Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Brevi annotazioni su fatti, parole, poesia, posteri...

ago 042022

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 Nietzsche e il relativismo dei fatti:

E’ facile fraintendere la dottrina di Nietzsche perché la sua filosofia non è sistematica; è una filosofia delle contraddizioni e delle illuminazioni grazie all’utilizzo dell’aforisma.

Lukacs ha sempre considerato Nietzsche un distruttore della ragione, ma forse il filosofo tedesco dovrebbe essere considerato soprattutto un potenziale distruttore della metafisica platonico-cristiana. Per il filosofo tedesco nel cristianesimo è insito il nichilismo passivo; il cristianesimo è mortificazione del corpo, religione e morale dei vinti e dei deboli, risentimento dello schiavo nei confronti del signore, proiezione verso un altrove che riscatta la miserie del mondo terreno. Questo naturalmente è il suo punto di vista.

Nietzsche sceglie l’eterno ritorno per non cadere in un regresso all’infinito. Altrimenti dietro un velo ci sarebbe sempre un altro velo, dietro un fondo un altro fondo, dietro una maschera un’altra maschera.

Per il filosofo tedesco il tempo è circolare. Il divenire non è una linea retta, che prosegue all’infinito. I quanta d’energia per quanto illimitati per la mente umana, non sono infiniti. Di conseguenza ogni evento è destinato a ripetersi, a ripresentarsi. Ecco l’eterno ritorno.

La sua filosofia oltrepassa ciò che comunemente viene considerato nichilismo con l’amor fati e la volontà di potenza.

Il superuomo è colui che ha capito e accettato la dottrina dell’eterno ritorno. La genealogia della morale non è altro che la scoperta del meccanismo colpa-pena-punizione, meccanismo con cui la morale controlla totalmente le coscienze umane.

Nietzsche è un nichilista attivo, distrugge perché qualcuno in futuro ricrei. Nietzsche inizia dall’analisi e dal pessimismo di Schopenhauer, ma laddove quest’ultimo sceglie come rimedio l’ascetismo, Nietzsche opta invece per la volontà di potenza.

Le considerazioni di Nietzsche sono inattuali perché si volgono alla Grecia antica e denunciano la superficialità e il vuoto dei disvalori della sua epoca. La Grecia antica riusciva a trasfigurare la realtà con l’arte, che comprendeva la catarsi, l’elemento dionisiaco e l’elemento apollineo.

Il filosofo nella sua dottrina riesce a dire sì alla vita, pur essendo cosciente delle avversità, delle contrarietà e del dolore.

Nietzsche va letto più di una volta, facendo uso della parte più razionale di noi stessi, perchè di primo acchito e a una lettura superficiale la sua filosofia può condurre all’autoesaltazione fine a se stessa e all’odio nei confronti della religione e delle persone religiose. Ma veniamo ora al relativismo propugnato dal filosofo tedesco.

Nietzsche scrive nei Frammenti postumi che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Per fatto si intende un avvenimento, un evento, un dato oggettivo, una prova. Ma nessuno dovrebbe più dire che esistono dati di fatto incontestabili e incontrovertibili a riguardo di una cosa. Non si dovrebbe più dire che qualcuno nega l’evidenza dei fatti. Nessuno dovrebbe usare espressioni come “constatazione di fatto”, “attenersi ai fatti” o “alla prova dei fatti”. Qualsiasi fatto e qualsiasi riscontro sono insostenibili. Non si può più neanche dire che esiste una interpretazione univoca per un certo fatto secondo la logica. Non ci può essere corrispondenza univoca tra un fatto e una interpretazione. Il filosofo scrive che i fatti non esistono e che possono esistere infinite interpretazioni. Questo relativismo ermeneutico è totale e sconfina nel nichilismo. Diventa nichilismo, ovvero totale perdita dei valori, perché quel che consideravamo fatti sono diventati nulla. Naturalmente agli uomini resta ancora la condivisione apparente delle percezioni. Ma anche le sensazioni sono soggettive. Variano da individuo a individuo. Nietzsche sempre nei Frammenti postumi scrive che ogni costruzione del mondo è un antropomorfismo. La conoscenza è illusione. Il relativismo di Nietzsche è prima di tutto gnoseologico. Il filosofo tedesco si pone contro la fiducia smisurata dei fenomeni e della scienza da parte dei positivisti, che vedevano nell’ascesa della borghesia e nel dominio della tecnica un enorme progresso. Nel Novecento il relativismo conoscitivo si estenderà ancora grazie al paradosso di Kripkenstein sul linguaggio privato e sul seguire le regole in ambito cognitivo. Questo paradosso scaturisce da una riflessione di Wittgenstein in “Lezioni e conversazioni”. Ma ritorniamo al filosofo della volontà di potenza. C’è chi come il filosofo Maurizio Ferraris ha ironizzato sulla questione, affermando “Non esistono gatti, ma solo interpretazioni”. Però il problema rimane. Per Nietzsche inoltre non vale più nessuna metafisica e nessuna religione. Possiamo perciò affermare che anticipa Lyotard secondo cui sono finite le metanarrazioni. Ogni ismo quindi è morto. Ogni grande racconto non ha più modo di esistere. È sempre più difficile distinguere il bene dal male e il vero dal falso. Nietzsche si conferma uno dei peggiori nemici del cristianesimo non tanto perché secondo lui era la morale dei vinti e dei deboli quanto per il relativismo di cui il grande pensatore è portatore. Non a caso i suoi libri vennero messi all’indice dalla Chiesa. Non a caso molti lo considerarono il filosofo del nazismo e non considerarono invece lo stravolgimento assoluto e la mistificazione della sua opera da parte della sua folle sorella. Allo stesso modo a ben vedere si può dire addio anche a ogni senso comune, che viene polverizzato dal filosofo tedesco. Ormai la maschera è stata tolta: dietro ogni verità c’è una convenzione, un compromesso, una realtà condivisa. Niente altro che questo. Qualsiasi interpretazione del mondo equivale a un’altra interpretazione. Una visione del mondo vale come infinite altre visioni. Sempre secondo Nietzsche sono i nostri bisogni che creano una interpretazione e non certo la nostra logica. Dietro ad ogni interpretazione ci sono così i nostri istinti e non la nostra razionalità. Dietro ogni interpretazione c’è un soggetto: un interprete, che ha un suo particolare punto di vista e una sua prospettiva. Il fatto in sé dei positivisti non esiste. Tutto è soggettivo. Ognuno si fida delle sue idee. Non resta altro che questo. Ognuno si tiene i suoi convincimenti più o meno radicati. Ognuno è creatore di senso. Il neopositivismo o positivismo logico potrà fare ben poco nel Novecento: solo proporre il criterio di verificazione e cercare di rendere inutile la metafisica. Popper successivamente rivaluterà la metafisica perché la considererà una risorsa di idee e di ipotesi plausibili per la scienza. Ma il neopositivismo e Popper non condizioneranno la filosofia e neanche la mentalità della popolazione quanto Nietzsche. Il relativismo etico finisce quindi per essere l’unico dogma, l’unica certezza, l’unica verità. Nessuno ora può scagliarsi contro il relativismo senza essere tacciato di essere antidemocratico, retrogrado o moralista. Il relativismo viene sempre più ritenuto una filosofia di vita, un modo di intendere e di approcciare la realtà. Chi è contro di esso viene considerato sostanzialmente un passatista. Questo ismo non nasce certo nell’Ottocento. Era già il perno della filosofia dei sofisti e degli scettici. Ma attualmente come ha dichiarato il Papa Ratzinger è avvenuta la dittatura del relativismo, che può assumere diverse forme e può essere etico, culturale, gnoseologico, antropologico. Eppure a rigor di logica si potrebbe criticare sostenendo che se tutto è illusorio anche lo stesso relativismo è illusorio e vano. Viene però da chiedersi alla fine chi vince in questa realtà occidentale dominata dal relativo? Vince l’interpretazione del più potente e/o del più ricco, che ha più forza e più mezzi per affermarla. Il logocentrismo non esiste più. Il Logos non esiste più nella parola. L’irrazionalità e l’assurdità regnano sovrane. Questa è la civiltà dell’immagine e dei messaggi subliminali. L’interpretazione dei più potenti diventa verità perché ripetuta all’infinito dai mass media. Il relativismo quindi si è diffuso a macchia d’olio e è al servizio completo del potere; ma era forse meglio il moralismo di un tempo? Oppure è più tollerabile questo nuovo tipo di edonismo scaturito dalla mancanza di morale? Di certo una filosofia di vita in cui tutto è relativo può indurre al consumismo e può essere facilmente al servizio di multinazionali e lobby. Il relativo è il più importante credo laico odierno e avrà molti limiti intrinseci, ma come ha affermato Giulio Giorello bisogna stare attenti perché il contrario del relativismo è l’assolutismo. Infine questo atteggiamento è una premessa indispensabile per il pluralismo di una società aperta. I filosofi oggi discutono perciò su come arrivare ad un relativismo ragionevole e non totalmente pervasivo.

 

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Parole e fatti:
Le parole talvolta anzi spesso sono ambigue. Ma anche i fatti raramente sono chiari e inequivocabili. I fatti raramente sono incontestabili e incontrovertibili. I fatti raramente sono a interpretazione univoca. I fatti difficilmente sono fatti in sé. C’è anche chi dice che il fatto in sé non esiste. Ci vogliono parole per interpretare fatti. Ci vogliono parole per fare l’amore e poi raccontarlo. Ci vogliono parole per lavorare e per fare affari, per fare da mangiare e salvare vite umane. Ci vogliono parole per viaggiare. Ci vogliono parole per soddisfare bisogni primari. Ci vogliono parole per fare la guerra, ma altre parole ci vogliono per fare la pace. C’è chi dice che i fatti sono molto più eloquenti di molte parole e per affermare ciò usa parole e per giunta perentorie, si comporta come se con le sue parole fosse depositario della verità. Non si può far godere una donna con le parole. Però alcuni per fare fatti continuamente usano le parole con negligenza, trascuratezza, estrema disinvoltura, inconsapevolezza. E se fanno male con le parole che importa? Sono gli altri che sono permalosi, troppo sensibili e loro non l’hanno fatto apposta. Per alcuni le parole sono inutili, ma quando pensano ai fatti loro lo fanno con categorie verbali. Non si può negare l’evidenza dei fatti, ma neanche quella delle parole. Anche le parole sono fatti ed è per questo chei sto lontano da alcuni, che significa stare lontano dalla loro metafisica dei fatti e dalle intenzioni cattive delle loro parole. Voi pretendete di giudicare una vita dai fatti ma quali fatti selezionare e giudicare? Come giudicare in modo equanime i fatti di una vita? Le parole esattamente come i fatti fanno soffrire ma anche godere. La vita si vive con i fatti e con le parole. Alle parole devono seguire i fatti, a cui seguono altre parole e così via fino alla fine di ogni vita. Fatti si susseguono a parole che si susseguono ai fatti in un circolo infinito. Senza parole non ci sarebbero fatti. Abbiamo bisogno di fatti ma anche di parole. Fatti e parole continuamente si richiamano e intrecciano tra loro. Ai bambini si insegna prima a parlare per capire e dire i fatti. Le parole perciò vengono prima dei fatti. Quando uno muore vanno al capezzale a raccogliere le ultime volontà, le ultime parole. Le parole, neanche quelle di cordoglio o conforto,  possono niente di fronte alla morte.

 

 

 

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Sulla poesia:
La poesia non vende principalmente perché gli italiani non comprano libri, perché i libri di poesia costano 15 euro e si leggono in fretta, perché c’è insufficiente considerazione dei mass media per la poesia, perché le stesse case editrici non investono nella poesia, perché anche le grandi casi editrici guardano più ai follower di un aspirante autore che alla qualità, perché molti scrivono e pochi leggono, perché alcuni intellettuali vogliono che la poesia resti una nicchia, perché la comunità poetica è suddivisa in cricche, perchè altre cose contano oggi e non la poesia, perché l’editoria a pagamento pubblica tutti, perché a scuola la poesia viene insegnata in modo soporifero, perché nel mondo dominano il consumismo e la razionalità tecnologica, perché la cultura è in declino, perché la società è allo sbando, perché regna incontrastato il nichilismo, perché la lettura di un libro di poesia richiede impegno, perché la neoavanguardia ha intrapreso una strada difficile e impopolare, perché le persone credono che solo i cantautori facciano poesia, perché la gente non vuole pensare e ha altri problemi per la testa. Ma talvolta anche i poeti hanno le loro colpe perché non trattano dei problemi del mondo e della gente, trattano di sé soltanto in modo oscuro, difficile. I poeti non vanno incontro alle persone. Le persone non vanno incontro ai poeti. Io non so se la poesia è veramente distante dalle persone o se sono le persone a essere distanti dalla poesia. Forse entrambe le cose. Ma sta di fatto che la poesia in Italia non vende.

 

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Su poesia, fatti, posteri:
Per Austin le parole sono atti linguistici, ovvero azioni, fatti. Le frasi hanno anche degli effetti. Agiscono. Sono anche atti perlocutori. Inoltre l’interlocutore come il lettore molto spesso, al di là dell’effetto, sa capire anche le intenzioni, gli atti illocutori; sa capire il retropensiero. Cosa è un fatto? Un fatto è ciò che accade nel nostro mondo, parafrasando e modificando un poco Wittgenstein. Anche le parole accadono; anche le conversazioni che restano nell’aria calda di quest’estate per qualche secondo. Le parole inoltre producono effetti. Fanno bene o male. Hai scritto un libro e pensi che sia un fatto? È un fatto di sole parole. I giudizi critici lo stesso. Ma alcuni vanno fieri di ciò e li chiamano fatti, li considerano fatti inoppugnabili. Sono totalmente sicuri di aver fatto una cosa importante. Invece è quasi impossibile distinguere tra fatti e parole in poesia. Invece spesso sono solo parole. Il problema è se la poesia incide nella realtà qui in Italia oppure no. La risposta è approssimativamente no, quasi per niente, in modo infinitesimale. Nella maggioranza dei casi la poesia non cambia la realtà, è impotente di fronte a essa. La poesia in buona parte dei casi fa più bene a chi la scrive che a chi la legge. Ormai è qualcosa di inessenziale. Un tempo ognuno sarebbe diventato famoso per quindici minuti secondo Warhol. Oggi secondo Roberto D’Agostino si può diventare tutti famosi nella stragrande maggioranza dei casi solo per pochi amici, ammesso e non concesso che si abbia degli amici. Molti sono famosi nella loro bolla. E tutt’al più sono conosciuti marginalmente anche in qualche altra bolla. Ma è molto difficile assurgere alla vera notorietà, uscire fuori bolla. Si tratta perlopiù sempre di bolle, ovvero di minuscole porzioni della realtà. Inutile bearsi del niente. E poi si è davvero sicuri del gradimento effettivo? In fondo si può mettere un like a un post perché l’autore fa pena e non metterlo perché sta antipatico, indipendentemente dalla valutazione della qualità di quel post. Ci sono autori con alcuni ammiratori ma anche con alcuni hater e constato che è meglio non avere ammiratori né hater perché gli odiatori lasciano in fondo parecchia negatività e strascichi nell’animo di ognuno. Ci sono stati casi di personaggi pubblici che hanno momentaneamente chiuso i profili social per critiche al vetriolo e insulti di pochi odiatori, pur avendo un grande seguito. Alcuni in poesia si convincono di aver raggiunto la fama con quella pubblicazione a pagamento, con quel premio di un paesino sperduto, con quella pubblicazione in un’antologia che compreranno solo gli antologizzati. La realtà è un’altra. La realtà è che nel 99,9% dei casi molti finiranno nell’anonimato, nel dimenticatoio. Di me non resterà niente e mi piace anche questa prospettiva di cadere nell’oblio. In fondo ci sono sempre stato nell’oblio, nel dimenticatoio. Non avrò alcun peso, alcuna responsabilità, alcun onere della fama. Ci sono abituato ormai e mi va bene così. Ma di chi avrà la cosiddetta posterità cosa resterà? Resteranno forse dei guadagni per gli eredi? Nel 99,9% dei casi assolutamente no. Resterà una via di periferia e nessuno saprà a chi era dedicata? Una pagina alla fine di un manuale di letteratura che nessuno consulterà e che nessun professore farà studiare agli allievi? Una conferenza in cui pochissimi amici faranno in sua memoria per un pubblico di pochissime persone? Una cena tra parenti che ricorderanno che grande poeta fosse il loro defunto? Oppure resterà una pagina Wikipedia scritta da un sodale, che quasi nessuno leggerà in un anno? Oppure un sito Internet con pochissimi visitatori, più intenti a curiosare che ad apprezzare o ad ammirare? La poesia contemporanea italiana non è di moda, non fa tendenza, non è popolare. La poesia è moribonda e perciò viva la poesia! Sono altre le persone incisive. Sono le persone pratiche, pragmatiche. È loro la realtà. Loro hanno compiti e funzioni precise. Loro hanno lavori e guadagni importanti. La gente li considera, li rispetta, li stima, li ammira. Loro fanno qualcosa agli altri per gli altri. La poesia di fatto non riesce a sortire alcun effetto. Tanti scrivono poesie ed è come se non le scrivesse nessuno. Bisognerebbe ricordarsi come sostiene Federico Fiumani che si può anche vivere poeticamente senza obbligatoriamente scrivere versi. Inoltre non si può essere elitari e rifugiarsi in una torre eburnea in nome di un’aristocrazia di pensiero, che non c’è più. Un tempo ci voleva kunstwollen, ovvero volontà d’arte per scrivere poesie. Oggi sono necessarie molta convinzione di sentirsi artisti e un minimo di consenso, poco importa se in grandissima parte amicale e autoreferenziale. Beckett tratta del fallimento umano, di riprovare ancora e di fallire di nuovo. Ebbene la condizione umana dell’uomo contemporaneo è la stessa di molti poeti, che però vivono di illusioni e non sanno riconoscere il proprio fallimento umano e artistico. La poesia oggi perlopiù è amorfa, cade nell’indistinto, non produce effetti benefici né malefici. Non è benedizione né maledizione. Non fa niente. Nella gran parte la poesia non è perlocutoria, è semplicemente inoffensiva, improduttiva, sciatta. A meno che non si tratti di voci inconfondibili, di ottimi poeti e poetesse. Ma io non sto parlando delle eccellenze che ci sono. Sto parlando soprattutto del gran marasma generale, del grande caos, che tutto appiattisce, tutto livella, quasi tutto annulla. È quasi come se non ci fosse la poesia oggi. Le altre parole hanno un uso comune. Le parole poetiche sembrano perdere di senso. La colpa non è dei poeti ma di questa cultura, di questa società allo sbando. Le poesie sono atti linguistici quasi inutili, per pochissimi eletti. Ma non si può nasconderci purtroppo dietro alla retorica del “meglio pochi ma buoni”. Bisogna ambire a molto di più. Certi poeti però hanno un minimo di responsabilità: la società occidentale dà loro già addosso e loro tanto per gradire finiscono per fare gratuiti atti autolesionistici, allontanando sempre di più le persone, il pubblico già sospettoso e lontano. Certi poeti infatti fanno terribilmente sul serio. Si prendono terribilmente sul serio. E questo va a loro discapito. Si rinchiudono nella loro cricca. Non cercano di andare incontro alle persone. Le cose sono due almeno: dovrebbero riversare la loro ironia nella pagina o sulla loro persona, nel loro atteggiamento esistenziale, nel modo di relazionarsi agli altri, se non addirittura a fare tutte queste cose insieme. Invece la postura è sempre la solita. Alcuni non scendono dal piedistallo e hanno come modelli dei monumenti. Come se non bastasse alcuni sono rimasti a una condizione della poesia tipica del Pascoli. Se poi la poesia non ha pubblico non lamentiamoci. Forse chiedo troppo chiedendo autoironia, ma certi poeti dovrebbero abbracciare la semplicità, l’umiltà. La strada è tutta in salita. Montarsi la testa per piccoli insignificanti traguardi oltre a essere così poca cosa è controproducente alla causa della poesia. Infine i poeti dovrebbero sapersi gestire. No ai falsi miti, all’autodistruzione, al trascurare disturbi psichici e non curarli in nome di un presunto genio creativo, tutto da dimostrare. Un’altra cosa utile alla poesia sarebbe parlare chiaro, dire pane al pane e vino al vino, non perdersi in inutili intellettualismi. Questa è l’amara realtà di cui bisogna prendere coscienza: questi sono i fatti inoppugnabili.

Due parole su mode culturali, ideologia, politica

giu 242022

 

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Negli anni Settanta andava di moda Marx. Molti facevano corsi accelerati di marxismo, studiavano i riassunti dei riassunti senza leggere i libri di Marx e ciò nonostante si dichiaravano ferventi marxisti. Alcuni erano marxisti-leninisti. Altri erano maoisti. C’era chi leggeva Tronti, Panzieri, Toni Negri: i filosofi e politici dell’operaismo italiano. C’era chi si dichiarava gramsciano perché voleva l’egemonia culturale della sinistra.  A sinistra tutti volevano fare gli intellettuali organici, anche persone improvvisate. Per i riformisti era d’obbligo sapere la teoria keynesiana. Ancora oggi ci sono molti keynesiani tra i progressisti. Insomma ci voleva l’intervento pubblico per far ripartire l’economia. A destra andava di moda leggere Nietzsche e Heidegger. Il superomismo di Nietzsche poteva portare all’autoesaltazione. Nietzsche non può però considerarsi responsabile del nazismo se non in modo molto indiretto, come del resto Marx per i regimi comunisti. Il pensiero di Nietzsche fu deformato dalla sua sorella e da Hitler. L’antisemitismo di Nietzsche inoltre non era dispregiativo e violento, ma basato sulla paura indotta dalla superiorità culturale ebraica. Molto probabilmente Hitler odiava gli ebrei per questioni personali e perché aveva letto il falso documento dei protocolli dei savi di Sion, non per colpa di Nietzsche. Heidegger era compromesso con il nazismo, ma non era nazista per quello che sosteneva, piuttosto per quello che non scriveva, per quello che ometteva. Per capire cosa è stato il nazismo bisogna leggere la Arendt e non Heidegger, ciò che la filosofa definisce banalità del male e ciò che scrive a riguardo del totalitarismo, anche se la sua concezione dello stato totalitario non è a mio avviso universale ma ancorata a quell’epoca e a quel contesto storico, sociale, politico. Heidegger quindi può essere letto da tutti. Non c’è bisogno di condannarlo a priori né a posteriori. Naturalmente Heidegger è un grandissimo filosofo, scrive cose molto profonde sul nichilismo, sull’esistenza, sull’arte, sul declino della società occidentale, che nessuno aveva detto prima di lui. Inoltre in Italia il miglior interprete e intenditore del filosofo tedesco è stato Emanuele Severino, uno studioso attento e molto equilibrato, che non ha mai travisato il pensiero di Heidegger. Sono state tuttavia mode culturali. Certo ci può essere stato qualche facinoroso che tirava per la giacchetta il pensiero di questo o quel filosofo. Questo deve essere messo in conto. Per molti si trattava di mode. Solo pochi padroneggiavano la disciplina e gli argomenti.

 

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Solo pochi studiavano severamente la materia ed erano veramente versati. Per molti si trattava di rimasticature, echi lontani, deboli influssi, vagheggiamenti. Acculturarsi di filosofia politica, di economia politica era comunque una imposizione dall’alto, i partiti lo esigevano e naturalmente erano disposti a fare scuola agli iscritti. Sempre negli anni Settanta andava di moda a destra leggere Tolkien oltre ad Evola, Guénon, Spengler, Jünger. Era quasi un imperativo categorico. Per i liberali italiani era un dovere culturale leggere Croce e Gobetti. Negli anni Novanta per i liberali era quasi d’obbligo leggere Popper. I primi ad occuparsene nel nostro Paese del filosofo austriaco furono Dario Antiseri e Marcello Pera. Sempre negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila i liberali necessariamente dovevano guardare alle teorie dell’economista von Hayek, che non voleva l’intervento statale a differenza di Keynes. Negli anni Novanta e nei primi anni del Duemila tutti i riformisti italiani leggevano o citavano Rawl e la sua teoria della giustizia. Per chi era di sinistra era un obbligo dover sapere qualcosa della teoria del potere di Foucault, del suo concetto di biopolitica, della decostruzione e del logocentrismo di Derrida, così come bisognava aver letto i libri di Chomsky, che criticava l’imperialismo americano. Qualche decennio fa erano di moda anche la psicanalisi, lo strutturalismo, la semiologia. Poi sono finite le mode culturali o comunque non hanno la grande presa di un tempo sulle persone. Sono finite le ideologie e quindi le grandi mode culturali a esse strettamente connesse. Un tempo chi si occupava e si interessava di politica leggeva decine di libri ogni anno, leggeva ogni giorno più quotidiani. Era una minoranza, una cerchia di persone non dico intellettuali ma di buone letture. Ogni ideologia aveva sempre bisogno di pensatori, libri, teorie che continuassero a giustificarla. Una ideologia non era qualcosa data per sempre. Perché aderisse efficacemente alla realtà c’era sempre bisogno di correttivi e aggiornamenti. Inoltre per ogni ideologia spuntavano come funghi dei critici e di conseguenza gli intellettuali di parte dovevano prendere le contromisure a quelle critiche. Insomma era il gioco delle parti, le solite schermaglie culturali. Ogni ideologia aveva bisogno di nuovi ideologi che la reinterpretassero e la rinnovassero continuamente.

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D’altronde noi esseri umani siamo degli esseri incompiuti. Per trovare compiutezza abbiamo bisogno di cultura: alcuni studiosi chiamano ciò antropopoiesi. L’ideologia un tempo doveva essere appresa, capita, interiorizzata, ma anche creduta. Il marxismo come il fascismo erano anche degli atti di fede che duravano tutta la vita. Un tempo si giurava fedeltà per tutta la vita a una ideologia. Un tempo credevano alle ideologie, erano innamorati delle idee, credevano alcuni di avere la verità in tasca. Poi per alcuni era breve il passo dalla ideologia alla ubriacatura ideologica o al delirio ideologico, ma in questi casi era questione più che altro del lato Freud, di personalità di base. Certamente c’era chi usava l’ideologia in modo strumentale per violenza e sopraffazione. Oggi buona parte dell’elettorato è incerto, indeciso, si astiene dal voto. Un tempo mia nonna si vestiva in modo impeccabile per andare a votare. Era un giorno memorabile quello delle elezioni. Le persone si vestivano bene, non perdevano un capello. Adesso la politica italiana è molto più pragmatica. I politici non parlano più di convergenze parallele. Sono più diretti e non c’è bisogno che la base si acculturi. Si fanno comprendere da tutti. I politici di tutti gli schieramenti oggi sono molto social. Utilizzano il web per fare diffondere le loro idee. Usano post brevi di Facebook, commentano i fatti del giorno con un tweet. Insomma ecco l’elogio della comprensibilità e della brevità. E se fosse questa non dico la democrazia dal basso ma una nuova forma di democrazia rappresentativa? Dell’ideologia è rimasto ben poco: il minimo indispensabile per dare una identità ai partiti e ai loro iscritti, per creare delle contrapposizioni tra di essi. La falce e il martello sono stati deposti in soffitta, a torto o a ragione. Sono finiti il senso di appartenenza, la fedeltà, la coerenza. Sono finiti simboli, pratiche, riti. Bisogna farsene una ragione. Se ne facciano una ragione anche coloro che hanno scannato e si sono scannati per l’ideologia. Nel frattempo le multinazionali hanno conquistato i mercati e hanno avuto la meglio su tutte le nazioni. Ma in fondo di cosa avevano bisogno l’Italia e gli italiani? Di stabilità politica, di sobrietà, di competenza, di lungimiranza, di oculatezza. Ideologia o non ideologia, tutto questo nella prima repubblica non c’è mai stato. Vedremo in futuro, se avremo futuro.

 

Considerazioni semplici su "Destra e sinistra" di Bobbio...

giu 232022

 

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Dopo tre quarti d'ora a parlare di politica io e Lele concludiamo così: 

"è tutto un darselo a intendere."

 

Secondo recenti studi esiste ancora la cosiddetta "eredità politica". I genitori fanno proselitismo, educano, formano, influenzano. I figli li imitano. Questo accade 6/7 volte su dieci. Oppure i figli in piccola parte vogliono "uccidere" il padre, si contrappongono, perché c'è un rapporto conflittuale, un complesso edipico da risolvere, come successe nel '68. Plausibile l'ipotesi di Adorno sulla personalità autoritaria. Secondo Adorno il fascismo era determinato da una educazione rigida, repressiva, autoritaria. Si tenga però presente che l'avalutatività delle scienze umane è un'utopia e che allora molta sociologia, molta psicologia contenevano in sé la teoria implicita che chi era progressista era sano psichicamente oltre che nel giusto. Tutto ciò era in buona parte giustificato perché gli studiosi progressisti in gran parte erano memori degli orrori del nazifascismo, ma ancora non conoscevano a dovere quelli dei regimi comunisti. Le loro conclusioni non corrispondevano totalmente al vero,  se si ragiona a rigore di logica e se si conosce un minimo la natura umana. È presumibile che anche dittatori e persone comuni comuniste possano avere o possano avere avuto aspetti patologici correlati significativamente alla loro ideologia. Come scrive Andreoli di ogni scelta politica si potrebbe dare una "lettura psicoanalitica". C'è anche la questione dell'età. Secondo un celebre aforisma di Pitigrilli "si nasce incendiari e si finisce pompieri". C'è anche chi vota non in modo affettivo/emotivo ma in modo razionale, facendo un'analisi costi/benefici. Sono quelli che votano chi difende i loro interessi. In modo opposto ci sono ricchi che votano il partito comunista anche per eliminare o ridurre il loro senso di colpa di essere privilegiati.

 

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Secondo le scienze umane l'ideologia sarebbe definita come "un complesso di credenze, opinioni e valori che orientano un determinato gruppo sociale o un individuo; tale insieme di credenze, inoltre, è condiviso all’interno di un gruppo e ne sostiene le azioni" (Carraro e Bortolotti, 2020, p. 337). Ma recentemente è nata la psicologia politica, ovvero lo studio delle variabili psicologiche che decidono l'orientamento politico. Secondo alcuni studi l'orientamento politico è "predeterminato geneticamente", addirittura sarebbero individuati i geni del conservatorismo o del progressismo. Io sono rimasto agli studi degli psicologi nelle carceri che per esempio hanno evidenziato quanto i brigatisti rossi spaziassero dal delirio di onnipotenza alla mania di persecuzione, croce e delizia di quella che loro consideravano una sorta di guerra tra guardie e ladri.

 

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Bobbio ha scritto il long seller "Destra e sinistra" che ha venduto centinaia di migliaia di copie ed è stato tradotto in tutto il mondo. Per Bobbio "destra" e "sinistra" erano "reciprocamente esclusivi e congiuntivamente esaustivi".  Il libro è ancora attuale, sebbene sia stato pubblicato nel 1994. Bobbio era uno dei più grandi filosofi italiani, molto acuto e altrettanto rigoroso. Non le mandava a dire. Scrisse che il fascismo era dovuto anche alla compromissione del popolo italiano, che non era esclusivamente colpa di Mussolini e dei gerarchi: ebbe il coraggio di dire e scrivere che anche la popolazione italiana, sebbene avesse l'attenuante dell'ignoranza a quei tempi, aveva avuto un'ubriacatura ideologica, si era fatta lusingare, sedurre, incantare, ipnotizzare dai fascisti della prima ora, diventando essa stessa fascista, ed era in un certo qual modo responsabile del fascismo. Bobbio considerava certamente la propaganda del partito fascista, ma chiamava gli italiani a un esame di coscienza collettivo. Bobbio sapeva che il fascismo era stato, per così dire, "nazionalizzazione delle masse". Il filosofo sapeva esattamente come era avvenuta l'ascesa di Mussolini. Anche per via della dittatura e della violenza esercitata comunque furono pochissimi gli italiani a non aver pagato il pedaggio al fascismo.  Bobbio evidenziò anche  i meriti della Resistenza d'altra parte. Per chiarire il giudizio di Bobbio sulla compromissione degli italiani durante il regime basta citare il titolo di un suo saggio sulla memoria e i valori della Resistenza: "eravamo ridiventati uomini". Insomma fu sempre attento ad analizzare con obiettività  luci e ombre degli italiani e dell'Italia. Quindi per l'autorevolezza, la competenza, l'onestà intellettuale, il rigore morale quando venne pubblicato questo volume, filosoficamente accurato ma leggibilissimo, molti pendevano dalle labbra di Bobbio, volevano ascoltarne le interviste, si recavano ad acquistare il libro. Ma davvero come scrive Bobbio sinistra è uguaglianza, emancipazione, bisogno e destra è diseguaglianza, tradizione, merito? Per alcuni queste categorie sono desuete, non hanno più modo di esistere, come cantava Gaber. Personalmente penso che oggi molti tifino un orientamento politico, un partito politico come si fa con una squadra di calcio, senza avere idee precise o valori di riferimento stabili e certi. Non hanno molti la preparazione adeguata, le conoscenze teoriche. Non sono aggiornati. Non seguono la politica. D'altronde il discorso è complesso. Tutti hanno il diritto/dovere di votare. Calvino lo mise in evidenza con "La giornata di uno scrutatore". Il voto per tutti è uno dei valori fondanti della nostra democrazia. Continuo però a pensare che ci sia gente che si tira la zappa sui piedi. Comunque molti votano cosa hanno votato i loro genitori (se esiste il partito ancora o se c'è un minimo di continuità), intrattenendo spesso un rapporto di natura clientelare con gli uomini di quel partito. Chiamatele pure conoscenze, pubbliche relazioni, conoscenze utili, amicizie interessate. È insomma anche un do ut des. Pochi si acculturano e si documentano per la politica. Hanno anche ragione. Anche io sono tra questi. Nessuno sta dietro alla politica come accadeva negli anni '70. Non dico che esista il voto di scambio, ma quasi. Di solito ci sono i referenti politici, che io per esempio non ho.  In Italia come dichiarò l'allora ministro del lavoro Poletti per trovare un lavoro sono importanti esperienza e curriculum, ma più di tutto le relazioni sociali: per Poletti era più importante andare a giocare a calcetto con gli amici o a cena con ex compagni di scuola che andare all'ufficio di collocamento (visto che fino a pochi anni fa solo il 4% dei disoccupati trovava lavoro grazie a esso). Fortini scriveva: "...Gli oppressi/ sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli/ parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso/ credo di non sapere più di chi è la colpa". Se un tempo in chiave marxista gli oppressi erano i proletari e gli oppressori i capitalisti e gli imperialisti oggi si dovrebbe parlare di gruppi dominatori e gruppi dominati, di categorie avvantaggiate e di categorie svantaggiate. Oggi il mondo non è più wasp comunque. In realtà il discorso è sfumato e complesso. Come scrive Bailey lo status di persona svantaggiata è multidimensionale. Non esiste più la categoria unica sulla base del capitale. Ci sono varie dimensioni come il genere, l'età, l'etnia, il grado di istruzione, lo stato di salute, l'orientamento sessuale. Ma in Italia almeno esistono anche stereotipi e conseguenti discriminazioni sulla base dell'appartenenza politica. Gli italiani, pur essendo disinformati ed essendosi disaffezionati alla politica, si odiano ancora in base alle categorie politiche; chi è di destra odia le cosiddette zecche, chi è di sinistra odia i fascisti. Ancora oggi non c'è una riappacificazione, una conciliazione tra le due parti. Ci sono sempre almeno due fazioni, c'è una logica della contrapposizione. Ci sono sempre nella popolazione la suddivisione tra Don Camillo e Peppone, tra guelfi e ghibellini. Siamo un popolo emotivo, litigioso. Si vien sempre chiamati a stare da una parte, bisogna sempre sapere da che parte stare in Italia. Nessuno si può esimere. Il voto in teoria è segreto, però dimmi chi voti: così si potrebbe riassumere tutto. Si può diventare falchi o colombe. Si può essere galline azzannate da volpi. Si può far la fine delle volpi, che dopo aver azzannato le galline, venivano uccise e qui da noi in Toscana a  chi le uccideva gli venivano regalate le uova delle galline. Il potere come al solito divide e governa. In Toscana per esempio esiste una tradizione rossa dovuta alla fondazione del partito comunista a Livorno, alle tante case del popolo un tempo, alla diffusione di circoli Arci oggi, alle tante cooperative rosse. In Toscana un semplice liberale apartitico può essere penalizzato. In Veneto lo è altrettanto un comunista. Gli italiani discriminano, ghettizzano, emarginano, danno amicizia e amore, includono o escludono, favoriscono oppure ostracizzano, offrono opportunità socioeconomiche oppure non le danno in base al colore politico, eppure al governo vige la logica del consociativismo e della spartizione. Tutto è già deciso. Il saggio di Bobbio è in bella vista nella mia libreria, lo tengo sempre a portata di mano. Adriano Sofri in "Altri hotel" scriveva che era in disaccordo con le equazioni di Bobbio sinistra=uguaglianza e destra=libertà. Anche Vittorio Foa proponeva che se la destra significava liberalismo la vera libertà invece stava a sinistra. Bobbio naturalmente vedeva distante, ma non aveva la sfera di cristallo.

 

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Su una cosa aveva totalmente ragione: la destra si basava allora su un concetto dell'antropologia tradizionale, ovvero gli uomini non sono uguali e bisogna valorizzare la diversità. Personaggi come Almirante volevano esaltare le differenze individuali. Dagli anni '90 in poi all'egemonia culturale della sinistra opponevano l'egemonia mediatica berlusconiana. Oggi la destra è populista e parla di identità. La sinistra vuole la fluidità. Oggi la sinistra ha il merito maggiore di difendere i diritti civili e forse non riesce a difendere a dovere i precari. La destra un tempo, come sostiene Bobbio, era inegualitaria, prendendo come riferimento Nietzsche. Bisogna leggere anche "La sinistra nell'era del karaoke" di Bobbio, Bosetti, Vattimo. Quest'ultimo scriveva a riguardo: "Credo di vedere delle spiegazioni di questo conservatorismo della sinistra italiana: essa, o almeno una gran parte di essa, si è liberata lentamente, negli ultimi decenni, del mito della rivoluzione e ha scoperto relativamente da poco il valore che hanno le regole del gioco. Questo spiega in termini non puramente denigratori perché oggi la sinistra sembra più arroccata in difesa della Costituzione" (pp.21-22). Forse essere di sinistra significa oggi come ieri difendere le minoranze e sentirsi una minoranza, che è o si sente élite. Come dice Nanni Moretti in "Caro diario": "Io stavo pensando una cosa molto triste, cioè che io, anche in una società più decente di questa, mi ritroverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c'è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un'isola deserta perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone. Però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre d'accordo e a mio agio con una minoranza...".

 

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E la destra invece? E adesso come è da questo punto di vista la destra? Oggi i punti programmatici dei partiti sembrano assomigliarsi tutti. Qualcuno dice che la sinistra non esiste più e la destra è troppo camaleontica. Poi oggi si registra il primato dell'economia sulla politica. Che cosa conta la politica italiana così provinciale in un mondo dominato dal nuovo neocolonialismo delle lobby economiche e delle multinazionali? Nessuno vuole più fare la rivoluzione.  Chi potrebbe farla è pur sempre "uno svantaggiato integrato". Gli esclusi non hanno forza né voce in capitolo. Ma esiste più il senso di appartenenza? Oppure non esistendo più le classi non esiste più la coscienza di classe e non esistendo più le ideologie non esiste più l'amore per la politica? Talvolta ho la vaga sensazione che chi dice che sinistra e destra non esistono più non vuole schierarsi, non vuole dichiararsi oppure addirittura vuole mistificare la realtà. Il saggio di Bobbio ha avuto a mio avviso il merito, piccolo o grande che sia stato, di innalzare la discussione politica, di far volare alti gli italiani, in un Paese allora sclerotizzato sulla distinzione netta tra berlusconiani e antiberlusconiani, al punto da regredire politicamente, mantenere lo status quo per anni, non evolvere, arenandosi nelle secche e non facendo le riforme. Ma anche qui il consociativismo alla fine aveva la meglio: i politici progressisti facevano accordi sottobanco, pubblicavano libri con le case editrici del nemico, andavano a fare ospitate nelle reti Mediaset, sempre prezzolati. Per molti intellettuali progressisti duri e puri Berlusconi era un imprenditore illuminato perché permetteva loro di essere pubblicati o di scrivere sui suoi giornali. Nel frattempo Berlusconi si impossessava di buona parte del Paese e decine di migliaia di persone erano suoi dipendenti.  Sicuramente il saggio di Bobbio va letto comunque, anche per essere contro e per dissentire. È un saggio tascabile, colto, penetrante, divulgativo e chiaro. Bobbio fa delle pregevoli argomentazioni e solleva interrogativi validi ancora oggi. Ecco perché ha avuto meritatamente questo successo inaudito, forse impensabile. È ancora molto attuale a mio avviso, ma anche se fosse datato avrebbe il merito di ricordarci come eravamo, come pensavamo, su quali problemi ci accapigliavamo quasi trenta anni fa. In ogni caso va letto.

Su follia, verità, letteratura come vita, letteratura come menzogna, post-verità...

giu 232022

 

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Il gruppo 63 aveva teorizzato lo "schizomorfismo" nella scrittura, ovvero ci doveva essere una mimesi (una copia che riproducesse rispecchiamento) tra un mondo schizofrenico e le forme letterarie. Se in particolare per Sanguineti l'ideologia era sempre linguaggio (primo passo per smascherare l'inganno della realtà) per la neoavanguardia (di cui lo stesso Sanguineti faceva parte) bisognava compiere un ulteriore passo avanti: denunciare la follia del mondo, riproducendola fedelmente nella letteratura. Il mondo per Sanguineti era folle e ingiusto per il predominio dell'ideologia capitalistica. Nel gruppo 63 non veniva esplicitata la natura della follia del mondo. Il mondo era folle fisiologicamente, ontologicamente? Oppure il capitalismo selvaggio, che sfruttava alcuni uomini e la natura, era un agente catalizzatore? Il capitale era il motivo scatenante di tutto? Oggi sappiamo che il comunismo non è la panacea di tutti i mali. Ma la questione restava irrisolta. Secondo una diagnosi di natura la schizofrenia negli uomini era causata da un'eccessiva produzione di dopamina nel sistema mesolimbico. Ma cosa causava la follia del mondo?  Che questo fosse un crazy world, che tra l'altro scatenava nevrosi e psicosi nei cittadini che vi si adattavano, l'aveva già scritto Fromm. Era il "disagio della civiltà" studiato, primo tra tutti, da Freud. Quindi la follia non solo scatenava in taluni disadattamento, ma in alcuni era l'effetto dell'integrazione a questo mondo. Perché trattare dei pochi folli quando era l'intero mondo a essere folle? Era la follia del mondo che contagiava gli esseri umani, che perpetuavano a loro volta le dinamiche perverse e ingiuste del sistema folle. La follia, intesa in senso erasmiano, può essere rivelatrice di conoscenza e verità. Il folle può coincidere con il saggio. Appartenendo a un mondo apparentemente altro, può vedere cose che le persone comuni non vedono e arrivare dove gli altri non arrivano. Scriveva in una sua celebre poesia Zanzotto: "Mondo, sii, e buono;/ esisti buonamente". Ma il mondo non è mai buono. Ha troppe brutture. Montale in una sua poesia scriveva:

"Se il mondo va alla malora
non è solo colpa degli uomini.
Così diceva una svampita
pipando una granita col chalumeau
al Cafè de Paris.
Non so chi fosse. A volte il Genio è quasi
una cosa da nulla, un colpo di tosse."

La colpa è di tutti e di nessuno? Il mondo va male non solo per gli uomini ma anche per Dio allora? La domanda fondamentale dell'etica cristiana è la seguente: "Se esiste Dio perché allora c'è il male?". Questa è la teodicea cattolica e non solo. La domanda che si fa un cattolico è: perché un essere onnipotente, infinitamente buono e misericordioso non ha fatto un mondo buono? E poi mi chiedo anche perché se Dio ha fatto a sua immagine e somiglianza gli uomini ha messo in noi anche la capacità di essere violenti e fare del male? Perché un Dio buono non ha fatto gli uomini buoni? Perché ci sono uomini più propensi a fare del male, essendo più predisposti dalla loro natura e/o dalle circostanze? La colpa è degli uomini ma anche di Dio che ha dato loro il libero arbitrio? Cosa può fare la letteratura di fronte a tutto ciò? Per Carlo Bo la letteratura deve essere come la vita. Per Bo la letteratura e la vita sono "strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi". Sempre Bo scriveva: "sappiamo che la letteratura è una strada, e forse la strada più completa, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza". Però per Bo la vita del letterato doveva essere pura o quantomeno coerente all'opera. Da tempo immemorabile a questo proposito ci sono critici letterari interessati anche alla vita dell'artista e altri meno. E ancora sempre per Bo gli autori dovevano essere di specchiata moralità e agire secondo coscienza. E allora gli autori con coscienza infelice o falsa coscienza? Per Giorgio Manganelli la letteratura è menzogna. La letteratura, quando va bene, è un "come se" per il grande scrittore. Ma se il mondo è diventato favola, come scriveva Nietzsche, allora Manganelli è nel giusto perché la letteratura come menzogna rispecchia la menzogna del mondo. Ci sono diversi modi in cui approcciare la realtà per uno scrittore o un poeta:
pensare che il mondo sia vero e riprodurlo con la verità dell'artista
pensare che il mondo sia vero e opporsi con la menzogna dell'artista
pensare che il mondo sia falso e opporsi con la verità dell'artista
pensare che il mondo sia falso e riprodurlo con altrettanta falsità

 

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Il mondo quindi può essere considerato vero o falso e poi essee capovolto, rovesciato con la scrittura. Ma qui la faccenda si complica ulteriormente perché verità e menzogna, falso e vero, possono essere mischiati e non c'è modo di dividerli, separarli. Oppure l'uomo non è più in grado di saper distinguere oggi il vero e il falso, di modo che vero e falso sono un tutt'uno inscindibile. Nessuno sa con certezza assoluta lo statuto né l'essenza della realtà. Inoltre per farla diventare letteratura la realtà va analizzata e sintetizzata correttamente. Quanti sono in grado di farlo? Riprendendo Nietzsche ne "Il crepuscolo degli idoli" non solo il vero può essere "inattingibile" ma anche il falso. Secondo l'ipotesi di Nietzsche il vero è inconoscibile. È naturale che se non si può distinguere il falso dal vero non si può neanche discernere tra il bene e il male. Noi occidentali abbiamo un'idea cumulativa del sapere, tendiamo alla verità perché pensiamo di potervi avvicinare sempre più, passo dopo passo, tassello dopo tassello, gradino dopo gradino. Come scrisse Emerson: "il saggio cerca la verità. Lo sciocco crede di averla trovata". Wittgenstein in "Della certezza" scrive: "Se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso". Ma quale è è cosa è il fondamento? La verità poggia su fondamenti instabili. Kant proponeva lo schematismo trascendentale. Le categorie con cui conosciamo la realtà per Kant erano innate e universali. Invece Umberto Eco ha messo in dubbio tutto ciò con l'esempio dell'ornitorinco che ha alcune caratteristiche dei mammiferi ma non è mammifero, bensì oviparo. Di conseguenza le categorie e gli schemi cognitivi non sono un a priori, ma spesso sono a posteriori, ovvero storicamente e culturalmente determinate. E poi anche se sapessimo la verità quale senso dovremmo darle e con esso quale senso dovremmo dare alla nostra vita? Ma c'è un altro problema insormontabile. Merleau-Ponty ne "La fenomenologia della percezione" scriveva che "la scienza non è stata per nulla capace di illuminare la natura dell'esperienza soggettiva". E ancora cosa è la coscienza? Grazie a cosa siamo coscienti?
E poi si aggiunge la difficoltà che viviamo nell'epoca delle post-verità, in cui si crede alle bufale del web, alle fake news, alla disinformazione, senza cercare la verifica e il controllo dei fatti. Trovo che questa frase sia inoppugnabile: "Il fatto moderno è che noi non crediamo più in questo mondo” (G. Deleuze, L’immagine-tempo. Ubulibri, 1989, p. 191). 

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E se la vita è liquida per dirla alla Bauman (ovvero precaria, imprevedibile, piena di incognite, estremamente mutevole) allora anche la verità potrebbe essere altrettanto "liquida". La vita comunque nella migliore delle ipotesi, in assenza di certezze, dovrebbe essere una ricerca incessante, spesso infruttuosa, si spera non vana. Jung scrisse che qualsiasi visione del mondo era da considerarsi solo un'ipotesi. Come cantava Enrico Ruggeri nella vita dovremmo morire crescendo.
Infine come scritto nell'Ecclesiaste il sapere accresce il dolore, ma è anche vero che la sofferenza accresce il sapere. Ma siamo così convinti di conoscere? E se la verità che ha il conforto e la sicurezza della conoscenza condivisa fosse solo un'illusione? Siamo poi così sicuri che possa verificarsi l'etica del discorso, la situazione discorsiva ideale di Habermas, secondo cui i dialoganti si dimostrano chiari, sinceri, comprensibili, onesti intellettualmente? Siamo certi che si possa mettere in pratica i dettami di Habermas sull'agire comunicativo? E se tutta la vita fosse illusione? Se questa vita non fosse che sogno?

 

Il nichilismo in sintesi (dalla filosofia alla letteratura)

giu 132022

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Il nichilismo è un termine che si può declinare in molti modi e ha perciò diverse accezioni. È un termine troppo diffuso e perciò inflazionato. Spesso viene frainteso perché considerato solo anarchia, rifiuto delle istituzioni o negazione dell’oggettività. È un termine che non ammette sinonimi. Nessuna altra parola rende bene l’idea. Quindi scusatemi se ripeterò continuamente il termine “nichilismo”. Esso è un termine abusato nel linguaggio comune. Quindi partiremo considerandolo da un’altra ottica. Il nichilismo è innanzitutto un problema filosofico complesso, che può portare il pensiero a girare a vuoto. In queste poche righe cercherò di semplificare la questione. Naturalmente spero di non banalizzarla. È così facile poi andare fuori tema, divagare e debordare. È così facile contraddirsi. Questo problema è una patologia occidentale ed è difficilissimo sapere la terapia e la prognosi. Il nichilismo a livello speculativo comprende molti passaggi filosofici e concetti-limite. Anticamente Gorgia aveva avvertito: “nulla è; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; e se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile”. Per Nietzsche è un “ospite inquietante” della metafisica occidentale e per questa ragione Heidegger pensava che va “guardato in faccia”. Trattare il nichilismo e filosofare su di esso significa confrontarsi con i limiti ontologici, mentali, esistenziali dell’uomo perché come pensava E. Junger è impossibile per ogni essere umano rappresentare il niente. Il nulla non si può ascoltare: il silenzio assoluto non esiste. C’è sempre qualcosa che lo scalfisce. Il niente è anche indicibile e invisibile. Chiudiamo gli occhi per guardare il buio ma ci sono i fosfeni. C’è sempre una impurità fisiologica tra l’io e il nulla. Il nulla lo possiamo solo intuire. Non lo possiamo percepire totalmente e neanche comprenderlo. Abbracciare il nulla è solo un modo di dire. Il nulla non si può pensare. Anche pensare a nulla è solo un modo di dire. La coscienza come insegna Husserl è sempre intenzionale. È sempre orientata verso qualcosa. In realtà il nulla ci trascende in tutto e per tutto. Dire “il nulla è” a rigor di logica è già una contraddizione di termini. L’unica cosa che possiamo affermare è che il nulla è non essere. Anche desiderare nulla a mio avviso è impossibile. Al massimo si può desiderare di non desiderare nulla ma ciò significa desiderare qualcosa. Insomma qualcosa si desidera sempre. Nichilista è chi non crede in niente. Il nichilista non trova alcuna risposta a domande come “perché sono venuto al mondo?” o “che senso ha la mia vita?”. Alcuni illustri pensatori sono nichilisti come ad esempio Cioran. Il nichilismo è il destino dell’Occidente. Essere nichilisti invece in buona parte dei casi è una scelta come essere atei. Quindi se un nichilista uccide spesso non ha scusanti. D’altronde non si può dare sempre la colpa all’ambiente, alla società, alla cultura. Per Nietzsche il nichilismo nasce dalla morte di Dio ed è la svalutazione di tutti i valori della tradizione.
Tutti i valori hanno perso valore. Per il filosofo tedesco non ci sono più le categorie di unità, verità, fine. Niente ha più uno scopo. Niente è più vero. La realtà finisce per frammentarsi. È stato l’uomo occidentale ad uccidere Dio. È nostra la colpa. Ma ciò da alcuni è stato considerato positivo perché ci ha liberato da ogni pretesa di assoluto. Indietro comunque è impossibile tornare. Nietzsche distingue un nichilismo passivo da uno attivo. Il nichilismo passivo è rappresentato dalla distruzione dei valori e in casi estremi anche dal disprezzo della realtà e quindi dal dire no alla vita.
Al contrario il nichilismo attivo vuole distruggere i valori per ricreare, attuare una trasvalutazione di essi e dire sì alla vita. Nietzsche è anche l’artefice di un altro nichilismo, quello delle interpretazioni. Il filosofo può essere per questo considerato il padre del relativismo, perché ha anticipato di un secolo gli antropologi culturali. Infatti per lui non esistono fatti ma solo interpretazioni. Nel romanzo “Padri e figli” di Turgenev il protagonista è lo studente di medicina Bazarov, che crede solo nella scienza (non fa altro che sezionare rane) e nell’utile, disprezzando il bello, il bene, il vero. Questo è il nichilismo russo, che è anche un nichilismo politico che si pone contro il potere degli zar. Per Heidegger il nichilismo nasce dal fatto che per la metafisica occidentale l’essere diventa un ente tra gli altri. Il nichilismo secondo lui è oblio dell’essere. Non solo ma per Heidegger esiste anche un nichilismo della tecnica, che assieme al denaro domina la nostra società. Queste due entità hanno preso il posto di Dio attualmente; lo hanno sostituito totalmente. Secondo Heidegger dietro alla tecnica non c’è alcun fondamento ontologico: c’è il nulla. Non va però confusa la tecnica con la tecnologia. La prima è una mistura di razionalità strumentale e massima efficienza. La tecnologia invece è l’insieme di prodotti creati grazie all’impiego della tecnica. Per Marx l’uomo è alienato ed è anche cosa tra le cose in un mondo caratterizzato dal feticismo delle merci (le relazioni sociali sembrano rapporti tra cose, nonostante si salvi l’interdipendenza) e dal valore di scambio degli oggetti. Marx tuttora può essere considerato attuale, nonostante il pessimo sfruttamento delle sue idee: nonostante i comunismi e alcuni comunisti. Per Emanuele Severino il nichilismo è originariamente dovuto alla credenza che le cose e le persone sono nel niente, esistono per un determinato periodo di tempo e ritornano nel niente. Il divenire quindi sarebbe solo l’apparenza del nulla. Ciò comporta di conseguenza una totale assenza di valori perché se il niente ha la meglio non c’è più alcun senso della vita, che non vale più la pena di essere vissuta. Secondo Severino il nulla fagociterebbe tutti i principi della società. Per Umberto Galimberti i greci consideravano il tempo come ciclico per cui il nichilismo non poteva avere la meglio perché tutto era prestabilito ed era destinato a ripetersi. Invece per i cristiani il tempo è lineare: il passato è il peccato originale, il presente è la redenzione, il futuro è la salvezza. Ma questo senso del tempo con la morte di Dio è scomparso. Il nichilismo deriverebbe quindi anche dal fatto che siamo orfani di un senso. Inoltre i greci avevano il senso del limite, mentre la razionalità tecnologica-scientifica non si pone mai limiti. Anche la produzione industriale non si pone limiti. Continua senza sosta. Junger la chiama “mobilitazione totale”. Ciò non è altro che il faustismo della civiltà occidentale individuato da Spengler. Il nichilismo perciò si manifesta nella tecnica. I greci avevano anche una altra cosa che noi non abbiamo più per combattere il nichilismo: una letteratura mitopoietica, che fissava degli archetipi nei miti. Per Stefano Zecchi solo una nuova concezione dell’arte (il mitomodernismo) può salvare dalla decadenza inevitabile a cui conduce il nichilismo. C’è inoltre un nichilismo morale (“se Dio non c’è tutto è permesso” nei fratelli Karamazov), secondo cui si può anche uccidere e un nichilismo esistenziale, che può portare in casi estremi all’autodistruzione (“Meglio bruciare subito che consumarsi lentamente” di Kurt Kubain). Se tutto va bene un pensatore occidentale può "credere in Dio ma non accettare questo mondo" perché è un mondo assurdo, sempre riprendendo Dostoevskij.  Ci sono filosofi che sostengono che bisogna ritornare a pensare come i greci per sconfiggere il nichilismo. Altri che ritengono che bisogna pensare come gli orientali ed altri che propongono la rinascita di una società cristiana, anche se secondo molti lo stesso cristianesimo contiene in sé alcuni elementi nichilistici. Inoltre il cattolicesimo ha mostrato molte contraddizioni, un perbenismo e una ipocrisia di fondo da parte dei propri rappresentanti, che ha generato in alcuni il nichilismo. Non solo ma molti cattolici sono dei nichilisti. Per Junger un modo per combattere il Leviatano, ovvero il nichilismo per esempio è l'arte.  Per alcuni filosofi il nichilismo è il vaso di Pandora. Per alcuni marxisti invece è un falso problema perché per essi è la struttura economica a determinare la sovrastruttura ideologica. Per gli idealisti è esattamente il contrario.
Per altri ancora struttura e sovrastruttura invece interagiscano continuamente e quindi non ci sarebbe il primato dell’una sull’altra. Ma andiamo oltre. Ognuno - dicevamo - ha la sua ricetta per debellarlo. Alcuni intellettuali aspettano l’avvento di un “ultimo uomo” che riesca a coesistere pacificamente con il nulla. Altri propongono “il pensiero debole” di Vattimo che indebolisca il soggetto e la ragione. Altri aspettano la radura di Heidegger: il gioco di ombre e di luci, che disvela l’esserci. Altri ancora sono a favore di una metafisica dei limiti. C’è chi aspetta un nuovo umanesimo e chi invece un nuovo Dio. Camus per combattere l’assurdo proponeva la rivolta: “mi rivolto, dunque siamo”. Il suo era un appello alla solidarietà tra gli uomini. Lo scrittore francese riprendeva la frase di Karamazov: “Se non sono salvi tutti, a che serve la salvezza di uno solo!”. Camus diceva no alla religione per abbracciare l’umanismo. Nel frattempo il nulla ci sovrasta. Forse il nichilismo non è ancora il peggiore dei mali, ma è senza ombra di dubbio uno dei più insidiosi perché non ci sono ancora rimedi efficaci e nell’affrontarlo spesso si rischia di imboccare dei vicoli ciechi e di finire nelle trappole della metafisica. Riflettere su questo problema culturale può voler dire spesso fare una grande confusione e talvolta rischiare di prendere degli abbagli. Per Umberto Galimberti nichilismo non significa caduta dei valori ma totale assenza di essi. Nichilismo quindi significa che i vecchi valori supremi non esistono più e non sono neanche stati rimpiazzati, sostituiti. Per alcuni filosofi il nichilismo nasce da una civiltà che pensava di aver raggiunto la verità e affermare che si ha il rimedio per sconfiggere questo male del nostro secolo significherebbe affermare che si sa la verità. Forse il nichilismo non ha soluzioni invece e finirà per divorarci. Il nichilismo è un termine che può acquisire tantissimi significati e può essere considerato la radice di tutti i mali e delle ingiustizie umane. C’è anche chi sostiene che il capitalismo selvaggio e il consumismo siano dovuti al nichilismo. Altri ancora sostengono che dietro le guerre ci sia il nichilismo e la volontà di potenza. Alcuni a torto ritengono che anche i kamikaze siano dei nichilisti, ma è tutto il contrario perché loro sono degli integralisti, degli assolutisti: ai loro occhi solo i loro valori sono gli unici veri e devono imporsi ad ogni costo sulla civiltà occidentale. Comunque il nichilismo può essere considerato un rompicapo metafisico, un rovello culturale, un atteggiamento esistenziale. Non solo ma dal punto di vista gnoseologico il nichilismo è scetticismo. Non dimentichiamoci poi che il nulla, così pervasivo nella società, causa disorientamento e malessere in alcune persone, che sono probabilmente anche più fragili psicologicamente. Secondo taluni tutto è vuoto e vano. Non c’è più fede. Non c’è più alcuna ideologia e neanche alcuna utopia. Non c’è più futuro. Nessuna prospettiva. Tutto è menzogna. Tutti sono degli impostori. Tutto è sterile. Tutto è caos. Nessuno può essere sé stesso perché tutto è recita. Tutto ciò che era verità oggi è divenuto favola. Non c’è più alcuna certezza assoluta. Il senso di annichilimento, lo sgomento del vuoto sono il brodo di coltura. Il nichilismo diviene inconfutabile. Il nulla è una ombra costante. I simulacri sono infiniti. Non si esce dal circolo vizioso del nichilismo se si cerca di speculare. Chi vuole smascherare la metafisica si trova al cospetto di un fantasma. Tutto è visto in modo pessimista. Tutti vorrebbero fuggire dal nichilismo ma è sempre più difficile farlo. Andy Warhol a proposito della vita scriveva: “Ti ammali e muori. Tutto lì. Perciò non devi fare altro che tenerti occupato». Alcuni si drogano. Altri ammazzano. L’emblema del nichilismo più significativo è quello di giovani che lanciavano sassi dal cavalcavia, nonostante avessero bevuto molte birre e probabilmente avessero disturbi di personalità. Quando a questi ragazzi chiesero per quale motivo l’avessero fatto risposero che non sapevano come passare il tempo. Però non tutti i nichilisti si comportano male. Bisogna anche ricordare che sono molto di più gli studiosi europei che quelli americani per esempio a riflettere su questa problematica perché probabilmente appartengono ad una civiltà più antica e percepiscono di più il tramonto della civiltà occidentale. La domanda che bisogna porsi per oltrepassare il nichilismo è la seguente: perché il nulla sta prendendo il sopravvento? I filosofi non si trovano minimamente d’accordo. Molteplici sono le diagnosi, ma forse il nichilismo è una malattia inguaribile di noi occidentali. È un virus invincibile; un veleno senza antidoti. È una piaga. Per alcuni è l’origine di ogni male. Hemingway scriveva: «Nulla nostro che sei nel nulla, nulla sia il tuo nome ed il tuo regno, nulla la tua volontà in nulla come in nulla. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano e rimetti a noi i nostri nulla come noi rimettiamo ai nostri nulla e liberaci dal nulla». E che dire di Leopardi, secondi cui “Tutto è nulla”? Probabilmente avevano entrambi compreso molto e cioè che l’essenza della nostra civiltà era il nulla: una società reificata e fondata sul nulla. A meno che non si ritrovi il senso autentico del tutto nella religione e/o nell’umanesimo.

 

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