Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

80 buone, semplici ragioni per non stroncare libri di poesia...

lug 212023

 

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Non bisognerebbe mai stroncare libri di poesia italiana

PERCHÉ …

se vendono come i libri di Andrew Faber, Guido Catalano, Franco Arminio, Gio Evan, allora sono manna per le case editrici che possono fare cassa. Quindi non bisogna rompere gli zebedei, anche se forse quella non è vera poesia.

se non vendono certi libri, non bisogna far "piovere sul bagnato", per usare un'espressione di Montale. 

i poeti, veri, aspiranti, sedicenti se la prenderanno personalmente con voi, in quanto la stroncatura è per loro una ferita narcisistica.

molto raramente una stroncatura insegna davvero qualcosa a un poeta o ai lettori.

stroncando si suscita timore reverenziale ma non si cucca. 

tra tutta la poesia pubblicata solo una minuscola parte raggiunge il livello minimo di decenza. Se si dovesse stroncare tutto ciò che non è decente, non si finirebbe più. Stroncare solo qualcuno significa avercela con lui o fare comunque un'operazione faziosa o ingiusta. O si stronca tutti i pessimi poeti o non si stronca nessuno. Portare uno sfortunato come exemplum è ingiusto. 

bisogna considerare la buona fede e la buona volontà di chi scrive versi. Ci vuole pazienza, umana comprensione, un minimo di sopportazione.

 in quest'epoca dominano incontrastati il narcisismo e l'esibizionismo. I poeti non sono da meno. Quindi bisogna tollerare questi disturbi psicologici, che il nostro tempo slatentizza. 

anche scrivere brutti versi è una passione innocente. Che male vi hanno fatto i cattivi poeti in fondo? 

si rischia sempre più spesso di stroncare per puro gusto personale. 

 

i poeti, veri o presunti, credono molto in quello che scrivono. Lasciamoli credere in ciò che vogliono. Anche nelle loro pessime cose. 

non è colpa dei poeti se le persone in genere considerano grandi poeti coloro che sanno semplicemente andare a capo.

anche chi stronca si può sbagliare.

stroncare è una pessima azione.

stroncando si fa del male al poeta più che del bene.

 ogni poeta ha bisogno di essere incoraggiato e non demoralizzato. 

stroncando si uccide un sogno.

si può sempre criticare i punti deboli e i difetti di un libro in modo privato, comunicandoli solo al poeta.

non vale la pena di stroncare.

una stroncatura potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso di un poeta depresso e indurlo al suicidio.

stroncare è un modo letterario di menare le mani.

solo pochi hanno davvero l'autorevolezza per stroncare.

ma non vi fanno un poco di tenerezza i pessimi poeti? 

oggi l'epiteto di poeta è un contentino che danno a molti. 

i poeti, veri o presunti, nella maggioranza dei casi pubblicano a pagamento e criticarli negativamente dopo che si sono accollati certe spese editoriali è un piccolo atto sadico, di cattiveria, questa volta gratuita.

la stroncatura non cambia il mondo della comunità poetica, né il mondo editoriale.

la stroncatura è un genere datato, ormai finito.

la stroncatura in Italia non è quasi mai obiettiva, è sempre faziosa. Il critico prende di mira i suoi nemici giurati e poi osanna i suoi amichetti, i suoi sodali e naturalmente ha un occhio di riguardo per gli amici degli amici. Purtroppo, diciamocelo francamente, è davvero così.

la critica letteraria non può essere per niente obiettiva, perché mancano canoni estetici, metri di giudizio con cui valutare e ismi in cui incanalare gli autori, come un tempo.

la stroncatura è un opinione molto discutibile, che viene presentata come un dogma o quantomeno come una certezza assoluta.

bisogna valutare anche le conseguenze psicologiche e la sofferenza interiore di chi viene stroncato.

 chi stronca si mette su un piedistallo e si considera superiore.

non è detto che il critico abbia ragione a tutti i costi. 

siamo tutti fallibili, sia chi scrive versi, sia chi li critica.

ci vuole bonaria indulgenza, poiché siamo tutti esseri umani.

 la letteratura non è una scienza esatta. Nemmeno nessuna scienza oggi è esatta.

per quieto vivere è meglio non stroncare. Stroncare significa farsi dei nemici. 

alcuni poeti sono convinti di essere grandi poeti. Lasciateli pure vivere delle loro albagie, delle loro illusioni.

 alcuni estimatori di questi poeti si sentirebbero feriti o considerati degli idioti.

il mondo poetico italiano è già in una condizione desolante. Non affossiamolo ulteriormente. 

i poeti italiani hanno già tantissimi detrattori.

ci penseranno i posteri, se ci saranno, a distinguere il grano dal loglio.

la poesia è marginale e stroncando a ogni modo non si desta l'interesse.

stroncare è pura partigianeria, intesa nel senso più deteriore del termine, spacciata spesso per militanza. 

stroncando si dà troppa importanza alla vittima.

la vittima potrebbe farvi una causa civile.

meglio il silenzio, l'indifferenza al clamore che suscita una stroncatura.

al mondo d'oggi chiunque trova il diritto di replica e finirebbe tutto con una rissa sui social o sui blog letterari senza esclusione di colpi o quasi.

stroncare non è più pedagogico 

stroncare è una perdita di tempo.

la poesia italiana è una piccolissima torta in cui troppe persone vogliono una fetta. 

ci possono essere poeti, veri o presunti, che potranno perseguitarvi e diventare vostri troll, hater, stalker.

 stroncare può essere considerato un atto di bullismo o cyberbullismo.

stroncare spesso significa partire lancia in resta, accusare per partito preso senza ragionare con equanimità.

stroncare è manifestazione di puro livore.

dei punti di forza ci sono in ogni libro e nella stroncatura vengono omessi, dimenticati, totalmente rimossi.

chi lo dice che dietro a una stroncatura ci sia dietro una questione personale, una ripicca, un'antipatia, un'idiosincrasia, una vendetta? 

nessuno sa più stroncare come una volta.

uno si fa terra bruciata nella comunità poetica.

dietro a ogni libro c'è una persona che merita rispetto della sua dignità umana.

anche la pubblicità negativa è pur sempre pubblicità. 

si rischia di essere divisivi.

si rischia di non finirla più. Il poeta stroncato passerà alla controffensiva. Alcuni lettori commenteranno, dicendo che non sono d'accordo. La discussione potrebbe tirare per le lunghe. 

stroncando non si controbilancia la moltitudine di elogi e di endorsement fatta da tanti recensori ai poeti. 

la stroncatura viene ritenuta un atto di lesa maestà.

ci sono cose molto peggiori di scrivere brutti versi: ad esempio criticare malamente brutti versi, sentendosi superiori. 

una bugia innocente è meglio di una verità amara.

anche i migliori intellettuali e le migliori menti possono scrivere brutti versi. Nessuno ne è immune.

tanto i poeti comunque continueranno a scrivere ostinati e non si autocensureranno. 

spesso il critico, giunto a una certa età, intraprende l'attività poetica e allora le stroncature potrebbero ritorcerglisi contro.

la comunità poetica potrebbe esercitare una damnatio memoriae da morti.

certi pessimi libri di poesia sono davvero sotto la soglia del giudizio critico di un qualsiasi recensore onesto e allora non bisogna scriverne.

chiunque al mondo d'oggi pensa di avere diritto a una buona reputazione di poeta. 

la stroncatura suscita gli stessi bassi istinti sadici e voyeuristici di chi guardava bruciare Giovanna d'Arco.

chi lo dice che in futuro quei brutti versi non  saranno ritenuti dei capolavori? 

le stroncature non vanno più di moda.

le agenzie letterarie non vi pagano se scrivete stroncature.

una stroncatura tira l'altra e troppe stroncature creano il deserto.

prima di stroncare i libri di poesia gli stessi critici dovrebbero fare molte denunce sociali per questioni molto più importanti.

è meglio parlare bene dei migliori che male dei peggiori.

facendo un'analisi costi/benefici, uno ci guadagna di più a non stroncare.

 

 

Sull'innamoramento (pillola di psicologia)

lug 142023

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L'Innamoramento è qualcosa che proviamo tutti nella vita. Lo hanno provato anche santi e assassini, orgiastici e casti, papi, milionari e barboni. Hanno un bel dire certi/e che dicono agli altri: "tu non sai cos'è l'amore", come se fosse qualcosa di esclusivo, qualcosa che riguarda solo loro, perchè hanno nobiltà d'animo, perché gli altri sono incapaci d'amare. In realtà è un sentimento universale, la cui fisiologia (si pensi alla descrizione che ne fa Stendhal) e la cui neurochimica sono ben noti (l'ho già scritto in un altro articolo, ma lo ribadisco, dato che tanti faticano ad accettare questa cosa). Secondo studi recenti sappiamo che negli innamorati si registra un aumento di dopamina e una diminuzione di serotonina. Ogni innamorato è euforico, ossessivo e se viene rifiutato cade spesso in una fase depressiva. Ogni innamorato "impazzisce". Non a caso nella letteratura Tristano e Isotta bevono un filtro d'amore che fa loro trasgredire le regole sociali e l'Orlando furioso perde il suo senno sulla luna. Ma se qualcuno vi dice che non avete mai provato la comunione delle anime, la fusione dei corpi, perché non siete mai stati ricambiati quando eravate innamorati, voi canticchiategli la canzone di Madame "Il bene nel male", dove dice: "L'amore è di chi prova amore e non di chi lo riceve". Ma perché ci innamoriamo sempre dello stesso tipo di persone oppure sempre di persone diverse? C'è chi dice che cerchiamo sempre una persona opposta per completarci meglio e quindi spiega tutto con la complementarità, mentre altri dicono che cerchiamo una persona simile ("chi si somiglia, si piglia"). In realtà la questione è mal posta. Secondo Freud ci sono solo due tipi di innamoramento, ovvero due tipi di scelta dell'oggetto "pulsionale": l'innamoramento narcisistico (in cui si proietta spesso la miglior parte di noi sull'altra persona, idealizzandola) oppure l'innamoramento anaclitico (deriva dal greco, significa appoggiarsi a, in cui si fa riferimento agli archetipi parentali, ovvero alle figure genitoriali, ci si appoggia quindi a una figura genitoriale; ci si ricordi ad esempio del complesso di Edipo, in cui il bambino si innamora della madre).

 

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(tramonto alla Sozzifanti. Foto di Emanuele Morelli)

 

 

 

Secondo Freud quando scegliamo un (s)oggetto d'amore lo possiamo fare solo in due modi: trovando il nostro io nell'altra persona (innamoramento narcisistico) o trovando una figura genitoriale nell'altra persona (tipico è l'esempio della donna che cerca il padre negli uomini). Ma a mio avviso, e qui vado contro Freud, esistono anche uomini che si innamorano molto anti-edipicamente di donne che sono opposte e inverse rispetto alle caratteristiche della madre. Può accadere comunque che una persona abbia nella sua vita tre innamoramenti narcistici e cinque innamoramenti anaclitici oppure dieci innamoramenti narcisistici oppure dieci innamoramenti anaclitici e questo spiegherebbe di volta in volta la grande somiglianza o la grande varietà delle persone amate: capite che non è proprio la stessa cosa della complementarità, mentre è vero che nell'innamoramento narcistico troviamo una persona che ha dei tratti simili a noi, anche e soprattutto perché ci siamo rispecchiati in lei. Invece chi ha sofferto di depressione anaclitica nell'infanzia, dovuta alla perdita di un genitore, di entrambi oppure dell'abbandono di uno o entrambi tenderà ad avere da adulto/a degli innamoramenti anaclitici. A ogni modo di solito le persone nella vita tendono a innamorarsi solo in un modo (narcisistico o anaclitico). Che tipi di innamoramenti erano quelli di Dante e Petrarca? Forse narcisistici, ma nessuno può dirlo con esattezza. Inoltre esistono anche altre due teorie: ci sono psicologi che ritengono che l'innamoramento sia dovuto a una scelta autonoma, quasi razionale, non credendo al colpo di fulmine, e ci sono studiosi che riprendono il concetto di desiderio mimetico di R.Girard, secondo cui i nostri desideri prendono come riferimento i desideri altrui e noi imitiamo gli altri anche nel desiderio, detto in parole povere, noi desideriamo, secondo questa teoria, ciò che desiderano gli altri. In questi tempi di omologazione di massa e di conseguenza di omologazione dei gusti il concetto di desiderio mimetico è sempre più importante. Comunque la scelta del (s)oggetto d'amore in buona parte dei casi è eterodiretta, anche se si dice che si è liberi d'amare. Come vedete la faccenda è complicata, articolata, controversa, di non facile interpretazione.

Due parole di numero sul dolore...

lug 052023

 

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Lo scriveva già Schopenhauer: "La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia". E Leopardi scriveva che la morte "ogni gran dolore, ogni gran male annulla". Una delle più importanti domande che si fa la filosofia dalla notte dei tempi è la seguente: "Perché l'uomo soffre?"
La prima domanda della teodicea (cosa si può dire di Dio) è la seguente: "perché, se esiste Dio, esiste anche il male?", cioè ci si chiede quale sia il senso ultimo, escatologico, finale del male. In medicina ci sono state diverse teorie del dolore: dal localizzazionismo, alla teoria del cancello (che, nonostante alcune lacune, aveva il merito di dare la priorità della percezione del dolore al midollo spinale e al sistema nervoso centrale), ad altre più recenti. Si usa distinguere il dolore fisico da quello esistenziale. Ogni volta che proviamo dolore ci chiediamo: "perché proprio a me?"
Spesso non riusciamo a trovare un senso, una ragione. Consideriamo quasi sempre il nostro dolore di primo acchito un'ingiustizia o una cosa assurda, che sfugge alla nostra comprensione. Ma dovremmo chiederci anche "perché proprio a me?" quando ci toccano delle cose belle nella vita.
Noi esistiamo anche per assorbire, comprendere il dolore altrui. Gli altri sono importanti per noi non solo perché ci possono aiutare a ridurre o a eliminare il nostro dolore, ma perché con gli altri possiamo condividerlo e gli altri possono capirlo, rincuorandoci, sollevandoci. Stare in società significa anche alleviare le pene altrui e farsi alleviare le pene proprie. In una società decente il dolore si rispetta e si condivide. In una società un minimo umana la partecipazione al dolore supera l'indifferenza generale. C'è chi sostiene che esista il dolore perché esiste il male. Eppure si cerca sempre di trovare un senso al dolore, una sua utilità, un insegnamento e mille risvolti positivi. Insomma non tutto viene per nuocere. Eppure molto spesso quando soffriamo ci chiediamo che ce ne facciamo del nostro dolore, in definitiva a quale pro? La risposta non sempre è facile e immediata, spesso non è portata di mano. Il fatto che il dolore non venga distribuito equamente lo consideriamo una grande ingiustizia e viene subito da pensare che a molte brave persone vengono date sofferenze atroci, mentre noti farabutti se la spassano e si godono una bella, lunga vita. Insomma la constatazione che non è uguale per tutti è sempre molto amara, a volte rabbiosa. I moralisti e la Chiesa, stessa secoli fa, pensavano che la peste fosse una punizione divina. Eppure la Bibbia con la storia di Giobbe ci avverte che anche gli uomini giusti possono avere tutte le sfortune e le afflizioni di questo mondo. La stessa Chiesa ha considerato spesso più tardi il dolore come un'espiazione su questa Terra dei propri peccati. Questa nostra società è edonista, ovvero c'è una ricerca smodata di ricerca del piacere, ed è anche biopolitica, come ci insegna Foucault, ovvero cerca di eliminare il dolore e rimandare sempre più in là la morte di ognuno. Eppure c'è in ognuno di noi un lato sadomasochistico, più o meno pronunciato, che ci fa provare piacere a causare dolore agli altri e a noi stessi (si pensi ai comportamenti autodistruttivi, agli atti autolesionistici, ai cattivi stili di vita). A onor del vero nessuno sa con certezza se il dolore è maestro di vita. Secondo la psicologia consideriamo il dolore una fonte inesauribile di insegnamento per ridurre la nostra dissonanza cognitiva. Eschilo e i tragici greci erano dell'idea che il dolore aumentasse la conoscenza, la consapevolezza esistenziale. Cristianamente parlando il dolore è una prova a cui ci sottopone Dio e che ci fa crescere e maturare. A leggere attentamente Epicuro ci accorgiamo che riteneva già l'assenza di dolore un piacere. A conti fatti potremmo pensare che, una volta passato un dolore, non provarlo più è già un grande piacere, un grande sollievo, un'enorme fortuna. Ma purtroppo l'uomo, ogni uomo, dà per scontato il fatto di stare bene, non si rende conto che l'assenza di dolore è una manna dal cielo, a meno che non incappi nel dolore fisico, esistenziale, nel lutto, nella malattia, in un trauma, in una perdita affettiva. Nel dolore si scoprono le cose veramente importanti e prioritarie della vita, si eliminano quelle superflue: il dolore probabilmente ci rende davvero più umani, più saggi, più veri. Il dolore è il più efficace rasoio di Occam: ci fa vedere gli altri sotto una luce nuova, ci fa tagliare molti rami secchi inutili della nostra vita. Per Leopardi il patimento,  ovvero soprattutto il dolore fisico, rende l'uomo più umano e meno insensibile ai problemi altrui. L'uomo però non accetta il dolore, soprattutto il proprio, perché siamo tutti biologicamente e ontologicamente molto egoisti nel nostro intimo. E perché? Perché, come ha scoperto la psicanalisi il dolore è l'anticamera della morte e l'uomo inconsciamente si ritiene immortale. Il nostro inconscio si considera immortale e questo è il motivo per cui ci svegliamo di soprassalto ogni volta che sogniamo di morire. Noi inconsciamente non accettiamo il dolore non solo per un fatto di sopportazione e di resistenza fisica e/o psicologica ma perché non accettiamo la nostra morte. Da giovani il nostro inconscio ha il predominio sulla rassegnazione della ragionevolezza: si considera la morte un evento talmente improbabile da pensarci immortali. Emblematico è il capolavoro "La morte di Ivan Il'ič" di Tolstoj. Il protagonista, il sillogismo "Cesare è un uomo. Tutti gli uomini sono mortali. Cesare è mortale" poteva accettarlo e capirlo perfettamente ma non riferito a sé stesso. Per Heidegger l'esistenza dell'uomo contemporaneo è inautentica, perché si perde nella curiosità, nell'equivoco, nella chiacchiera, nel "si dice". Ecco allora che per il filosofo tedesco l'unico modo per essere autentici è essere per la morte, cioè pensare alla morte come "possibilità di non esserci". Eppure l'uomo secondo Pascal trova qualsiasi escamotage, qualsiasi divertissement per non pensare alla morte. Rimuovere il dolore e la morte fanno parte della natura umana, perché fanno molta paura sotto ogni punto di vista. Vivere in superficie, con grande leggerezza ci viene così spontaneo e immediato. Oggi molto più che in passato. L'ars moriendi di conseguenza è ormai oggi scomparsa.

Moravia, Freud e soprattutto Marcuse...

lug 022023

 

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Consideriamo il rapporto tra Moravia e Freud. Per Dominique Fernandez in “Il romanzo italiano e la crisi della coscienza moderna” Freud va considerato un garante intellettuale di Moravia. Secondo la Fernandez Moravia si è incamminato da solo autonomamente sulle stesse tematiche, scandagliate da Freud. Moravia come Freud considera la sessualità un’esigenza dell’essere umano. Per il cattolicesimo invece il sesso è considerato un peccato. Moravia è freudiano anche nella sua concezione dell’amore. Per lo scrittore l’amore è come Freud un investimento oggettuale da parte di pulsioni sessuali, in vista di un puro e immediato soddisfacimento sessuale. Per Freud nella mente di ogni individuo esistono tre istanze psichiche: Io, Es, Super-Ego. Ma questa struttura tripartita della mente ha una sua precisa cronologia secondo Freud. Alla nascita e nei primi anni di vita è presente solo l’Es. Successivamente si forma l’Io. Quindi per ultimo il Super-Ego (verso i 3-5 anni). La dottrina di Freud è stato spesso accusata di pansessualismo. Tutto dipende e scaturisce dal sesso. Per Freud la sessualità riveste un’importanza fondamentale nell’eziologia della nevrosi. Il disagio della civiltà dell’uomo moderno per Freud si gioca tutto sul rapporto tra esigenze naturali innate (quindi anche sessuali) e civiltà. Anche per Moravia tutto ha inizio dall’Es. Anche Moravia mette in primo piano la libido nei suoi romanzi. Anche per Moravia libido e nevrosi sono strettamente connesse. Inoltre Freud non accenna nel suo lavoro a quelle che chiamiamo oggi subpersonalità e neanche Moravia lo fa nei suoi scritti.

 

“L’uomo a una dimensione” di Herbert Marcuse compare in Italia nel 1967. E’ una delle opere preferite dai sessantottini. Il sociologo marxista Marcuse diventa uno dei maestri di pensiero del’68. Non riesco a capire come mai la critica letteraria non abbia mai rilevato non dico l’influenza diretta di Marcuse sul pensiero di Moravia, ma perlomeno dei richiami, delle somiglianze, delle analogie. Marcuse nel terzo capitolo de “L’uomo a una dimensione” tratta della DESUBLIMAZIONE REPRESSIVA, ovvero della desublimazione imposta dal Potere. In parole povere un popolo sublimante può cambiare le cose, può fare anche la rivoluzione. Un popolo desublimato invece non può niente. La desublimazione avviene nell’arte moderna ad esempio, con lo sfruttamento commerciale delle espressioni artistiche e con la fruizione semplicistica di grandi opere dei maestri di pensiero. Faccio un esempio dello sfruttamento commerciale dell’arte: mettere Mozart come sottofondo di una pubblicità, mettere le frasi dei poeti o gli aforismi dei letterati nei cioccolatini eccetera eccetera. Entrambi questi processi tolgono il carattere rivoluzionario delle opere artistiche. Ma esiste per Marcuse anche una desublimazione repressiva sessuale nella società. Intendiamoci bene: il piacere non è solo sessuale. Ci sono svariate fonti di piacere, di cui il sesso è la più popolare e il più intenso. Altri piaceri sono: il vino, il fumo, il cibo, viaggiare, vedere film, leggere libri , etc, etc. Ma secondo Marcuse il Potere cerca di canalizzare tutta la libido dell’uomo moderno nella sessualità. La razionalità tecnologica ad esempio ha permesso all’uomo diverse comodità, però allo stesso tempo gli ha tolto il piacere del contatto con la natura. Marcuse fa un esempio preciso: nella società moderna i fidanzati o gli sposi fanno l’amore in macchina oppure in camera da letto. Non certo come nella società contadina, in cui potevano fare l’amore in un campo. Ma nel campo esisteva il contatto con la natura, nell’abitacolo di un automobile no. Marcuse scrive che nel caso del far l’amore in un prato “l’ambiente partecipa all’investimento libidico” e di conseguenza “la libido si effonde al di là delle zone erogene immediate, in un processo di sublimazione non repressivo”, nel caso del farlo in macchina no. La società industriale secondo Marcuse è più permissiva: il sesso viene permesso anche sul luogo di lavoro ad esempio, i richiami sessuali possono essere proposti anche in televisione. Secondo Marcuse anche i movimenti dei lavoratori nella catena di montaggio sono un richiamo al piacere genitale. Secondo Walker infatti “i movimenti ritmici interdipendenti” generano soddisfazione erotica. E Marcuse inoltre cita anche Sartre che ne “La ragione dialettica” scrive: “nei primi tempi delle macchine semiautomatiche, certe inchieste hanno mostrato che le operaie a cottimo si lasciavano andare, lavorando, a fantasticherie d’ordine sessuale, rivedevano nella mente la camera, il lume, la notte…..”. Però il piacere viene incanalato solo e soltanto verso la genitalità, di conseguenza la quantità di piacere è minore. Per dirla alla Brel esiste la passione (erotica), ma tra i due sessi è scomparsa la tenerezza. Il rafforzamento dell’erotismo inoltre secondo Marcuse causa una minore energia aggressiva: la coscienza infelice dell’uomo moderno sarebbe perciò fermata dall’attuazione della rivolta tramite questo processo di desublimazione repressiva. Allo stesso tempo per gli esseri umani di quest’epoca l’erotismo sarebbe l’unica fonte di piacere e l’unica valvola di sfogo. Ecco allora che al momento dell’amplesso l’uomo ci mette non solo il piacere, ma anche tutta la sua disperazione, la sua infelicità per come stanno le cose. L’orgasmo nella società consumistica è l’unica via di uscita per tutte le frustrazioni e le oppressioni subite. Ecco perchè ne “L’uomo che guarda” di Moravia le amanti del padre del protagonista sono capaci di “un coraggio diabolico”. Ecco perché gli amanti non lo fanno con delicatezza, con tenerezza, ma con violenza, brutalità, con istinto animalesco. Ecco perché nella stragrande maggioranza dei romanzi di Moravia i personaggi fanno spesso sesso in camere d’albergo, macchine, camere da letto, etc etc…..ma raramente in aperta campagna. Resta però da stabilire quale sia il rapporto tra Marcuse e Moravia. Sono arrivati alle stesse intuizioni da soli? Marcuse ha subito l’influenza di Moravia o viceversa? È un'analogia forzata quella tra Moravia e Marcuse? Mi sono avventurato troppo? Tutto questo è da stabilire.

 

"La noia" di Moravia, il possesso e il desiderio...

lug 022023

 

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Moravia, la noia e il desiderio:
Ci sono tre modi per combattere e vincere la noia: fare le stesse cose in modo diverso, fare cose nuove, cambiare il rapporto tra la propria coscienza e le cose. Cercare di analizzare questo terzo modo significa scandagliare l'insondabile. E' quello che Moravia fa nel suo romanzo-saggio: l'analisi dell'ontologia della noia. Come ha rilevato la critica Moravia scrive in "prima persona intellettuale": l'io narrante è lo stesso autore. Moravia inizia questo viaggio metafisico interminabile con quella che nell'epilogo definirà "un'ambizione insostenibile". Nel primo capitolo il protagonista confessa che si annoia sin dall'adolescenza. Addirittura una volta ha cercato di interpretare la storia universale sulla base della noia. La noia è dovuta ad una mancata conciliazione tra la coscienza e il desiderio. Flaiano diceva che per essere felici bisogna desiderare quello che si ha. Ma -ahimè- è cosa ardua, dato che raggiunto un obiettivo, posseduto un oggetto, il nostro desiderio si sposta e si proietta verso altre mete. Moravia vuole smontare questo meccanismo, cercare di carpirne le leggi. Vuole scoprire un modo per chiamarsi fuori da questo circolo vizioso. Moravia nel corso della narrazione ci dà molteplici definizioni della noia. Me le sono annotate: "la noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità nei confronti della realtà", "una malattia degli oggetti", "incapacità di uscire da me stesso", "malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l'avvizzimento degli oggetti", "specie di nebbia nella quale il mio pensiero si smarrisce". Per analizzare la noia Moravia abbandona qualsiasi tipo di sovrastrutture e qualsiasi tipo di schemi precostituiti: niente Marx, niente Freud e nessun altro maestro di pensiero che sé stesso. Le sue considerazioni sono del tutto personali: dall'inizio alla fine del romanzo. Il pittore protagonista, dopo aver distrutto a coltellate un quadro, smette di dipingere. Fino ad allora dipingeva per cercare di instaurare un rapporto autentico con la realtà. Incontra Cecilia, la modella dell'anziano pittore Balestrieri, suo vicino di casa. Successivamente verrà a sapere che Balestrieri è morto, mentre stava facendo l'amore con Cecilia. Essendo un dongiovanni Balestrieri, il protagonista si chiede che cosa mai avesse Cecilia per aver fissato il desiderio nell'ultimo periodo della sua vita unicamente su di lei. Cecilia diventa quindi lo strumento per analizzare la noia. Il protagonista Dino ne diventa l'amante; però a questo punto scopre che non ha niente di speciale. Non sa baciare. Nel dialogo tra il protagonista e la ragazza regna l'incomunicabilità. Nelle conversazioni tra i due le risposte della ragazza sono sempre superficiali ed evasive: non lo so, uffa, non ti capisco, non ho niente da dire, non saprei, niente, etc etc (queste espressioni sono ricorrenti nelle sue risposte). Il protagonista si chiede se è lei ad essere noiosa o è lui che si annoia. Ma il viaggio metafisico continua. Cecilia ormai è il simbolo della realtà, tant'è che Moravia scrive "volevo ignorare e conoscere Cecilia, ossia la realtà". Il tentativo che compie il protagonista è quello di disfarsi totalmente della realtà. Cerca di farlo prima con ripetuti e ossessivi possessi fisici, pensando che questo possa portare alla fine al possesso mentale su Cecilia e di conseguenza sulla realtà. Ma nonostante i numerosi amplessi il protagonista si accorge che talvolta Cecilia è altrove, in certi momenti addirittura chiude gli occhi: si estranea, è distante. Allo stesso modo gli oggetti per quanto possono essere comprati ed essere posseduti (usati e logorati), rimarranno sempre per ogni uomo circondati da un alone di mistero e di impenetrabilità. A questo proposito mi vengono in mente i versi di una poesia breve di Auden: "Tavoli e sedie e sofà di casa/sanno cose di noi/ che i nostri amanti ignorano". Inoltre Borges a riguardo scrive: "Quante cose: atlanti, lime, soglie, coppe, chiodi; ci servono come taciti schiavi senza sguardo, stranamente segrete. Dureranno più in là del nostro oblio, non sapranno mai che ce ne siamo andati." Il possesso insomma ha i suoi limiti sia con gli oggetti che con le persone: è un vicolo senza uscita. Allora il protagonista per distruggere "l'autonomia e il mistero" di Cecilia (e anche della realtà) utilizza il moralismo, ossia giudicarla significa possederla e disfarsene. Allora indaga sui rapporti tra la ragazza e l'attore Luciani. La pedina, la spia. Ma qui il discorso si complica. Fino a quando Dino riteneva che Cecilia fosse innamorata di lui la relazione era scontata. Quando invece si accorge che la ragazza non lo ama, allora il desiderio di lei aumenta. Si comporta come se fosse un innamorato geloso. In un certo senso è geloso: la sua però non è una gelosia dovuta ad angoscia di separazione, ma è una gelosia determinata soltanto dal possesso esclusivo che credeva di avere nei confronti della ragazza. Deve ancora tentare altre strade, come quella della mercificazione (Cecilia diventa Danae…stessa mitologia de "La vita interiore"). Ma Cecilia non accetta la proposta di matrimonio né di instaurare un rapporto puramente mercenario. E' ancora una volta autonoma e lo dimostra andando a Ponza con l'altro suo amante Luciani. Il protagonista ha l'incidente in macchina. Dopo l'incidente ha la rinascita e trova il modo per chiamarsi fuori dal meccanismo del desiderio inconciliabile (dato che l'animo umano è insaziabile): ecco la contemplazione disinteressata dell'albero. Può così finalmente "amare in modo nuovo Cecilia" e questo vuol dire " ricominciare a dipingere".

Ma ora vorrei lasciare il romanzo di Moravia e fare delle considerazioni a largo raggio.
La presenza del desiderio è la dimostrazione che non siamo monadi isolate, che nessuno è un’entità a sé stante. Necessitiamo dell’alterità, dell’altro da noi. Ci sarà sempre una parte di noi, anche una minuscola regione subcosciente, che brama qualcosa che è altro da noi: oggetto o persona, talvolta ridotta a oggetto. Per non rendere ancora più equivoco il concetto di desiderio dovremmo attuare una netta distinzione tra questo e l’aspirazione (altrimenti finiremo in un ginepraio): aspirare all’uguaglianza, alla libertà, alla prosperità di tutti sono sentimenti più nobili e più alti dell’impulso che muove il semplice desiderio rivolto a un oggetto o a una persona. Se così non facessimo dovremmo trattare del legame tra desiderio e valore e ciò implicherebbe necessariamente valutare che un valore è difficilmente classificabile e che talvolta questo nasce da una problematica di carattere generale, talvolta è una norma o un codice morale. Finiremo inevitabilmente per trattare di soggettivismo e di relativismo di valori e non finiremo più. Diciamo piuttosto che concordiamo con chi ritiene che il valore sia “un fine desiderabile”, ma noi tratteremo solo di desideri superficiali e semplici, che hanno oggetti del desiderio definiti. E’ un’impresa ardua giungere a una fenomenologia del desiderio. Non mi risulta che qualche filosofo sia riuscito a dare una definizione esaustiva. Il desiderio infatti si confonde con la memoria. Memoria e desiderio attingono sia dal mondo sensibile che dall’immaginazione. Memoria, desiderio, immaginazione, realtà: si finisce quindi in un circolo vizioso della ragione. Ad intuito possiamo ritenere - semplificando un po’- che il desiderio si situi tra vedere e pensare, tra soggetto e oggetto, tra reale e immaginario, tra fatto e rappresentazione mentale, tra dimensione intrapsichica e dimensione intersoggettiva, tra assenza e possesso, tra essere e poter-essere. Etica e morale pongono dei limiti e dei freni al nostro desiderio. Ma non vorrei dilungarmi oltre riguardo alla genealogia della morale. Perfino i nostri stessi sogni risentono di una censura psichica, che sposta e condensa. I sogni non sempre hanno un contenuto manifesto, ma possono rivelare i nostri desideri repressi, trasformati dal lavoro onirico. Grazie a Nietzsche e a Freud abbiamo appreso qualche informazione utile su desiderio, morale e sogno. Per le religioni orientali l’uomo per eliminare la sofferenza deve eliminare il desiderio e annichilire l’io. Deve acquisire la consapevolezza che ciò che desidera è effimero, è pura illusione. Semplificando potremmo affermare che viene svalutato sia il soggetto che l’oggetto del desiderio. In Oriente il desiderio è considerato un fattore limitante per la libertà umana. Ma per noi occidentali è sinonimo di libertà. Noi occidentali lo consideriamo come inesauribile e ineludibile. Noi occidentali abbiamo anche cercato nel corso dei secoli di conciliarci con il desiderio. Gli stoici ad esempio cercarono di dominare le passioni. Flaiano sosteneva che bisognava desiderare ciò che si aveva. Ottimo aforisma, che però non contiene altro che un imperativo categorico irrealizzabile. Si desidera solo ciò che non si è mai avuto o ciò che si è avuto e si è perduto. L’orizzonte del desiderio comprende solo l’assenza e la perdita. Desiderare in fondo significa volere il possesso e/o la presenza di una determinata cosa o persona. Una volta raggiunto l’obiettivo nella maggioranza dei casi diminuisce (a volte addirittura scompare) il desiderio e subentra l’abitudine, la noia, l’incomunicabilità (se si tratta di una persona). E’ difficile rinnovare continuamente il desiderio verso lo stesso oggetto o la stessa persona. Il desiderio è dovuto molto spesso alla novità o ad una separazione non ancora elaborata. Probabilmente nasce da un impasto di realtà e immaginazione e tende a diminuire (e spesso a scomparire) quando il desiderante instaura una relazione con il proprio oggetto del desiderio. Esiste quindi una relazione di inversa proporzionalità tra desiderare ed avere quell’oggetto del desiderio. Una persona poi - una volta ottenuto ciò che desiderava- continua a desiderare ancora: non è mai paga. Un racconto sufi è un’ottima metafora del desiderio incessante dell’uomo. Narra di un mendicante, che chiede a un imperatore di riempire la sua ciotola. Ma l’impresa si rivela impossibile perché il mendicante aveva adibito a ciotola il teschio di un uomo. Infatti era impossibile riempire quel cranio perché voleva sempre di più. L’avere implica riflettere sui limiti del rapporto tra noi e l’oggetto posseduto. Il desiderare invece ci porta a meditare su uno dei maggiori problemi della filosofia: le nostre rappresentazioni mentali della realtà non sempre coincidono con la realtà stessa. In parole più povere a tutti può accadere di essere vittime di un desiderio non realistico o addirittura irrealizzabile. Il desiderare implica necessariamente anche ricercare una spiegazione della ragione per cui abbiamo scelto quel determinato oggetto del desiderio. Spesso si desidera ciò che è bello. Quindi noi abbiamo selezionato tra i tanti quell’oggetto del desiderio perché soddisfa certi canoni e criteri estetici individuali e/o collettivi. Ma potremmo anche aver scelto il nostro oggetto del desiderio perché ci è utile, ci dà piacere o provoca in noi uno stato di benessere interiore.

Direi quindi che nella maggior parte dei casi il desiderio cessa con il possesso. Il possesso è spesso la morte del desiderio. E questo non accade solo e soltanto con gli oggetti, che un tempo ambiti finiscono spesso per essere dimenticati in un angolo remoto della casa, ma anche in quel che chiamano amore. La donna desiderata una volta, diventata moglie non è più desiderabile quanto prima. L’eros diventa allora una formalità da sbrigare o talvolta un’esigenza fisiologica da soddisfare. Diventa solo una pulsione sessuale da completare per ripristinare l’equilibrio. L’abitudine soggioga allora la passione. E’ un problema che l’uomo si porta nell’animo dalla notte dei tempi quello del riuscire a conciliarsi con il proprio desiderio. E’ sempre accaduto che l’uomo cercasse di appropriarsi di più oggetti possibili per avidità e per vanità. In entrambi i casi però gli oggetti devono considerarsi come protesi mal riuscite del proprio ego o come tentativo goffo di rafforzarlo. Freud parlava di principio di realtà. Secondo il celebre psicanalista viennese nei soggetti maturi il principio di piacere deve sempre essere supervisionato dal principio di realtà. Ciò assicurerebbe dei limiti alle frustrazioni che potrebbero derivare nel prefiggersi degli obiettivi irraggiungibili per l’individuo. Nonostante il principio di realtà freudiano che esamina le nostre aspirazioni e le nostre mete, la noia di ciò che abbiamo e di ciò che possediamo è sempre in agguato. Il rapporto con gli stessi oggetti familiari ci annoia. Eppure abbiamo una contraddizione interna riguardo agli oggetti, ancora più accentuata da questa epoca consumistica: desideriamo gli oggetti, li andiamo a visionare nei negozi, ci facciamo prendere dall’istinto di acquisizione o da qualcosa del genere, li compriamo, ci sentiamo rassicurati perché avremo qualcosa di nuovo a cui dedicare attenzione per i prossimi giorni, facciamo in modo che gli oggetti occupino sempre più gli spazi vuoti della nostra casa, come se invece degli spazi vuoti della nostra abitazione potessero riempire gli spazi vuoti del nostro animo, il nostro senso di solitudine. Alcune persone hanno un bisogno compulsivo di fare shopping. A costo di lasciare debiti devono fare acquisti. Comprano libri che non leggeranno mai, dischi che non ascolteranno mai, oggetti che non hanno per loro nessuna utilità pratica né nessuna utilità. Eppure sono momentaneamente appagati. Il guaio è che il giorno dopo sono punto e daccapo. Come se non bastasse si è consumatori non solo perché compriamo continuamente secondo i nostri bisogni reali, i nostri desideri ed i dettami della pubblicità, ma anche perché i prodotti hanno vita breve e sono stati studiati per rompersi a breve termine. Si chiama obsolescenza programmata. Nel giro di poco tempo gli oggetti comprati si rompono e quindi siamo costretti a portare ad aggiustare o a ricomprare. Quanto dura uno stereo, un computer, un’automobile? Ogni quanto le portiamo ad aggiustare? Ogni quanto li ricompriamo perché non vanno più? I prodotti sono fatti perché si rompano nel giro di pochi anni, altrimenti tutto il sistema produttivo andrebbe in crisi. Se il problema di conciliarsi con il proprio desiderio è un problema antico per l’umanità, a mio avviso questa società lo ha aumentato esponenzialmente, dato che l’industria (avvalendosi del marketing e della pubblicità) cerca continuamente di creare nuovi bisogni. Viene allora da interrogarsi su quale significato dare alla parola bisogno perché secondo alcuni questa muta al mutare del contesto storico, sociale, civile, scientifico. Qualche decennio fa non era necessario il bagno nelle case, mentre oggi nessuno ne farebbe a meno e nessuno andrebbe ad evacuare quotidianamente nel campo vicino a casa. Oggi viene considerato necessario possedere un cellulare, quando fino a pochi anni tutti vivevano senza. Alcuni studiosi sostengono che si tratta in ogni caso di bisogni: prima i bisogni era fisici, oggi invece bisogna rilevare un aumento dei bisogni psicologici. A mio avviso invece il rischio della società odierna è quello di confondere i bisogni primari con le comodità ed i comfort. Marx parlava di creazione di falsi bisogni nella società capitalistica. La pubblicità cerca continuamente (e spesso ci riesce) di convertire le comodità in bisogni primari o quantomeno vuole che i comfort acquistino nell’ordine simbolico dei consumatori la stessa valenza dei bisogni primari. Con questo non voglio essere apocalittico, non voglio configurare scenari inquietanti; è sufficiente solo avere presente la netta linea di demarcazione tra bisogno e comodità. Anni fa effettuando un blind test i ricercatori scoprirono che per la maggior parte delle persone la Pepsi era più buona della Coca-Cola. Il dottor Montague scoprì, studiando l'attività cerebrale di 67 soggetti, che quando le persone vedevano ciò che bevevano allora ritenevano più buona la Coca-Cola. Quest'ultima era la più venduta e considerata la più buona perché nelle pubblicità aveva associato il proprio marchio ad immagini di felicità. Questo è uno degli esperimenti di neuromarketing più famosi. Ci sono già le suggestioni dei singoli individui che possono essere potenti. Immaginiamoci i condizionamenti dei mass media e la pressione esercitata dal conformismo! La merce comunque è sempre più una "astrazione". Si pensi a quanto valore aggiunto può dare un marchio, al di là del costo effettivo del prodotto. Si pensi a tanti vestiti, prodotti a basso costo nel terzo mondo, che poi diventano costosi perché i loro marchi sono famosi e ritenuti esclusivi. In definitiva abbiamo la crisi dell’oggetto, la crisi del soggetto e la crisi del rapporto tra oggetto e soggetto a causa di questo tipo di società. A questo riguardo è significativo un racconto di Moravia, intitolato “Palocco”. Un’infermiera a domicilio supplisce alle proprie carenze affettive idolatrando un cane di nome Palocco, che viene investito ed ucciso da una macchina. Da allora la donna considera Palocco una sorta di spirito guida, un’entità astratta con cui parlare quando è da sola a casa. In realtà Palocco non è altro che una proiezione psichica della donna, una parte di se stessa, che ad esempio le vieta di convincere il signor Gesualdo a comprarle una pelliccia ecologica, che ha sognato. In questo racconto scabro, scarno ed essenziale di Moravia viene rappresentata in modo efficace la dinamica del desiderio della protagonista in contrasto con il suo senso di solitudine e la sua crisi psicologica. Non c’è solo la crisi del rapporto tra soggetto ed oggetto, c’è anche la crisi del soggetto. La donna ingenuamente cerca di stringere un patto con il signor Gesualdo ed un suo amico per avere la pelliccia, ma dopo una discussione capisce che per averla deve umiliarsi di fronte a loro, deve fingere di essere un cane. Deve quindi snaturarsi per avere l’oggetto del proprio desiderio. Ma istintivamente -questione di un attimo- capisce che non può snaturarsi e fingere di essere un animale e scappa via. Moravia tramite un caso-limite, una situazione paradossale evidenzia una condizione sempre più frequente dell’essere umano in questo tipo di società, e cioè di chi si snatura a costo di perdere la propria identità per avere degli oggetti. Ma forse nel fondo della propria interiorità resta un residuo di ragionevolezza…

 

 

Sono davvero solo canzonette?

giu 202023

 

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 (Nella foto Alice, al secolo Carla Bissi)

La musica, dal punto di vista sociale, è un linguaggio universale, emoziona chiunque, può abbattere barriere invisibili tra le persone e può veicolare messaggi importanti. A livello individuale sono ormai accertati i benefici della Musicoterapia[1]. Io ascolto spesso su radio Vintage[2] e su YouTube[3] rock progressive italiano e cantautori italiani. Per quanto riguarda il rock progressive ascolto Pfm, Eugenio Finardi, Alan Sorrenti (mi piacciono in particolare i brani remastered[4] "Vola", "Le tue radici", "Figli delle stelle", "Vorrei incontrarti"), Claudio Rocchi ("La realtà non esiste", "La tua prima luna"). Il rock progressive era caratterizzato da testi elaborati e mai banali, da musiche complesse e sofisticate. Non capisco come mai ci siamo fatti colonizzare così tanto musicalmente dagli americani. La nostra esterofilia, a mio avviso, sfiora l’imbecillità. Forse non potevamo ribellarci ai diktat del mercato? Intendiamoci: è sempre preferibile l’America che ci ha colonizzato culturalmente e sottoculturalmente a quella che vuole esportare con l’esercito la democrazia in alcune nazioni povere. Le radio passano esclusivamente musica straniera, molto spesso anglofona. È dai tempi dei Beatles che è così, anche se ai tempi dei tempi pochi sapevano l’inglese; lo stesso Shel Shapiro quando venne in Italia, si sentì un pesce fuor d’acqua perché pochi conoscevano la sua lingua. Attualmente l'industria discografica è in crisi. Molti ascoltano la musica gratis su internet. Molti collegano il tablet o il cellulare allo stereo della automobile. È il cosiddetto Bluetooth[5]. Chiunque lo può fare ormai gratis. C'è spazio solo per la musica commerciale, soprattutto straniera. Negli anni settanta i giovani guardavano all’America, ma buscavano anche ad Oriente. In quegli anni c’era molto fermento. I giovani riflettevano su tutto. Basta pensare alle radio libere, che portarono una ventata d’aria nuova e fecero un quarantotto, ebbero il merito di scoperchiare le carte. Poi tutto è ritornato come prima. Probabilmente peggio. Oggi il mercato in Italia è determinato dall’oligopolio delle major[6]. La musica indie[7] si sta facendo conoscere, ma soccombe ancora rispetto alle major. È tutto un business. Ogni canzone è soprattutto un prodotto commerciale da canticchiare e ballare. Insomma panem et circenses. Un piacere immediato e indiscriminato per tutti. C'è chi la pensa come Adorno. "Il concetto di gusto – scriveva il filosofo - è superato in quanto non c’è più una scelta: l’esistenza del soggetto stesso, che potrebbe conservare questo gusto, è diventata problematica quanto, al polo opposto, il diritto alla libertà di una scelta che non gli è più empiricamente possibile. […] Per chi si trova accerchiato da merci musicali standardizzate, valutare è diventata una finzione"[8]. Per Adorno dietro ogni acquisto di disco e dietro ogni gusto musicale c'è la pressione e la massificazione della cosiddetta industria culturale, di cui la musica leggera fa parte. Il pubblico gode acriticamente della musica, che è totalmente mercificata. Una delle ragioni per cui Nietzsche criticava Wagner era quella di essere istrionico, populista, folcloristico. La stessa cosa potremmo dirla della musica leggera, che è nazionalpopolare. C'è chi dice che la musica leggera sia satanica[9] e che le star siano diseducative per i loro eccessi. A questo proposito Vecchioni in un articolo di giornale, anni fa, scrisse che dovrebbero essere invertite le parti tra insegnanti e rockstar: ai primi grandi ricchezze e onori, ai secondi che vivono di eccessi, per qualche illuminazione interiore e per avere l'ispirazione, degli stipendi come tanti. La critica al sistema di Vecchioni era ironica ma sacrosanta. Le canzoni, insomma, oggi fanno parte del divertimentificio[10] e non devono più far riflettere. Anzi talvolta ho la vaga impressione che più sono banali i ritornelli e più entrano nella testa delle persone. Non solo ma c’è da dire che spesso i fruitori della musica leggera sono ragazzi di età compresa tra i 15 e i 25 anni: ciò spiega molte cose. Oggi il mondo è Spotify[11], almeno per i millenials e la generazione z (i cosiddetti nativi digitali). Forse sono io che appartengo alla generazione x (sono del 1972)[12] e sono rimasto indietro, troppo ancorato ai miei tempi. Oppure più probabilmente tutti noi italiani imitiamo sempre le mode americane con ritardo; in fondo in Italia rapper e trapper[13] sono comparsi dopo anni e anni di ritardo rispetto all’America, così come nel secondo Novecento si diffuse con ritardo da noi la controcultura americana. Noi importiamo continuamente generi musicali, come è successo anche per il reggaeton[14]. Eppure gli autori italiani non hanno niente da invidiare a quelli stranieri. È vero che De André subiva l’influsso di Brassens agli esordi, De Gregori quello di Bob Dylan e Vecchioni musicalmente quello di Bruce Springsteen. Ma nessuno si ricorda che Bob Dylan voleva cantare “Jodi e la scimmietta” di Venditti negli anni settanta e che Vasco Rossi non volle fare il suo show nel 1990 assieme ai Rolling Stone, declinando l’invito. Così come nessuno si ricorda che Alice (Carla Bissi) non volle mai cercare l’avventura americana, nonostante ripetuti solleciti dell’industria discografica. Si ricordano invece tutti soltanto che Lucio Battisti tentò con esito infausto il successo oltreoceano. In America i cantanti italiani che riscuotono più successo sono Laura Pausini, Andrea Bocelli, Eros Ramazzotti, Zucchero, Il Volo, Adriano Celentano, Mina, Al Bano, Toto Cutugno. Senza nulla togliere alla bravura di questi ultimi c’è da osservare che il genere dei cantautori italiani forse è troppo di nicchia per piacere negli Stati Uniti. Inoltre due sono le pecche del nostro cantautorato, nonostante la dignità letteraria dei suoi testi: non avere musiche molto orecchiabili (spesso in un disco di otto canzoni solo tre o quattro sono musicalmente valide) e non avere grande presenza scenica sul palco. A tal proposito spesso ai concerti dei nostri cantautori si respira soprattutto un’atmosfera intimista e di raccoglimento. Ma probabilmente questa è stata una precisa scelta artistica. Basta ricordarsi cosa scriveva Pierangelo Bertoli in “A muso duro”: “Adesso dovrei fare le canzoni/ con i dosaggi esatti degli esperti/ magari poi vestirmi come un fesso/ e fare il deficiente nei concerti”. Oppure sempre a tal proposito basta citare anche Battiato: “Non è colpa mia se esistono spettacoli/ con fumi e raggi laser/ se le pedane sono piene/ di scemi che si muovono/ up patriots to arms, engagez-vous”. Bisogna anche aggiungere che per gli italiani è molto facile farsi ammaliare dai miti americani, mentre per i cantori di una nazione così periferica e poco importante come la nostra è molto difficile esportare le loro cose artistiche. Infine va detto che i nostri cantastorie, i nostri novelli bardi probabilmente non rispecchiano gli stereotipi dell’italiano: abbiamo nella nostra penisola forse un cantautorato troppo elitario e intellettuale. Eppure è pacifico che le creazioni del nostro cantautorato, secondo la critica musicale, non siano intrattenimento, ma vera espressione artistica e talvolta sinonimo di impegno civile e politico. Forse non sono solo canzonette. Devo dire però che i giovani non devono neanche idealizzare troppo i cantanti, che non hanno nessun rapporto privilegiato con la verità.

 

 

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(Nella foto il cantautore livornese Piero Ciampi)

Resta da stabilire se le canzoni di autore siano poesia o meno. Forse sono espressione di poesia popolare, ma questo lo decideranno gli italianisti a venire. Alcune però assomigliano senza ombra di dubbio alla poesia. Per il poeta Milo De Angelis i cantautori scelgono sempre la via più facile, quella più comunicativa. Il grande Mario Luzi invece sosteneva che alcune canzoni di autore fossero poetiche, mentre non sempre tutte le poesie lo erano. Per il poeta Valerio Magrelli la musica avvantaggia e facilita i cantautori rispetto ai poeti. Per il poeta Maurizio Cucchi le canzoni di Guccini non sono assolutamente poesie. Per il poeta Lello Voce spesso i testi delle canzoni, letti senza musica, non reggono da soli e non sono poesie. Per De Gregori i cantautori non sono poeti e non devono avere alcun ruolo educativo. Per Vecchioni le canzoni sono poesie e cita il fatto che anticamente le poesie venivano accompagnate da delle musiche. C’è anche tra gli addetti ai lavori chi pensa che Bob Dylan sia un grande poeta visionario e chi solo un cantante semicolto. C’è chi ritiene che i musicisti siano più avvantaggiati perché il feto sente da subito il battito della madre. C’è chi pensa che sia solo questione di educazione e cultura. Insomma il dibattito è ancora aperto. Oggi i cantanti vengono idolatrati. Il panorama musicale è mutato completamente dagli anni '70, almeno qui in Italia. Erano anni caldi quelli. Le polemiche erano al vetriolo. Chiunque poteva essere messo alla berlina. De Gregori venne "sequestrato" per poco tempo da dei contestatori ad un concerto. Altro che qualche hater sui social![15] Per il cantautore romano fu traumatico. Si rimproverava ai cantautori di arricchirsi facilmente e di essere schiavi del sistema, nonostante fossero compagni. Tra gli stessi cantautori c'erano anche invidie, cattiverie, gelosie[16]. Era una cosa umana. I cantanti, soprattutto i cantautori, negli anni settanta si trovavano tra l'incudine della censura e il martello dei contestatori. Intendiamoci: c'erano le bombe e le p38. Lo stesso Stato era violento. Negli anni di piombo venne minato lo stato di diritto. La polizia sparava alle manifestazioni. Cossiga, allora ministro, dichiarò più volte che faceva mettere una busta di droga pesante nelle giacche di estremisti, ritenuti particolarmente violenti ma incensurati, per farli arrestare. La maggioranza silenziosa non scendeva in piazza. In compenso però andava ai concerti di Claudio Baglioni, figlio e fidanzato modello, eterno cantore dei buoni sentimenti democristiani. La censura era negli anni settanta un modo per difendere la morale comune e controllare accuratamente i messaggi sociali e politici veicolati nelle canzoni. Le canzoni con la rima amore e cuore non erano assolutamente pericolose per l'ordine costituito. La censura era basata su questa grande ipocrisia di fondo. Ci si poteva scannare in piazza tra giovani, ma si doveva salvare l'apparenza, la forma. Niente poteva intaccare il buon gusto in prima serata. Faccio una breve digressione sulla censura in quegli anni.
Innanzitutto per quanto riguarda la musica straniera va ricordato lo scandalo suscitato da "Je t'aime... moi non plus", che era del musicista francese Serge Gainsbourg e dell'attrice britannica Jane Birkin, pubblicata nel 1969. Ma anche la satira non se la passava bene. Non tutti gli sketch comici andavano a buon fine. Dario Fo e Franca Rame vennero oscurati per sedici anni dalla RAI di Ettore Bernabei, allora dirigente organizzativo di Saxa Rubra. I due drammaturghi erano rei in Canzonissima di aver trattato un argomento allora tabù come le morti sul lavoro. Lo stesso premio Nobel ha dichiarato che, nonostante l'apparente morigeratezza e il timore di Dio, Bernabei per lui era un autentico "satanasso". Nel 1959 Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi avevano preso in giro l'allora presidente della Repubblica Gronchi, che era cascato da una sedia vicino a De Gaulle. La trasmissione televisiva, condotta dai due, nonostante la grande popolarità, venne bruscamente interrotta. Per quel che concerne la musica italiana venne censurata "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones" perché criticava l'America e parlava della guerra nel Vietnam. Invece "Dio è morto" cantata dai Nomadi e scritta da Guccini venne censurata dalla RAI, ma trasmessa dalla radio vaticana. La stessa "Bocca di rosa" fu censurata, ma non mi risulta che venne censurata nessuna canzone dell'album "La buona novella", in cui De André si rifaceva ai Vangeli apocrifi e in cui c'era addirittura "Il testamento di Tito" che criticava tutti i comandamenti e che provocò solo accese discussioni tra cattolici e qualche proposta di dibattiti tra teologi. Anche "Albergo ad ore" di Herbert Pagani, "4/3/1943" di Lucio Dalla, "Luci a San Siro" di Vecchioni (un aneddoto curioso riguarda il fatto che "Donna felicità, scritta sempre da Vecchioni e cantata dai Nuovi angeli, non venne censurata dalla RAI ma solo dalla commissione del festival di Sanremo. Probabilmente l'ironia e l'erotismo velato di questa canzone non vennero considerati scurrili e neanche offensivi della morale), "Questo piccolo grande amore" di Baglioni, "Il gigante e la bambina" di Ron, "Io se fossi Dio" di Gaber, "Bella senz'anima" di Cocciante, "Luna" di Loredana Bertè e "Coca Cola" di Vasco Rossi vennero censurate e modificate. Un intero album interpretato da Gaber, intitolato "Sexus e politica" venne interamente oscurato dalla RAI nel 1970. Anche il mitico Enzo Jannacci venne censurato più volte. In particolare va ricordata "Ho visto un re", che denunciava il potere ed esprimeva il dissenso giovanile della contestazione. Il cantautore milanese proprio per questo motivo si allontanò per un certo periodo dalle scene. Non mi risulta però che Jannacci subì censura per "Veronica". Venditti con il brano "A Cristo" si prese una condanna 6 mesi per vilipendio alla religione. Lo stesso De Gregori fu censurato. Non piacquero i versi "Giovanna faceva dei giochetti da impazzire" in "Niente da capire" e "il mendicante arabo ha un cancro nel cappello, ma è convinto che sia un portafortuna" in "Alice", perché all'epoca non si poteva trattare neanche di tumori. La censura era quindi uno spauracchio ed era molto arbitraria[17]. Oggi i cantanti possono cantare qualsiasi cosa o quasi. Niente fa più scandalo.
Ma passiamo ad altro. Veniamo ad oggi.
Oggi la poesia contemporanea non vende. Eppure la poesia, a mio avviso, esprime a livello esistenziale e gnoseologico meglio della canzone il mondo, la vita e l'io (compresi i suoi vuoti e le sue fratture). Oggi i giovani preferiscono i cantanti ai poeti contemporanei, anche perché questi ultimi sono più difficili da comprendere e trattano molto meno di tematiche amorose. Veniamo al primo punto.
Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall'osservazione o dalla trasfigurazione. Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva, ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel Novecento tutto forse diventa più complesso. Basta pensare a Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio . Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del Novecento l'ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l'orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli e analogie. Negli anni sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l'ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anch'essi non erano di facile comprensione. La neoavanguardia ad esempio era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l'egemonia culturale e l'estetica dominante, contro la mercificazione dell'arte. Però spesso spiazzava i lettori per il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi. Infine la poesia degli anni settanta con il neorfismo cambiava di nuovo le carte in tavola perché prendeva le distanze sia dalla neoavanguardia che dal neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico era sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: "La parola innamorata" e "Il pubblico della poesia". Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C'è anche troppa creazione, ma è scarsa la fruizione. È una poesia talvolta autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio spesso non è chiaro. Il gradimento del pubblico è scarso. I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. I libri di poesia nella stragrande maggioranza dei casi finiscono al macero. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori. Comunque oggi i poeti viventi sono sconosciuti al grande pubblico. Come sono cambiati i tempi da quando Vico scriveva che i poeti sono i primi storici delle nazioni! Oggi è innegabile che la poesia di questi anni sia in crisi e alcuni critici, appunto, l'hanno definita minimalista. La lirica di questi tempi è spesso illeggibile e non memorabile. Comunque non bisogna essere ottimisti né apocalittici. Veniamo alla questione della tematica amorosa. Petrarca è diventato anche egli uno dei più noti poeti italiani per le sue opere in latino oppure per quel Canzoniere in volgare in cui trattava dell'amore per Laura? La maggioranza dei grandi poeti deve la propria fama non tanto al proprio impegno civile o alla propria figura intellettuale quanto alla descrizione nelle opere delle loro vicissitudini amorose. Spesso c'è una figura femminile. Nei casi di Dante e Petrarca l'amore non è corrisposto, le donne muoiono e vengono idealizzate. Ma si potrebbero fare esempi in cui le cose vanno diversamente. Lo scrittore von Sacher-Masoch è diventato famoso non certo per essere un intellettuale asburgico, ma soprattutto per il suo amore per la sua moglie Wanda. Salinas non diventò noto per essere un esule spagnolo ai tempi della dittatura franchista oppure per essere un professore universitario, ma per aver scritto soprattutto "La voce a te dovuta". Nessuno sa con certezza se le muse furono all'altezza della fama alla quale arrisero. Ma in fondo non è questo l'importante. La cosa più importante è il sentimento amoroso. Ci sono anche esempi altissimi di poesia d'amore omosessuale: ai nostri tempi Pasolini, Dario Bellezza, Sandro Penna, Auden (i primi che mi vengono in mente): amori che in certe epoche potevano essere considerati diversi e quindi fonte di contrasti. Ma in poesia vengono descritti anche amori per prostitute oppure per le passanti. In letteratura tutto è possibile e niente fa scandalo. La più bella poesia di amore a mio avviso è questa: "Il più bello dei mari/ è quello che non navigammo./ Il più bello dei nostri figli/ non è ancora cresciuto./ I più belli dei nostri giorni/ non li abbiamo ancora vissuti./ E quello/ che vorrei dirti di più bello/ non te l’ho ancora detto." (Nazim Hikmet). Ma mi piace moltissimo anche il verso di Cesare Pavese: "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi". Ma nel secondo Novecento e nei primi anni del duemila pochi poeti hanno trattato in modo memorabile l'amore, a differenza dei cantautori, che descrivono da sempre i loro sentimenti amorosi senza alcun pudore. Mi vengono in mente alcuni versi riusciti di canzoni. Ad esempio De Andrè: "È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati". Oppure mi viene in mente una vecchia canzone di Vecchioni: "Io ho le mie favole e tu una storia tua". Oppure Guccini: "Io non credo davvero che quel tempo ritorni, ma ricordo quei giorni". Discorso a parte per Lolli. La generazione bolognese del '77 è l'ultima in Italia che si è posta collettivamente nei confronti della realtà. Ne va preso atto. E la colonna sonora di quel movimento del '77 era la musica di Claudio Lolli. Ecco perché Lolli, oltre al fatto di essere un poeta prestato alla canzone, è importante da ricordare. Certo era anche malinconico, ma poeta. Fin da giovanissimo scriveva ottimi testi. Ha scritto delle poesie in musica fino alla sua fine. Dispiace che non sia stato compreso e riconosciuto a sufficienza. Era visto come troppo cantautorale, troppo di nicchia. Personalmente mi piace ascoltare la musica che non è intrattenimento ma espressione artistica e Claudio Lolli nel corso di tutta la sua vita ha saputo dimostrare di essere un artista. Le canzoni di Lolli sono soprattutto politiche, ma ce ne sono alcune come "Donna di fiume" oppure "Vorrei farti vedere la mia vita" che sono belle poesie d'amore. Claudio Rocchi era mistico, però sapeva anche scrivere canzoni di amore. Piero Ciampi sapeva descrivere certe zone morte della coscienza, come ha sottolineato Maurizio Cucchi, ma sapeva anche cantare d'amore. A ogni modo molto spesso i testi delle canzoni sono stucchevoli e sdolcinati.

 

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(Nella foto il cantautore bolognese Claudio Lolli)

 

Per fare una panoramica "ampia" sulla musica leggera italiana bisogna trattare anche di Sanremo.

Su Sanremo:
Ci sono canzoni eccellenti che non hanno vinto Sanremo e che a mio avviso avrebbero meritato la vittoria come "Ciao amore, ciao" di Tenco; "Ma che freddo fa" , cantata da Nada; "Le mille bolle blu" , cantata da Mina; "Nata libera" di Leano Morelli; "4/3/1943" e "Piazza Grande" , cantate da Lucio Dalla; "L’uomo che si gioca il cielo a dadi" di Vecchioni; "Montagne verdi" , cantata da Marcella Bella; "Vita spericolata" di Vasco Rossi; "Almeno tu nell'universo" , cantata da Mia Martini; "Gianna" di Rino Gaetano; "Quello che le donne non dicono" , cantata da Fiorella Mannoia; "Il ragazzo della via Gluck" di Celentano; "Un'avventura" di Lucio Battisti; "L’Italiano" di Toto Cutugno; "Ancora" di Eduardo De Crescenzo; "Cosa resterà degli anni 80" di Raf; "Signor tenente" di Giorgio Faletti; "E dimmi che non vuoi morire" , cantata da Patty Pravo; "Timido ubriaco" di Max Gazzè; "Spunta la luna dal monte" di Bertoli e Tazenda; "Maledetta primavera" , cantata da Loretta Goggi. Mi scuso per averle citate alla rinfusa. È pacifico dire che molte di queste canzoni siano state vere e proprie vincitrici morali del festival e successivamente siano diventate dei grandi successi. Naturalmente non bisogna sopravvalutare Sanremo, che è una grande kermesse canora e non certo il “Premio Tenco”: la stragrande maggioranza delle canzoni sono semplici, commerciali e trattano quasi tutte di amore nel modo più strappalacrime possibile. Insomma è una grande gara nazionalpopolare e non bisogna aspettarsi di più. Le canzoni sono fatte soprattutto per “arrivare” subito alla gente e non hanno molto spesso la pretesa di essere poesia e talvolta nemmeno di essere espressione artistica. Il rapporto tra canzone d’autore e poesia comunque è problematico e controverso. In America non vengono fatte distinzioni tra Bob Dylan, Lou Reed, Leonard Cohen, Jim Morrison e i poeti della beat generation. In Francia cantautori come Brassens, Brel e Ferrè sono considerati dei veri poeti. In Italia cantautori come De Andrè, Edoardo De Angelis, Enzo Jannacci, Guccini, Battiato, Dalla, Paolo Conte, Edoardo Bennato, Vecchioni, De Gregori, Piero Ciampi, Claudio Lolli, Alice, Ivano Fossati, Giorgio Gaber, Enrico Ruggeri, Tenco, Ivan Graziani, Mario Castelnuovo, Vinicio Capossela, Ligabue sono riusciti a scrivere testi che hanno una certa dignità letteraria. Però non vengono considerati poeti a tutti gli effetti da parte dei critici letterari. D’altra parte in Italia il pubblico della poesia è inesistente e sono gli italianisti a decidere chi deve finire nelle antologie scolastiche. I cantautori invece godono di un grande seguito e il popolo conosce a memoria le canzoni e non le poesie: come già ho avuto modo di scrivere sono i cantanti i surrogati dei poeti al mondo di oggi. Facendo una considerazione a largo raggio ritengo che oltre alla razionalità tecnologica imperante ci sia anche una sorta di irrazionalismo strisciante, che porta tanti a credere agli oroscopi, ai maghi, alle fake news e naturalmente anche ai cantanti.
Comunque, sempre in Italia, in passato sono state fatte cose interessanti per quel che riguarda il rapporto tra poesia e musica. Baglioni ad esempio ha musicato una poesia di Trilussa ("Ninna nanna" ) e Guccini una poesia di Gozzano ("L’isola non trovata" ). Inoltre la canzone "Le passanti" di De Andrè è un testo di un poeta francese. "Il cantico dei drogati" l’ha scritta assieme al poeta Riccardo Mannerini. Lo stesso cantautore genovese ha scritto "Una storia sbagliata" in memoria di Pasolini. "Le lettere d'amore" di Vecchioni si riferisce al grande poeta portoghese Pessoa. Va ricordata anche la collaborazione tra Roversi e Dalla, durata 7 anni. Personalmente ritengo che la canzone, anche quella d’autore, possa essere considerata al massimo poesia popolare e spesso il testo, letto senza musica, non possa essere considerato a tutti gli effetti poesia. Spesso il testo della canzone non è eufonico. Inoltre quando si fanno dei raffronti tra un poeta e un cantante bisogna sempre paragonare non un singolo testo di canzone e una poesia, ma un album ad esempio di dieci brani e una intera raccolta poetica. In due o tre anni circa infatti un cantautore pubblica un album e nello stesso arco di tempo un poeta pubblica una raccolta. Una singola canzone o una singola lirica sono sempre troppo poco per giudicare. Bisogna invece considerare la totalità delle creazioni di un determinato periodo di tempo. Bisogna considerare non solo il testo ma anche l’unità macrotestuale. Ritorniamo però al festival. La stragrande maggioranza di noi spesso si dimentica chi ha vinto a Sanremo, mentre invece si ricordano di più certi piccoli scandali, verificatesi nell’evento, come ad esempio la vista del seno di P. Kensit e la farfallina di Belen Rodriguez. Sanremo è anche gossip e varietà. Sanremo non è solo cultura pop, ma anche un fatto di costume. I mass media di solito considerano la riuscita o meno di un festival dallo share e in base a questo valutano il conduttore e il direttore artistico, che talvolta sono la stessa persona. Dicevo prima che le canzoni di Sanremo peccano troppo di sentimentalismo. La poesia contemporanea oggi considera invece le questioni amorose come banale autobiografismo e stucchevole diarismo. A mio avviso la verità sta nel mezzo. Non bisognerebbe edulcorare troppo i propri sentimenti come accade nelle canzoni, che sono pensate e scritte per un pubblico adolescente o comunque giovane. Non bisognerebbe però razionalizzare, intellettualizzare troppo la poesia di oggi. La poesia infatti è la più alta forma di intelligenza verbale ma anche emotiva. Anche grandissimi poeti come Saffo, Catullo, Dante, Petrarca, Montale, Neruda e Salinas hanno scritto poesie d’amore. Molto spesso alcuni poeti e alcune poetesse hanno raggiunto la fama imperitura grazie a canzonieri in cui venivano descritte le loro pene e i loro sentimenti amorosi. Nella poesia odierna forse non si trattano più i sentimenti amorosi perché ancora pesa uno stilema neoavanguardista, ovvero quello di “riduzione dell’io”, come se la poesia dovesse essere sempre neo-oggettuale e ogni componimento poetico non dovesse essere la risultante equilibrata di una interazione tra io e mondo. Nella poesia odierna forse non viene trattato il sentimento amoroso perché sempre per la neoavanguardia bisognava evitare ogni intimismo. Nel frattempo la poesia è sempre più un genere marginale e non è certo colpa della neoavanguardia. Cosa fare allora? Quale è il rimedio? Per il poeta Giovanni Raboni bisogna evitare «l’idea della poesia come valore alto se non addirittura supremo, come sinonimo e emblema di nobiltà, di superiorità, d’eccellenza»[18]. Nel Novecento invece la poesia è diventata una signorina algida, fredda, snob e troppo intellettualistica. La poesia per essere tale deve cercare di “toccare il nadir e lo zenith” della sua “significazione”, per dirla alla Luzi, deve cioè descrivere i meandri più oscuri della psiche e nominare il mondo. Ma è anche vero che «niente è così facile come scrivere difficile», come scriveva il filosofo Karl Popper. Chi ha una visione del mondo dovrebbe riuscire sempre a semplificare senza essere semplicistico. Molto spesso invece nella poesia contemporanea vengono complicate persino le cose semplici e rese incomprensibili le cose complesse. I poeti di oggi snobbano Sanremo, ma avrebbero bisogno di piccole dosi omeopatiche di questo festival. Gli farebbe bene ascoltare qualche canzone. Sappiamo che la scrittura a differenza dell’oralità è, per dirla con Vygotskij[19], «un linguaggio per un interlocutore assente» ed è un atto “fonologico”, maggiormente articolato e privo di intonazione. Inoltre la poesia è una forma particolare di scrittura perché già con il Pascoli ad esempio veniva privilegiata la conoscenza alogica e analogica. Insomma i poeti cercavano una strada prerazionale. È altrettanto vero però che molti oggi imitano Zanzotto e Amelia Rosselli, scrivendo più per sé stessi che per gli altri; scrivono infarcendo le loro poesie di citazioni colte; scrivono per una ristrettissima cerchia di eletti. Il loro è un linguaggio per allusioni. È un linguaggio criptico. La lirica invece dovrebbe ricercare la validità universale. Per Nietzsche uno solo ha sempre torto e soltanto con due persone inizia la verità. Sempre per il grande psicologo russo Vygotskij «la verità è un’esperienza socialmente organizzata». Da soli si delira. Bisogna rivolgersi agli altri per avere una presa di coscienza. Le canzonette di Sanremo, a differenza di molte poesie di oggi, forse sono scritte da autori furbastri; però hanno una notevole capacità comunicativa, anche se forse la maggioranza di esse non sono arte. Insomma il mattone non è più un investimento. I soldi non sono più sicuri in banca. I cittadini chiedono più sicurezza. La crisi ha impoverito molti. Un titolo di studio umanista talvolta è un ostacolo per trovare un posto di lavoro. Alle elezioni il primo partito è senza ombra di dubbio quello degli astensionisti e la vittoria è decisa invece da coloro che nei sondaggi si dichiarano indecisi, che solitamente appartengono all’elettorato moderato. I politici, nonostante tutto, continuano a promettere l’impossibile. Milioni di italiani però, nonostante tutti questi problemi, si fermano e si incollano davanti ai televisori per cinque serate per commentare le canzoni. La comunità poetica invece lo snobba totalmente: eppure tutti avremmo bisogno ogni tanto di essere riportati all’essenziale. I poeti in definitiva devono scegliere se mettere un poco di ordine o aggiungere disordine a una letteratura come quella attuale già troppo confusionaria, caotica e dispersiva. Non chiedo certo di dare una definizione esaustiva della poesia o dell’arte, che sarebbe come assiomatizzare l’ineffabile. A tal proposito ho una unica certezza a proposito dell’arte, ovvero ‒ come scrisse Henry Miller ‒ che «non dovrebbe insegnare nulla, tranne il senso della vita»

 


Note
[1] Ecco un articolo divulgativo di uno specialista sulla Musicoterapia:
https://www.psicologo-milano.it/newblog/musicoterapia-peculiarita-e-ambiti-di-applicazione/
[2] Le radio Vintage sono stazioni radio, che trasmettono musica dei decenni passati, di solito dagli anni sessanta agli anni novanta. Per radio Vintage si può anche intendere (ma non è questo il caso) degli apparecchi radio dei decenni passati.
[3] Guardare video di canzoni su YouTube non è reato. Lo diventa se il materiale viene diffuso e commercializzato. Se il materiale su YouTube è protetto da diritto di autore a pubblicarlo sul proprio canale YouTube o a diffonderlo via social si può incorrere come minimo in un reclamo o al massimo in un illecito civile. Non sono assolutamente un esperto. Ho fatto però delle ricerche. Per capire se un video è protetto da copyright ecco un link:
https://www.aranzulla.it/come-capire-se-un-video-e-coperto-da-copyright-1165602.html
Se si vuole convertire il video musicale di YouTube in file mp3 ecco la consulenza di uno studio legale:
https://www.studiocataldi.it/articoli/24102-scaricare-musica-da-youtube.asp
[4]https://it.m.wikipedia.org/wiki/Rimasterizzazione#:
[5] https://www.wireshop.it/magazine/bluetooth-cos-e/
[6] Per major si intendono le principali case discografiche (o etichette discografiche), che promuovono e distribuiscono musica leggera nel mondo. Il mercato mondiale discografico è concentrato in poche mani.
[7] Per musica indie si intende la musica alternativa, indipendente, prodotta dalle case discografiche più piccole. Ecco un elenco di artisti italiani indie:
http://www.musicaindieitaliana.com/lista-incompleta-delle-band-e-cantautori-indie-italiani/
[8] Il saggio breve si intitola "Il carattere di feticcio in musica" in "Dissonanze" di Adorno (Feltrinelli, Milano, 1990)
[9]https://www.losbuffo.com/2018/03/22/canzoni-contrario-satana-droga-illusione/
[10] A proposito di divertimentifici, ho letto che le discoteche erano in crisi, già da prima del Coronavirus. Prima ancora che venissero chiusi per il Coronavirus, i locali notturni erano in crisi in Italia per i problemi/costi legati alla sicurezza e per la tassazione. Ma forse il loro vero problema è che non vanno più di di moda. Sembra che i social network e YouTube abbiano colonizzato gran parte del tempo libero giovanile e secondo gli esperti abbiano mutato radicalmente i concetti di aggregazione e amicizia. Un tempo le discoteche erano l'unico luogo di ritrovo della mia generazione. I giovani sfogavano le frustrazioni della settimana nelle discoteche. Molti giovani nutrivano grandi aspettative per il sabato sera. In quel mondo contavano soprattutto le belle auto, l'aspetto fisico e l'abbigliamento, visto e considerato che qualsiasi forma di dialogo era soffocata dalla musica. Tutti in pista a fare quattro salti per cuccare la bella di turno. Non potevi non andare in discoteca perché altrimenti eri un emarginato. Per gli altri eri uno sfigato. Ti toccava anche fingere di gradire quella musica. Ti dovevi far piacere quel mondo per non passare male.
[11] https://it.m.wikipedia.org/wiki/Spotify
[12] https://www.argoserv.it/generazione-x-y-z-c
[13] I trapper, in parole povere e semplificando, sono rapper che usano un linguaggio più crudo. Per alcuni sono diseducativi. Talvolta trattano tematiche di attualità e nei loro testi talvolta ci sono sprazzi poetici. In ogni modo, come per la musica indie, anche i trapper riescono ad avere una certa genuinità. I più conosciuti trapper italiani sono Sfera Ebbasta, Ghali e la Dark Polo Gang.
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Trap_(genere_musicale)
[14]https://www.agi.it/spettacolo/musica/che_cosa_ilreggaetone_qual_il_segreto_del_suo_successo-2123231/news/2017-09-05/
[15] Per showbiz si intende il mondo dello spettacolo, il mondo del business ma anche il web. C'è un elite di influencer e una gran massa di influenced: questo è il mondo ad esempio dei social media. Sono poche le voci critiche, che vengono sopraffatte dal marasma dei vip, degli hater, dei troll. Non esistono più sfumature di grigio. Si ama o si odia senza riserve senza discernimento. I vip però non dovrebbero lamentarsi troppo degli hater. Grazie allo stesso sistema possono guadagnare grandi cifre su Instagram senza fare niente. Anni fa era peggio. Perfino Tonino Carino fu attenzionato dalle Br. E che dire delle contestazioni ai cantautori negli anni settanta? Oggi va molto meglio ai vip. Gli italiani si sono impoveriti, ma i vip guadagnano belle cifre senza particolari meriti. Oggi essere vip è come essere nobili un tempo: si gode di molti privilegi, che vengono ereditati dai cosiddetti figli d'arte. I figli d'arte ad esempio hanno centinaia di migliaia di follower su Instagram senza aver alcun merito e senza aver fatto alcun sacrificio. Non si lamentino troppo i vip. Non solo ma va detto che talvolta il mondo dello spettacolo etichetta/categorizza come hater persone che fanno critiche negative e ostili senza essere offensive. È vero che su internet non dovrebbe essere garantito l'anonimato. È vero che ci sono anche stalker che perseguitano per anni i vip. È vero che ci sono persone disturbate psicologicamente ossessionate dai cosiddetti vip. Ma è altrettanto vero che anche lo showbiz oltre allo Stato stabilisce il suo ordine del discorso per dirla alla Foucault. Detto in termini semplici, chi critica talvolta i vip viene talvolta considerato un invidioso, un poveretto, un megalomane, un pazzo, un hater oppure un molestatore a prescindere e non è assolutamente detto che lo sia. Chi critica i vip è automaticamente out. Non si guarda alle qualità delle argomentazioni del critico. Lo si attacca subito in modo destabilizzante. Gli si fa causa penale e civile. Ma chi sono i vip? Per Galeazzi i vip sono quelli che stanno nel vippaio. Per lo showbiz i vip sono le vallette e i calciatori. Sono personaggi pubblici coloro che hanno avuto passaggi televisivi. Ma è solo una strategia da parte di chi dirige i mass media per distrarre le persone e non fargli sapere cosa accade nelle stanze dei bottoni. Ci sono persone molto potenti, che sono poco conosciute al grande pubblico. Lo showbiz stabilisce il suo ordine del discorso. Stabilisce cosa è giusto e cosa no, cosa è lecito e cosa no. Lo show business, intriso come è di darwinismo sociale, narra i sacrifici di chi ce l'ha fatta e si dimentica i sacrifici di chi non ce l'ha fatta. Certe showgirl dicono che fare sacrifici sia trasferirsi a Roma o Milano, andare in palestra, tenersi a dieta. Altri personaggi televisivi affermano che non si può criticare negativamente le loro trasmissioni perché in questo modo non si rispetta tutte le persone che vi lavorano dietro le quinte. Seguendo questo principio non si potrebbe criticare neanche Hitler o Stalin, che come si sa davano lavoro a molte persone. Infine la ciliegina sulla torta: viene diffusa l'idea che chi è vip ha qualità straordinarie, quando invece spesso i vip sono tali perché il pubblico si rispecchia nella loro mediocrità. Anche questa è una mistificazione della realtà. Anche questo tipo di narrazione deformata rientra nella istituzione di un ordine del discorso. Lo showbiz pensa per noi. È vietato pensare con la propria testa. Stabilisce i gusti, le mode, gli stili i tormentoni. Personalmente ce l'ho con le idee fisse e contro lo strapotere dei vip, che ancora oggi talvolta si comportano da lestofanti. I vip, ad esempio, spesso non pagano al ristorante ed allo stadio.
[16] Venditti ha dichiarato che talvolta De Gregori e De André andavano ai suoi concerti per criticarlo sommessamente in quanto i suoi testi erano considerati dai due meno letterari e più commerciali. Vecchioni prese in giro De André in “Belle compagnie” (“Chi è il più anarchico del reame?"), anche se poi diventarono amici. E che dire di ciò che cantava in “Via Paolo Fabbri 43” Guccini? In quella canzone prendeva in giro i testi di altri cantautori. Cito testualmente: “La piccola infelice si è incontrata con Alice a un summit per il canto popolare. Marinella non c’era, fa la vita in balera e ha altro per la testa a cui pensare, ma i miei ubriachi non cambiano soltanto ora bevon di più e il frate non certo la smette per fare lo speaker in TV”. Malignità oppure ironia e anche autoironia? Jannacci in fondo criticava l'intera categoria in "I poveri cantautori". Senza ombra di dubbio niente però a che vedere con le cattiverie e l’ostracismo che il mondo dello spettacolo riservò a Mia Martini.
[17] Allo stesso tempo sono sfuggite alla censura canzoni come “Il triangolo” di Renato Zero, “Il Kobra” di Donatella Rettore, “Colpa d’Alfredo” di Vasco Rossi, “Pensiero stupendo” di Patty Pravo, “Comprami” di Viola Valentino, “America” di Gianna Nannini, “Disperato, erotico stomp” di Lucio Dalla. Una canzone reazionaria come “Chi non lavora non fa l’amore”, cantata da Celentano e Claudia Mori, naturalmente vinse Sanremo e suscitò polemiche politiche, ma non venne mai censurata da nessuno.
[18] "La poesia che si fa. Critica e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004" di Giovanni Raboni (Garzanti, Milano, 2005)
[19] "Pensiero e linguaggio" di Lev S. Vygotskij (Giunti, Firenze, 2007)

 

 

 

 

Diari e crisi (Pavese, Flaiano, Fitzgerald, Morselli)...

giu 072023

Vorrei prendere in rassegna alcuni diari di scrittori e fare una considerazione a largo raggio. Ho scelto dei diari perché per me sono al contempo sguardi di dentro, testimonianza e memento mori.

 

 

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"Il mestiere di vivere":
I più conoscono Pavese per essere stato l'autore di romanzi come "La luna e i falò", "Il compagno", "La bella Estate". Meno conosciute invece le sue riflessioni sulla vita, sulla poesia, sulla letteratura, presenti nel suo diario, costituito da annotazioni che vanno dal 1935 al 1950. Nemmeno i colleghi dell'Einaudi si immaginavano la sua disperazione, il suo feroce senso di solitudine. Questi aspetti li conobbero con la pubblicazione postuma di questo diario, dopo il suo suicidio nel 1950 a Torino in una camera d'albergo. Solo allora ebbero modo di leggere attentamente nelle pieghe più scure del suo animo e comprendere la sua paura di vivere, il suo terrore per il sesso e per le donne. Italo Calvino, che era uno degli amici, non aveva mai presentito nulla a riguardo. Quest'opera è permeata da un pessimismo di fondo, da una sfiducia continua verso gli altri. L'uomo Pavese non coltivava la speranza e questo si legge a chiare lettere. Forse la speranza la perse definitivamente dopo essersi innamorato, senza essere corrisposto, dell'attrice americana Costance Dowling. Però l'intellettuale -come ha intuito felicemente Sergio Solmi- si ribellava all'uomo e con questo diario si difendeva dall'idea del suicidio. Infatti pochi giorni prima di uccidersi scriveva sul suo diario: "Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più". Questa è l'ultima frase di Pavese ed è una grande testimonianza del valore terapeutico della scrittura. Leggendo questo diario, si possono trovare considerazioni illuminanti sulla letteratura. Ne riporto alcune. Il 10 novembre 1938 annota: "La letteratura è una difesa contro le offese della vita". Il 22 marzo 1947 scrive a riguardo dei grandi temi della letteratura moderna: "Hemingway ha la morte violenta, Levi il confino, Conrad la perplessità dei mari del Sud, Joyce lo stereoscopio delle parole-sensazione, Proust l'inafferrabilità degli istanti, Kafka la cifra dell'assurdo, Mann il ripetersi mitico dei fatti". Allo stesso tempo si possono trovare riflessioni cariche di delusione, massime pervase da un sentimento di estraneità nei confronti della vita. Il 17 novembre del 1937 scrive: "È incredibile che la donna adorata venga a dire che i suoi giorni sono vuoti e tormentosi ma che di noi non vuole saperne". Il 21 novembre dello stesso anno troviamo: "No, non sono pazzi questa gente che si diverte, che gode, che viaggia, che fotte, che combatte, tanto è vero che vorremmo farlo anche noi".

"Il diario degli errori":
Nel “Diario degli errori” ci troviamo di fronte a una raccolta di scritti, che vanno dal 1950 ai primi anni settanta. Flaiano dipinge quell’Italia con pennellate colorate di ironia e pessimismo. Per capire di più dello scrittore bisogna ricordare che i rapporti con Fellini non erano sempre idilliaci e che l’unica figlia Luisa soffriva di problemi mentali, dovuti a una grave encefalite. Apparentemente il tema predominante di questi scritti è il viaggio. Ma questo può andare bene solo a chi vuole restare in superficie. In realtà Flaiano lo scrive subito, all’inizio del libro, che la noia e la malinconia ci perseguitano, ovunque andiamo. Ce lo dice subito che è meglio non viaggiare. I viaggi sono solo un pretesto per pensare ai paradossi dell’Italia. Flaiano elimina le mezze bugie e ci presenta mezze verità intaccate di scetticismo. Nei suoi scritti riflette totalmente l’essenza della sua personalità. È polemico, sarcastico, a tratti cinico, sempre disincantato. È un individualista, al di fuori di ogni logica di partito. È avverso al conformismo e all’impegno politico, in cui intravede sempre scaltro opportunismo. Intendiamoci: ha un orientamento politico, è antifascista ed anticomunista allo stesso tempo. Però non si schiera. Le sue annotazioni, i suoi divertenti calembour mettono alla gogna i malcostumi diffusi dell’epoca, svelano la pochezza dei falsi miti e delle false coscienze. L’Italia è un Paese in cui prevale l’idealismo. I politici non parlano chiaro. Gli intellettuali scrivono spesso libri poco comprensibili per chi non ha un bagaglio umanistico. Le leggi possono essere decifrate solo dagli avvocati. E Flaiano riassume questo atteggiamento culturale scrivendo che in Italia non esiste la verità perché la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Non c'è speranza. Non c'è via di fuga. Non c'è ancora di salvezza. Flaiano non salva nessuno, neanche se stesso. Il suo pessimismo a mio avviso è sintomatico di una sua crisi interiore. Ma ecco un suo pensiero di questo “Diario degli errori”: “Italia, paese di porci e di mascalzoni. Il paese delle mistificazioni alimentari, della fede utilitaria (l’attesa del miracolo a tutti i livelli), della mancanza di senso civico (le città distrutte, la speculazione edilizia portata al limite), della protesta teppistica……”. Infine Flaiano ci ricorda che "vivere è una serie ininterrotta di errori, ognuno dei quali sostiene il precedente e si appoggia sul seguente. Finiti gli errori, finisce tutto”.

"L'età del Jazz":
Avevo letto la raccolta di saggi di Cioran, intitolata “Esercizi di ammirazione”, ed ero rimasto favorevolmente colpito dal commento che il filosofo aveva fatto su “The crack up” (in italiano"Il crollo") di Fitzgerald. All’improvviso una sera in una libreria mi imbatto in un Oscar Mondadori, intitolato “L’età del Jazz”. Mi metto a sfogliarlo e lo compro subito. Questo libro raccoglie annotazioni di diario, lettere, taccuini e quel che mi interessava più di tutto “La trilogia del fallimento”, tre saggi brevi in cui il grande scrittore descrive la sua condizione esistenziale e svela i suoi fallimenti. Fitzgerald aveva subito bruciato le tappe, raggiungendo il successo con “Di qua dal Paradiso” e con “Il grande Gatsby”. Negli anni '20 con la moglie Zelda era nel vortice della mondanità di New York. Stanchi della vita frenetica di New York, andarono a vivere sette anni in Costa Azzurra. Tuttavia non approdarono alla serenità. Fitzgerald diventò alcolizzato; alla moglie Zelda venne diagnosticata la schizofrenia. La parola Jazz è stata sinonimo di tre cose in quegli anni: sessualità, danza e musica. Erano gli anni del proibizionismo. Le ragazze si tagliavano i capelli e andavano a bere alcol nei locali clandestini insieme ai ragazzi. Ma alla fine Fitzgerald scopre che è stato tutto vano, che niente è restato di quegli anni. Le illusioni sono crollate. Il grande sogno è stato perduto per sempre. Questi li definisce i colpi che vengono dall’esterno. Ma esistono - come lo scrittore sa - anche i colpi che vengono dall’interno ed è questo lato Freud, che personalmente ritengo interessante. Alla base di tutto c'è un blocco psicologico, una sensazione di scacco matto esistenziale. Ho avuto l'impressione netta che tante conoscenze e tante amicizie con personaggi importanti, ricchi e colti non l'abbiano arricchito interiormente ma svuotato. Fitzgerald ritorna in sé. Scrive della propria inettitudine, del proprio torpore, della propria apatia. Con la mondanità aveva cercato di costruirsi invano un’ampia rete sociale, ma alla fine si accorge della perdita della sua identità. Si rende conto di non aver mai fatto scelte autentiche. Con questi scritti riconosce il fallimento e descrive addirittura che il proprio mondo interiore si è decostruito. Tutto inizia con l’insonnia. Ma la notte insonne diventa successivamente metafora della sua condizione esistenziale perché – secondo lo scrittore - nella notte dell’anima sono sempre le tre del mattino. L’autore chiarisce a sé stesso ed al pubblico la sua crisi, paragonando la sua esistenza a un piatto incrinato. Racconta di essersi ritirato dal mondo per due anni allo scopo di catturare silenzi interiori. Per due anni non ha vissuto nel mondo comune, ma in un mondo strettamente intimo e privato. La sofferenza interiore lo costringe a pensare e a scavare dentro sé stesso. Nonostante la crisi, Fitzgerald si interroga e cerca nessi logici, ma la cosa più interessante è che lo scrittore all’improvviso scopre il lato oscuro della sua personalità. Lì scorge contraddizioni ed enigmi: in una parola sola intravede l’abisso.

 

 

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(Nella foto Morselli)

"Diario" di Guido Morselli:
Morselli proveniva da una famiglia agiata. Si laureò in legge. Lavorò per un breve periodo come impiegato. Fece la guerra. Poi scelse di non lavorare. Il padre, obtorto collo, accettò il volere del figlio e gli dette una modesta rendita. Per tutta la vita fu "un eterno dilettante". Tutte le case editrici rifiutarono i suoi romanzi. Eppure oggi è riconosciuto come un grande scrittore e un maestro di ucronie[1]! Anche Italo Calvino rifiutò i suoi lavori[2]. Eppure Calvino è stato anche un talent scout di scrittori come Daniele Del Giudice e Andrea De Carlo! Dopo il suicidio Calasso ebbe il merito di pubblicare le sue opere con Adelphi. Attualmente Morselli è letto dalla comunità letteraria. Diciamo che è un autore di nicchia. Giovani studiosi come Gilda Policastro, Alessandro Gaudio e Linda Terziroli si sono occupati di lui. Nel suo diario si dimostra un intellettuale a tutto tondo, capace di spaziare su vari rami dello scibile. Troviamo speculazioni filosofiche, considerazioni letterarie, riflessioni sulla vita. Riporto fedelmente una annotazione del suo diario, datata 6 novembre 1959: "Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella medesima maniera. Ho pregato, non ho ottenuto nulla. Sono stato egoista, sino a dimenticarmi dell'esistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né attorno a me. Ho amato, sino a dimenticarmi di me stesso; nulla è cambiato né in me né attorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. Tutto è ugualmente inutile". Qualcuno potrebbe pensare che Morselli vedesse Dio come una entità suprema lontana, che si interessava pochissimo dell'uomo. In realtà lo scrittore, a onor del vero, considerava Dio addirittura "una psicosi". Tuttavia, seppur schivo e appartato, non era misantropo. Come scrive il 22 febbraio 1947: "Ieri sera prima di dormire ho riveduto me stesso (...), tornando a casa. Non avevo mai sentito così profonda pietà degli uomini come rivivendo l'immagine di quest'uomo che attraversava piazza del Mercato". Morselli alla fine non scriveva che per pochi amici intellettuali. Non ebbe mai il riscontro del pubblico. Il suo dramma era quello di non avere un ruolo. Per il mondo non era niente e non si occupava di niente. Per i suoi concittadini era solo un tipo stravagante e bislacco. Forse si suicidò perché sentì che tutto era "vanità di vanità", come scritto nell' "Ecclesiaste", oppure per "troppo amore della vita", come ebbe modo di scrivere. Nel mondo di oggi (in cui esistono una comunità letteraria online, i lit-blog, gli ebook e l'editoria a pagamento) ci saranno altri Morselli? Oppure il talento è destinato ad emergere sempre? Lo sapranno solo i nostri posteri.

 

Conclusioni:

"Le confessioni" di Sant'Agostino e "Le confessioni" di Rousseau sono opere di autoanalisi salvifiche per gli autori, dato che sono espiatorie. I "Saggi" di Montaigne hanno il merito di scoprire l'io dinamico e si contraddistinguono per il relativismo culturale, per il rispetto della dignità della propria persona oltre che di quella altrui. Invece le opere di Pavese, Fitzgerald, Morselli, Flaiano sono testimonianze della crisi di coscienza, ma non la risolvono. I loro autori sono messi alla prova e fanno naufragio. A mio avviso erano tutti troppo orgogliosi per chiedere aiuto. Accenno solo brevemente a "L'ombra e la grazia" di Simone Weil. In questi pensieri, estratti dal suo diario, la mistica dichiara che bisogna "accettare il vuoto", "distruggere l'io", "desiderare senza oggetto": obiettivi quasi impossibili per raggiungere alla fine la grazia di Dio. Mi chiedo se non c'è salvezza allora per coloro che non hanno la fede. Nelle opere di Pavese, Fitzgerald, Flaiano, Morselli c'è "l'ombra" senza "la grazia". Forse è per questo motivo che i loro nodi non si sciolgono e noi li sentiamo "nostri fratelli" per dirla alla Baudelaire. Simone Weil e Sant'Agostino sono encomiabili, ma quasi inarrivabili. Allo stesso tempo viene da chiedermi se si può rinsavire e salvarsi solo grazie all'altro, come vi riesce Pirsig grazie al figlio[3]? Ma quale è poi la causa della crisi di questi scrittori? Era solo la loro vita inautentica o quella di tutti? La loro crisi era psichicamente endogena oppure sintomo del declino della civiltà occidentale? Dipendeva da una interazione? Era esclusivamente loro il cupio dissolvi o era rappresentativo di una intera società? Difficile dirlo. Le loro crisi a mio avviso sono emblematiche riguardo alla condizione umana. A livello esistenziale siamo tutti unici e irripetibili. Dal punto di vista ontologico siamo una infinitesima parte del tutto. L'uomo nei secoli dei secoli è rimasto in conflitto tra queste due forze antagoniste, tra la sua grandezza e la sua miseria, tra il considerarsi un miracolo oppure una nullità. Con la contemporaneità le cose sono ulteriormente peggiorate. Le tragedie delle due guerre mondiali, la recente massificazione e burocratizzazione, una società consumistica e tecnologica hanno spersonalizzato ancora di più l'uomo contemporaneo, facendolo sentire sempre di più una nullità. Si è compiuta oggi la disantropomorfizzazione. Sono state molte le critiche al nostro mondo occidentale, definito "società opulenta" (da J. K. Galbraith), civiltà dell'immagine, società dei consumi, società di massa, "società dello spettacolo" (da Debord), etc etc. Per Marx la causa di tutti i mali è il capitalismo, per Nietzsche e i suoi epigoni il nichilismo, per Max Weber la razionalizzazione, per i cattolici la secolarizzazione, per Husserl "la crisi delle scienze europee"[4], per gli esistenzialisti l'angoscia della scelta, per gli anarchici lo Stato e l'autorità, per Freud la repressione degli istinti, per Camus l'assurdo, per positivismo e neopositivismo la metafisica, per McLuhan i condizionamenti dei mass media, per Jonas la mancanza di un'etica della responsabilità[5], per altri l'individualismo, per altri ancora la tecnocrazia, etc etc. Inoltre per Fromm nella contemporaneità è aumentata l' "aggressività maligna"[6] dell'uomo. Allo stesso tempo l'uomo occidentale ha sempre vissuto una grande conflittualità tra carnalità e spiritualità. Ci si ricordi del mito dell'auriga di Platone. Spesso l'uomo occidentale è un mistico bloccato, come Cioran, e allo stesso tempo un "pornografo inibito"[7], come si definiva in una sua poesia Sanguineti. Sono queste le concause che hanno portato alla crisi Pavese, Fitzgerald, Morselli, Flaiano? Forse avevano avvertito tutto questo? Difficile stabilirlo. Psichiatri come Krapelin, K. Jamison, L. Bretagna, Cassano, P. Duke, G. Hochman hanno stabilito un legame tra nevrosi e creatività. Ma se ciò fosse dovuto ad una causa esogena? In questa sorta di Repubblica di Licurgo è forse più probabile che gli artisti sviluppino delle nevrosi? Forse la stessa razionalità tecnologica ha complicato le cose agli scrittori. Tutto al mondo d'oggi deve essere fatto in nome dell’efficienza e del progresso.Tutti devono avere una utilità pratica. Non a caso due importanti scuole di pensiero americane contemporanee sono il pragmatismo e l'utilitarismo. Per dirla alla Moravia l'uomo oggi è un mezzo e non più un fine. La civiltà vuole costruire strade dovunque e fabbricare macchine sempre più veloci. Dell’evoluzione civile, etica, artistica e spirituale poco importa. Però Jung dichiarò che era più facile andare su Marte o sulla luna che penetrare nel proprio io. La scuola non può permettersi il lusso di educare all’autonomia di pensiero. Eppure è stata proprio l'obbedienza acritica all'autorità, lo spirito gregario, l'eseguire ordini imposti dall'alto a fare diventare molti tedeschi dei criminali nazisti (gli psichiatri la chiamano "sindrome di Norimberga" e la Arendt la chiamava "banalità del male")! Insomma gli umanisti sono dei falliti. In fondo sono sempre più coloro che disprezzano l'arte e la poesia come Bazarov in "Padri e figli". Vince in questo sistema antiumanista chi guadagna soldi. Vince chi si integra socialmente, chi arriva e si adegua al conformismo. Però anche chi scrive libri di successo e si realizza come artista non è detto che si realizzi come uomo: lo dimostrano Pavese, Fitzgerald, Flaiano. Oggi le cose sono degenerate; molti bestseller (la maggioranza sono bestseller di consumo) sono frutto di un mix di furbizia, marketing, ricerca grossolana di intrattenimento. Ci sono anche molti lettori, che pensano che i libri di Fabio Volo, Moccia, Susanna Tamaro siano dei capolavori. I lettori sono in fondo consumatori come altri. Seguono le mode e molto spesso fanno scelte eterodirette perché come sosteneva Gillo Dorfles si è ridotto l'elemento proiaretico[8]. Forse però, oggi come non mai, si può assistere al superamento di concezioni come quelle di cultura alta e di cultura bassa. Forse oggi anche gli intellettuali più raffinati sono Midcult[9]. Forse anche loro sono contaminati dalla cultura di massa. Quindi forse non c'è alternativa. Oggi sono pochi contro il sistema e l'ideologia del mercato, l'unica che è rimasta. Spesso con la scusa che il sistema si combatte dall'interno si finisce per accettare qualsiasi compromesso. Scrivere oggi significa adeguarsi ai dettami della società, cioè diventare commerciali, oppure fallire. Non c'è niente di nuovo sotto il sole: Eco aveva già distinto tra apocalittici ed integrati. Cercare di approdare al cosiddetto nervo delle cose, a una verità umana, per quanto parziale, significa fallire. Per la filosofia l'arte contemporanea dovrebbe provocare shock, straniamento, spaesamento: insomma un rovesciamento di prospettiva nei lettori. Spesso però gli scrittori di oggi non sono più impegnati. Ho sempre pensato che attualmente un'opera d'arte per essere tale richieda la presa di coscienza di una problematica e debba fornire una nuova chiave interpretativa del mondo. Però anche i creatori di opere d'arte non è detto che si affermino commercialmente né che si realizzino come uomini. Inoltre quanto dolore c'è talvolta anche nell'integrarsi socialmente! L'argomento viene trattato anche nel romanzo "Fiorirà l'aspidistra" di Orwell. Ogni artista dovrebbe scegliere idealisticamente se essere in o out dallo show-business. Invece oggi molti scelgono opportunisticamente, ma c'è sempre un prezzo da pagare quando si vende l'anima al successo o alla gloria postuma. Pavese, Fitzgerald, Flaiano non sembravano avere bisogno di niente ed invece non riuscivano a rapportarsi al mondo. Si adattavano al mondo, snaturandosi. Scrivevano capolavori e avevano successo, ma non riuscivano a trovare un senso. Come scriveva Pavese: "In genere è per mestiere disposto a sacrificarsi chi non sa altrimenti dare un senso alla propria vita". Ognuno in gioventù idealizza persone, mitizza luoghi e si pone aspirazioni irrealizzabili. Vivere significa spesso anche resistere e continuare, prima del definitivo rien ne va plus. Perdere significa talvolta maturare, crescere. Come scrive Guccini in "Canzone di notte n°3" anche "perdere ogni tanto ci ha il suo miele". Forse per uno neuropsichiatra riduzionista[10] questi scrittori erano solo depressi. Forse oggi psicofarmaci efficaci riducono l'ideazione di molti artisti, ma li salvano dal suicidio. Oppure i veri artisti sono destinati comunque a fallire a livello esistenziale, metafisico, commerciale. In fondo l'editoria fa parte anche essa dell'industria culturale e non guarda in faccia nessuno; non riserva un trattamento di favore a nessuno, neanche ai più talentuosi. Forse è sempre stato così. Forse la caratteristica precipua e intrinseca dello scrivere oggi è il fallimento. L. F. Celine era molto lucido a riguardo ed affermò: "I posteri saranno i cinesi e quelli se ne fregheranno altamente della mia letteratura fessa”. Sono memorabili anche le parole di Beckett, che valgono in senso lato: "Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio"[11].

Note
[1] Ucronia è un'opera di fantasia, spesso di fantascienza, in cui l'autore si immagina un fatto immaginario e lo sostituisce a un reale fatto storico. Gli autori di ucronie si chiedono cosa sarebbe successo se la storia fosse andata diversamente. Ogni ucronia si basa su una ipotesi controfattuale. Morselli ne scrisse due. In "Contro-passato prossimo" si immagina che la prima guerra mondiale sia stata vinta dagli Imperi centrali. In "Roma senza Papa" si immagina che il Papa si ritiri a Zagarolo.
[2] Potete trovare la corrispondenza tra Calvino e Morselli al seguente indirizzo:
http://mvl-monteverdelegge.blogspot.com/2013/03/caro-morselli-caro-calvino-il-no-di.html
[3] "Lo Zen e l'arte della manutenzione della bicicletta", Milano, Adelphi, 1988. Non è un diario ma un romanzo in parte autobiografico. Il figlio di Pirsig morì accoltellato a 23 anni.
[4] Per Husserl la società occidentale è in crisi perché le scienze oggettivano e quantificano tutto. In fondo già Galileo aveva stabilito la matematizzazione delle scienze. Husserl è stato profetico, se si pensa al fatto che il dottor Duncan MacDougall ha pesato l'anima. Secondo quest'ultimo le persone, morendo, perderebbero 21 grammi.
[5] Per Jonas dovremmo agire, mostrando responsabilità anche verso i posteri e l'ambiente.
[6] Fromm in "Anatomia della distruttività umana" scrive che l' "aggressività benigna" è quella necessaria per la sopravvivenza ed è quindi biofila. Invece l' "aggressività maligna" è quella ad esempio del sadico, finalizzata al piacere di opprimere l'altro, ed è necrofila. Secondo Fromm la competizione esasperata, la ricerca ossessiva di produttività, le frustrazioni della società hanno aumentato la distruttività umana. L'uomo in fondo è l'unico primate che non uccide i propri simili per sopravvivenza ma per altri motivi.
[7] Sanguineti usa questa espressione in "Reisebilder 16", pubblicata in "Wirrwarr", Milano, Feltrinelli, 1972.
[8] proiaretico, ovvero in estetica che riguarda una scelta autonoma, fatta in base alla propria inclinazione e al proprio gusto. È sempre attuale "La ballata della moda" di Tenco, che è morto nel 1967.
[9] Mi riferisco al libro "Masscult e Midcult" del sociologo Macdonald. Per quest'ultimo, il Midcult era "un terzo livello [...], una cultura media rappresentata da prodotti d'intrattenimento che prendevano a prestito anche stilemi dell'avanguardia, ma che era fondamentalmente Kitsch".
[10] Secondo il riduzionismo delle neuroscienze i disturbi dell'umore e i nostri stati mentali sono determinati dalla quantità di neurotrasmettitori. La depressione sarebbe causata esclusivamente da un deficit di serotonina. Saremmo quindi molto più determinati biologicamente di quello che si riteneva un tempo. Secondo la fenomenologia invece è l'esperienza vissuta che determina la visione del mondo di un individuo. Secondo la psicanalisi gli psicofarmaci inibiscono i sintomi, ma non possono niente sul disagio interiore di cui sono espressione.
[11] Citazione tratta dalla novella "Worstward Ho" (1983), che in un’edizione italiana è stato tradotta con il titolo "Peggio tutta", pubblicata in "In nessun modo ancora", Torino, Einaudi, 2008.

 

Neosentimentalismo contro intellettualismo: Susanna Tamaro e i suoi epigoni...

giu 052023

 

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(Nella foto Sanguineti)

Si diceva e si scriveva anni fa che i bestseller erano fatti di "sesso e/o sangue e/o soldi". Difficile dire quali siano gli ingredienti o il filone giusto per fare un bestseller. Più si va avanti e più mi accorgo che sta prendendo piede il sentimentalismo. È vero che ci sono i gialli che vanno sempre di moda (Carlo Lucarelli, Maurizio De Giovanni, Loriano Macchiavelli, etc etc). Ma domina su tutto la retorica dei buoni sentimenti, che non ha a niente a che vedere col sentimentalismo etico, che permette la sana empatia, l'immedesimazione nella sofferenza e nel dolore altrui. Prevale su tutto un sentimentalismo deteriore e ricattatorio, che istiga alla lacrima facile. Il sentimentalismo è la via più facile per avere successo. È in voga quello che definirei un neosentimentalismo, raramente condito con un poco di dandismo estetizzante, talvolta condito con un certo neocrepuscolarismo alla buona. È di moda sia in prosa con ottimi successi di vendite, sia in poesia, dove prevalgono soprattutto soggettività e l'emotività. D'altronde cosa volete sperare? Negli anni di piombo sparavano e mettevano bombe, ma poi si commuovevano per le canzoni amore/cuore. La canzone italiana del secolo è "Piccolo grande amore" di Baglioni e non "Rimmel" di De Gregori. Oggi se guardi i profili social dei più ci sono le frasi sdolcinate d'amore, le foto degli animali domestici, i video youtube di canzonette sentimentali acchiappa like. È il modo più semplice per avere seguaci e consenso quello di essere sdolcinati, anche se falsi e ipocriti come Giuda. Il sentimentalismo è da sempre un tratto stilistico, definiamolo così, socialmente accettato. È quello più socialmente accettato di tutti. Le Liale vincono sempre. Ma ci sono anche degli intellettuali che vedono del sentimentalismo anche dove non c'è. Mi dispiace dirlo ma questo fu il caso anche del grande Sanguineti che vide in Bassani e Cassola delle "Liale del nostro tempo" e fu una critica a mio avviso troppo negativa e fuori luogo. Ma Sanguineti era un genio a cui molto si poteva perdonare e infatti lo stesso Cassola andava a braccetto con lui ed era suo amico.  La filosofa Ilaria Gaspari è controcorrente e su "Domani" scrive un articolo riabilitando il romance, i romanzi rosa, affermando che finalmente ci siamo liberati dei pregiudizi su di essi. Un conto a mio avviso è oggettivare un sentimento. Un conto è sfruttare commercialmente l'ingenuità delle persone. Un conto è disprezzare ogni moto del cuore. Un conto è essere strappalacrime. Un conto è con la giusta motivazione di mettere distanza tra sé stessi e le passioni eliminare ogni residuo di emozione. Un conto è oggettivare un sentimento. Un conto è cercare di rimuovere dalla poesia e dalla letteratura ogni traccia di sentimento. Un conto è disapprovare e criticare a ragion veduta il sentimentalismo e un altro è avere una reazione spropositata, fare un fallo di reazione, che nel calcio porta spesso all'espulsione. In questo caso alcuni letterati vengono espulsi dal mercato. Ci sono ancora oggi dei critici che se vogliono attaccare qualcuno per partito preso o idiosincrasia, scrivono che è un sentimentale. È vero che chi è sentimentale di solito non è impegnato politicamente, socialmente, culturalmente. È vero che spesso chi scrive di sentimenti lo fa per non scrivere d'altro, perché scrivere d'altro è più problematico, scomodo, difficile e meno remunerativo. È vero che De Amicis insegnava qualcosa, formava le coscienze e oggi questo neosentimentalismo non è affatto didascalico, educativo, propedeutico. Insomma il neosentimentalismo di oggi non porta a niente, non è istruttivo, è fine a sé stesso. Così da un lato c'è chi vende molto con il neosentimentalismo e dall'altro c'è chi utilizza come discrimine per stabilire cosa è o non letteratura l'assenza o meno di sentimento. Sono due scuole contrapposte: da una parte questo neosentimentalismo commerciale, dall'altra l'intellettualismo freddo ed elitario. Non ci sono mezze misure, pochissimi trovano un'armonia, un connubio tra ragione e sentimento, tra intelletto e passione. Ecco così facendo una narrativa e una poesia a compartimenti stagni. Nei primi anni del duemila ci avevano provato a rompere gli schemi le cosiddette pornoromantiche, ovvero Carolina Cutolo (un suo libro per l'appunto si intitolava "Pornoromantica"), Pulsatilla ("La ballata delle prugne secche"), Gisela Scerman ("La ragazza definitiva"), ma oggi pochi parlano di queste scrittrici: allora c'era chi puntava sulla grande novità di ragazze che scrivevano sia dei loro sentimenti che delle loro esperienze sessuali, come le vecchie generazioni non avevano mai fatto, ma poi sono arrivati youporn, la diffusione del porno di massa, anche amatoriale, e sono molte le ragazze che fanno sesso e parlano di sesso, cosicché oggi è stato abbattuto qualsiasi senso del pudore. Insomma le pornoromantiche non fanno più scalpore. Così abbiamo romanzi commerciali che emozionano ma non sono letteratura e opere che sono letteratura ma non emozionano più i lettori. Abbiamo così romanzi di intrattenimento che fanno piangere e una letteratura che è troppo fredda, che non sa interessare più, se non gli addetti ai lavori. Così finiamo per avere degli scrittori facili che vendono molto e pretendono che le loro cose vengano ritenute letteratura per il solo fatto che vendono molto e dei letterati che non vendono e si arrogano il diritto di ritenere ciò che è letteratura e ciò che non lo è. Con questo non voglio criticare totalmente chi scrive bestseller sentimentali, perché non è semplice, altrimenti molti professori di letteratura scriverebbero, come si suol dire, bestseller sotto pseudonimo e i più non ne sono capaci (è anche vero che i più non vogliono arricchirsi in questo modo perché lo considerano una furbata scorretta). Insomma anche per scrivere dei bestseller sentimentali  bisogna essere in sintonia con i gusti nazionalpopolari degli italiani o saper intercettare il pubblico, studiando tutto a tavolino. Bisogna cioè essere nazionalpopolari o fingere bene di esserlo. D'altronde anche un grandissimo scrittore come Flaubert, che voleva scrivere un romanzo sentimentale, finì per scrivere "L'educazione sentimentale", che è tutto, fuorché un romanzo sentimentale.

Due parole sulla mafia a trent'anni dalla strage dei Georgofili...

mag 272023

 

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Alcuni servitori dello Stato sono costretti a vivere sotto scorta e a spostarsi con auto blindate. Negli anni Novanta abbiamo assistito alle stragi mafiose. Io e mio padre siamo passati dopocena esattamente una settimana prima della bomba scoppiata in via dei Georgofili. Potevamo essere noi le vittime. Molti sanno e non parlano perché hanno paura di ritorsioni, di rimanere uccisi. Fino a qualche decennio fa molti sostenevano addirittura che la mafia non esistesse. Nessuno sa come e perché siano nate le mafie. Nessuno sa con certezza se le mafie siano state determinate dalla povertà, dal familismo amorale, dal fatto che ognuno tiene famiglia, dallo scarso civismo oppure no. C'è chi dice che la mafia sia dovuta alla particolare storia del Sud: a una pessima unità di Italia, alla repressione del brigantaggio (anche se diversi studiosi tendono ad escluderlo oggi). C'è chi dice che la mafia si respiri come l'aria. C'è chi dice che sia stata causata dalla mancanza di acqua. C'è chi dice che tutto nasca dai gabellotti. C'è chi dice che la colpa è dello Stato che è assente e latita. Nessuno sa con certezza. Molti studiosi hanno fatto molteplici ipotesi e dato le più svariate interpretazioni. Una cosa che bisogna tener presente è che i cosiddetti uomini di onore non sono mostri di malvagità. Non sono assolutamente altro da noi. Non sono un corpo estraneo. Sono assolutamente come noi. Sono italiani esattamente come noi e noi non siamo esattamente meglio, perché che siamo meglio è tutto da dimostrare. Se non teniamo presente ciò non andiamo da nessuna parte. I cosiddetti uomini d'onore hanno solo una mentalità differente. Non cercate in loro una personalità antisociale, perché loro hanno solo una mentalità mafiosa: né più, né meno. Nella loro testa conciliano codice cavalleresco (Osso, Mastrosso, Carcagnosso) e imprenditorialità spregiudicata. Sono atavici e moderni allo stesso tempo. A mio avviso alcuni mafiosi hanno una loro singolare forma di religiosità. Molti hanno un loro codice "etico". Nell'immaginario di alcune persone i mafiosi un tempo difendevano i più deboli e rispettavano le mogli degli altri. Non so esattamente. Forse è così anche oggi. Molti uomini di onore ancora oggi pregano e hanno fede, nonostante fin dalla tenera età siano stati abituati a trasgredire le leggi dello Stato. Molti appartengono a una famiglia mafiosa e sono stati affiliati da ragazzini. Per molti di loro è difficile uscire dalla mafia e fare come ha fatto a sue spese Peppino Impastato. Infatti fin dalla tenera età sono stati costretti a credere in certe regole. Fin dalla giovinezza sono costretti a crescere in fretta, a estorcere denaro, a rapinare, a rubare, a spacciare ed altro. Alcuni diventano mafiosi perché si ritrovano disoccupati. Se ci fosse meno disoccupazione nel Sud saremmo già a più di metà dell'opera! Ma che dire comunque di chi nasce mafioso? Quanto è difficile dire no alla mafia per loro? In fondo vorrebbe significare dire no ad un sistema che ha dato e riesce a dare da mangiare alle loro famiglie. Vorrebbe significare rinnegare tutti i propri famigliari. Pochissimi riescono a pentirsi. Come fanno a ribellarsi se hanno ricevuto una certa educazione e se appartengono a un determinato contesto? Alcuni allora compiono azioni illegali e nonostante ciò cercano di mantenere un cuore apparentemente puro. Vorrebbero cambiare, ma la loro vita procede per inerzia. Direttamente dire no alla mafia vorrebbe dire sfuggire ai propri amici che vorrebbero uccidere i pentiti. Con questo non voglio giustificare alcunché. Lo so bene che il vero dramma è quello delle vittime di mafia e dei loro famigliari. Voglio comunque solo cercare di capire. Non voglio assolutamente fare una apologia dei mafiosi perché alcuni di loro uccidono senza rimorso. Molti mafiosi però sono amorevoli padri di famiglia e premurosi mariti. Se non accettiamo questo non si può capire il consenso sociale di cui godono le mafie. Bisogna sapere veramente perché piacciono alla gente, oltre al fatto che la mafia è un sistema che purtroppo dà lavoro a tante persone, anche ai parcheggiatori abusivi e ai contrabbandieri di sigarette. Spesso anche le loro donne sono pie e devote. Pregano per il marito ininterrottamente. Eppure nonostante la loro morigeratezza sono sempre a fianco del marito mafioso, trasmettono ai figli i codici mafiosi, condividono e rispettano tutte le scelte del congiunto. Che cosa può spezzare questa catena? Apparentemente niente sembra efficace. Forse bisogna sperare che domani i mafiosi riescano a riciclare tutto il denaro (pecunia non olet...dicevano gli antichi) e diventino a tutti gli effetti imprenditori, che rifiuteranno di usare i loro antichi metodi? Dobbiamo forse sperare in questo? Sarebbe giusto forse per coloro che sono sempre stati onesti? Dobbiamo sperare che lo Stato intervenga con un esercito di maestre elementari (come sosteneva Bufalino), con dei grandi investimenti al Sud e con una repressione efficace delle forze inquirenti? Oppure è già troppo tardi perché le mafie hanno già inquinato l'economia di tutto il mondo e quello che possiamo fare è assistere impotenti alla loro proliferazione? Lo Stato riuscirà a vincere il controllo del territorio delle mafie? Qualcuno riuscirà a distruggere gli intrecci tra mafie, politica, economia, apparati dello Stato? Qualcuno riuscirà a denunciare tutti i compromessi della società civile con le mafie? Qualcuno riuscirà a rompere il rapporto con la buona borghesia e la mafia? Qualcuno incarcererà tutti i colletti bianchi, i cosiddetti cravattari mafiosi? Bisognerà aspettare grandi eventi storici che determineranno una nuova struttura sociale ed economica? Alcuni dicono che basta andare nel Sud per avere dei contatti episodici con i mafiosi e citano il fatto che vip e politici spesso a loro insaputa si trovano a fare le foto ricordo con i mafiosi. La verità è che una frequentazione casuale e occasionale non pregiudica niente se il politico o il vip non fa favori ai mafiosi, né si fa fare favori dai mafiosi. La realtà è che spesso c'è un legame così profondo tra politica e mafia che questi contatti non sono episodici ma frequenti e rappresentano solo la punta dell'iceberg. Un'altra cosa che dobbiamo tenere presente è che ogni volta che parliamo di mafia non dobbiamo assolutamente puntare l'indice, ma farci tutti un esame di coscienza. Non dobbiamo pensare solo ai Mafiosi con la M maiuscola, ma anche a tutti i comportamenti mafiosi con la m minuscola che abbiamo noi persone apparentemente oneste. La Mafia uccide, ma anche i piccoli abusi di potere e i piccoli comportamenti illegali o anche solo illegittimi creano ingiustizia e sofferenza. Anche spaccare la faccia a qualcuno, tagliare la strada a qualcuno con la macchina, diffamare qualcuno, costringere a un compromesso di qualsiasi natura o accettarlo è un comportamento mafioso con la m minuscola. Con questo non voglio fare di tutta l'erba un fascio. Al di là della retorica (inveire astrattamente contro la mafia non serve a niente) bisogna però vedere concretamente nel nostro piccolo cosa ognuno di noi può fare per combattere la mafia. Facendo una breve analisi di abusi di potere italici così diffusi scopriremo che gran parte del Paese è malato. Resta da stabilire se sia un malato incurabile o meno. Cosa si vuole sperare però da una nazione in cui i concorsi per professori universitari talvolta sono truccati? Cosa dobbiamo sperare se si comporta così chi dovrebbe dare agli altri innanzitutto l'esempio? Concludendo, nessuno ce l'ha fatta a sconfiggere la mafia. Non ce l'hanno fatta il prefetto Mori, il generale Dalla Chiesa e neanche i giudici Falcone e Borsellino. Spesso c'è stata anche la complicità degli apparati dello Stato. Diciamocelo onestamente a Portella della Ginestra non erano solo i mafiosi probabilmente a sparare. Gli americani per paura del comunismo nell'immediato dopoguerra appoggiavano uomini di onore come candidati sindaci in Sicilia. Diciamocelo senza retorica lo Stato ha spesso cercato di convivere con la mafia piuttosto che debellare il fenomeno. Cosa dobbiamo sperare se nel corso della storia di Italia è mancata la volontà politica di combattere la mafia? È forse invincibile oppure anche questa forma di criminalità organizzata avrà una fine? La mafia oggi è ancora molto potente. Una cosa però è certa: da qualsiasi punto di vista lo si guardi questo è un fenomeno con cui "rompersi la testa", come scriveva Sciascia.

 

Due parole su amicizia e stima tra letterati e poeti, veri o presunti

mag 202023

 

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Nel mondo letterario si parla tanto di mafia culturale ed è a mio avviso un termine inappropriato perché la vera mafia si spartisce grandi quantità di soldi e tanto potere, mentre la comunità letteraria ad esempio si spartisce solo le briciole e sono tantissimi i galli nel pollaio. Non è quindi tanto la modalità o la tipologia ma lo scarso giro di affari e il mercato di vacche magre a rendere la cultura poco mafiosa. A essere malevoli si può parlare di mafia culturale, intendendo una mafia con la m minuscola (che non uccide le persone ma la vera cultura), quella dei favoritismi, degli abusi di potere, delle ingiustizie, dei privilegi, delle cattedre per nepotismo, clientelismo, etc etc. Insomma la mafia culturale è una mafia non solo da colletti bianchi ma anche da innocui dilettanti, che però dovrebbero dare per primi il buon esempio e invece non lo danno. Non solo ma il circolo virtuoso d'un tempo non esiste più, perché non necessariamente il prestigio culturale dà prestigio sociale e il prestigio sociale dà soldi. C'è chi sostiene che l'amicizia tra poeti o tra letterati, quella vera, non esista, ma esista solo quella interessata (insomma scambi di favori, do ut des, etc etc). I letterati dovrebbero stimarsi e poi diventare amici, mentre accade spesso che prima diventano amici e poi si stimano, ma poi è vera stima? Ancora una volta viene da chiedersi se esiste la stima disinteressata o soltanto nell'Iperuranio. L'importante, realisticamente parlando, non è la stima effettiva ma quella percepita: ricordate l'immanentismo di Berkeley, ovvero l'essere è essere percepito? Anche qui la stima è la stima percepita e così l'amicizia. Che poi si può stimare chi non si dimostra amico veramente? Si può stimare chi non ci stima e nutre un'idiosincrasia nei nostri confronti? Quanto sforzo ci vuole? Ci vorrebbe un'invidiabile obiettività e imperturbabilità d'animo, che pochissimi hanno francamente. Allo stesso tempo ci vuole imperturbabilità d'animo, stoicismo, grande correttezza nello stroncare un amico o dirgli anche solo privatamente che non ci piace il suo libro. Di solito uno non stronca e non esprime giudizi negativi per quieto vivere, per evitare rappresaglie e vendette. Poi ci sono le alleanze non solo tra sodali apparentemente disinteressati, ma anche tra letterati della stessa città, della stessa casa editrice, dello stesso partito, della stessa università. Quanti attestati di stima sono falsi e inautentici? Quanta disistima viene taciuta per interessi di ordine superiore, per cause di forza maggiore? Viene naturale per amor proprio stimare chi dimostra di stimarci, ma è molto difficile, quasi impossibile il contrario. Se qualcuno ci dimostra stima, finiamo per vedere di primo acchito solo i suoi punti di forza e i suoi lati positivi. Allo stesso modo se un genio ti critica finisci per cercare difetti, per trovare il pelo nell'uovo e sminuirlo. Ci vuole molta umiltà, assennatezza, modestia per accettare serenamente delle critiche, anche perché purtroppo anche nel mondo letterario a pensare male si fa peccato ma ci si indovina sempre e dietro a delle critiche o a delle stroncature c'è quasi sempre un motivo personale o ideologico, perché di solito i letterati non cercano guai e hanno un atteggiamento conciliante. Di solito il meccanismo è semplice. Queste sono le tattiche messe in atto dai letterati: se tu mi stimi, io ti stimo; se tu non mi stimi, io non ti stimo; se tu mi attacchi, io ti attacco; se tu non mi pesti i piedi, io non ti pesto i piedi. Di solito viene evitato l'attacco fine a sé stesso, la polemica sterile. Al contempo nessuno fa niente per niente, quasi niente viene fatto gratuitamente, a meno che a uno non gli importi niente di fare carriera letteraria (come me del resto), e chi fa un piccolo favore vuole essere ricompensato prima o poi. Esiste inoltre la polemica a distanza senza fare i nomi (si dice il peccato ma non il peccatore e anche si dice a nuora perché intenda suocera). Come se non bastasse l'amore e il sesso complicano tutto terribilmente. È tutto semplice fino a quando un genio come Giovanni Raboni si mette con un genio come Patrizia Valduga e scrivono poesie immortali, ma come la mettiamo con i compromessi sessuali o anche con le aspiranti poetesse sopravvalutate, proprio perché amate da un grande letterato? Come saggiamente cantano i Baustelle: "Perché l'amore rende ciechi se c'è e non distingui Sylvia Plath da un parassita". Tutte queste cose facevano dire alla Merini che il mondo dei poeti non è poi così male, ma è terribile il sottobosco poetico. Concludendo, sono due le scuole di pensiero a riguardo della mafia culturale: 1) c'è sempre stata, c'è, ci sarà ed è universale 2) è un male, un malcostume prettamente italico.
Nel frattempo la psicologia e la sociologia di poeti, scrittori, letterati italiani è molto semplice, quasi elementare, a tratti pavloviana procede per riflessi condizionati, a tratti risente del condizionamento operante con rinforzi positivi e negativi, e soprattutto è fatta di una buona dose di egocentrismo, vanagloria e meschinità, ma qualcuno obietterà che funziona così in tutti i settori e fa parte della natura umana. Basta lisciare il pelo o infastidire il letterato per vedere reazioni spropositate. L'ego dei poeti infine è ipertrofico, vuoi spesso per disturbo di personalità di base, vuoi per per troppe frustrazioni; basta davvero poco per essere amati oppure odiati, con l'aggiunta di un piccolo particolare da tener presente: se lodi un poeta lo ritiene un atto dovuto e dopo qualche giorno si scorderà di te, se invece lo critichi negativamente ti odierà a vita e se la legherà per sempre al dito (basta togliere un'amicizia o bloccare qualcuno su Facebook per essere odiati a vita per lesa maestà e queste ragioni prettamente personali non hanno niente a che vedere con la poesia né con la letteratura). Che poi niente è certo nel mondo letterario. Chi può davvero stabilire con certezza se tizio o caio è un poeta? Lo stabiliranno solo i posteri. In matematica di un un insieme si può stabilire con certezza se un certo elemento ne fa parte oppure no. In letteratura è men che meno in poesia questa certezza non c'è. Ogni autore, ogni poeta subisce un processo. Ai contemporanei spettano solo le indagini preliminari, ma la vera corte di cassazione sono i posteri, se i posteri ci saranno.

Su Aldo Moro e sul terrorismo interno...

mag 092023

 

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Oggi è il 9 maggio. 45 anni fa venne ritrovato il corpo dello statista Aldo Moro. Vorrei fare una breve riflessione...

In un Paese come il nostro in cui c'è stato un connubio tra materialismo spicciolo e un idealismo deteriore il terrorismo è stato vinto dai partiti, dalle istituzioni, dai sindacati, dal popolo, ma soprattutto dalla fine della guerra fredda (ammettiamolo pure). Qualcuno violento e fuori dalla storia è pur rimasto nella foresta a combattere una guerra già persa, ma nessuno oggi può far leva sul disagio sociale e trasformarlo in barbarie. Il terrorismo nero è stato subito vinto perché non c'è stata da anni alcuna possibilità da parte di nessuno di sfruttare lo spontaneismo armato (nato per esempio dai fatti di via Acca Larentia). Quella contrapposizione di forze (gli opposti estremismi) non esiste più. Quello che è accaduto un anno fa al circolo Arci di Reggio Emilia con cretini incappucciati che cantavano inneggiando alle Br però dimostra che c'è più indulgenza per il terrorismo rosso. C'è da decenni un pregiudizio negativo nei confronti delle vittime delle br ("se la sono cercata", "erano colpevoli", "erano imperialisti", "erano servi dello Stato") e un pregiudizio positivo nei confronti dei brigatisti rossi ("hanno le loro ragioni", "sono intellettuali", etc etc). Gli intellettuali dell'epoca non hanno aiutato il popolo, coniando perfino lo slogan "né con lo Stato, né con le Br" (frase erroneamente attribuita a Sciascia che non l'ha mai detta né scritta), ma non c'è da stupirsi perché erano gli stessi che ce l'avevano a morte con Luigi Calabresi e lo lasciarono solo al suo destino. Le Brigate Rosse sono finite quando hanno ammazzato un operaio sindacalista (Guido Rossa) e un antennista fratello di un pentito delle Br (Roberto Peci). Non potevano più avere un consenso popolare (poco tempo prima se le Brigate Rosse avessero potuto presentarsi come partito avrebbero preso 200000 voti secondo i sondaggisti dell'epoca). Bisognerebbe considerare che Aldo Moro era innocente come la povera Maria Fresu (una vittima della strage di Bologna), anche se il suo lavoro comportava più responsabilità e quindi più rischi. Sicuramente il terrorismo nero colpiva nel mucchio la povera gente in modo efferato, faceva delle carneficine, ma non bisogna mai giustificare o addirittura quasi assolvere i brigatisti rossi, la cui versione di comodo è che la loro violenza organizzata nasceva solo ed esclusivamente come reazioni alle stragi, mentre colpiva a freddo e a tradimento onesti lavoratori e padri di famiglia. Bisognerebbe considerare che i veri colpevoli dell'estremismo rosso non sono i giovanotti autoesaltati e ubriacati ideologicamente che uccidevano, ma i cattivi maestri che li hanno indottrinati e armati: ancora non è stata fatta piena luce su questo e i cattivi maestri non hanno pagato del tutto, sicuramente hanno pagato troppo poco; sono stati proprio quei professorini freddi e spietati come Senzani che hanno armato giovani che stravedevano per loro. Così questi terroristi hanno distrutto vite altrui e le loro. Ma ora possiamo dirlo serenamente che, salvo improbabili colpi di coda, tutto è finito, ma ciò deve servire da lezione. Non deve finire nel dimenticatoio. Infine riporto a memoria una dichiarazione del terrorista nero Giuseppe Fioravanti, che in un'intervista dichiarava che quelli della sua generazione si erano scannati tanto per poi fare anni di galera e ritrovarsi certa gente al governo. Era l'amara constatazione del proprio fallimento umano e politico, nonché di una parte della sua generazione. Basta avere una visione un minimo (ma un minimo) approfondita per sapere che le Brigate Rosse erano infiltrate per quanto riguarda la base ed erano infiltrate ai vertici, pur non trattandosi solo di "sedicenti Brigate Rosse", mentre il terrorismo nero era diretto dalla P2 e dai servizi segreti deviati (o a essere più precisi dalle deviazioni dei servizi segreti, perché non tutta l'intelligence era coinvolta ma solo una parte, seppur consistente): c'era la guerra fredda, l'Italia era sotto la Nato e allo stesso tempo nel nostro Paese c'era il più grande partito comunista occidentale; diciamocela tutta: se Aldo Moro non fosse stato ammazzato dalle Br, c'erano i terroristi neri che volevano probabilmente fargli un attentato, perché in questa contrapposizione brutale di forze politiche molti non volevano il compromesso tra Dc e comunisti e invece i dorotei lo volevano, alcuni perché pensavano, a torto o a ragione, che il marxismo fosse una dottrina ideologica e scientifica superiore e che con i suoi rappresentanti bisognasse allearsi, anche perché in quel particolare periodo storico esprimevano meglio le istanze sociali del popolo. A ogni modo ognuno deve mettersi contro i figli di buona donna (con tutto il rispetto per le loro madri; è solo un modo di dire) del suo tempo. Terroristi rossi e neri ormai sono di un altro tempo. Così si spera.

Sulle due culture, anzi sulla cultura sempre più divisa e divisiva...

mag 012023

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(Nella foto il poeta Leonardo Sinisgalli)

 


Nel 1959 lo scrittore e scienziato Snow pubblica "Le due culture", in cui tratta delle incomprensioni, delle divergenze, addirittura dell'incomunicabilità tra umanisti e scienziati. Scriveva che gli umanisti sapevano pochissimo di scienza, che gli scienziati sapevano pochissimo di arte e che quando si ritrovavano non avevano argomenti di conversazione.  Insomma non parlavano più la stessa lingua. Le cose a mio avviso sono peggiorate in questi ultimi anni. Oggi c'è ormai una sola cultura, quella tecnologica-scientifica. Io affermerei che non esiste più la cultura umanistica in un mondo in cui tutto è cultura, in cui qualsiasi cazzata viene riconosciuta come elemento culturale. Oggi a onor del vero non è cultura ciò che un tempo era cultura, ma viene ritenuto cultura tutto ciò che è e porta business. Sono finiti i tempi in cui per diventare ragionieri o periti bisognava sapere abbastanza Pascoli e Montale. È finita l'epoca del latinorum! Purtroppo e per fortuna allo stesso tempo! Oggi basta qualche nozione umanistica raffazzonata, approssimativa ed en passant anche nei licei per andare avanti. Oggi c'è più tecnologia e i giovani sono più informatizzati, ma qualcosa abbiamo perso per strada, per esempio le giovani leve hanno perso senso critico e competenze linguistiche (prendendo con beneficio di inventario la tanto citata ricerca di Tullio De Mauro sul numero di parole conosciute dai ginnasiali). Sono finiti anche i medici di un tempo, che avevano una buona formazione umanistica, non solo perché magari avevano fatto il Classico ma perché leggevano molti romanzi, molti libri di poesie, molti saggi e andavano a vedere le mostre, etc etc. Oggi i professionisti e le persone di cultura versate in un campo specifico non sono curiose e onnivore come un tempo, perché pensano, a torto o a ragione, di togliere parte del loro tempo allo studio e all'aggiornamento della loro disciplina. Oggi la vita scorre frenetica, non c'è più tempo e poi in fondo decenni fa, nel secolo scorso, per una persona di buona cultura era un imperativo informarsi e rimanere aggiornata su tutto. Oggi nessuno lo esige più. Oggi ci sono anche laureati in discipline umanistiche disoccupati, precari o sottoccupati, mentre ci sono tecnici che non hanno studiato affatto e che guadagnano molto bene, addirittura sono così richiesti che non si trovano mai, spesso si dimostrano tronfi e maleducati (al limite della nostra capacità di sopportazione spesso). Qualcuno dirà che è la legge della domanda e dell'offerta. C'è inoltre nella mentalità comune l'affermarsi della supremazia degli ingegneri sugli umanisti. È la solita tiritera: ingegneria è necessaria, diventare ingegneri è più difficile. Sono gli stessi che considerano gli umanisti dei cretini per aver scelto quel corso di studi e li rispettano raramente, ovvero solo se si affermano culturalmente, anzi spesso solo economicamente. È vero che le facoltà umanistiche sono più facili di quelle scientifiche (a Pisa ad esempio il preside di ingegneria Villaggio aveva lasciato un cartello sulla sua porta dove era scritto "ingegneria deve essere difficile" e in quella facoltà i professori agli studenti impreparati tiravano il libretto universitario fuori dalla finestra). È vero che ci sono nelle facoltà umanistiche alcuni (non tutti) professori sessantottini, che dispensano buoni voti a molti. Ma è disonesto intellettualmente oltre che falso far passare il messaggio che tutti o quasi riuscirebbero, se si iscrivessero, a laurearsi in una disciplina umanistica, perché anche in queste facoltà esistono a onor del vero i ritiri. Che poi le nostre facoltà umanistiche sono più facili anche perché tutte le nostre scuole elementari, medie, superiori sono più umanistiche che scientifiche e Leopardi viene già fatto alle elementari, mentre le derivate e gli integrali vengono fatti in modo decente solo nell'ultimo anno del liceo scientifico! Che poi un conto è laurearsi in lettere e un conto è diventare letterati perché per fare la prima cosa bisogna studiare un centinaio o poco più di libri di testo, mentre per fare i letterati bisogna leggerne qualche migliaio! Che poi a ben vedere ci sono ingegneri e matematici tedeschi, inglesi, americani, cinesi, giapponesi, indiani che sono più preparati dei nostri italiani, mentre gli umanisti italiani sono rispettati e stimati in ogni parte del mondo, pur avendo lo svantaggio di scrivere in italiano, così poco diffuso nel mondo! Insomma bisognerebbe stare a vedere e considerare saggiamente in cosa consista veramente l'eccellenza. A onor del vero a ogni modo secondo la mentalità comune vale il detto "conta l'articolo quinto, ovvero chi ha i soldi ha vinto". Importante è fare soldi e non pensarci più, come cantava Angela Baraldi negli anni '90. Inoltre qualcuno dirà che ci sono troppi laureati in Italia (quando i dati dimostrano l'esatto contrario) o che comunque ci sono troppi laureati nelle discipline umanistiche, mentre invece le facoltà universitarie non formano tecnici. Obiezione fondamentale a questo tipo di discorso: l'Italia non eccelle nel mondo per gli ingegneri, i matematici o gli scienziati (ci sono nazioni che ci surclassano, come ho precisato prima), ma per la grande presenza di artisti, poeti, scrittori, per le bellezze naturali e artistiche, che non sappiamo valorizzare ancora. Ci sono nazioni con molte meno bellezze e molti meno capolavori che ci passano di gran lunga avanti nel turismo e soprattutto nel turismo culturale. Vengono chiamate città d'arte Firenze e Venezia, mentre molte più città italiane dovrebbero essere considerate città d'arte. Se borghi e città italiani venissero fatti veramente conoscere agli stranieri quanti alberghi, bed and breakfast, guide turistiche, bar, ristoranti, etc etc ci sarebbero in più rispetto a oggi? L'Italia potrebbe vivere quasi di rendita grazie al turismo culturale internazionale, senza inquinare e senza bisogno di industrializzarsi di più. Invece ogni governo spreca molte risorse economiche in spese militari e investe poco nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio artistico, del paesaggio, dell'ambiente. Invece vogliamo seguire l'onda. Vogliamo essere conformisti, seguire a tutti i costi gli altri Paesi più ricchi, senza renderci conto che non stiamo sfruttando adeguatamente le nostre risorse e specificità. Ma le controversie, le rivalità, gli antagonismi con il conseguente senso di superiorità, vero o presunto, non sono solo tra umanisti e persone con formazione scientifica. Che dire dei medici di condotta che non considerano i dentisti, dei medici che prendono in giro i veterinari, dei pedagoghi e dei sociologi che ce l'hanno con gli psicologi, degli psichiatri che non considerano minimamente gli psicologi, dei poeti che considerano incomprensibili e stupidi certi artisti concettuali, dei poeti che snobbano i cantautori, di certi pittori che considerano poco o niente i poeti contemporanei, dei normalisti della classe di scienze che si considerano superiori a quelli della classe di lettere e filosofia? Il rispetto reciproco spesso manca. Essendo assente il rispetto, spesso viene covato reciprocamente nell'animo di molti l'odio. Oggi la cultura è divisa più che mai e sempre più divisiva.
E dire che un tempo c'era il sapere unitario; c'erano nel Medioevo persone con una cultura enciclopedica come Dante. Nell'Umanesimo e nel Rinascimento c'erano artisti e scienziati come Leonardo da Vinci. E come non dimenticare Galileo che era un grande scienziato e secondo Calvino (lo scrive in "Lezioni americane") uno dei più grandi scrittori italiani di tutti i tempi? Nel 1600 in Toscana va ricordato anche Francesco Redi che fu medico e letterato. Bisogna ricordare che sempre nel corso del 1900 si poteva essere scientifici e umanisti allo stesso tempo; ci sono stati Primo Levi, Gadda (si veda su tutti "Meditazione milanese"), Sinisgalli (si veda il "Furor Mathematicus"). Oggi su tutto e su tutti prevale la specializzazione, anche se qualche voce inascoltata e fuori dal coro talvolta parla di interdisciplinarietà. Gli studiosi non vogliono essere tuttologi. Scelgono un ramo. Rinunciano alla globalità per eccellere in un campo. Non c'è niente di peggio al mondo d'oggi che invadere il campo di competenza altrui ed essere tacciato di essere un dilettante o un autodidatta ignorante! Ma oggi è anche molto difficile, quasi impossibile sapere tutto. In qualche ramo dello scibile si finisce sempre per essere analfabeti. Oggi è impossibile essere enciclopedici. Chi dice di sapere tutto è un illuso, un delirante o un impostore. Spesso è già difficile sapere tutto molto genericamente nel proprio ambito. Anzi mi correggo: spesso è già difficile avere un'infarinatura generale nel proprio ambito di competenza. Le persone che conoscevano, che sapevano tutto di tutto sono morte da tempo. Ci sono mille rami dello scibile; vengono pubblicati ogni anno tantissimi libri per ogni ramo del sapere. Neanche i critici letterari italiani riescono a stare dietro a tutte le novità poetiche ogni anno. È già molto difficile se non impossibile rimanere aggiornati nel proprio ambito di competenza. Figuriamoci sapere tutto!

Sull'utilità, sul senso di scrivere, sul contenuto di verità, passando per De Carlo, Tondelli, Orwell, Rilke...

apr 252023

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"Malinconie discrete che non sanno star segrete,

le piccole modeste storie mie,

che non si son mai messe addosso il nome di poesie,

amiche mie di sempre, voi sapete!

Ebbrezze conosciute già forse troppe volte:

di giorno bevo l' acqua e faccio il saggio.

Per questo solo a notte ho quattro soldi di messaggio

da urlare in faccia a chi non lo raccoglie."

("Canzone delle situazioni differenti" di Francesco Guccini)

 

 

 

 

 

 

Ha più senso oggi scrivere? Ha più senso scrivere una silloge poetica, se la leggeranno solo pochi e per di più quasi solo aspiranti e sedicenti poeti? Ha più senso oggi scrivere romanzi o racconti quando pochi vogliono leggere storie e allo stesso tempo si registra uno scadimento generale, perché chiunque ha una storia da raccontare, magari quella della sua vita, e moltissimi si sentono in diritto, quasi in dovere di scriverla, visti e considerati l'aumento della scolarizzazione, la diffusione esponenziale di programmi di videoscrittura e l'università di massa? Probabilmente nella storia dell'umanità di libri ne sono già scritti troppi; i grandi capolavori sono già stati tutti scritti; nessuno uguaglierà o supererà Omero, Dante o Shakespeare. Da giovane un mio ex amico mi disse che trovava molto interessanti gli input di un manuale di psicologia sociale che gli avevo regalato, ma mi chiese anche a cosa servisse leggere i romanzi, ad esempio come quelli di Andrea De Carlo. Io rimasi un poco interdetto e poi mi arrampicai sugli specchi, risposi che De Carlo descriveva bene la Milano degli anni '90, la sua vita frenetica, la carambola degli incontri. Allora lui efficacemente controbattè che i personaggi dei romanzi di De Carlo erano tutti liberi professionisti, artisti, intellettuali, insomma borghesi. Io risposi che comunque era anche quello uno spaccato della realtà, che De Carlo non faceva sconti a nessuno, tanto meno alla sua classe sociale di appartenenza. Risposi che anche i personaggi di Moravia, tranne poche eccezioni come la ciociara, erano altoborghesi, eppure nei suoi libri c'era molta verità, anche se solo della verità dell'umano e della Roma da lui vista e vissuta. Aggiunsi che De Carlo era un bravo scrittore, a volte commerciale, ma comunque spesso criticato per invidia, per partito preso, perché ad alcuni non andava giù che avesse avuto successo. Continuai dicendo che leggendo letteratura o comunque narrativa si migliora il nostro italiano e si arricchisce il nostro vocabolario; gli spiegai cosa volesse dire Tondelli quando scriveva che la letteratura contemporanea serve per "ritestualizzare il mondo". Gli dissi che a volte ci sono scrittori che dicono cose nuove oppure che dicono le stesse cose in modo nuovo, che hanno una sorta di sguardo obliquo sul mondo. Ma lui mi riportò subito alla realtà concreta e non soddisfatto rispose che faceva l'operaio, che per lui certi romanzi erano una perdita di tempo. Insomma con poche parole voleva dirmi che non aggiungevano niente al suo mondo interiore, alle sue conoscenze pratiche, alla decifrazione e alla lettura del mondo circostante. E me lo diceva in modo molto franco e onesto, se vogliamo crudo. Si noti bene: quello di Andrea De Carlo era solo un esempio perché non sono un detrattore né un ammiratore dello scrittore milanese (l'ho rammentato perché molti lo conoscono). Estendendo il discorso, anche le scienze umane quale apporto danno in fondo alle nostre conoscenze, se dimostrano spesso delle ovvietà oppure se scoprono delle cose controintuitive, che a molti risultano opinabili? Non a torto alcuni scettici, disfattisti e nichilisti potrebbero ritenere che la conoscenza che deriva da ogni branca dell'umanesimo sia maieutica e quasi tautologica. Però io a tal riguardo obietto questo: che una cosa sia facile da capire non significa che sia facile da scoprire, che una realtà che hanno sotto gli occhi tutti solo pochi sono in grado di rappresentarla, descriverla e in questo mondo ci vuole anche chi descriva una realtà o racconti o si inventi una storia. In definitiva per me essere semplici o dire cose semplici non significa essere facili o dire cose facili. Fatta questa premessa, risultano sempre più fuori dal mondo e deliranti quei poeti, veri o presunti, aspiranti, sedicenti o effettivi, che pensano che la loro arte sia necessaria, addirittura un dono a un pubblico inesistente, a un popolo bue, che si ostina a non capirli. Può darsi invece che loro non abbiano niente di nuovo da dire sul mondo e al mondo. Può darsi che le loro parole non abbiano più forza eversiva o meglio non abbiano più forza alcuna. Non rallegri a questo proposito il fatto che ci siano molti blog di poesia e che alcuni vengano visitati: molto spesso vengono visitati solo da aspiranti poeti, che a loro volta li visitano solo per proporre i loro versi alle redazioni di quei siti. E poi ad aprire un blog di poesia, che spesso ha vita breve, non servono grandi competenze, grande talento, grandi curriculum, grandi referenze. È ammirevole lo sforzo profuso da molti, ma non andiamo oltre e voliamo basso, rasentando terra, come cantava Bob Dylan. Infine forse non ha alcun senso scrivere, se non si è pagati. Quelli capaci e/o furbi scrivono canzoni, per la televisione o per il cinema. Non ha alcun senso spedire quotidianamente il proprio messaggio nella bottiglia nel mare magnum del web. Gli italiani leggono solo libri di intrattenimento oppure testate giornalistiche online per aggiornarsi gratuitamente. A onor del vero non comprano neanche più quotidiani. E allora c'è poco da autoesaltarsi o da vantarsi per un libro pubblicato a pagamento o comunque presso una piccola casa editrice. Non tutti gli scrittori e non tutti i poeti hanno il coraggio e la capacità di trovare la verità dentro di sé e nel mondo circostante, a volte non la cercano neppure, e pochi lettori hanno la capacità e la voglia di raccoglierla questa verità. Chi vuole scrivere dovrebbe farlo, nonostante tutto, con un minimo di pragmatismo, di umiltà, a capo chino, soprattutto scribacchiando le sue cose nel web, quasi esclusivamente nel web. E non dovrebbe scrivere per vanità, per profitto o per personal branding. Con la letteratura è molto difficile campare. Campare facendo gli scrittori è quasi un'utopia. Non si dovrebbe scrivere per trovare un proprio posto nella società: si finirebbe disillusi, disperati e/o sul lastrico. Consiglio a tutti gli aspiranti o sedicenti scriventi che hanno troppe albagie di leggere o rileggere sempre "Fiorirà l'aspidistra" di Orwell e "Lettere a un giovane poeta" di Rilke. In quest'ultima opera il grande poeta scriveva che per scrivere e per trovare le vere ragioni, le vere motivazioni della nostra scrittura bisogna innanzitutto guardare dentro di noi. Questa è la più grande verità che sia stata scritta per coloro che vogliono fare arte. 

 

Due parole su arte, vita, piccole meschinità...

apr 122023

 

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Scriveva Bukowski che nessun uomo è forte come le sue idee. Ho appena passato mezzo secolo e conosco un minimo la natura umana per sapere quanto avesse ragione. Da giovani molti hanno grandi ideali, che puntualmente tradiscono con azioni riprovevoli. È così facile cadere e/o ricadere. Non parlo moralisticamente di peccati o vizi (non pensiamo solo al sesso, che è poca cosa, un peccato veniale, se non viene fatto male ad altri), ma di errori in senso lato nella vita e di come è facile ricadere nei soliti errori, insomma essere recidivi. Ho conosciuto persone che da giovani volevano condurre una vita irreprensibile e dopo hanno sconfessato totalmente i loro ideali. Vale sempre per tutti il detto: "Soldi e santità, la metà della metà". Ma conosco anche un poco la comunità poetica e a volte mi chiedo quanto sia difficile per un artista non solo non tradire i suoi valori, ma vivere all'altezza delle sue parole. Spesso anche i poeti, i sedicenti e aspiranti tali si rovinano il fegato in piccolezze (meschinità, grettezza d'animo, invidia, gelosia, frustrazione, complessi di superiorità dietro a cui si celano complessi di inferiorità come insegna Adler, vanagloria, presunzione, smania di grandezza, egocentrismo, etc etc). Insomma sembra una cosa banale, però non sempre c'è correttezza nei rapporti umani (dallo scambio di favori, al compromesso sessuale, alla recensione pretesa come atto dovuto, alle alleanze interessate, all'arruffianamento, alla polemica sterile per ottenere visibilità). Che poi non si sa bene dove inizi e dove finisca la comunità poetica, né si sanno con certezza i criteri con cui si stabilisce che uno ne faccia parte o meno! Si ritorna al solito binomio arte e vita, letteratura e vita. Come faceva dire D'Annunzio ad Andrea Sperelli: «Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte». Più recentemente anche il sociologo Bauman ha scritto che bisogna fare della nostra vita un'opera d'arte e lo scriveva senza alcuna traccia di superomismo. Ma spesso in passato si voleva che l'artista desse il buon esempio con la sua condotta di vita, che fosse di specchiata moralità. Se questa regola fosse valida per tutti allora avrebbero ragione quelli del politically correct e anche quelli della cancel culture a rimuovere opere e artisti discutibili. Ma ci sono molti casi limite. Lo stesso D'Annunzio e molti futuristi non erano forse dei guerrafondai? Caravaggio non era forse un assassino? Althusser non strangolò forse la moglie che voleva lasciarlo? Dovremmo cancellarli, rimuoverli? E la lista potrebbe continuare. Senza andare troppo indietro negli anni e limitandosi al mondo dello spettacolo italiano basta ricordare il presunto scandalo di Mina, che era incinta e non sposata. C'è vita nell'arte e arte nella vita. L'arte a onor del vero si dovrebbe occupare della vita. L'arte dovrebbe imitare la vita, riprodurla, tradurla, trasfigurarla, invece del contrario. Il grande Carlo Bo scrisse che la letteratura dovesse essere come la vita. Ma era giovane e non ne poteva più degli intellettuali succubi del fascismo. All'epoca si doveva prendere le distanze da certi compromessi e si doveva indicare una nuova strada maestra. Alcuni decenni più tardi lo stesso Bo scrisse invece: «Il critico deve tenere conto della vita dello scrittore oppure deve limitare la sua indagine soltanto ed esclusivamente all'opera? La questione è antica: per il maestro di tutti, Sainte Beuve, la conoscenza della vita era più che utile, insuperabile. Per altri, a cominciare da Croce e da Proust, se ne poteva fare a meno, anzi era bene stringere lo studio alla valutazione pura dell'opera». La critica biografica purtroppo sopravvaluta la vita e considera poco le opere di un artista. La critica biografica pone troppo l'accento sulla sessualità di un artista e alimenta la pruderie, se non addirittura cerca lo scandalo. Da Freud in poi questo filone della critica spiega le opere in base alla sessualità di uno scrittore, un poeta, un pittore. Ma è davvero necessario? Un poeta dovrebbe essere considerato soprattutto per la sua arte e invece spesso si finisce per ricordarlo solo per i dettagli scabrosi o anche solo piccanti della sua vita. A mio avviso la morale sessuale, a meno che uno non sia uno stupratore o un pedofilo, dovrebbe passare in secondo piano. Certamente si dovrebbe guardare più all'etica e meno alla moralità sessuale in senso stretto. C'è una scuola di pensiero, nata dai poeti maledetti, che basa tutto sulla distinzione tra borghese e artista: all'artista sono concessi certi eccessi, però perde la rispettabilità borghese, a meno che non si penta e ritorni nell'ovile come una pecorella smarrita. Un pregio della comunità poetica è che Pasolini è stato per nostra fortuna uno scandalo vivente e chi veniva dopo ha imparato a non scandalizzarsi mai. Almeno i poeti più avveduti e meno cretini si salvano così dal perbenismo moralistico, tanto presente nella mentalità comune. Vecchioni comunque in una canzone dedicata alla Merini scrive: "Basta un niente per essere felici. Basta vivere come le cose che dici". Ma quanti ci riescono veramente? Quasi nessun poeta, se conosciuto realmente, è all'altezza dei suoi versi, che sono la parte più pura di sé; il critico dovrebbe considerare quanta purezza c'è a suo avviso nella parte più pura di un poeta, ovvero in un'opera. La vita di un artista dovrebbe essere considerata spesso come materiale spurio, grezzo, addirittura in molti casi irrilevante. Invece si è giunti spesso all'eccesso opposto, ovvero a un eccessivo psicologismo, a considerare un'opera come un test proiettivo di personalità. Si ritorna alla celebre frase hegeliana che nessun eroe è tale per il suo cameriere. Oggi più che la vita di un autore interessa il personaggio che riesce a far credere di essere. Oggi uno scrittore deve crearsi un personaggio, diventare riconoscibile, adirittura inconfondibile più con la sua figura che con il suo stile. L'importante a ogni modo è salvare la faccia e le forme, dare un'ottima impressione di sé, fare una bella figura perché anche i poeti, veri o presunti, al mondo d'oggi vivono di apparenza e immagine. E allora avremo il poeta che si vanta delle sue conquiste femminili, dei suoi premi, dei suoi consensi, delle sue pubblicazioni. Avremo poeti che sminuiscono altri poeti per affermare sé stessi, che dicono di essere invidiati da tizio, che dicono che caio è un pazzo o che sempronio è un poveretto. Oppure avremo delle poetesse che scimmiottano le veline perché oggi per essere, per esistere, per essere accettati bisogna fare così e l'apparire diventa non più il mezzo ma il fine. Salvo poi di meschinità in meschinità, di snobismo in snobismo, di presunta selettività in presunta selettività, di pretesa esclusività in pretesa esclusività, di malcelato disprezzo in malcelato disprezzo ritrovarsi a non vendere i propri capolavori e maledire il popolo bue che non sa apprezzare cotanto talento e tanta originalità!

 

Ancora una breve riflessione sulla poesia contemporanea, troppo cerebrale...

apr 012023

 

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Prima arrivano le immagini e la musica, poi le parole scritte. Così forse in una frase si potrebbe riassumere quello che sta accadendo alla poesia contemporanea italiana. Ma è solo questo? Il celebre Vittorio Sgarbi nella sua prima apparizione al Maurizio Costanzo Show dichiarò che la stragrande maggioranza dei pittori non erano intellettuali. Disse che lui di solito spiegava a loro il significato dei quadri. Era come se la pittura trascendesse gli artisti. Era come se fossero ignari di quello che stavano facendo. Non so se sia vero. Lo prendo per buono, vista e considerata la grandissima competenza in materia di Sgarbi. Erano gli anni Ottanta. Forse oggi le cose sono cambiate, dato che ci sono nell'arte contemporanea molti artisti concettuali e molti registi che fanno installazioni. Ma ancora oggi possono esistere pittori naif, pittori per dirla alla buona tutti inconscio. La stessa cosa non può avvenire nella poesia contemporanea, dove ci deve essere una sintesi tra conscio e inconscio e dove talvolta si cerca di rimuovere l'inconscio. Nell'arte contemporanea l'intellettualità è lasciata in modo preponderante ai critici d'arte. Diciamo che un pittore o uno scultore possono conoscere e metabolizzare tutta l'arte passata, tutta la tradizione in modo inconscio, mentre i poeti devono apprendere e rielaborare soprattutto consciamente. La grande poesia del Novecento, ad iniziare da Eliot e Pound per finire con il gruppo 63, è stata tutta intellettuale. Difficile stabilire i motivi per cui la poesia è più mediata dalla ragione, dalla lucidità, dalla coscienza. Oserei affermare che conti di più la poetica della poesia. Forse è solo questione di Kunstvollen, ma è difficile fare il processo alle intenzioni, alla volontà, dato che esiste sempre l'eterogeneità dei fini anche nell'arte. Ho scritto all'inizio che le immagini arrivano prima, forse perché siamo nella cosiddetta civiltà delle immagini e quindi queste acquistano priorità assoluta, forse invece perché la cosiddetta "emozione retinica" di un quadro o di una scultura arrivano prima, colpiscono di più il fruitore. Forse la fruizione di un quadro o di una scultura è più diretta, più immediata, più accessibile a tutti. Anche se un fruitore ignorante di un quadro non può spiegare esattamente quello che prova a vederlo, comunque quell'opera gli suscita una emozione, gli smuove qualcosa dentro. La poesia contemporanea invece non provoca più shock, non disturba i lettori, né li incanta o li suggestiona più. Questo probabilmente perché il pubblico non è educato al gusto, non riesce a cogliere più la poesia autentica, ma solo i suoi surrogati. Oppure forse questo può accadere anche nell'arte contemporanea, dove un pubblicitario come Oliviero Toscani e un artista come Cattelan spesso sembrano scambiarsi i ruoli? Chissà?!? Ai poeti è chiesto di essere prima, durante e dopo l'atto della creazione degli intellettuali lucidi e sorvegliati. Finisce che non si lasciano più andare alle emozioni e così i più non emozionano gli altri. Sembra quasi che ci sia una regola scritta nella poesia contemporanea per cui non bisogna emozionarsi né emozionare. Come sembra un'altra regola non scritta quella di complicare le cose, scrivere in modo difficile e colmo di paroloni per apparire più intelligenti. Disse Picasso che tutti i bambini sono degli artisti nati, il problema è restarlo da grandi. I grandi pittori si sono saputi riscoprire bambini. Ciò non succede a buona parte dei poeti, troppo impostati, troppo assennati. I poeti nel corso del Novecento, parlo di quelli passati alla storia, sono forse troppo cerebrali. Nella lirica contemporanea la maggioranza degli stessi poeti a loro volta vestono i panni anche dei critici o dei saggisti: pontificano, spiegano, giudicano, ma non emozionano più il pubblico. Li ho definiti troppo cerebrali, come un tempo si definivano quei mariti, oggi etichettati come cuckold, che amavano guardare la moglie fare sesso con amanti occasionali. È come se la poesia avesse perso il senso delle cose, la vera dimensione dell'essere. La situazione in cui si vengono a trovare i poeti oggi è innaturale. Hanno perso il contatto con il pubblico o meglio l'unico pubblico che esiste è quello della comunità poetica, in cui tutti scrivono versi, indipendentemente dal fatto che siano aspiranti, sedicenti o poeti riconosciuti. Un altro problema più basilare è che spesso tra contemporanei e connazionali neanche ci si legge. Molti scrivono e pochi leggono. Ancor meno sono quelli che leggono, hanno gli strumenti per valutare e poi giudicano obiettivamente. Tutto ciò è asfittico, mancano spiragli, l'orizzonte è angusto. La poesia non ha pubblico né mercato. Questo significa che c'è assoluta libertà interiore e di azione (i più però non agiscono in libertà perché hanno paura di rovinarsi la reputazione), ma che allo stesso tempo non essendo mercificabile in questa società consumistica non ha alcun valore o quasi. Eppure oggi molte poetesse italiane e molti poeti italiani varrebbe la pena di leggerli e anche di rileggerli. Sicuramente c'è anche del buono, anche se gli italiani sembrano non accorgersene minimamente. 

 

Ispirazione, scrittura e salvezza...

mar 252023

 

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C'è chi scrive come gli dicono di dover scrivere. Ma c'è anche chi non si discosta dai suoi maestri, c'è chi volontariamente li imita pedantemente, c'è chi diventa talvolta senza volerlo un epigono, un manierista. Ci sono teorie della letteratura e scuole di scrittura che impongono stili e canoni. In fondo bisogna saper rispettare il cosiddetto spirito dei tempi. Per anni ad esempio sono andate per la maggiore la Neoavanguardia, l'autonomia del significante, la letteratura come menzogna. C'è chi scrive come vuole scrivere. È una libertà interiore che dovrebbe rivendicare ogni autore, al di là delle mode. È un modo inequivocabile per essere veramente sé stessi. Significa scrivere come ci piace e quello che ci piace, scegliendo deliberatamente modalità, stile e tematiche. C'è chi si accontenta di scrivere come sa. Alcuni finiscono perciò per essere troppo schematici e ripetitivi. Un poco come un bambino che disegna sempre un albero perché sa fare bene solo quello. Ciò nonostante ci sono sempre margini di miglioramento in ognuno di noi. Non poniamo limiti all'acculturazione, né alla plasticità neuronale. Tutti abbiamo dei limiti e delle possibilità, ma è difficile stabilire quali. Alcuni hanno delle potenzialità inespresse che non riescono a tirar fuori, a concretizzare. I test attitudinali possono dire ben poco sulla creatività umana, che rimane un mistero inenarrabile. C'è chi giunge ad un compromesso tra queste tre istanze (dovere, volere, potere scrivere). Bisogna sempre scegliere cosa scrivere e come scrivere. Ma siamo davvero sicuri di scegliere? E se fossero invece le parole, le idee, le immagini a scegliere noi? Scrivere è sempre un'attesa e al contempo una scoperta, una sorpresa. Non sai mai cosa può uscire fuori. Viene da chiedersi quanto ci sia di cosciente, razionale e quanto invece di inconscio. Anche in un ambito apparentemente razionale e logico come il giornalismo la scelta di scrivere di un argomento piuttosto che un altro, la selezione delle informazioni, la formazione delle opinioni spesso derivano da attività e aspettative inconsce. In fondo aveva ragione Popper quando diceva ai suoi allievi che osservare non è un verbo intransitivo (lui disse: "osservate" e loro gli chiesero "cosa?") e si osserva soprattutto in base all'esperienza pregressa. C'è quindi di mezzo in ogni scrittura che si rispetti l'inconscio collettivo, individuale, cognitivo, istintuale. C'è poi chi sostiene come Lukacs che l'arte debba rispecchiare la realtà. C'è chi sostiene che debba rovesciare la prospettiva ordinaria con lo straniamento. C'è chi ritiene che l'arte debba trasfigurare la realtà e che quindi una componente immaginativa, soggettiva, se vogliamo ludica e carnevalesca, ci debba essere, debba essere messa in conto. C'è chi pensa che l'arte debba creare un altro mondo, seppur fittizio. Scriveva Heidegger che l'arte è la messa in opera della verità e che la vera creazione artistica debba aprire a nuovi mondi. È sempre difficile scegliere tra oggetto e soggetto, tra esterno e interno. Esplorando la realtà ci si imbatte nell'inconoscibilità della cosa in sé, ma scavando dentro ci si accorge dell'inconoscibilità dell'uomo in sé (così potremmo definire l'insondabilità dell'animo umano). Ma poi ancora una volta siamo noi a scegliere io o mondo oppure sono la nostra personalità di base, le nostre caratteristiche intrinseche, le nostre qualità interiori? Ogni volta che si parla di creazione il mistero si infittisce, spunta l'enigma. Da giovane pensavo che ci fossero due tipi di persone che avessero toccato Dio: gli artisti ispirati da Dio, che testimoniavano la sua esistenza con delle creazioni, e le persone che ricevevano le stimmate e quindi una parte della sofferenza divina. Ma siamo sicuri che l'arte metta in comunione con Dio? A seconda dei casi può tuttavia avvicinarci, soprattutto quando proviamo stupore, rimaniamo affascinati e ammaliati dalla bravura di certi artisti. Qualche volta ci chiediamo se quella straordinario talento possa essere solo frutto dell'ingegno, del lavoro, dell'arbitrio umano. Così scrive Borges: "Una volta chiesero a Bernard Shaw se credeva che lo Spirito Santo avesse scritto la Bibbia. E rispose: «Ogni libro che valga la pena di essere riletto è stato scritto dallo Spirito». Ossia, un libro deve spingersi oltre le intenzioni del suo stesso autore. L’intenzione dell’autore è una povera cosa umana, fallibile, ma nel libro deve esserci di più". Però in fondo l'ingegno, la possibilità di potenziarlo ed esercitare sono a loro volta sempre sottomessi al volere di Dio. Quindi anche se l'arte non fosse frutto di ispirazione divina sarebbe se non opera di Dio quantomeno concessione e volontà di Dio. Viene da chiedersi se ci sia Qualcuno che ispira certi artisti. Da dove provengono le parole, i pensieri, le immagini? E se il subconscio fosse divino? Esiste l'ispirazione? Ogni cosa può essere fonte di ispirazione? Può arrivare dovunque, in qualsiasi momento, a chiunque? Esistono delle persone ispirate o quelle ritenute tali in fondo si sono prese la briga o hanno avuto il lusso di restare in ascolto di sé stesse? Naturalmente dietro questi interrogativi legittimi ci può essere sempre qualcuno che abusa della credulità popolare e si arroga il diritto di parlare in nome di Dio. Ecco quindi spuntare i santoni, gli illuminati, i nuovi profeti, gli unti del Signore. Eppure non c'è niente di oggettivo. Nessun santo sa con certezza se ha ricevuto veramente un segno divino o se ciò è una allucinazione. Dio o chi per lui non dà certezze assolute a questo mondo. Tutto deve essere sempre verificato, messo in discussione. Chi non si mette in discussione è perduto. Nessuno psichiatra può oggettivamente trovare un discrimine tra santità e follia. A questo riguardo consiglio di leggere "Benedetta follia. Dai padri del deserto ai mistici di oggi" di Andreoli. Solo la Chiesa dopo uno studio attento delle opere e delle testimonianze fatte in vita può beatificare. Inoltre affermare che la propria ispirazione sia divina molto spesso è un grande atto di presunzione oltre che di ingenuità. E se poi non fosse un tratto distintivo di certi artisti, ma se tutti gli uomini fossero ispirati da Dio e se si trattasse solo di essere disposti ad accogliere? Allo stesso tempo penso a tutti gli artisti che hanno trasgredito i comandamenti, hanno commesso peccati mortali e non dovrebbero essersi salvati. Eppure sono artisti maledetti che hanno avuto gloria postuma. Mi chiedo se non possa esserci anche una arte ispirata dal demonio. Esiste forse un'arte che fa bene e una che fa male? Non dimentichiamoci che un tempo hanno messo i libri all'indice, il nazismo ha bruciato dei libri, nel corso della storia ci sono state troppe censure. Pretendere di stabilire quali opere sono da condannare e quali no è rischioso. Non si può fare come Hitler che considerava arte degenerata quella che si opponeva alla sua dittatura. Mi chiedo se con l'arte si può raggiungere la salvezza ultraterrena, se si possa espiare con essa le colpe e i peccati. Hegel sosteneva che la lettura del giornale il mattino fosse la preghiera laica dell'uomo contemporaneo. Io mi chiedo se anche la creazione e la fruizione artistiche possano essere intese come preghiere laiche. Forse chi è veramente religioso e fedele non chiede lumi all'arte, ma talvolta certi artisti dimostrano tutta la loro religiosità nelle loro opere artistiche. Inoltre mi chiedo anche quanto valga acculturarsi ed esprimersi artisticamente. Mi chiedo non solo se sia necessario per salvarsi l'anima, ma anche se sia necessario al mondo reale e concreto. Cosa può fare l'arte per la giustizia di questo mondo, per combattere la povertà? Forse niente, realisticamente parlando. E allora vale la pena sacrificare la propria vita e sé stessi in nome dell'arte? Quanto un artista è disposto a dare di sé in nome dell'arte? Qualcuno potrebbe ironizzare dicendo: "non libri, non opere d'arte, ma opere di bene".

È primavera. Svegliatevi bambine...

mar 242023

 

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In fondo che mi manca? Un tetto sotto cui dormire ce l'ho. Così come ho 4 mura che mi riscaldano d'inverno e mi tengono al fresco d'estate. Ho da mangiare e da bere. Ho un bagno in cui cacare. Ho i miei genitori e mia sorella. Ho un cane che mi fa i complimenti. Ho una zona molto tranquilla in cui camminare. Ho un bar in cui prendere i caffè e in cui conosco qualcuno per fare due chiacchiere. Ho una biblioteca comunale in cui prendere dei bei libri usati a 1 euro, mezzo euro o 2 euro. Ho una camerina tutta mia in cui posso leggere, raccogliermi, meditare sulla vita e sul mondo. Ho un posticino in cui mangiare una pizza con il mio migliore amico. In fondo sono fortunato perché altrove si muore di fame o di guerra. E inoltre godo di buona salute. Che me ne importa del sesso, dell'amore? Oh certo…tutto l'amore che ho provato e che non è stato ricambiato!?! Oh certo l'imperativo sociale qui è avere una scopamica! Oh certo ora è primavera e quei due ragazzi davanti a me si scambiano effusioni e io sono solo. No. Non posso considerare solo questo. Certamente ho dei momenti di crisi ogni tanto, ma sono più le cose che ho di quelle che non ho ed è a queste che devo guardare, non mi devo crucciare troppo, fissare troppo su ciò che non ho avuto, su ciò che non ho. Ci sono cose che la letteratura e le scienze umane non sempre ti insegnano. Ci sono cose che a scuola non ti insegnano. Puoi solo impararle dalla vita vera. E infine nessuno è solo a primavera. Siamo tutti partecipi del creato. E poi fuori è primavera e c'è il cielo sgombro, il tepore del sole, la vita, anche per chi non ha un amore.

La poesia di Sergio Guttilla sui migranti...

mar 082023

 

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Se dovessi consigliare una poesia sui migranti, dovrei per forza di cose parlarvi di “Home” della giovane e bravissima autrice somala Warsan Shire. Ma vorrei rimanere in Italia e a dire il vero tra i poeti riconosciuti nostrani non c'è l'imbarazzo della scelta, anzi non c'è possibilità di scelta, visto e considerato che trovo scialba e scontata, insomma di maniera, la lirica rinomata di Erri De Luca. Tra tutti gli aspiranti, sedicenti, effettivi poeti nostrani molti si sono cimentati nell'impresa di scrivere poesie sui migranti, che compiono viaggi della speranza, ammassati in barconi. E a onor del vero nel 99,9% dei casi non hanno saputo andare oltre la retorica, il sentimentalismo, il pietismo, il buonismo imperanti. Insomma luoghi comuni e basta, senza se e senza ma. Pose e modi di atteggiarsi per farsi belli agli occhi del mondo, per rientrare nel novero del politicamente e dell'eticamente corretto. Ammiccamenti al lettore e niente di più. Anzi dovrebbe essere severamente proibito scrivere poesie su temi così scottanti e delicati. Che poi si sa come sono sensibili oppure sciocchi i poeti nostrani, aspiranti e non, che appena c'è un naufragio oppure un terremoto sono subito pronti a verseggiare per la tragedia che ha appena colpito i loro animi nobili! No. Bisognerebbe mettere una legge in cui non si potrebbe speculare su tragedie nazionali o internazionali, scrivendo poesie ad hoc. Inoltre non è assolutamente detto che certe poesie a tema riescano a sensibilizzare le persone. Ma a volte osservo sia tutta una gara di buoni sentimenti. No. Un poeta con un minimo di buon senso e di dirittura morale dovrebbe evitare di scrivere su certi argomenti, su cui sarebbe meglio soprassedere. Sarebbe meglio il silenzio, la pagina bianca, il non detto. A dire il vero di poesie italiane sui migranti e le loro tragedie è pieno il web. Vanno di moda. Il primo premio in qualche concorso letterario è garantito, anche se il linguaggio è desueto, arcaico, stantio. Ma c'è un'eccezione: da tanta mediocrità si salva a mio avviso Sergio Guttilla, Capo Scout Agesci nel gruppo Bolognetta1, che ogni tanto scrive poesie e canzoni, suonicchia chitarra e pianoforte. Così afferma lui. Con la sua freschezza e genuinità riesce in questa sua lirica a trascendere il paludamento di tanta poesia ufficiale e non. Riesce a dirci qualcosa di nuovo in modo semplice e chiaro. Guttilla non è nelle sabbie mobili, non è nelle catacombe come alcuni suoi colleghi poeti più illustri. E noi capiamo che di queste sue parole avevamo bisogno perché sono parole veramente "migratorie", veramente spiazzanti, che ci fanno vedere quel tragico spaccato della realtà in modo nuovo. Dirò di più: questi suoi versi così originali capovolgono la visione ottusa di tanti benpensanti, che pensano di avere la verità in tasca, che dicono che i migranti non dovrebbero partire, che i flussi migratori andrebbero a tutti i costi regolamentati, che la colpa delle tragedie in mare è esclusivamente degli scafisti, etc etc. Qualche maligno potrebbe dire che questa poesia è un pezzo facile, che non è letteraria, che non ha dignità letteraria, che è enfatica, che stuzzica troppo il cuore, etc, etc. No. Sono tutte critiche pretestuose. Questa lirica è bella e veramente ispirata. Non è colpa di nessuno se a volte l'ispirazione va a trovare coloro che non sono reputati dei "poeti laureati" e che si dimostrano a onor del vero molto più poeti dei poeti ufficiali. Non è colpa di nessuno se questi versi sono veramente umani e se l'autore è veramente umano, a differenza di tanti piccoli geni incompresi, che fingono di sprizzare umanità da tutti i pori. Questa lirica è da antologia senza ombra di dubbio. Diffondete anche voi questi versi, citando l'autore, perché sia queste parole che il poeta in questione meritano di essere noti tra tanti impostori delle patrie lettere, tra tanti facitori di versi ormai patentati e celebrati. Sergio Guttilla riesce a emozionare e riesce nello straniamento; coglie nel segno, a differenza di tanti letterati nostrani, professionisti dell'intellettualismo radical chic. Questa lirica ci dimostra una cosa: che per scrivere di qualcosa bisogna aver visto una realtà da vicino in presa diretta. Ma ci dimostra anche che per scrivere di argomenti così sensibili bisogna essere non conformisti ma con un animo puro e uno sguardo lucido sul mondo. Ecco la poesia, che sta diventando meritatamente virale nel web:

 


Sergio Guttilla

 


29 giugno 2018
Dedicata a i 100 morti in mare, morti affogati
in attesa di una nave che li salvasse.

"Se fosse tuo figlio
riempiresti il mare di navi
di qualsiasi bandiera.

Vorresti che tutte insieme
a milioni
facessero da ponte
per farlo passare.

Premuroso,
non lo lasceresti mai da solo
faresti ombra
per non far bruciare i suoi occhi,
lo copriresti
per non farlo bagnare
dagli schizzi d’acqua salata.

Se fosse tuo figlio ti getteresti in mare,
uccideresti il pescatore che non presta la barca,
urleresti per chiedere aiuto,
busseresti alle porte dei governi
per rivendicare la vita.

Se fosse tuo figlio oggi saresti a lutto,
odieresti il mondo, odieresti i porti
pieni di navi attraccate.
Odieresti chi le tiene ferme e lontane
Da chi, nel frattempo
sostituisce le urla
Con acqua di mare.

Se fosse tuo figlio li chiameresti
vigliacchi disumani, gli sputeresti addosso.
Dovrebbero fermarti, tenerti, bloccarti
vorresti spaccargli la faccia,
annegarli tutti nello stesso mare.

Ma stai tranquillo, nella tua tiepida casa
non è tuo figlio, non è tuo figlio.

Puoi dormire tranquillo
E sopratutto sicuro.
Non è tuo figlio.

È solo un figlio dell’umanità perduta,
dell’umanità sporca, che non fa rumore.

Non è tuo figlio, non è tuo figlio.
Dormi tranquillo, certamente
non è il tuo."

 

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