Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Due parole sul male tra filosofia e letteratura...

giu 242022

 

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Monod ne "Il caso e la necessità" parla di "male dell'anima" dell'uomo contemporaneo. Per farla breve sono la mancanza di animismo (cioè non pensare più che le cose, gli animali, la natura abbiano anch'esse un anima) e il postulato di oggettività a causare il malessere dell'uomo odierno, secondo Monod. Insomma è colpa della scienza e a dirlo non è un umanista ma uno scienziato, un premio Nobel. In parole povere il vero male dell'anima è che l'uomo considera sé stesso e il mondo ormai senza anima. Nemmeno l'anima del mondo esiste più. Forse l'anima delle cose e del mondo erano riflessi dell'anima dell'uomo, ormai non pervenuta, scomparsa. Forse il problema è che noi siamo, le cose sono, la vita è e l'essere, qualsiasi essere, è dolore. Forse il dolore è anche dovuto a ciò che non siamo, a ciò che le cose e la vita non sono. Forse il male risiede, come intuì Pessoa, nella "stanchezza di esistere delle cose". In Montale abbiamo " il male di vivere", "l'anello che non tiene". Ungaretti in "La pietà" si sente "esiliato in mezzo agli uomini" e "Attaccato sul vuoto/ Al suo filo di ragno,/ non teme e non seduce/ se non il proprio grido". Eliot scrive "La terra desolata". Nessuno quindi sa con certezza se il male è nell'anima o nella vita. Nessuno sa qual è la radice del male. Tutto ciò è al di fuori della nostra portata. Di certo si sa che spesso il male sembra avere il sopravvento. C'è una quota parte di male ineliminabile, inestirpabile. Kant lo chiamava male radicale. Cristianamente il male esiste per tre motivi plausibili: 1) perché fa parte di un disegno divino imperscrutabile e non comprensibile all'uomo 2) per l'esistenza del diavolo 3) perché Dio ha dato il libero arbitrio all'uomo.
Forse per uno solo di questi motivi, forse per tutti i motivi. Fatto sta che siamo sempre circondati dal male. Ma cosa è il male? Il male può essere inteso sia come dolore, ingiustizia, peccato, mancanza, non essere, privazione del bene. Come rapportarsi a esso? Quale senso dare al male?
Per il poeta Maurizio Cucchi "il male è nelle cose" come il titolo omonimo del suo primo bel romanzo, il cui brano è molto eloquente: "Comunque, secondo me, le cose ci sono, ci sono e basta. La colpa non è di che le trova, e forse neanche di chi le adopera. In fondo il loro potenziale è sempre nel programma. E forse il male è proprio nel programma. L’uomo non crea un bel niente" (p.90).

 

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La colpa è quindi del programma, ovvero della vita e del mondo: ipotesi più che plausibile. E da questo che proviene tanto disagio? A ogni modo il romanzo di Cucchi è da leggere perché la narrazione è sapiente e non è per niente un concione. È un bel libro, scritto bene. Ne rileggo spesso alcuni brani. Penso che Cucchi come posatore sia sottovalutato,  se consideriamo  tutti i suii brani, a partire da "Il viaggiatore di città". Ogni giorno comunque la solita noia, il solito smarrimento, la solita estraneità. Poi la notte giunge improvvisa ad addormentare noi e le cose. Abbiamo un'anima rabberciata per la vita odierna. Potremmo affermare che questa vita moderna è senza anima. E se il male fosse dappertutto, sia nell'uomo che nelle cose? L'uomo fa male alle cose. Le cose fanno male all'uomo. L'uomo usa le cose per fare del male. Il circolo è vizioso. Per Husserl bisogna "ritornare al mondo della vita", mettere tra parentesi la scienza. Bisognerebbe perciò percepire le essenze, riappropriarsi della quotidianità, cogliere la bellezza della natura. L'etnometodologia studia le conversazioni comuni, le pratiche, le interazioni della vita quotidiana. E se la vita però fosse altrove, come nel romanzo di Milan Kundera? E se il male fosse nell'inafferrabilità, dell'inattingibilità dell'esistenza? E se il cerchio non fosse destinato a chiudersi? Ci sono cose buone e belle. Ci sono cose cattive. Ci sono istanti buoni e cattivi. Bisogna anche cercare di difendersi dalle cose, dagli istanti, dagli altri cattivi. Bisogna anche saper chiudere gli occhi, saper tollerare, incassare, lasciar andare, lasciar passare. La vita può far male. Egoisticamente una persona che legge o che scrive si fa del bene momentaneamente,  anche se il male sembra invincibile. 

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Forse il male sta nella morte di Dio (Nietzsche), nell'ingiustizia economica e nell'uomo ridotto a merce (Marx), nell'inautenticità dell'esistenza (Heidegger), nell'insensatezza e nell'aleatorietà dell'esistenza (Beckett, Ionesco), nella razionalità limitata (H. Simon), nella lotta per la vita (Darwin), nella civiltà repressiva e nella rinuncia pulsionale (Freud), nella crisi etica e nella perdita di valori (molti filosofi). Forse tutte le altre problematiche sono conseguenti a questi filoni di cose. Forse tutto origina dai mali individuati da Nietzsche, Marx, Heidegger, H. Simon, Darwin, Beckett, Ionesco, Freud, etc etc. Forse tutti gli altri derivano da essi, sono dei sottoproblemi. Di solito anche gli intellettuali privilegiano solo uno di questi aspetti della vita. Ci sarebbe bisogno invece di una cura che prevedesse tutti questi piani della realtà. Come sosteneva Federico II di Svevia bisognerebbe far vedere le cose come sono. Le cose però non sempre sono come appaiono. Poi il passaggio ulteriore è intuire l'essenza dell'apparenza e quindi manifestarla. Rendere evidenti le cose per quello che sono veramente è molto impegnativo. Ma ci sono anche le cose che non sono (gli "oggetti eterni" di Whitehead, ovvero le idee, i valori, le essenze). Scrive Remo Ceserani che Pascoli ha fiducia di "far parlare le cose". Ma per altri autori la coscienza è alienata e quindi non ci può essere corrispondenza veritiera con le cose oppure ontologicamente non si può giungere alle cose. Come scriveva Sant'Agostino "la verità abita nell'interiorità dell'uomo". Ma se l'interiorità è falsa, malata, alienata, inadeguata, lacerata tutto il resto percepito sarà tale anch'esso. Forse assistiamo all'impotenza delle parole. Le parole non sempre rappresentano fedelmente le cose. Il male è un corpo estraneo nell'uomo ma è anche un nemico interno. Infine bisognerebbe far vedere l'uomo come è e non è. Ma qual è con certezza la vera natura umana? L'uomo può essere bestiale o angelicato. Probabilmente l'origine di tutto è che siamo fatti male noi, ma anche le cose e il mondo. Bisognerebbe perciò fare piena luce sul male nostro e delle cose? Ne siamo davvero capaci? La letteratura sa trattare il male, lo sa affrontare, lo sa mostrare. Ma la letteratura non è mai un male. Poeti e scrittori si propongono di arrivare al fondamento dell'essere, intanto assumono un atteggiamento depressivo, nominano, sognando di ritornare nel ventre materno. Gli artisti cercano per tutta la vita quello che Borges chiamava un nuovo filone di cose. Però se non ci prepariamo al male esso ci prenderà totalmente alla sprovvista. È spesso all'improvviso che si presenta il male e per affrontare le cose bisogna essere sopratutto pragmatici. Non scordiamoci mai. La letteratura può rappresentare il male. Può condannarlo. Il male probabilmente è in me come nel mondo: è dappertutto. C'è violenza in me e nel mondo. Non ci si salva. Ogni istante almeno apparentemente è un bivio. Si brancola nel buio. Le certezze sono poche a onor del vero. La vita, stare al mondo è un compito arduo.

Breve considerazione su Ungaretti...

giu 172022

 

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Ungaretti dovrebbe essere un modello per i poeti contemporanei spesso illeggibili perché incomprensibili. Ognuno, dopo aver finito di scrivere una raccolta poetica, dovrebbe rileggere "Allegria", che si caratterizza per i versicoli immediati. Dovrebbe essere la prova del nove per tutti i poeti. Allo stesso modo ogni romanziere dovrebbe, dopo ogni sua fatica letteraria, rileggere "Se questo è un uomo" e "Una giornata di Ivan Denisovič" perché questi due capolavori riescono a coniugare anche essi sostanzialità e testimonianza. Poi magari ogni scrittore potrebbe decidere se pubblicare o rivedere di nuovo il lavoro. Ma ritorniamo a Ungaretti. Sono talmente dirette e spontanee le sue liriche, che riescono a spiazzare e a colpire favorevolmente anche i lettori più snob, abituati alla poesia del Novecento che si distingue per essere così intellettuale! Ungaretti è agli antipodi di poeti così ricercati come Eliot e Pound. Riesce a semplificare il linguaggio e a essere scarno ed essenziale. Nei suoi versi troviamo tutta la sua vita di esule che si forma culturalmente a Parigi (conoscendo Apollinaire e Picasso) e che combatte sul Carso. Queste sue poesie sono testimonianza ineguagliabile della guerra. Sono prive delle descrizioni e dell'eloquenza della lirica di quegli anni. Non vi sono leziosismi. Sono frutto di un'ispirazione, che trascende la metrica, la retorica e l'estetica. Non vi venga in mente che le sue poesie scaturissero solo da intuizioni, seppure formidabili. C'era del lavoro alle spalle. Erano state molte le varianti e le revisioni prima delle versioni definitive. A onor del vero bisogna anche ricordare che il poeta distrusse le tradizionali forme poetiche nelle prime liriche, ma successivamente dimostrò di saper utilizzare anche versi canonici come novenari ed endecasillabi. Forse oseremmo troppo a scrivere che fu una sorta di cubista della poesia nella sua prima fase. Come ebbe a scrivere Ungaretti per essere poeti è necessaria non solo la pazienza, la conoscenza della tradizione, l'intelletto. Bisogna anche saper fare i conti con il mistero che alberga in ogni animo: soltanto così una poesia può diventare unica come la sua. Ungaretti, quando scrisse i suoi primi innovativi versicoli, aveva appreso la lezione dei simbolisti francesi. Ma Ungaretti era completamente originale. Aveva subito saputo distinguersi dai suoi illustri predecessori. Era un predestinato della poesia. Lo stesso Thomas Merton scrisse che Ungaretti era sconvolgente e che la sua intensità annientava. Alcuni suoi versi rimarranno per sempre nella memoria di molti: "m'illumino d'immenso", "è il mio cuore il paese più straziato", "si sta/come d'autunno/ sugli alberi/ le foglie", "Di che reggimento siete/ fratelli?", "Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita", "tra un fiore colto e l'altro donato/ l'inesprimibile nulla". Queste illuminazioni esprimono in modo impareggiabile la precarietà e la fragilità proprie di chi combatte in una guerra assurda. Ungaretti aveva combattuto la grande guerra e per capire quanto fu devastante la prima guerra mondiale non bisogna andare molto lontano: basta andare a visitare Asiago, che fu completamente rasa al suolo in quegli anni. Ungaretti viaggiò molto. Visse molto. Soffrì molto. Non soltanto per l'esperienza della guerra ma anche per la morte del figlioletto di nove anni a cui dedicò la raccolta "Giorno per giorno". Il poeta si chiedeva come era possibile continuare a vivere e a fare le cose di ogni giorno quando non poteva più vedere il suo bambino, la cui voce non avrebbe udito più. Scrisse Ungaretti: "E t'amo, t'amo, ed è continuo schianto!...". Nella sua vita il poeta sperimentò i dolori più terribili: gli orrori della guerra e la scomparsa del figlioletto. Ma Ungaretti riuscì a non lasciarsi mai sopraffare dalle avversità e dai tristi eventi. Riuscì sempre a superare questi periodi di crisi, testimoniando con i suoi versi le tragedie vissute. La follia della guerra riuscì a vincerla confidando nell'uomo: credendo nella fraternità. Il dolore atroce per la perdita del figlio lo sconfisse non solo con la terapia della scrittura ma anche con la religiosità. Non auguro a nessuno di provare i dolori di Ungaretti. Dovrebbe però essere preso di esempio per la sua semplicità, che è mai scontata e non scade mai in banalità. Il Nostro scrisse in modo apparentemente semplice ed è comprensibile a tutti. Ma non lasciatevi ingannare. Ungaretti era anche un profondo conoscitore della lingua e della poesia. C'è chi potrebbe pensare che molti sarebbero in grado di scrivere come Ungaretti ma è un giudizio affrettato dovuto a pura superficialità e faciloneria: pensarla così è pura ingratitudine nei confronti di uno dei più grandi poeti del Novecento. Comunque Ungaretti fu il primo a scrivere in quel modo così breve e coinciso. Nel peggiore dei casi gli vanno riconosciute in tutta onestà sia la bravura che la grande originalità.

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