Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Due parole di numero sul dolore...

lug 052023

 

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Lo scriveva già Schopenhauer: "La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia". E Leopardi scriveva che la morte "ogni gran dolore, ogni gran male annulla". Una delle più importanti domande che si fa la filosofia dalla notte dei tempi è la seguente: "Perché l'uomo soffre?"
La prima domanda della teodicea (cosa si può dire di Dio) è la seguente: "perché, se esiste Dio, esiste anche il male?", cioè ci si chiede quale sia il senso ultimo, escatologico, finale del male. In medicina ci sono state diverse teorie del dolore: dal localizzazionismo, alla teoria del cancello (che, nonostante alcune lacune, aveva il merito di dare la priorità della percezione del dolore al midollo spinale e al sistema nervoso centrale), ad altre più recenti. Si usa distinguere il dolore fisico da quello esistenziale. Ogni volta che proviamo dolore ci chiediamo: "perché proprio a me?"
Spesso non riusciamo a trovare un senso, una ragione. Consideriamo quasi sempre il nostro dolore di primo acchito un'ingiustizia o una cosa assurda, che sfugge alla nostra comprensione. Ma dovremmo chiederci anche "perché proprio a me?" quando ci toccano delle cose belle nella vita.
Noi esistiamo anche per assorbire, comprendere il dolore altrui. Gli altri sono importanti per noi non solo perché ci possono aiutare a ridurre o a eliminare il nostro dolore, ma perché con gli altri possiamo condividerlo e gli altri possono capirlo, rincuorandoci, sollevandoci. Stare in società significa anche alleviare le pene altrui e farsi alleviare le pene proprie. In una società decente il dolore si rispetta e si condivide. In una società un minimo umana la partecipazione al dolore supera l'indifferenza generale. C'è chi sostiene che esista il dolore perché esiste il male. Eppure si cerca sempre di trovare un senso al dolore, una sua utilità, un insegnamento e mille risvolti positivi. Insomma non tutto viene per nuocere. Eppure molto spesso quando soffriamo ci chiediamo che ce ne facciamo del nostro dolore, in definitiva a quale pro? La risposta non sempre è facile e immediata, spesso non è portata di mano. Il fatto che il dolore non venga distribuito equamente lo consideriamo una grande ingiustizia e viene subito da pensare che a molte brave persone vengono date sofferenze atroci, mentre noti farabutti se la spassano e si godono una bella, lunga vita. Insomma la constatazione che non è uguale per tutti è sempre molto amara, a volte rabbiosa. I moralisti e la Chiesa, stessa secoli fa, pensavano che la peste fosse una punizione divina. Eppure la Bibbia con la storia di Giobbe ci avverte che anche gli uomini giusti possono avere tutte le sfortune e le afflizioni di questo mondo. La stessa Chiesa ha considerato spesso più tardi il dolore come un'espiazione su questa Terra dei propri peccati. Questa nostra società è edonista, ovvero c'è una ricerca smodata di ricerca del piacere, ed è anche biopolitica, come ci insegna Foucault, ovvero cerca di eliminare il dolore e rimandare sempre più in là la morte di ognuno. Eppure c'è in ognuno di noi un lato sadomasochistico, più o meno pronunciato, che ci fa provare piacere a causare dolore agli altri e a noi stessi (si pensi ai comportamenti autodistruttivi, agli atti autolesionistici, ai cattivi stili di vita). A onor del vero nessuno sa con certezza se il dolore è maestro di vita. Secondo la psicologia consideriamo il dolore una fonte inesauribile di insegnamento per ridurre la nostra dissonanza cognitiva. Eschilo e i tragici greci erano dell'idea che il dolore aumentasse la conoscenza, la consapevolezza esistenziale. Cristianamente parlando il dolore è una prova a cui ci sottopone Dio e che ci fa crescere e maturare. A leggere attentamente Epicuro ci accorgiamo che riteneva già l'assenza di dolore un piacere. A conti fatti potremmo pensare che, una volta passato un dolore, non provarlo più è già un grande piacere, un grande sollievo, un'enorme fortuna. Ma purtroppo l'uomo, ogni uomo, dà per scontato il fatto di stare bene, non si rende conto che l'assenza di dolore è una manna dal cielo, a meno che non incappi nel dolore fisico, esistenziale, nel lutto, nella malattia, in un trauma, in una perdita affettiva. Nel dolore si scoprono le cose veramente importanti e prioritarie della vita, si eliminano quelle superflue: il dolore probabilmente ci rende davvero più umani, più saggi, più veri. Il dolore è il più efficace rasoio di Occam: ci fa vedere gli altri sotto una luce nuova, ci fa tagliare molti rami secchi inutili della nostra vita. Per Leopardi il patimento,  ovvero soprattutto il dolore fisico, rende l'uomo più umano e meno insensibile ai problemi altrui. L'uomo però non accetta il dolore, soprattutto il proprio, perché siamo tutti biologicamente e ontologicamente molto egoisti nel nostro intimo. E perché? Perché, come ha scoperto la psicanalisi il dolore è l'anticamera della morte e l'uomo inconsciamente si ritiene immortale. Il nostro inconscio si considera immortale e questo è il motivo per cui ci svegliamo di soprassalto ogni volta che sogniamo di morire. Noi inconsciamente non accettiamo il dolore non solo per un fatto di sopportazione e di resistenza fisica e/o psicologica ma perché non accettiamo la nostra morte. Da giovani il nostro inconscio ha il predominio sulla rassegnazione della ragionevolezza: si considera la morte un evento talmente improbabile da pensarci immortali. Emblematico è il capolavoro "La morte di Ivan Il'ič" di Tolstoj. Il protagonista, il sillogismo "Cesare è un uomo. Tutti gli uomini sono mortali. Cesare è mortale" poteva accettarlo e capirlo perfettamente ma non riferito a sé stesso. Per Heidegger l'esistenza dell'uomo contemporaneo è inautentica, perché si perde nella curiosità, nell'equivoco, nella chiacchiera, nel "si dice". Ecco allora che per il filosofo tedesco l'unico modo per essere autentici è essere per la morte, cioè pensare alla morte come "possibilità di non esserci". Eppure l'uomo secondo Pascal trova qualsiasi escamotage, qualsiasi divertissement per non pensare alla morte. Rimuovere il dolore e la morte fanno parte della natura umana, perché fanno molta paura sotto ogni punto di vista. Vivere in superficie, con grande leggerezza ci viene così spontaneo e immediato. Oggi molto più che in passato. L'ars moriendi di conseguenza è ormai oggi scomparsa.

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