti, metafore, paradossi. La sua è una letteratura fantastica. D'altronde la letteratura nell'antichità era sempre fantastica: era innanzitutto cosmogonia e mitologia. I maestri di Borges sono stati Dante, Kafka, Pascal, Whitman, Cervantes, Keats, Valery. Borges è stato anche un profondo conoscitore della letteratura orientale, tanto è vero che nei suoi saggi fa più volte riferimento alle "Mille e una notte". È grazie alla vastità delle sue letture che creerà il racconto "La ricerca di Averroè", in cui narra di questo medico arabo che chiuso nell'ambito dell'Islam cerca di tradurre le parole "commedia" e "tragedia" da uno scritto di Aristotele. Lo scrittore argentino in poche pagine mette in evidenza magistralmente i limiti gnoseologici della traduzione perché Averroè lavora vanamente e non conosce minimamente il contesto storico e culturale dell'antica Grecia. Borges non disdegna neanche la filosofia. Infatti da Berkeley prenderà a prestito l'idea di un Dio che sogna il mondo, mentre da Platone riprenderà la concezione del tempo come "immagine mobile dell'eternità". Inoltre nella sua raccolta di saggi "Discussioni" illustrerà in modo illuminante uno dei cardini della filosofia di Nietzsche: l'eterno ritorno. Si veda a questo proposito il tempo circolare. Secondo questo principio l'universo sarebbe composto da quanti d'energia illimitati per la mente umana ma non infiniti. Una volta esauritesi tutte le combinazioni tra i quanti di energia si ripeterebbero gli eventi. Questa idea è alla base dell'arte combinatoria di Borges. Una delle sue tematiche di fondo infatti è che la casistica del mondo è vasta ma limitata. Ecco spiegato perché nei suoi racconti fantastici esistono personaggi che a distanza di secoli commettono le stesse azioni o creano le stesse opere. Da qui deriva la concezione borgesiana secondo cui "nessuno è qualcuno e ciascuno è tutti", espressa nel suo racconto "L'immortale" nell' "Aleph". Partendo quindi dal presupposto che siamo sempre gli stessi e viviamo svariate vite possiamo essere in tempi diversi santi e assassini, scrittori e analfabeti, guerrieri o codardi. Perderemmo quindi la nostra individualità. Perderemmo i meriti e i demeriti della singola esistenza.
La biblioteca, la sfera e il labirinto sono i simboli più importanti dell'opera narrativa di Borges. Per quanto riguarda la produzione poetica i simboli che spiccano sono la rosa e la tigre. In "Finzioni" la biblioteca di Babele è "una sfera il cui centro esatto è qualsiasi esagono e la cui circonferenza è inaccessibile". I bibliotecari che vivono tutta la vita in un angolo della biblioteca sono alla perenne ricerca del "libro totale", ovvero dell'opera che può racchiudere il significato ultimo. Borges ci dice che i bibliotecari alla fine si scoraggiano perché nessuno riesce a trovarlo. Trovare quel libro significherebbe carpire il segreto dell'esistenza. Ma lo scrittore ci fa sapere che probabilmente la razza umana si estinguerà e la biblioteca sopravviverà ai suoi lettori. La biblioteca è quindi il simbolo della conoscenza universale. Veniamo invece alla sfera, ovvero all'Aleph. Questo ultimo è "il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli". La sfera quindi è per Borges il luogo che permette all'uomo di travalicare gli angusti limiti della propria percezione visiva e della propria corporeità. Se la biblioteca è simbolo della conoscenza, invece la sfera è simbolo dell'esperienza, a mio modesto avviso. Per Borges il libro è sempre stato un labirinto di simboli: un'opera aperta in cui il lettore può scegliere tra diverse alternative. Se il labirinto però sembra descrivere il groviglio inestricabile dell'esistenza umana dobbiamo riferire che è per Borges un simbolo di vita e non di morte. Infatti nell' "Aleph", più esattamente nel racconto "I due re e i due labirinti", due sovrani si sfidano tra loro. Il primo rinchiude il secondo nel labirinto, ma quest'ultimo riesce a uscirvi. Il re fuggito dal labirinto invece fa prigioniero l'altro e lo mette nel deserto in cui morirà di fame. Borges in definitiva ci insegna che l'uomo senza l'attività simbolica sarebbe niente. In fondo per gli antropologi l'uomo è giunto alla civiltà quando è iniziato il culto dei morti: riti e pratiche che senza capacità simboliche non sarebbero esistite. Borges ci ricorda anche che la vita umana è una vita in profondità. Io suggerisco di leggerlo perché in particolare "Finzioni" e "Aleph" smuovono la mente e stimolano la creatività. Borges ha questo grande pregio: fa scattare sempre le molle dell'immaginazione, partendo sempre da presupposti logici e razionali.

Cosa ci vuole per essere scrittore o poeta?

giu 152022

 

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(Nella foto Salinger)

Cosa ci vuole per essere uno scrittore o un poeta? Quali sono i requisiti indispensabili? È difficile dirlo. Visto che non ci sono due scrittori uguali a questo mondo è quasi impossibile fare una ricetta con tutti gli ingredienti. Uno scrittore deve avere una discreta conoscenza della lingua, essere un minimo acculturato,  sapersi districare tra i concetti. Uno scrittore deve essere intelligente? Secondo le più recenti scoperte psicologiche il quoziente di intelligenza non è più considerato un tratto stabile della personalità di un soggetto. Può variare in base all'ambiente, agli stimoli culturali ricevuti, può essere abbassato provvisoriamente da periodi di depressione. Inoltre ci sono problemi epistemologici riguardo al Q.I.
I test sono una misura indiretta soggettiva, ovvero risentono della definizione operativa che gli ideatori del test danno (la distinzione tra misura diretta e misura indiretta è la prima cosa che si trova nei libri di fisica. Riguarda proprio il primo capitolo di molti manuali). I test sono una misura grossolana del pensiero convergente, ovvero misurano in modo approssimativo la logica deduttiva comune. Sono fallibili e perfettibili. Ma esiste anche il pensiero divergente un poco più correlato alla creatività. Inoltre i test di intelligenza non sono "culture free", come gli psicologi vorrebbero far credere. Dipendono anche dalla cultura degli ideatori. Non si può quindi valutare l'intelligenza di un soggetto a prescindere dalla sua cultura. Infine ogni concezione di intelligenza è relativa all'appartenenza di una certa cultura, di una certa società. Poi ci sono persone creative, autistiche o altro che hanno un'intelligenza particolare, che non si presta a essere misurata con i test. È quindi importante il Q.I per uno scrittore? Salinger aveva solo un Q.I di 104 punti (solo 4 punti superiore alla media, ovvero nella media). Lucio Dalla che era un geniale cantautore da piccolo era risultato un ritardato mentale secondo i test di intelligenza. È importante allora come si utilizza il proprio Q.I? Senz'altro, ma il Q.I non appartiene a una scienza esatta. Importante è valutare le opere di uno scrittore, di un poeta. Bisogna quindi valutare unicamente Salinger per i "Nove racconti" e per "Il giovane Holden". Bisogna valutare la bravura di Lucio Dalla per le sue canzoni. Tutto il resto è pettegolezzo, ignoranza, disinformazione. Per alcuni bisognerebbe sfruttare non solo la propria intelligenza ma anche quella degli amici o degli altri letterati. In questo caso il dialogo, il confronto sarebbe utile. Per Aldo Busi bisognerebbe sfruttare anche la stupidità propria e dei conoscenti. A ogni modo la scrittura è ritenuta da alcuni una intelligenza, nel senso di una particolare forma di intelligenza. Se il Q.I (condizione limitata dell'intelligenza umana) è poligenico, cioè dipende grossomodo da poco più di un migliaio di geni, il talento artistico è ancora più complesso, per nulla misurabile, in parte sfuggente. Concludendo un poeta o uno scrittore non necessariamente devono essere persone straordinarie, avere chissà quale capacità incredibili. Basta che non siano persone dalle potenzialità quasi totalmente inespresse. Basta che usino un poco il loro intelletto. Non c'è bisogno di essere veggenti, come volevano certi poeti maledetti. Non c'è neanche bisogno di saper parlare 50 lingue, come faceva Rimbaud. Un altro piccolo appunto: un conto è essere persone "medie" (anche se essere medi è un'astrazione generica e poco attendibile) e un altro è l'artista che ha una scrittura basata tutta sulla medietà, ovvero su un linguaggio semplice e comprensibile. Ci vuole anche talento e sforzo per essere chiari. Ma come scriveva in una sua poesia Luciano Erba, tanto per ironizzare un poco:


In medio stat vitium

"Sei di quelli che ai test
danno segni contraddittori
ma di certo
né genio né idiota
e allora?
Un pover'uomo
perseguitato dai geni e dagli idioti."

 

Cosa ci vuole per diventare uno scrittore allora? Il famigerato pezzo di carta? Può aiutare, ma anche questo non è indispensabile. Montale, Quasimodo, Deledda, Dario Fo, etc etc erano autodidatti. È vero che un laureato in lettere o un dottore di ricerca in italianistica hanno delle conoscenze più organiche. Ma la scuola italiana è pur sempre umanistica e la fruizione della cultura oggi ha raggiunto livelli insperati rispetto a qualche decennio fa.
Ci vuole un poco di sana pazzia allora? Può aiutare, ma non è anch'essa indispensabile. A onor del vero c'è una correlazione significativa tra depressione, ciclotimia, disturbo bipolare e creatività artistica. Ma non tutti gli artisti soffrono di disturbi di umore. Disturbi mentali più gravi invece toglierebbero alla creatività, porterebbero all'inattività in quei periodi di scarsa lucidità, soffocherebbero per quei periodi di crisi la creatività sul nascere. Comunque se la scrittura può essere una buona autoanalisi non deve sostituire psicofarmaci e sedute psicoterapiche in caso di bisogno. È molto difficile superare un trauma con la sola scrittura. Quasi impossibile. Non ci si può affidare unicamente alla propria scrittura, a sé stessi. Significa chiedere troppo a sé stessi.
Ci vogliono dei maestri allora? Senza una piccola dose di talento in partenza nessuno fa niente. Il talento però deve essere anche coltivato soprattutto con letture e talvolta con frequentazioni. Talvolta ci possono però non solo momenti di crescita ma anche motivi di attrito, dispersione di energie, manifestazione di idiosincrasie, etc etc. Gli incontri possono rivelarsi improduttivi o controproducenti. È vero che un maestro può aiutare nella carriera letteraria e che da ogni incontro di persona si possono ricevere degli input culturali. Ma leggere assiduamente può essere più formativo.
Ci vogliono le frequentazioni con altri letterati o aspiranti artisti? Può darsi. A patto che non siano conoscenze nocive o dispersive. Fare cricca può servire a fare carriera letteraria. Ma ciò non è richiesto per crescere umanamente, spiritualmente e per avere una maggiore consapevolezza esistenziale.
Ci vuole la partecipazione di scuole di scrittura? Se si hanno soldi da spendere possono servire, possono aiutare a migliorare. Ma bisogna avere capacità di discernimento e sapere valutare le scuole farlocche e quelle serie. Saper distinguere il buono dal cattivo non è affatto scontato. A ogni modo nemmeno le peggiori scuole di scrittura rovinano il carattere delle persone. Qualche insegnamento utile si può sempre trarre.
Ci vuole una grande oratoria, una bella parlantina per essere scrittore? Può aiutare molto perché tutti o quasi valutano le persone in base alla sottocultura televisiva, in cui conta molto parlare velocemente anche senza dire niente di interessante. Ma per scrivere bene un autore deve soltanto scrivere bene. Sembrerà tautologico, ma è così senza ombra di dubbio. Calvino e De André non erano grandi oratori. E che cosa importa in fin dei conti? Non guardiamo in base alle apparenze, alle prime impressioni. Uno scrittore deve fare lo scrittore e non l'avvocato penalista. Ancora una volta cerchiamo di giudicare in base alle opere.
Uno scrittore deve aver letto migliaia di libri? In un certo qual modo non può essere naif. Anche se non è un grande intellettuale, un buon livello di acculturazione e di intellettualità deve averlo. Deve sapere un minimo le regole del gioco, i canoni, la storia della letteratura, la conoscenza della tradizione almeno a grandi linee.
Uno scrittore o un poeta deve forse aderire a un ismo, a una corrente artistica? Fondamentale è che abbia una visione del mondo e di conseguenza una poetica, da cui scaturisca uno stile.
Cosa ci vuole per essere scrittore o poeta? Per usare una formula stantia però sempre valida: tradizione+innovazione. Non bisogna essere epigoni, manieristi. Ma nemmeno bisogna ricercare a tutti i costi l'originalità, finendo solamente nell'eccentricità.
Di cosa ha bisogno uno scrittore o un poeta? Di conoscere un poco sé stesso, gli altri, il mondo. Ha bisogno di trovare delle idee. Bisogna che stia in ascolto di sé stesso, degli altri, del mondo. Deve saper cogliere i segnali che le cose della vita e del mondo gli inviano, deve saperle recepire.
Di cosa ha bisogno uno scrittore? Per dirla alla Montale delle "occasioni". Ci sono luoghi, persone, situazioni e istanti che ispirano la scrittura. Ci sono vite più interessanti e più ricche di occasioni, di opportunità poetiche e altre meno. Ma c'è bisogno allora di una vita inimitabile dannunziana? Può essere molto rischioso e portare all'autodistruzione. È vero che prima bisogna vivere, quindi filosofare e scrivere. Ma bisogna anche dimostrare un minimo di accortezza nella vita di tutti i giorni. In pratica la sregolatezza dei sensi porta di sicuro all'imbruttimento spirituale oltre che a un possibile arricchimento esperienziale. Meglio sapersi controllare, darsi delle regole. Cosa deve cercare un poeta o uno scrittore? Rimbaud cercò per tutta la sua vita sia una formula appropriata per l'esistenza che un luogo idoneo per vivere. Andiamo oltre. Come scrive in un suo post su Facebook il poeta Luca Alvino ogni scrittore o poeta è come un commerciante, che ogni giorno deve andare in negozio a vedere se vende qualcosa. Anche Moravia sosteneva che non bisognasse aspettare l'ispirazione, ma che ogni giorno bisognasse obbligarsi a scrivere per qualche ora. Bisogna costringersi, vincere il terrore della pagina bianca.
Di cosa ha bisogno un poeta o uno scrittore? Di essere riconosciuto come tale dalla critica o almeno dalla comunità letteraria. Il talento però, come ho scritto più volte, non sempre è riconosciuto e riconoscibile. Ma si può anche scrivere senza che il mondo si accorga di noi. Pessoa, Pascal, Tomasi di Lampedusa, Guido Morselli non pubblicarono i loro capolavori in vita. Socrate non lasciò niente di scritto. Non è necessario pubblicare a ogni costo secondo una scuola di pensiero. Secondo un'altra scuola c'è il diritto/dovere di un autore di farsi conoscere. È chiaro che ci vorrebbe un pubblico, ma siamo in Italia: pochi leggono e per i miracoli nessuno è ancora attrezzato. Come scrive magistralmente Massimiliano Parente: "Cogito ergo sum, ergo scrivo, ergo mi autopubblico, ergo mi autoleggo e chi s'è visto s'è visto. Stringi stringi: che bisogno c'è dell'editore? Mi pubblico io. Che bisogno c'è del lettore? Mi leggo io".
Di cosa ha bisogno uno scrittore o un poeta? Della libertà interiore, sociale, politica, umana per scrivere. Per scrivere liberamente bisogna vivere in una democrazia e non tutti in questo mondo vivono in una democrazia. Non scordiamocelo mai quando ci lamentiamo delle nostre difficoltà, vere o presunte.

 

Su Pasolini...

giu 142022

 

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2 Novembre 1975. Pasolini viene assassinato vicino a un campetto di calcio all'idroscalo di Ostia. Riceve percosse, bastonate e agonizzante viene travolto più volte con la sua stessa auto. I capelli intrisi di sangue. Le tracce di pneumatici segnano la sua schiena. Le dita della mano sinistra fratturate. Dieci costole fratturate. Il cuore scoppiato. E' irriconoscibile, tant'è vero che la donna che scopre il suo cadavere e avverte la polizia di primo acchito aveva pensato che fosse un sacco di stracci. Muore quella notte uno dei più grandi intellettuali dell’epoca. Non solo, ma anche uno degli intellettuali più scomodi che la letteratura del ’900 possa annoverare. Oggi a molti anni dalla sua scomparsa sarebbe l'ora di smettere di demonizzarlo o al contrario di mitizzarlo per cercare nel modo più obiettivo di valutare la portata del suo testamento e di analizzare il suo iter creativo. E' stato ammazzato e quindi potremmo mitizzarlo quanto vogliamo, diranno i più. Non sappiamo ancora chi è stato veramente e soprattutto quanti sono stati, però sappiamo sicuramente chi è stato a linciarlo quando era in vita, diranno altri: è stata quella borghesia, che secondo Pasolini non era una classe sociale, ma una vera e propria malattia, una serpe covata nel seno della società italiana. A tal riguardo Moravia lo aveva già detto che la borghesia italiana era capace di tutto; bastava volgersi indietro e constatare le responsabilità effettive del ceto borghese nella controriforma e nel fascismo. Il suo omicidio "irrisolto" è una ferita ancora aperta nella società civile, dirà il presidente dell'Arcigay. Personalmente ritengo che mitizzarlo o addirittura santificarlo laicamente, mi si perdoni l'ossimoro, significhi togliere ai più la possibilità di conoscere le sue opere, anche se certamente questo tipo di operazione lo rende maggiormente popolare. Mitizzarlo significa a mio avviso considerarlo un fenomeno da baraccone e diffondere una conoscenza sempre più vaga del suo pensiero e delle sue opere ed è inutile "pubblicizzarlo" come personaggio e riempirsi la bocca di ipotesi più o meno plausibili sulla sua morte, quando invece a molti anni dalla sua morte il poeta e lo scrittore Pasolini non fanno ancora parte dei programmi ministeriali della letteratura italiana delle superiori. Omicidio "irrisolto" dicevo. Sarà Pino Pelosi ad essere condannato per questo omicidio. Ma molte cose non saranno mai chiarite definitivamente.

DELITTO POLITICO ?
Sono in molti ad ipotizzare una pista politica. Il potere perciò avrebbe ucciso il poeta friulano perché dentro di sé sentiva sempre la necessità di dire la verità o quantomeno la sua verità in un paese di intellettuali cortigiani, che stavano sempre dentro il palazzo. Pasolini non era cortigiano e per essere cortigiani non significava necessariamente essere dei fascisti, né dei reazionari, né dei liberali in un dopoguerra in cui si registrava un’egemonia culturale della sinistra. Pasolini era comunista, ma era stato espulso dal partito per delle accuse infondate (per i fatti di Ramuscello per cui venne assolto dal giudice) e per l’omofobia di quegli anni del partito [nota dell’agenzia Fert il 14 Luglio 1960: “La Fert apprende che l’on. Togliatti ha rivolto ai dirigenti dei settori culturali e stampa del partito l’invito ad andare cauti con il considerare Pasolini un fiancheggiatore del partito e nel prenderne le difese. L’iniziativa di Togliatti che riscontra molte contrarietà, parte da due considerazioni. Togliatti non ritiene, a suo giudizio personale, Pasolini un grande scrittore, e anzi il suo giudizio in proposito è piuttosto duro. Infine, egli giudica una cattiva propaganda per il Pci, specialmente per la base, il considerare Pasolini un comunista, dopo che l’attenzione del pubblico, più che sui romanzi dello scrittore, è polarizzata su talune scabrose situazioni in egli si è venuto a trovare fino a provocare l’intervento del magistrato………"].

MAESTRO DEL PENSIERO DELLA SINISTRA ITALIANA?
Solo dopo la sua morte è stato compreso che Pasolini aveva dei meriti culturali indiscussi e che doveva essere considerato legittimamente uno dei maestri di pensiero della sinistra italiana perché come dichiarò Moravia fu il primo poeta a realizzare una poesia civile di sinistra, una poesia senza la retorica ed il trionfalismo di Foscolo, Carducci, D'Annunzio. Pasolini aveva iniziato la sua carriera letteraria con la pubblicazione di "Poesie a Casarsa", liriche osteggiate dal fascismo, che difendeva strenuamente l'italiano e non voleva ammettere a nessun costo l'esistenza di dialetti e particolarismi locali. Va ricordato a tale proposito che a causa del regime il grande critico letterario Gianfranco Contini pubblicò la sua recensione sull'opera, da cui era rimasto favorevolmente colpito, non su "Primato", ma sul "Corriere di Lugano", giornale svizzero. Raggiunse la notorietà nell'ambito della poesia con "Le ceneri di Gramsci" [1957], costituite da undici poemetti, che dopo la "scoperta di Marx" nell'ultima sezione de "L'usignuolo della chiesa cattolica" facevano i conti con l'eredità lasciata appunto da Gramsci, le cui ceneri si trovavano nel cimitero degli inglesi a Roma. Questa raccolta poetica testimoniava la coscienza infelice dei comunisti italiani in un periodo travagliato sia per la condanna di Stalin al XX Congresso del Partito Comunista Sovietico sia per i tristi fatti d'Ungheria. Nelle raccolte poetiche "Le ceneri di Gramsci", "La religione del mio tempo" e "Poesia in forma di rosa" farà la sua comparsa il mondo proletario, nonostante ciò questi componimenti non desteranno nessun scandalo come la narrativa pasoliniana, perchè scritti in un italiano letterario e non nel gergo romanesco della malavita, come in "Ragazzi di vita" e in "Una vita violenta". Qui compaiono spiazzi assolati dove sciami di pischelli rincorrono un pallone, giovani sorridenti e sporchi in sella ai motorini a rincorrere disperatamente la vita, tuguri fatti di calce, autobus affollati, operai dalle canottiere intrise di sudore, garzoni che canticchiano spensierati al lavoro. Anche nei lungometraggi pasoliniani verrà narrato il mondo sottoproletario degli anni '50-60, però questa mondo non verrà solo descritto, ma anche trasfigurato con l'ausilio di citazioni pittoriche (Caravaggio, Mantegna, Masaccio). Intendiamoci: nonostante questa originalità del suo "cinema di poesia" [come lo definirà lui stesso in "Empirismo eretico"] la ricerca espressiva del cineasta sarà tutta tesa verso la realtà perché per l'intellettuale era l'unico ambito in cui poteva confrontarsi con le miserie e gli splendori di quel mondo, in cui poteva relazionarsi all'altro. Per Pasolini i ragazzi di vita non hanno una coscienza di classe, non hanno una religione e sono fuori dalla storia. Non hanno nessuno che possa far valere i loro diritti perché per il poeta la chiesa è il cuore spietato dello stato e anche i politici di nessuno schieramento vogliono rappresentarli. Riguardo alla chiesa come cuore spietato dello stato nel 1958 scrive la poesia "A un Papa" [da "Umiliato e offeso" (epigrammi)]: "Bastava soltanto un tuo gesto, una tua parola,/ perché quei tuoi figli avessero una casa:/ tu non hai fatto un gesto, non hai detto una parola./ Non ti si chiedeva di perdonare Marx! Un'onda/ immensa che si rifrange da millenni di vita/ ti separava da lui, dalla sua religione ma nella tua religione non si parla di pietà?/ Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato,/davanti ai tuoi occhi, son vissuti in stabbi e porcili./ Lo sapevi, peccare non significa fare il male:/ non fare il bene, questo significa peccare./ Quanto bene tu potevi fare ! E non l'hai fatto:/ non c'è stato un peccatore più grande di te". E riguardo ai politici Pasolini nella lirica "Terra di lavoro" [da "Le ceneri di Gramsci"] scrive: "....Gli è nemico chi rende/ grazie a Dio per la reazione del vecchio popolo, e gli è nemico/ chi perdona il sangue in nome/ del nuovo popolo...". L'unica consolazione della loro miseria è solo ed unicamente il sesso; solo il sesso comprato a buon mercato per un quarto d'ora può dare al giovane borgataro come al padre di famiglia l'illusione del possesso.


IL COMPAGNO SCOMODO DEL PCI:
Pasolini era un compagno scomodo del Pci, sempre pronto a levare la sua voce contro un partito che a suo avviso si stava istituzionalizzando e i cui vertici si stavano imborghesendo. Non va dimenticato che, nonostante il poeta si dichiarasse marxista, negli ultimi anni della sua vita guardò con simpatia alla sinistra americana progressista, così come non bisogna dimenticare la sua opera “Passione ed ideologia”, in cui questi due termini mai si contrappongono, si confondono e si compenetrano, ma nella quale piuttosto è la passione ad essere conditio sine qua non dell’ideologia. Pasolini oltre ad essere un grande poeta e un grande scrittore era anche un intellettuale lucido e disincantato, le cui analisi e riflessioni originavano da un senso critico ineguagliabile. La sua visionarietà d'artista era tale da portarlo a prevedere con vent'anni di anticipo gli sviluppi della società italica. Per uno come lui uniformarsi ai dettami e alle restrizioni del partito comunista di allora sarebbe equivalso a rinnegare la sua passione ed il suo impegno politico. Non solo, ma aveva anche una onestà intellettuale esemplare. Si pensi solo al fatto che, pur essendo una star televisiva, criticava l’omologazione dovuta a suo avviso a opera della televisione e che sapendo di entrare nelle case di tutti gli italiani nelle trasmissioni televisive a cui prendeva parte non era mai volgare né provocatorio ed addirittura si autocensurava spesso, come ebbe lui stesso modo di dire. Ci si ricordi che più volte dichiarò - lui che era noto al grande pubblico anche per il suo presenzialismo nel piccolo schermo - che la televisione instaurava un rapporto asimmetrico tra personaggio televisivo e spettatore del tipo superiore/inferiore, ma che in un linguaggio più moderno potremmo anche definire del tipo comunicatore/ricevitore passivo. Il suo fu sempre un marxismo critico nei confronti del comunismo ufficiale ed ortodosso. Da intellettuale marxista non si scagliava come prevedibile solo contro la piccola-borghesia, ma anche contro quel conformismo di sinistra, che giorno dopo giorno era stato fagocitato dall’egoismo, dal moralismo, dall’incultura di un benessere economico, così rapido da aver trasformato nel giro di pochi anni completamente il Paese. Ma lo scrittore non criticava solo l’applicazione del marxismo, ma poneva l’accento anche sulle contraddizioni interiori dei marxisti e sulla crisi del marxismo. Pasolini l’aveva intuito che in un paese profondamente cattolico come l’Italia per ogni comunista la coscienza era marxista e l’esistenza invece borghese. Ne "Le ceneri di Gramsci" scriveva: "...e se mi accade/ di amare il mondo non è che per violento/ e ingenuo amore sensuale/ così come, confuso adolescente, un tempo/ l'odiai; se in esso mi feriva il male borghese di me borghese....". Si noti proprio questa ultima espressione: "se in esso mi feriva il male borghese di me borghese". Ma se molti avevano cercato di risolvere la questione cercando di coniugare comunismo e cattolicesimo (da qui il cattocomunismo), il nostro ebbe il merito di essere uno dei pochi che cercò di unire la vera essenza del cristianesimo, ovvero una religiosità che pervadeva in ogni frangente ogni suo sguardo sul mondo, e un marxismo colto e consapevole che il neocapitalismo aveva mutato totalmente il volto alle cose, al punto che la struttura economica sembrava aver inglobato qualsiasi tipo di sovrastruttura ideologica e essersi tramutata in una sovrastruttura anch’essa: l’unica sovrastruttura. Tutto queste senza enfasi e senza mistificazioni di nessuna sorta. Ecco spiegato allora perché nelle analisi pasoliniane il partito comunista veniva considerato facente parte del Potere e perciò mai esentato dalle critiche. Come ebbe modo di dire il politico comunista Edoardo D’Onofrio: “Pasolini non nasconde la verità per carità di partito…”. Il poeta però non rinunciava alla sua fede politica, pur non credendo più nella rivoluzione, né in nessuna palingenesi della società. Pasolini con tutte le sue anomalie e divergenze era un comunista e lo dimostra ad esempio il suo lavoro di critico militante nella rivista "Officina", che diresse con Leonetti e Roversi, e in "Nuovi argomenti", che invece diresse con Moravia. Almeno durante il periodo de "La scoperta di Marx" per l'intellettuale l'essere sociale determinerà la coscienza, la letteratura sarà sinonimo di prassi sociale e la coscienza verrà considerata in ottica leninista come il riflesso della realtà.

”ESPRIMERSI E MORIRE O ESSERE INESPRESSI E IMMORTALI":
D'altronde Pasolini non poteva che essere comunista perché in quegli anni le strade percorribili a livello filosofico erano tre: credere nel marxismo e quindi ritenere che la causa dei mali della società fossero il plusvalore e l'alienazione, schierarsi contro il nichilismo e quindi abbracciare i sistemi di pensiero di Spengler, Junger, Heidegger, oppure rivolgersi al personalismo ontologico, alla democrazia cristiana. Pasolini per la sua aspirazione all'uguaglianza e per la sua vocazione al realismo piuttosto che allo spirito non poteva che scegliere la via marxista. Naturalmente ho scartato per ovvie ragioni l'esistenzialismo perché, laddove gli esistenzialisti vedevano l'angoscia nella scelta, il poeta vedeva la speranza e la possibilità della scelta. Infatti scrisse: "O esprimersi e morire o essere inespressi ed immortali!"; volendo dire che finchè si è in vita la nostra esistenza fortunatamente non ha soluzione di compiutezza e di continuità perché è aperta ad ogni possibilità, mentre solo la morte fa chiarezza, permette una sintesi di ciò che è stato, sceglie gli episodi significativi e memorabili di una vita umana. Essere inespressi significa quindi avere opportunità di scelta e perciò essere vitali. Per Pasolini morte significa compiutezza e compiutezza significa morte. Questo per il nostro era vero sia nel significato letterale che nel significato metaforico. Pasolini, sebbene eretico, a mio avviso a tratti sarà condizionato fortemente dall'influsso dell'estetica marxista e dal fascino delle teorie del grande critico letterario G.Lukacs. Infatti scriverà un dramma borghese solo e soltanto nel 1968, cioè "Teorema". In questa opera un ospite di bell'aspetto getterà scompiglio in una ricca famiglia industriale milanese e scardinerà i codici borghesi del decoro, della rispettabiltà e della morigeratezza. Riguardo al suo rapporto con il comunismo Pasolini in “Uccellacci e uccellini” farà dire al corvo: “Non piango sulla fine delle mie Idee, che certamente verrà qualcun altro a prendere la mia bandiera e a portarla avanti ! Piango su di me……”. Ma intendiamoci: chi ipotizza la pista del delitto politico non ha certo in mente il potere comunista di quegli anni, ma i neofascisti oppure i democristiani, che sarebbero stati mandanti dell’assassinio, utilizzando i fascisti come puri esecutori materiali. Esistono sicuramente degli elementi per avvallare questa tesi. Era un poeta, uno scrittore, un polemista, un regista noto al grande pubblico. Possedeva una grande capacità comunicativa, non si chiudeva in una torre di avorio né si perdeva nel settarismo e nell'intellettualismo, fenomeni così diffusi tra gli intellettuali dell'epoca. Dava fastidio non solo per la contaminazione dei generi, ma anche per il suo sperimentalismo in tutti i campi, per la frequentazione assidua di tutti i generi: dalla poesia, al romanzo, dal giornalismo al cinema, dall'inchiesta sociologica alla polemica televisiva. Se aveva iniziato con la poesia in dialetto friulano e con la poesia civile in una forma metrica tradizionale (ci si ricordi l'uso delle terzine) si era successivamente rivelato un uomo contro in tutte le altre sue opere, tant'è che subì nel corso della sua vita ben 30 processi. Spesso le accuse erano di vilipendio alla religione e di pornografia. Ritengo che la difesa migliore a queste accuse sia stato un intervento del poeta dal titolo "La pornografia è noiosa", nel quale sostiene che nonostante il degrado e la sottocultura di coloro che guardano opere pornografiche, tuttavia bisogna considerare che sono milioni di persone e che anche se fossero tutte persone depravate non è certo eliminando la pornografia che si eliminerebbe la loro depravazione; la loro depravazione repressa potrebbe anche sfociare in qualcosa di diverso e di più pericoloso socialmente; inoltre per il nostro il problema non è tanto nel numero più o meno consistente dei fruitori, né della repressione o meno del fenomeno, ma dell'incapacità o della malafede di coloro che non distinguono tra opera d'arte provocatoria e opera pornografica. Vorrei ora però fare una considerazione a parte; se oltre a leggere le sue opere ci mettiamo anche a rileggerle e a meditare attentamente su di esse ci rendiamo conto che in ognuna ci lasci intravedere le sue potenzialità inespresse. Salta subito all'occhio che debba ancora dare il meglio di sé e che ogni sua opera sua eternamente incompiuta, volutamente lasciata a metà. Da Pasolini molti si aspettavano un'opera folgorante, che aprisse un mondo ed invece in molti rileggendo i suoi lavori si sono accorti che la globalità ed il corpo organico dell'insieme delle sue opere erano il vero e proprio capolavoro. Da lui tutti si aspettavano un Libro Totale.

RIFIUTAVA DI "PRESTARSI ALLA POLITICA":
Successivamente i profondi conoscitori delle sue opere e i lettori più attenti con il passare degli anni si sono accorti che molti tratti e molti passaggi dei suoi pensieri, ritenuti inizialmente oscuri, potevano essere decifrati intuendo la fitta rete di rimandi, che Pasolini aveva lasciato. I suoi messaggi sono chiari in definitiva se si capisce che ogni lavoro può rimandare ad un altro lavoro, che ad esempio una poesia può essere chiarita da una sua intervista e che un intervento polemico può richiamare più o meno direttamente un testo teatrale. Scriveva ogni giorno della sua vita e ogni giorno disseminava tracce per comprendere pienamente le sue raccolte poetiche, i suoi film, i suoi romanzi. Inoltre non era solo un intellettuale. Non era solo un poeta, un critico letterario, un regista cinematografico: era anche politico senza essere fazioso. E non faceva come la maggior parte degli intellettuali, che si prestano alla politica. Non aveva mai ricoperto, dopo la fama nazionale, incarichi di partito. Negli anni '70 divenne corsaro: politico ed intellettuale allo stesso tempo. Naturalmente prima era intellettuale e poi politico. Si schierò contro il potere democristiano dell'epoca e contro l'opposizione, in quanto probabile governo futuro. Riteneva che anche l'opposizione politica su molte questioni rilevanti avesse ormai posizioni simili nella sostanza al potere ufficiale. Riteneva che anche l'opposizione ormai fosse caduta nei retaggi culturali e mentali del neocapitalismo. L'unico legame saldo col partito per tutta la vita forse fu il mito della resistenza. Ma d'altra parte criticava la continuità del partito con la mentalità istituzionale della borghesia. Da questo punto di vista il Pasolini corsaro (ovvero degli scritti corsari e delle lettere luterane) si può considerare come all'opposizione dell'opposizione. Già.....perché quando si è all'opposizione si corre due rischi: la normalizzazione rispetto alla maggioranza e il conformismo dell'anticonformismo. Il primo punto (già accennato prima) era il rischio dei funzionari dell'opposizione, il secondo invece era il rischio dei giovani sessantottini. Pasolini aveva scritto la poesia "Il P.C.I ai giovani!!", in cui criticava aspramente il movimento studentesco, che si rifaceva al maggio francese. Ricordo che dopo gli scontri di Valle Giulia tra studenti universitari contestatori del sistema ed i poliziotti dichiarò apertamente di parteggiare per questi ultimi perché loro non erano i figli di papà, erano poveri ed in questo caso gli studenti ricchi avrebbero dovuto regalare loro dei fiori e non lanciare pietre e sanpietrini. Ma il Pasolini polemista non si fermò certo qui. Scrisse delle "lettere aperte" a Leone. Si schierò contro il divorzio e l'aborto nel referendum del '75. Scrisse saggi contro la televisione. Non solo teorizzò la mutazione antropologica, ma fece anche una polemica con Calvino sul rapporto che intercorreva tra televisione e linguaggio. Per Pasolini la televisione non portava le masse solo a uniformarsi nei comportamenti e nel modo di vestire, ma prima di tutto nel linguaggio. Calvino era più ottimista. Pensava che la televisione avrebbe causato l'eliminazione dell'antilingua (ossia del burocratese, del latinorum, etc etc) e avrebbe portato alla diffusione di termini più che di parole: ovvero di vocaboli precisi, per niente vaghi ed indefiniti. Per Calvino la televisione sarebbe stato uno strumento di diffusione dei vocaboli della scienza moderna e della tecnologia. Pasolini invece vedeva nell'omologazione del linguaggio il disfacimento e la morte dei dialetti. Quindi considerava la televisione come un mezzo che avrebbe spazzato via le tradizioni culturali regionali. Non va dimenticato che vedeva nell'omologazione del linguaggio un antecedente dell'omologazione del pensiero. Inoltre si occupò del caso Lavorini di Viareggio. Si occupò del caso Panagulis, condannato prima alla fucilazione dal regime dei colonnelli greci, poi graziato dalla pena di morte. Infine ebbe modo più volte di profettizzare "il potere industriale transnazionale". Secondo il poeta delle ceneri di Gramsci il neocapitalismo aveva prodotto un "orrendo universo tecnologico" in cui moriva l'individualità... in cui chi era diverso veniva ghettizzato...in cui l'eccesso di informazione giornalistica e televisiva causava la perdita di memoria storica.... in cui la smania del consumo riduceva l'aggressività nella protesta.... in cui si dimenticava le miserie del presente in nome di un ambito mito del benessere. Tutti coloro che propendono per il delitto politico citano sempre il fastidio che gli uomini di potere avrebbero potuto avere con la pubblicazione de "Gli scritti corsari". Negli scritti corsari affrontò diverse tematiche dell’epoca con una forza polemica ed una capacità analitica fuori del comune. Tutti avevano sotto gli occhi l’omologazione culturale, il genocidio culturale e quella che lui chiamava la mutazione antropologica, eppure fu lui il primo a scriverne dettagliatamente. Basta analizzare per sommi capi la società odierna per capire che il poeta delle “Ceneri di Gramsci” non è stato solo un sociologo involontario del proprio tempo, ma anche un profeta, che ha saputo prevedere gli sviluppi dell’Italia che aveva sotto gli occhi. A mio avviso attualmente viviamo in una civiltà dove regna l’omologazione dalle varianti minimali. Tutti comprano gli stessi dieci tipi di automobili, tanto pubblicizzate alla televisione, però allo stesso tempo ognuno sceglie il modello personalizzato in base agli accessori. La televisione in Italia è stata senz'altro un agente catalizzatore dell'unificazione linguistica. Prima di allora solo le persone istruite e colte parlavano e scrivevano nel fiorentino di Dante, Petrarca, Boccaccio (successivamente ripreso ne "I promessi sposi" da Manzoni, che andò "a sciacquarsi i panni in Arno"). Quando la televisione invece entrò nella maggior parte delle case italiane ecco che quell'italiano di Dante divenne popolare. Prima di allora la maggior parte degli italiani pensava e parlava nel dialetto locale. Successivamente però la televisione secondo Pasolini era diventata la causa primaria dell'omologazione. Già nei primi anni '70 l'acuto osservatore delle borgate romane aveva già intuito i cambiamenti sociali e culturali prodotti dalla massificazione televisiva. Aveva iniziato ad accorgersi che tutti i giovani di borgata avevano iniziato a vestire, comportarsi, pensare in modo analogo. Se prima di allora per Pasolini si poteva distinguere un proletario da un borghese, oppure un comunista da un fascista, già agli inizi degli anni '70 non era più possibile: la società italiana si stava già omologando a macchia d'olio. Pasolini prese a prestito la sua MUTAZIONE ANTROPOLOGICA dalla biologia. La mutazione genetica in biologia è determinata dalla variazione prima e dalla fissazione poi. Nel caso della "mutazione antropologica" quindi la variazione delle mode e dei desideri della collettività è decisa prima nei consigli d'amministrazione delle reti televisive nazionali e poi viene fissata nelle menti dei telespettatori con messaggi subliminali e pubblicità. Ma questo non accade solo con la televisione, ma con qualsiasi mezzo dei mass-media (anche giornali e rotocalchi). La società neocapitalista aveva annientato il senso del sacro per rendere tutto “mercificabile”. Dal lato industriale tutto era merce o feticcio, dal lato culturale si registrava secondo Pasolini l'esistenza di due blocchi contrapposti: la borghesia e una parte della borghesia che contestava la borghesia stessi (i giovani studenti). Ai proletari ed ai sottoproletari a suo avviso non restava quindi che un unico dominio, un unico spazio libero: il proprio corpo. Pasolini infatti scrisse: "ciò che resta originario nell'operaio è che ciò che non è verbale: per esempio la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo. Il corpo: ecco una terra ancora non colonizzata dal potere". Purtroppo le profezie di Pasolini si sono tutte avverate. L'omologazione ha livellato e appiattito tutto e tutti. Non solo, ma il potere ha proposto e propone ad libitum modelli fisici ed estetici ai più irraggiungibili. Tutto ciò crea ansia per il proprio corpo. Continuamente facciamo raffronti e i termini di paragoni risultano sempre più elevati e più distanti. L'ansia per il proprio corpo invade la nostra mente. Quante ore pensiamo se siamo idonei per questa o quella occasione sociale? Quante ore dedichiamo alla cura del nostro corpo per migliorarlo agli occhi degli altri? Il nostro corpo non è più libero, ma è totalmente occupato dal Potere. Tutte le energie psichiche e tutto il tempo speso per il nostro corpo poteva essere utilizzato per la partecipazione e l'impegno politico oppure per altre cause più nobili, che probabilmente avrebbero dato noia al potere e ai potenti. Penso ai più giovani.


LA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA TRANSNAZIONALE:
La televisione, il cinema, i rotocalchi, la moda sono gli agenti primari dell’omologazione giovanile. La televisione soprattutto è la più deleteria da questo punto di vista. I giovani aderiscono biecamente e ciecamente ai modelli propinati dal piccolo schermo e dai suoi palinsesti. Pasolini aveva già intuito questo aspetto. “La mutazione antropologica” transnazionale, i cui dettami e le cui variazioni indicano i gusti, i modelli di comportamento, gli stili di pensiero, è fissata ciclicamente dai mass media. Modelle filiformi e longilinee, attori dal corpo scultoreo, ripresi dai cineasti della pubblicità, inducono i giovani ad un confronto spietato con il proprio corpo ed il proprio volto. Sempre più frequentemente inducono i giovani ad operazioni di chirurgia estetica (lifting, silicone, etc etc) oppure a diete forzate ed ossessive. Nei casi meno preoccupanti i giovani si sottopongono a spossanti ore di body-building per avere un fisico degno di considerazione per i propri coetanei. Magari per avere lo sguardo terso e cristallino di questo o quell’attore si mettono le lenti a contatto azzurre, altri per avere un colorito mediterraneo, una tintarella estiva tutto l’anno si sottopongono ad ore di lampada. Ma nei casi limite? E’ forse un caso che in questi anni rispetto al passato c’è stato un aumento impressionante di casi di anoressia e di bulimia tra le ragazze? Ogni giovane immagina ogni sorta di accorgimento estetico per rendersi più piacevole alla vista dei coetanei, per avere il loro consenso, per non essere “out”. Esiste un edonismo ad immagine e somiglianza dell’omologazione (dato che tutti cercano di migliorarsi esteticamente, prendendo come modelli i protagonisti del mondo di celluloide, i personaggi televisivi, i vip che fanno tendenza). E per edonismo intendo un nuovo tipo di edonismo. Non quello di Sardanapalo, non quello dei personaggi di Rabelais né quello dei vitelloni di Fellini. A mio avviso il culmine dell’edonismo (ossia ricercare il piacere ed evitare il dolore) in questa generazione di giovani è l’apparire: il piacere di apparire belli e prestanti di fronte agli altri. Se per altre generazioni apparire belli era un mezzo per avere altri tipi di piacere (ovvero avere più opportunità ad esempio per un uomo di fare più sesso) oggi il mezzo è diventato il fine: il narcisismo fa da padrone su tutti gli altri piaceri della vita. Piacere agli altri diventa il modo più rassicurante e confortevole di piacere a sé stessi (e da ciò si desume la grande insicurezza dei giovani d’oggi), mentre a mio avviso la maturità consisterebbe nell’accettare prima sé stessi e poi accettare coscientemente il giudizio degli altri. Può sembrare paradossale, ma è così: se continuiamo di questo passo la bellezza non avrà più valore. La bellezza della natura viene deturpata dall’industrializzazione e dall’abusivismo edilizio, la bellezza dei monumenti dai vandali e la bellezza fisica non esisterà più. Dico che la bellezza fisica non esisterà più, continuando in questa direzione, perché qualsiasi tipo di bellezza implica una gamma di possibilità e di diversità dell’esistente. La standardizzazione estetica, grazie alla chirurgia e a ogni sorta di accorgimento artificiale, eliminerà certo i complessi degli adolescenti, però produrrà appiattimento, un noioso livellamento. Non è forse per questo che Dio o chi per lui ha concepito la variabilità genetica degli esseri umani? Ed invece stiamo percorrendo una nuova direzione: tutti uguali nei modi di vestire, presto diventeremo uguali anche nelle fattezze e nelle sembianze: tutti omologati e così sia. Dovremmo al contrario ricordarci che i difetti e le imperfezioni della natura sono termini di paragone che fanno risaltare ed accrescono la bellezza. Senza di questi la bellezza non esisterebbe perché sarebbe pura e semplice normalità. Senza l’oscurità della notte non potremmo cogliere pienamente la bellezza di un’alba. Ma ritorniamo al 1974. Pasolini accusava anche la Dc della distruzione paesaggistica ed urbanistica dell’Italia e di intrallazzare con industriali e banchieri.

 

IO SO…………..
E per quanto riguardava la strategia della tensione il poeta scrive: ”Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (e che in realtà è una serie di golpe istituitasi a sistema di protezione del paese). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 Dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi dei 1974. Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di golpes, sia neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti……Io so i nomi di coloro che, tra una messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali………Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i fatti disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero………”. Inoltre Pasolini invitava a riflettere sull’annullamento di tutte le periferie, sull’impoverimento d’espressività linguistica, dovuto sia a una lingua tecnicizzata ormai che alla morte dei dialetti. Interessante anche ciò che il poeta scrive a proposito del rapporto tra chiesa e potere. Secondo Pasolini nel mondo contadino esisteva una stretta relazione tra economia, famiglia e chiesa. Con l’avvento della società industriale i valori del Vangelo sono però stati sostituiti a suo avviso da nuovi valori come l’edonismo sfrenato, il laicismo, una falsa tolleranza. Nell’articolo delle lucciole scrive di due fasi della storia recente: la prima fase, che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, in cui i valori principali sono l’ordine, la moralità, la chiesa, la patria; la seconda fase, che va dalla scomparsa delle lucciole agli anni'70, in cui questi valori non contano più e sono stati sostituiti da valori laici e consumistici. Particolarmente originale l’analisi del linguaggio dei comportamenti giovanili che fa Pasolini. Per lui infatti i codici fisici e mimici causano comportamenti e il nostro analizza proprio il linguaggio dei comportamenti per risalire ai codici culturali imposti dal potere. Infine è di fondamentale importanza la contrapposizione di due termini, ovvero sviluppo e progresso. Sviluppo significa per Pasolini produzione di beni superflui e aumento illimitato della produzione industriale, invece al termine progresso dà il significato di benessere della collettività, ideato e voluto da persone che non ragionano in base al proprio egoismo. Probabilmente tutti queste intuizioni e questi spunti polemici gli avevano creato dei nemici tra le persone potenti dell'Italia di allora, che forse avevano voluto colpirlo in quei frangenti, in cui era debole e ferocemente solo; notti in cui aveva assoluto bisogno di rompere la solitudine con incontri occasionali e furtivi. Negli ultimi anni della sua vita scriveva sul Corriere della Sera, diretto da Ottone.


L’OMOSESSUALITA’ COME SUO NEMICO:
La sua omosessualità non poteva essere adoprata dai potenti di turno come mezzo di ricatto per zittirlo o almeno indurlo ad essere più accomodante. La sua diversità sessuale era stata origine di sensi di colpa e di angoscia nella giovane età, però successivamente Pasolini aveva accettato questa parte di sé stesso. Nell'adolescenza e nella giovinezza certamente la scoperta della sua diversità era stata un dramma. In una lettera inviata all'amica Silvana Ottieri fine anni '40 scriveva: "E' una cosa scomoda, urtante e inammissibile, ma è così; e io, come te, non mi rassegno.....io ho sofferto il soffribile, non ho mai accettato il mio peccato, non sono mai venuto a patti con la mia natura e non mi ci sono neanche abituato. Io ero nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era in più, era fuori, non c'entrava con me. Me la sono sempre vista come un nemico, non me la sono mai sentita dentro". Questa presa di coscienza non significava quindi che lo scrittore non si portasse con sé delle contraddizioni insanabili, come ad esempio le dinamiche interne di un complesso edipico non risolto. Infatti al sentimento ambivalente provato nei confronti del padre, prima tenente di fanteria e poi maggiore dell'esercito, contrapponeva un amore smisurato nei riguardi della madre. Il padre secondo il nostro provava risentimento e delusione nei suoi confronti per la sua diversità. In "Ritratti su misura" dichiarò: "Aveva puntato tutto su di me, sulla mia carriera letteraria, fin da quando ero piccolo, dato che ho scritto le mie prime poesie a sette anni: aveva intuito pover'uomo, ma non aveva previsto, con le soddisfazioni, le umiliazioni. Credeva di poter conciliare la vita di un figlio scrittore col suo conformismo". E ancora in un'altra intervista ebbe modo di dire: "La morte di mio fratello e il dolore sovrumano di mia madre; il ritorno di mio padre dalla prigionia: reduce, malato, avvelenato dalla sconfitta del fascismo, in patria, e in famiglia, della lingua italiana; distrutto, feroce, tiranno senza più potere, reso folle dal cattivo vino, sempre più innamorato di mia madre che non l'aveva mai altrettanto amato e ora era, per di più, solo intenta al suo dolore; e a questo si aggiunga il problema della mia vita e della mia carne" ["Al lettore nuovo"]. In "Supplica a mia madre" scrive: "Sei insostituibile. Per questo è dannata/ alla solitudine la vita che mi hai data. / E non voglio essere solo. Ho un'infinita fame /d'amore, dell'amore di corpi senz'anima./ Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu/ sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù". Ed ancora scrive: "Il mio amore è solo/ per la donna: infante e madre". Il poeta Dario Bellezza nel libro "Morte di Pasolini" era dell'avviso che Pasolini potesse amare le donne come uno stilnovista del trecento, ma che sessualmente era incessantemente attratto dai ragazzi delle borgate. In Pasolini si verificò quindi una scissione drastica tra la sfera affettiva e la sfera sessuale. Sentiva una sensazione di fusione talmente profonda nei confronti della madre, da avvertire in questo tipo di affetto il sentore di qualcosa di innaturale. Pasolini per preservare la purezza di questo sentimento nei confronti della donna che lo aveva generato e cresciuto non poteva che distogliere, spostare le sue pulsioni sessuali verso persone del suo stesso sesso. Amare una donna avrebbe significato cercare prima un'altra madre e poi avere un altro termine di paragone per la madre che lo aveva compreso e sostenuto, quando Pasolini - dopo lo scandalo in Friuli e l'espulsione dal partito - era da solo e sentiva gravare su di sè il marchio infamante di Oscar Wilde e di Rimbaud. Il padre al contrario aveva dimenticato Pier Paolo, sconvolto com'era dalla morte del figlio partigiano Guido, ucciso a sua volta dalla Brigata Garibaldi, legata ai partigiani di Tito. Probabilmente furono l'autoritarismo paterno, i continui spostamenti e trasferimenti a causa della sua carriera militare e le continue assenze del padre tra il 1941 ed il 1947 (perché inviato in Africa) a far crescere in lui un desiderio di identificazione con la madre. In questo senso l'intera opera omnia di Pasolini è una continua autoterapia, una incessante automedicazione della propria interiorità e allo stesso tempo è l'unica via per compiere un processo di individuazione, di accoglimento e di accettazione della propria Ombra per dirla alla Jung. I suoi scritti quindi non sono mai lineari, perché comprendono ed esprimono la complessità, la multilateralità e la frammentarietà della sua personalità; e la sua personalità era sfuggente e irrisolta e leggendo le sue pagine della sua totalità psichica è possibile percepire il senso globale, ma è controverso stabilire un'unità indissolubile perché nelle sue espressioni artistiche si avverte il continuo fluire di tutti i suoi stati psichici, mentali ed intellettuali mutevoli e temporanei. Angosce di persecuzione, elementi fantasmatici, nuclei inconsci ed emozioni di tipo depressivo si amalgamano con distinguo intellettuali sottili, con codici culturali dalla natura più disparata: si intrecciano razionalismo, illuminismo, religiosità ed un irrazionalismo, costituito da un vitalismo disperato e da una voglia costante di autodistruzione. In Pasolini non tutto ciò che è reale è razionale. Se è vero che la sua poesia non possiede fortunatamente istanze metafisiche, non è mai un mezzo per questo o quel tipo di filosofia e nemmeno per un eclettismo moderno, è altrettanto vero che con l'insieme dei suoi scritti è difficile fare i conti per quella mistura di sensibilità e conoscenza, per quella contrapposizione tra classico e moderno, per quel suo far ricorso sia alla filologia che all'ermeneutica, intesa in senso lato e quindi nell'accezione più moderna del termine. Nelle migliaia di pagine che ha lasciato ai posteri talvolta solo la sua genialità sembra agire da tessuto connettivo. Comunque il potere non poteva ventilare a Pasolini la minaccia di uno scandalo perché l’uomo Pasolini voleva lo scandalo a tutti i costi e dichiarava ed esibiva la sua diversità e mai e poi mai taceva sulle sue preferenze sessuali e sulla sua vita notturna; non solo, ma lo scrittore sosteneva a ragione che qualsiasi intellettuale che cercasse di dire la sua verità era uno scandalo vivente. In quegli anni il poeta de "Le ceneri di Gramsci" rappresentava un autentico scandalo intellettuale. Ricordo solo che venne accusato di pornografia per il romanzo "Una vita violenta" e di vilipendio alla religione di stato per il film "Ricotta".

IL PIACERE DI PROVOCARE E DI ESSERE PROVOCATO:
Il poeta senz'ombra di dubbio trovava piacere nell’essere provocato da un’opera d’arte, così come amava provocare con le sue opere, perché scandalizzare per lui era una modalità per far scaturire piacere al pubblico. Il poeta a mio avviso voleva essere amato oppure odiato. Non desiderava certo l’indifferenza. Amava che i suoi film fossero contestati dai giovani dell’estrema destra. Quando “Accattone” venne contestato dichiarò che gli italiani erano sempre stati un popolo razzista e che con quel film gli era stata data la possibilità di dimostrare quanto fossero razzisti. Ricordo che in “Accattone” nessuno dei personaggi era attore e tutte le persone che avevano preso parte al film appartenevano al sottoproletariato romano. Per Pasolini lo scandalo che suscitava il film non era tanto la rappresentazione tramite una pellicola del sottoproletariato romano, quanto il fatto che dei sottoproletari rappresentavano sé stessi e nient’altro che sé stessi, che delle persone fossero attori di sé stesse, che nelle scene impersonassero con la mimica, la loro gestualità, la loro parlata nient’altro che la loro condizione di uomini e donne emarginati dal Neocapitalismo ed ancora immuni dai disvalori della borghesia. I suoi romanzi stupivano la critica, figuriamoci se non stupivano il pubblico. E forse la ragione principale per cui stupivano la critica era il fatto che nei suoi romanzi non si poteva fare nessuna commemorazione provvisoria del personaggio-uomo, in quanto incentrati non sull'inettitudine e lo smacco esistenziale di un unico protagonista, ma sul collettivismo e la messa in scena di ragazzi, la cui psicologia era semplice. Nei romanzi di Pasolini il personaggio-uomo non era divenuto personaggio-particella a causa del tramonto dell'Occidente e del famoso principio di indeterminazione di Heisenberg. Lo scrittore friulano non volgeva lo sguardo a Proust, Joyce, Kafka, Svevo e Pirandello. Se spiazzava i più colti figuriamoci quindi lo scandalo che era avvenuto, quando fu pubblicato “Ragazzi di vita” tra il pubblico. Non erano tanto le vicissitudini dei protagonisti, la fine tragica dei ragazzi, né il triste epilogo del romanzo che scandalizzavano, piuttosto l’utilizzo del linguaggio delle borgate. Non erano solo i contenuti e le trame a scatenare reazioni di disapprovazione, ma erano anche e soprattutto le scelte linguistiche innovative che il poeta aveva adoprato nelle sue opere. L’utilizzo di un linguaggio diretto senza alcuna opera di mediazione o di elaborazione critica da parte dell’autore in quel determinato periodo della narrativa italiana non potevano che scandalizzare. Inoltre Pasolini con i suoi romanzi disorientava il pubblico perché aveva apportato delle innovazioni dal punto di vista strutturale del romanzo (in quanto nelle sue opere non c'era un vero e proprio protagonista, ma diversi personaggi; non solo ma c'era anche un contrasto forte tra il gergo delle borgate, il crudo realismo dei personaggi da una parte e dall'altra il lirismo e la sapienza descrittiva dei paesaggi). Un altro aspetto caratterizzante di queste opere di Pasolini era quello di riportare alla luce dei lettori una realtà degradata e diffusa come quella delle borgate romane. Non che il poeta avesse fatto divenire visibile ciò che prima era invisibile, ma aveva fatto riemergere alla coscienza ciò che veniva quotidianamente rimosso dal Potere e dal perbenismo della borghesia. Ma non poteva che essere che così. Il poeta sulla tomba di Gramsci non può che recitare i seguenti versi: "....attratto da una vita proletaria/ a te anteriore, è per me religione/ la sua allegria, non la millenaria/ sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza [.....]". Queste parole sono significative perché da esse si desume l'estraneità reciproca tra sottoproletariato e il partito comunista di allora. I ragazzi di vita non avevano una coscienza politica e non erano inseriti in un quadro istituzionale (lavoro, associazioni), né integrati in una dimensione macrosociale. Forse questo era uno scandalo perché già all'epoca si sapeva che il concetto di Sé è strettamente correlato al mondo sociale e che la dimensione interpsichica è una premessa irrinunciabile di quella intrapsichica. Pasolini aveva descritto in modo dettagliato e reale le esistenze dei sottoproletari, il loro universo di codici sottoculturali amorale prima ancora che immorale. Il senatore M. Montagnana scriveva sulla rivista “Rinascita“ del Pci : “Pasolini riserva le volgarità e le oscenità, le parolacce al mondo della povera gente”. Ritengo che in quegli anni anche persone di sinistra abbiano travisato il senso del romanzo “Una vita violenta”. Probabilmente erano arrabbiati anche per il tipo di rapporto tra il Tommaso di "Una vita violenta" e il Pci, perché costui muore. Questa morte venne forse letta in chiave metaforica, come a dire che, nonostante l'avvicinamento del personaggio sottoproletario il Pci non poteva stabilire con esso nessun rapporto stabile e costruttivo. Se la borghesia incarna il potere e l'ordine costituito, il proletariato una possibile rivoluzione, al mondo contadino ed al mondo sottoproletario non spetta che rimanere ai margini della realtà industriale. Ma mentre si verifica la scomparsa effettiva del mondo contadino, dato che i contadini divengono operai, i sottoproletari restano tali e finiscono per essere una massa pressante di persone, che vivono alla periferia della periferia e che rifiutano i canoni ed i codici di comportamento della borghesia e del proletariato. Pasolini comunque non era classista né la rappresentazione pasoliniana del mondo delle borgate poteva essere politicizzata. Nelle sue opere non si può riscontrare nessun atteggiamento di paternalismo né di bonaria indulgenza nei confronti dei ragazzi del sottoproletariato.


”PIETAS”:
La coscienza di Pasolini era al contrario permeata da una vera pietas, che non scadeva mai nel melenso. Se alcuni hanno ravvisato nei suoi lavori una rappresentazione negativa del sottoproletariato non hanno considerato in film come Accattone che Pasolini aveva come referente il neorealista Rossellini, così come nei suoi romanzi non hanno colto che ogni testo letterario è criticamente ricostruito e che lo scrittore non poteva abbellire la realtà perché sarebbe venuto meno al suo principio di mimesi del reale, al suo intendimento di compiere una semiologia della realtà. Era senz'ombra di dubbio un elemento perturbante nei fruitori di queste sue opere l'impossibilità di distinguere nettamente il suo sguardo poetico al documentarismo sociologico del sottoproletariato degli anni '50-60. Ma forse una cosa molto semplice che disturbava era la mancanza di un finale idilliaco e invece nei due romanzi di Pasolini nessun personaggio riesce a compiere una maturazione, se non culturale, quantomeno psicologica, a causa di una chiusura e di una frattura insanabile tra l'universo statico del sottoproletariato ed il mondo delle persone già integrate. Se i suoi ragazzi di vita ammazzano per avere la grana a tutti i costi per spassarsela ciò non implica che i loro coetanei più ricchi non possano fare altrettanto. Pasolini non svolge l’equazione delinquenza uguale povertà più sfortuna né tantomeno il poeta vuole emendare da colpe o giustificare i suoi ragazzi che compiono azioni criminose. Allo stesso tempo non fa della sociologia marxista a buon mercato quando avviene il massacro del Circeo. Pasolini lo sa bene che non essere pariolini non può preservare dal compiere delitti orrendi e sevizie. L’agiatezza economica non causa necessariamente il nichilismo, che porta a compiere mostruosità all’arancia meccanica. Lo scrittore guarda tutto ciò da un punto di vista meramente antropologico. I giovani sono omologati. Tutti i giovani di qualsiasi classe sociale. L’amoralità giovanile li accomuna e li unisce in un tutto indistinto. Infatti come ha notato il critico letterario G. Scalia l’omologazione della società neocapitalista secondo Pasolini non ci aveva fatti divenire uguali in quanto uguali nei diritti, ma simili nella degradazione. Lo scrittore di “Ragazzi di vita” non si prefigurava nel futuro una società fondata sulla vera libertà, ma su una parvenza di libertà o per meglio dire su una libertà negativa. La stessa evoluzione dei costumi dal poeta non era vista di buon occhio. La libertà sessuale della maggioranza era stata regalata dal Potere per distrarla dai reali problemi del Paese. Era quindi una nuova libertà, tuttavia una tolleranza imposta, che non poteva che causare nevrosi. Pasolini non si era mai riconosciuto in questo tipo di società e allora aveva sentito la necessità di creare il mito contadino, il mito del sottoproletariato ed il mito terzomondista. Nel mondo contadino la vita di ognuno era scandita dall'avvicendarsi delle stagioni, ma con l'avvento della società capitalistica il ciclo della natura era stato soppiantato dal ciclo della produzione industriale. La simbiosi tra Vangelo e civiltà contadina era finita bruscamente. Per Pasolini il mondo contadino simboleggiava la vera essenza del tradizionalismo del Passato, che era latore di universali ed archetipi davvero cristiani. Il mito del mondo contadino per il poeta andava a costituire il nucleo più profondo del cristianesimo. In questo senso ritengo che ci siano almeno delle similitudini tra Pasolini e Tolstoj. Pasolini a tratti sembra un novello Tolstoj, che scrivendo metaforicamente del carro rovesciato della società russa, che grava sui contadini, non si mette a disquisire su quante persone salgono sul carro o su come devono essere posizionate le ruote, ma che evocando con nostalgia il passato invita quasi gli sfruttati a vivere secondo i comandamenti di Dio. Fuor di metafora: l'impostazione marxista è evidente, il consumismo crea nuovi bisogni, ma non soddisfa quelli elementari dei più, la merce diviene feticcio, però non bisogna fare la rivoluzione, ma abbracciare Marx e Cristo. Una volta giunto a Roma lo scrittore aveva bisogno anche del mito del sottoproletariato, cioè di un macrocosmo di individui non ancora contaminati dal Neocapitale. Entrambi i miti pasoliniani possedevano dei caratteri intrinseci e dei significati intimi, che trascendevano la morfologia e la metafisica di un sistema di pensiero. Prima veniva il cuore, poi Pasolini metteva in moto il pensiero, infine ritornava al cuore. Al poeta friulano non restava che attaccarsi con tutta la sua forza e la sua energia creativa al mito del sottoproletariato per cercare di aggrapparsi disperatamente ad un'umanità altra, che non appartenesse a quella massa collettivizzata ed amorfa del proletariato e della borghesia, così come non restava che sperare nel mito terzomondista per pensare ad un altro tipo di sviluppo possibile della società. Ne "La religione del mio tempo" scriveva "Africa! unica mia/ alternativa.....". Se il mito contadino rappresentava il passato ed il mito del sottoproletariato il presente, il mito del terzomondismo invece simboleggiava l'avvenire.

 

Il nichilismo in sintesi (dalla filosofia alla letteratura)

giu 132022

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Il nichilismo è un termine che si può declinare in molti modi e ha perciò diverse accezioni. È un termine troppo diffuso e perciò inflazionato. Spesso viene frainteso perché considerato solo anarchia, rifiuto delle istituzioni o negazione dell’oggettività. È un termine che non ammette sinonimi. Nessuna altra parola rende bene l’idea. Quindi scusatemi se ripeterò continuamente il termine “nichilismo”. Esso è un termine abusato nel linguaggio comune. Quindi partiremo considerandolo da un’altra ottica. Il nichilismo è innanzitutto un problema filosofico complesso, che può portare il pensiero a girare a vuoto. In queste poche righe cercherò di semplificare la questione. Naturalmente spero di non banalizzarla. È così facile poi andare fuori tema, divagare e debordare. È così facile contraddirsi. Questo problema è una patologia occidentale ed è difficilissimo sapere la terapia e la prognosi. Il nichilismo a livello speculativo comprende molti passaggi filosofici e concetti-limite. Anticamente Gorgia aveva avvertito: “nulla è; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; e se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile”. Per Nietzsche è un “ospite inquietante” della metafisica occidentale e per questa ragione Heidegger pensava che va “guardato in faccia”. Trattare il nichilismo e filosofare su di esso significa confrontarsi con i limiti ontologici, mentali, esistenziali dell’uomo perché come pensava E. Junger è impossibile per ogni essere umano rappresentare il niente. Il nulla non si può ascoltare: il silenzio assoluto non esiste. C’è sempre qualcosa che lo scalfisce. Il niente è anche indicibile e invisibile. Chiudiamo gli occhi per guardare il buio ma ci sono i fosfeni. C’è sempre una impurità fisiologica tra l’io e il nulla. Il nulla lo possiamo solo intuire. Non lo possiamo percepire totalmente e neanche comprenderlo. Abbracciare il nulla è solo un modo di dire. Il nulla non si può pensare. Anche pensare a nulla è solo un modo di dire. La coscienza come insegna Husserl è sempre intenzionale. È sempre orientata verso qualcosa. In realtà il nulla ci trascende in tutto e per tutto. Dire “il nulla è” a rigor di logica è già una contraddizione di termini. L’unica cosa che possiamo affermare è che il nulla è non essere. Anche desiderare nulla a mio avviso è impossibile. Al massimo si può desiderare di non desiderare nulla ma ciò significa desiderare qualcosa. Insomma qualcosa si desidera sempre. Nichilista è chi non crede in niente. Il nichilista non trova alcuna risposta a domande come “perché sono venuto al mondo?” o “che senso ha la mia vita?”. Alcuni illustri pensatori sono nichilisti come ad esempio Cioran. Il nichilismo è il destino dell’Occidente. Essere nichilisti invece in buona parte dei casi è una scelta come essere atei. Quindi se un nichilista uccide spesso non ha scusanti. D’altronde non si può dare sempre la colpa all’ambiente, alla società, alla cultura. Per Nietzsche il nichilismo nasce dalla morte di Dio ed è la svalutazione di tutti i valori della tradizione.
Tutti i valori hanno perso valore. Per il filosofo tedesco non ci sono più le categorie di unità, verità, fine. Niente ha più uno scopo. Niente è più vero. La realtà finisce per frammentarsi. È stato l’uomo occidentale ad uccidere Dio. È nostra la colpa. Ma ciò da alcuni è stato considerato positivo perché ci ha liberato da ogni pretesa di assoluto. Indietro comunque è impossibile tornare. Nietzsche distingue un nichilismo passivo da uno attivo. Il nichilismo passivo è rappresentato dalla distruzione dei valori e in casi estremi anche dal disprezzo della realtà e quindi dal dire no alla vita.
Al contrario il nichilismo attivo vuole distruggere i valori per ricreare, attuare una trasvalutazione di essi e dire sì alla vita. Nietzsche è anche l’artefice di un altro nichilismo, quello delle interpretazioni. Il filosofo può essere per questo considerato il padre del relativismo, perché ha anticipato di un secolo gli antropologi culturali. Infatti per lui non esistono fatti ma solo interpretazioni. Nel romanzo “Padri e figli” di Turgenev il protagonista è lo studente di medicina Bazarov, che crede solo nella scienza (non fa altro che sezionare rane) e nell’utile, disprezzando il bello, il bene, il vero. Questo è il nichilismo russo, che è anche un nichilismo politico che si pone contro il potere degli zar. Per Heidegger il nichilismo nasce dal fatto che per la metafisica occidentale l’essere diventa un ente tra gli altri. Il nichilismo secondo lui è oblio dell’essere. Non solo ma per Heidegger esiste anche un nichilismo della tecnica, che assieme al denaro domina la nostra società. Queste due entità hanno preso il posto di Dio attualmente; lo hanno sostituito totalmente. Secondo Heidegger dietro alla tecnica non c’è alcun fondamento ontologico: c’è il nulla. Non va però confusa la tecnica con la tecnologia. La prima è una mistura di razionalità strumentale e massima efficienza. La tecnologia invece è l’insieme di prodotti creati grazie all’impiego della tecnica. Per Marx l’uomo è alienato ed è anche cosa tra le cose in un mondo caratterizzato dal feticismo delle merci (le relazioni sociali sembrano rapporti tra cose, nonostante si salvi l’interdipendenza) e dal valore di scambio degli oggetti. Marx tuttora può essere considerato attuale, nonostante il pessimo sfruttamento delle sue idee: nonostante i comunismi e alcuni comunisti. Per Emanuele Severino il nichilismo è originariamente dovuto alla credenza che le cose e le persone sono nel niente, esistono per un determinato periodo di tempo e ritornano nel niente. Il divenire quindi sarebbe solo l’apparenza del nulla. Ciò comporta di conseguenza una totale assenza di valori perché se il niente ha la meglio non c’è più alcun senso della vita, che non vale più la pena di essere vissuta. Secondo Severino il nulla fagociterebbe tutti i principi della società. Per Umberto Galimberti i greci consideravano il tempo come ciclico per cui il nichilismo non poteva avere la meglio perché tutto era prestabilito ed era destinato a ripetersi. Invece per i cristiani il tempo è lineare: il passato è il peccato originale, il presente è la redenzione, il futuro è la salvezza. Ma questo senso del tempo con la morte di Dio è scomparso. Il nichilismo deriverebbe quindi anche dal fatto che siamo orfani di un senso. Inoltre i greci avevano il senso del limite, mentre la razionalità tecnologica-scientifica non si pone mai limiti. Anche la produzione industriale non si pone limiti. Continua senza sosta. Junger la chiama “mobilitazione totale”. Ciò non è altro che il faustismo della civiltà occidentale individuato da Spengler. Il nichilismo perciò si manifesta nella tecnica. I greci avevano anche una altra cosa che noi non abbiamo più per combattere il nichilismo: una letteratura mitopoietica, che fissava degli archetipi nei miti. Per Stefano Zecchi solo una nuova concezione dell’arte (il mitomodernismo) può salvare dalla decadenza inevitabile a cui conduce il nichilismo. C’è inoltre un nichilismo morale (“se Dio non c’è tutto è permesso” nei fratelli Karamazov), secondo cui si può anche uccidere e un nichilismo esistenziale, che può portare in casi estremi all’autodistruzione (“Meglio bruciare subito che consumarsi lentamente” di Kurt Kubain). Se tutto va bene un pensatore occidentale può "credere in Dio ma non accettare questo mondo" perché è un mondo assurdo, sempre riprendendo Dostoevskij.  Ci sono filosofi che sostengono che bisogna ritornare a pensare come i greci per sconfiggere il nichilismo. Altri che ritengono che bisogna pensare come gli orientali ed altri che propongono la rinascita di una società cristiana, anche se secondo molti lo stesso cristianesimo contiene in sé alcuni elementi nichilistici. Inoltre il cattolicesimo ha mostrato molte contraddizioni, un perbenismo e una ipocrisia di fondo da parte dei propri rappresentanti, che ha generato in alcuni il nichilismo. Non solo ma molti cattolici sono dei nichilisti. Per Junger un modo per combattere il Leviatano, ovvero il nichilismo per esempio è l'arte.  Per alcuni filosofi il nichilismo è il vaso di Pandora. Per alcuni marxisti invece è un falso problema perché per essi è la struttura economica a determinare la sovrastruttura ideologica. Per gli idealisti è esattamente il contrario.
Per altri ancora struttura e sovrastruttura invece interagiscano continuamente e quindi non ci sarebbe il primato dell’una sull’altra. Ma andiamo oltre. Ognuno - dicevamo - ha la sua ricetta per debellarlo. Alcuni intellettuali aspettano l’avvento di un “ultimo uomo” che riesca a coesistere pacificamente con il nulla. Altri propongono “il pensiero debole” di Vattimo che indebolisca il soggetto e la ragione. Altri aspettano la radura di Heidegger: il gioco di ombre e di luci, che disvela l’esserci. Altri ancora sono a favore di una metafisica dei limiti. C’è chi aspetta un nuovo umanesimo e chi invece un nuovo Dio. Camus per combattere l’assurdo proponeva la rivolta: “mi rivolto, dunque siamo”. Il suo era un appello alla solidarietà tra gli uomini. Lo scrittore francese riprendeva la frase di Karamazov: “Se non sono salvi tutti, a che serve la salvezza di uno solo!”. Camus diceva no alla religione per abbracciare l’umanismo. Nel frattempo il nulla ci sovrasta. Forse il nichilismo non è ancora il peggiore dei mali, ma è senza ombra di dubbio uno dei più insidiosi perché non ci sono ancora rimedi efficaci e nell’affrontarlo spesso si rischia di imboccare dei vicoli ciechi e di finire nelle trappole della metafisica. Riflettere su questo problema culturale può voler dire spesso fare una grande confusione e talvolta rischiare di prendere degli abbagli. Per Umberto Galimberti nichilismo non significa caduta dei valori ma totale assenza di essi. Nichilismo quindi significa che i vecchi valori supremi non esistono più e non sono neanche stati rimpiazzati, sostituiti. Per alcuni filosofi il nichilismo nasce da una civiltà che pensava di aver raggiunto la verità e affermare che si ha il rimedio per sconfiggere questo male del nostro secolo significherebbe affermare che si sa la verità. Forse il nichilismo non ha soluzioni invece e finirà per divorarci. Il nichilismo è un termine che può acquisire tantissimi significati e può essere considerato la radice di tutti i mali e delle ingiustizie umane. C’è anche chi sostiene che il capitalismo selvaggio e il consumismo siano dovuti al nichilismo. Altri ancora sostengono che dietro le guerre ci sia il nichilismo e la volontà di potenza. Alcuni a torto ritengono che anche i kamikaze siano dei nichilisti, ma è tutto il contrario perché loro sono degli integralisti, degli assolutisti: ai loro occhi solo i loro valori sono gli unici veri e devono imporsi ad ogni costo sulla civiltà occidentale. Comunque il nichilismo può essere considerato un rompicapo metafisico, un rovello culturale, un atteggiamento esistenziale. Non solo ma dal punto di vista gnoseologico il nichilismo è scetticismo. Non dimentichiamoci poi che il nulla, così pervasivo nella società, causa disorientamento e malessere in alcune persone, che sono probabilmente anche più fragili psicologicamente. Secondo taluni tutto è vuoto e vano. Non c’è più fede. Non c’è più alcuna ideologia e neanche alcuna utopia. Non c’è più futuro. Nessuna prospettiva. Tutto è menzogna. Tutti sono degli impostori. Tutto è sterile. Tutto è caos. Nessuno può essere sé stesso perché tutto è recita. Tutto ciò che era verità oggi è divenuto favola. Non c’è più alcuna certezza assoluta. Il senso di annichilimento, lo sgomento del vuoto sono il brodo di coltura. Il nichilismo diviene inconfutabile. Il nulla è una ombra costante. I simulacri sono infiniti. Non si esce dal circolo vizioso del nichilismo se si cerca di speculare. Chi vuole smascherare la metafisica si trova al cospetto di un fantasma. Tutto è visto in modo pessimista. Tutti vorrebbero fuggire dal nichilismo ma è sempre più difficile farlo. Andy Warhol a proposito della vita scriveva: “Ti ammali e muori. Tutto lì. Perciò non devi fare altro che tenerti occupato». Alcuni si drogano. Altri ammazzano. L’emblema del nichilismo più significativo è quello di giovani che lanciavano sassi dal cavalcavia, nonostante avessero bevuto molte birre e probabilmente avessero disturbi di personalità. Quando a questi ragazzi chiesero per quale motivo l’avessero fatto risposero che non sapevano come passare il tempo. Però non tutti i nichilisti si comportano male. Bisogna anche ricordare che sono molto di più gli studiosi europei che quelli americani per esempio a riflettere su questa problematica perché probabilmente appartengono ad una civiltà più antica e percepiscono di più il tramonto della civiltà occidentale. La domanda che bisogna porsi per oltrepassare il nichilismo è la seguente: perché il nulla sta prendendo il sopravvento? I filosofi non si trovano minimamente d’accordo. Molteplici sono le diagnosi, ma forse il nichilismo è una malattia inguaribile di noi occidentali. È un virus invincibile; un veleno senza antidoti. È una piaga. Per alcuni è l’origine di ogni male. Hemingway scriveva: «Nulla nostro che sei nel nulla, nulla sia il tuo nome ed il tuo regno, nulla la tua volontà in nulla come in nulla. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano e rimetti a noi i nostri nulla come noi rimettiamo ai nostri nulla e liberaci dal nulla». E che dire di Leopardi, secondi cui “Tutto è nulla”? Probabilmente avevano entrambi compreso molto e cioè che l’essenza della nostra civiltà era il nulla: una società reificata e fondata sul nulla. A meno che non si ritrovi il senso autentico del tutto nella religione e/o nell’umanesimo.

 

Considerazioni sull'autofiction...

giu 112022

undefinedNell’enciclopedia Treccani alla voce “autofiction” si trova scritto: “Il termine autofiction, coniato nel 1977 dallo scrittore francese Serge Doubrovsky in riferimento al suo romanzo Fils, indica il genere letterario in cui l’autore stesso è il protagonista delle vicende di finzione narrate. Nato con un’esplicita ispirazione psicoanalitica, come indagine sull’inconscio, e utilizzando gli stilemi del nouveau roman, in anni più recenti, con l’arrivo del post moderno, il tema più diffuso nei lavori di a. sembra essere piuttosto il rapporto problematico tra verità e menzogna, tra identità e differenza, in una società dominata dalle immagini tecniche e dai simulacri (in Italia, si veda, per es., il romanzo di Walter Siti, Troppi paradisi, 2006)”.

Leggevo di recente un articolo del grande poeta e scrittore Roberto Pazzi, in cui si lamentava del fatto che oggi vada per la maggiore l’autofiction (Saviano, Giuseppe Genna, Walter Siti, Teresa Ciabatti, etc) e sia troppo diffuso il “microautobiografismo”. Secondo questa scuola di pensiero troppi autori sono egoriferiti, sono troppo coinvolti emotivamente, non riescono a mettere a distanza le loro cose della vita, non riescono a utilizzare un sufficiente distacco (forse semplifico, ma in realtà certe ragioni vengono sottintese e mai esplicitate da molti). A tale riguardo scrivevo in tempi non sospetti, ovvero 30 anni fa, che la vita è un’immagine che si può mettere a fuoco solo quando si è distanti. Ma secondo un’altra scuola di pensiero “Madame Bovary c’est moi”, così come è sempre valido il detto veneto “pittore parla dei quadri”, ovvero noi stessi siamo la materia che conosciamo (alcuni come il poeta Vittorio Orlando affermano che l’unico progresso è quello interiore). Secondo questa seconda scuola di pensiero perché dovremmo inventare eventi o personaggi quando possiamo prendere a piene mani dalle nostre vite? In fondo mi chiedo io chi ha detto che per passare dal particolare all’universale bisogna per forza trasfigurare e creare? Perché non attingere totalmente o quasi dalle nostre vite? Perché non trattare di noi invece di creare mondi fittizi? Aggiungo anche che le neuroscienze hanno dimostrato, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale, che la mente umana attiva undici aree cerebrali ogni volta che immagina, ma è anche vero che immaginare non è creare ex novo o creare ex nihilo. L’immaginazione umana manipola e combina vecchie immagini. Che poi le immagini mentali ci suggestionino e influenzino direttamente la nostra vita è vero, ma è altrettanto vero che anche l’artista con più immaginazione inizia sempre dal materiale preesistente della sua vita. L’autofiction è perfettamente in linea con tutto ciò. E allora perché deve essere visto male parlare di sé? Perché uno scrittore deve parlare d’altro per poi finire immancabilmente di parlare di sé stesso? Perché fingere totalmente? Perché parlare d’altro!? Perché fare un gioco di sponda? Perché traslare? Perché non affrontare subito e in tutta onestà ciò che ci sta più a cuore o forse ciò che ci riguarda di più, ovvero noi stessi? Chi ha detto poi che dei fatti biografici non possano creare empatia e rispecchiamento? In fondo è sempre difficile stabilire quanto io c’è nel mondo che percepiamo e quanto mondo c’è nel nostro io. Per l’eterogenesi dei fini talvolta chi cerca il mondo trova l’io (le sue proiezioni, i suoi fantasmi psichici) e viceversa chi cerca l’io trova il mondo. Difficile è anche cercare una linea di demarcazione tra io e mondo perché l’interazione è continua, il flusso è ininterrotto. Forse l’autofiction è il punto d’incontro ottimale tra realtà e finzione. Certo parlare di sé significa avere più remore, significa autocensurarsi, avere più inibizioni, andare incontro a disapprovazione sociale, ma è altrettanto vero che scrivere significa mettersi a nudo. Poi ci potrebbero essere delle grane legali a parlare troppo della propria vita. Se uno scrive di fantasia ogni riferimento è puramente casuale. Se il libro è autobiografico ogni riferimento può essere causale e possono perciò fioccare le querele. Forse anche in questo caso l’autofiction è la strada migliore. Però ci sono anche delle controindicazioni: oggi i libri subiscono un editing molto forte in nome del politicamente corretto; questo forse vuol dire che in fondo è più ammissibile per il pubblico una storia inventata con alcune venature maschiliste per esempio che un romanzo autobiografico, dato che nel primo caso uno si può sempre difendere dicendo che punto di vista dell’autore e quello della voce narrante non necessariamente coincidono. Se un lettore moralista vuol pensare male a ogni modo lo farà anche di fronte a una storia erotica inventata di sana pianta, sostenendo che certe cose per scriverle così bene bisogna averle provate. Certamente oggi il gossip letterario è scarso: sono lontani i tempi in cui nei salotti letterari si vociferava che Saba fosse omosessuale per via dell’iniziazione omosessuale del protagonista del suo unico romanzo “Ernesto”. Certo c’è anche chi ce l’ha con l’autofiction perché troppo confessionale, troppo intima. Sarebbe prima di tutto una questione di pudore, di discrezione per taluni, fino a sentenziare che i fatti propri di questo o quell’autore non interessano a nessuno. Ma allo stesso tempo non tutta la fantascienza, non tutto il fantasy o non tutto il realismo magico interessano ai più! Un altro motivo per cui si può criticare l’autofiction è la parte saggistica in ogni suo romanzo oppure quella metaletteraria. Anticamente la prosa doveva essere barocca, a costo, nei casi peggiori, di dimostrare la propria bravura con un periodare involuto. Nel Novecento il miglior prosatore appartenente a questa scuola è stato Giorgio Manganelli, che si caratterizzò sempre per genialità, sperimentalismo, grazia, cultura, immaginazione. Dal punto di vista narrativo “Centuria” e dal punto di vista saggistico “Letteratura come menzogna” ne sono le prove incontestabili. Un tempo c’era inoltre una distinzione netta tra narratori puri (come Pavese, Cassola, Tondelli) e descrittori (primo tra tutti Calvino e i suoi epigoni). Per decenni avuto la meglio i descrittori puri. Oggi invece per pubblicare in una grande casa editrice un romanzo di solito deve avere un taglio descrittivo e a tratti deve essere anche un romanzo saggio. Oppure se un romanziere vuole soddisfare la critica militante può scrivere un romanzo anche senza trama, ma caratterizzato da straniamento (tanto per fare due esempi come nel caso del cavallo narratore in “Cholstomér” di Tolstoj o come in “Sentinella” di Brown, in cui il narratore a sorpresa è un alieno) e pluristilismo. Il flusso di coscienza invece non sembra avere più successo, almeno non ricalcando gli stessi stilemi di Joyce, Faulkner, Woolf, né ricalcando il flusso di coscienza totalmente alterato di Burroughs. C’è anche chi dice comunque che con l’autofiction non hanno inventato niente perché essa esisteva da secoli. C’è infine chi non critica totalmente il genere, ma pensa che l’autofiction dovrebbe essere scritta meglio. Insomma come al solito in molti si azzuffano e i libri non si vendono. In tutta onestà non tutti i dettami della critica devono per forza corrispondere al vero, così come non sempre il successo di un genere decretato dal pubblico deve per forza essere garanzia certificata di chissà quale qualità (Arbasino ricordava che ragionando in questo modo i migliori ristoranti del mondo sarebbero i McDonald’s). Che poi sia che un autore si rivolga all’interno o all’esterno ci sarà pur sempre una concavità o una convessità, una introflessione o una estroflessione: insomma la lente sarà sempre deformante, ci saranno perciò sempre delle deformazioni nell’opera. Che cosa c’è davvero di oggettivo nell’arte e nel mondo interiore? Quando uno studente chiese al grande matematico Caccioppoli quale fosse la legge più vera in assoluto, ebbene lui rispose: “Al cuore non si comanda”. Un altro grande matematico, Galois, fu la dimostrazione che “al cuore non si comanda”: fece un duello per difendere la donna che amava e sempre per amore, questa volta della sua disciplina, rivide e corresse tutti i suoi appunti la notte prima del duello in cui morì. In definitiva mi sembra che queste due scuole di pensiero (pro autofiction o contro) ripropongano in piccola parte l’antica disputa realismo/idealismo. Ritengo che la scelta artistica di trattare di sé o di altri può maturare in base all’introversione/estroversione dell’autore e quindi dalla sua personalità di base. C’è sempre un orientamento verso l’io o il mondo, una predilezione accentuata. Nessuno riesce a stare a metà strada tra queste due polarità. Forse non è una caratteristica umana riuscire a trovare l’equilibrio e anche l’armonia tra le due cose. Ci sono autori che hanno un atteggiamento quasi schizoide sulla polarità da scegliere. Kafka scrisse: “Non esiste altro mondo fuorché il mondo spirituale. Quello che noi chiamiamo mondo sensibile è il Male del mondo spirituale”. Sempre Kafka in “Quaderni in ottavo” scriveva: “Quanto misera è la conoscenza che ho di me stesso, paragonata – poniamo – a quella che ho della mia stanza. Perché? Non esiste un’osservazione del mondo interiore, come ne esiste una del mondo esterno. La psicologia descrittiva è in complesso un antropomorfismo, un modo di intaccare i limiti. Il mondo interiore si può solo vivere, non descrivere. – La psicologia è la descrizione del rispecchiarsi del mondo terreno sulla superficie celeste, o meglio: la descrizione di un rispecchiamento, come ce lo immaginiamo noi, creature impregnate di terra, perché in realtà non c’è alcun rispecchiamento, siamo solo noi che vediamo terra dovunque ci volgiamo”. È difficile trovare l’equilibrio interiore, ma altrettanto è difficile trovare quello artistico. È difficile scegliere dove volgersi, se verso lo scavo di sé o verso l’estensione nel mondo. Ma quale sarebbe l’opposto dell’autofiction? Per esempio la polifonia, descritta da M.Bachtin. Quest’ultimo prendeva come modelli i romanzi dialogici di Dostoevskij. Un romanzo secondo questa scuola sarebbe ben congegnato quando vi sarebbe una molteplicità di punti di vista. Ma viene da pensare anche che una buona autofiction può essere polifonica. Per accontentare pubblico e critica una buona autofiction dovrebbe contenere polifonia (ovvero alterità) e straniamento (ovvero rovesciamento dei punti di vista). A ogni modo non bisogna scegliere in base alle mode del momento, ma in base a ciò che sentiamo noi stessi dentro. Ben sapendo che qualsiasi cosa scegliamo ci sarà qualcuno che ce lo rinfaccerà. Comunque sia, come ha detto Walter Siti: ““Lo stile non si preoccupa del like”. Ma le cose andrebbero bene in Italia se prevalesse realmente l’autofiction di Siti e Genna. In realtà sono egemoni le micronarrazioni degli/delle influencer e anche le autofiction continue dei reality show e dei talk show. In tutta onestà a onor del vero l’autofiction letteraria, croce o delizia, è destinata purtroppo a un pubblico di nicchia. La vera narrazione oggi avviene purtroppo al di fuori della letteratura: il surrogato ha da tempo preso posto ormai dell’originale, il supplente ha sostituito a tempo pieno il titolare. Il pubblico letterario stesso ormai è come una donna che si è innamorata dell’amante e ha lasciato definitivamente il marito. Così vanno le cose.

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