lug 132022
In molti credono nel mito dell’artista maledetto e nel binomio genio e sregolatezza. Di studi ne sono stati fatti parecchi negli ultimi duecento anni sul rapporto tra psicopatologia e creatività.
È dall’antichità che si suppone che gli artisti siano saturnini. Secoli fa si pensava che la creatività fosse un dono per pochi che avevano una dote innata. Erasmo da Rotterdam elogiò la follia (“la sola capace di rallegrare uomini e dei”), mentre lo stesso Cesare Lombroso associò il genio alla follia in quanto fu colpito dall’ingegno dei pazienti nei manicomi.
Alcuni si chiederanno cosa significhi esattamente il termine “follia”. Per i saggi è follia anche il possibile suicidio collettivo della specie a causa dell’inquinamento e della distruzione delle risorse naturali. Ma torniamo al rapporto tra disturbi psichici e creatività.
Secondo le ricerche più recenti in linea di massima sarebbero creative alcune persone depresse, alcuni ciclotimici, alcuni maniaco-depressivi, ma anche alcuni che soffrono di schizofrenia. Secondo la psichiatria la schizofrenia sarebbe contrassegnata oltre che da deliri e dalle allucinazioni anche da ritiro sociale e scarsa capacità di comunicazione. Ciò sembrerebbe in netto contrasto con la smodata voglia di esprimersi e dalla grande capacità comunicativa degli artisti. Gli schizofrenici in genere dovrebbero avere povertà ideativa e soffrire di anaffettività.
Eppure nel corso della storia ci sono stati anche casi di artisti schizofrenici. Secondo gli studiosi Van Gogh, Holderlin, Tasso, Gogol, Dino Campana, Strindberg, Artaud erano schizofrenici (tanto per citare i più celebri). Si veda a tale riguardo lo studio di Eugenio Borgna su Artaud.
Non è assolutamente detto però che se uno è schizofrenico debba per forza diventare artista o che al contrario essere artista comporta il rischio di diventare schizofrenico. Le persone schizofreniche in Italia sono circa l’1% della popolazione e solo una esigua minoranza di essi è veramente creativa. Bisogna però considerare che non a tutti gli schizofrenici viene diagnosticata la schizofrenia. Esiste comunque un legame tra schizofrenia e creatività artistica. Lo possono testimoniare gli psicoterapeuti e gli psicologi che curano pazienti psicotici con l’arteterapia.
Nessuno però è riuscito a spiegare scientificamente questo legame tra creatività e follia, anche se di ipotesi ne sono state fatte molte. L’espressione artistica sarebbe una valvola di sfogo e la creazione produrrebbe uno stato euforico. Le persone cosiddette equilibrate e normali non avrebbero alcun bisogno di provare queste emozioni. Starebbero già bene senza bisogno di creare.
Per gli psicoanalisti la creatività sarebbe una risposta all’angoscia. Per gli psicologi cognitivi le persone creative starebbero buona parte del tempo in uno stato di rêverie prima di giungere all’illuminazione. La psicopatologia inoltre potrebbe causare originali associazioni di idee, che potrebbero rendere pregevole la creazione di uno psicotico. Come definire però la creatività?
Secondo il matematico Henri Poincarè: “Creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili”. A mio avviso questa è la definizione più sensata, ma molti hanno provato a stabilire in cosa consistesse il pensiero creativo. Gli psicologi ad esempio hanno studiato la creatività tramite vari approcci (psicometrico, psicodinamico, cognitivo, comportamentale) e sono giunti a conclusioni differenti.
Spesso per essere creativi gli intellettuali devono essere fuori dagli schemi e originali. Avere disturbi dell’umore, disturbi di personalità o turbe psichiche può talvolta aiutare a vedere il mondo in modo inusuale e ad accorgersi di cose che gli altri non vedono. Ritornando alla schizofrenia, bisogna ricordare che sono diversi i miti da sfatare e che non sempre una persona affetta da schizofrenia ha un deterioramento cognitivo e una disorganizzazione del pensiero tale da non poter comunicare con gli altri.
Ogni caso clinico è una storia a sé e deve essere valutato singolarmente. Ci sono diverse forme di schizofrenia: quella di tipo paranoide, quella di tipo disorganizzato, quella di tipo catatonico, etc etc. Ci sono anche diverse fasi. Ci possono essere storie di persone caratterizzate da miglioramenti e ricadute.
È sempre difficile generalizzare. La creatività è un mistero; la cosiddetta follia è un mistero e anche il legame tra queste due realtà è un enigma insolubile su cui molti studiosi hanno cercato di indagare senza approdare a niente di certo. Viene poi da chiedersi se il disturbo psichico tolga o aggiunga all’artista. I pareri sono discordanti.
C’è chi sostiene che un artista sia tale a causa del disturbo psichico e chi invece ritiene che lo sia malgrado questo. Una cosa è sicura: l’arte non fa impazzire ma nella stragrande maggioranza dei casi è terapeutica.
giu 232022
Il gruppo 63 aveva teorizzato lo "schizomorfismo" nella scrittura, ovvero ci doveva essere una mimesi (una copia che riproducesse rispecchiamento) tra un mondo schizofrenico e le forme letterarie. Se in particolare per Sanguineti l'ideologia era sempre linguaggio (primo passo per smascherare l'inganno della realtà) per la neoavanguardia (di cui lo stesso Sanguineti faceva parte) bisognava compiere un ulteriore passo avanti: denunciare la follia del mondo, riproducendola fedelmente nella letteratura. Il mondo per Sanguineti era folle e ingiusto per il predominio dell'ideologia capitalistica. Nel gruppo 63 non veniva esplicitata la natura della follia del mondo. Il mondo era folle fisiologicamente, ontologicamente? Oppure il capitalismo selvaggio, che sfruttava alcuni uomini e la natura, era un agente catalizzatore? Il capitale era il motivo scatenante di tutto? Oggi sappiamo che il comunismo non è la panacea di tutti i mali. Ma la questione restava irrisolta. Secondo una diagnosi di natura la schizofrenia negli uomini era causata da un'eccessiva produzione di dopamina nel sistema mesolimbico. Ma cosa causava la follia del mondo? Che questo fosse un crazy world, che tra l'altro scatenava nevrosi e psicosi nei cittadini che vi si adattavano, l'aveva già scritto Fromm. Era il "disagio della civiltà" studiato, primo tra tutti, da Freud. Quindi la follia non solo scatenava in taluni disadattamento, ma in alcuni era l'effetto dell'integrazione a questo mondo. Perché trattare dei pochi folli quando era l'intero mondo a essere folle? Era la follia del mondo che contagiava gli esseri umani, che perpetuavano a loro volta le dinamiche perverse e ingiuste del sistema folle. La follia, intesa in senso erasmiano, può essere rivelatrice di conoscenza e verità. Il folle può coincidere con il saggio. Appartenendo a un mondo apparentemente altro, può vedere cose che le persone comuni non vedono e arrivare dove gli altri non arrivano. Scriveva in una sua celebre poesia Zanzotto: "Mondo, sii, e buono;/ esisti buonamente". Ma il mondo non è mai buono. Ha troppe brutture. Montale in una sua poesia scriveva:
"Se il mondo va alla malora
non è solo colpa degli uomini.
Così diceva una svampita
pipando una granita col chalumeau
al Cafè de Paris.
Non so chi fosse. A volte il Genio è quasi
una cosa da nulla, un colpo di tosse."
La colpa è di tutti e di nessuno? Il mondo va male non solo per gli uomini ma anche per Dio allora? La domanda fondamentale dell'etica cristiana è la seguente: "Se esiste Dio perché allora c'è il male?". Questa è la teodicea cattolica e non solo. La domanda che si fa un cattolico è: perché un essere onnipotente, infinitamente buono e misericordioso non ha fatto un mondo buono? E poi mi chiedo anche perché se Dio ha fatto a sua immagine e somiglianza gli uomini ha messo in noi anche la capacità di essere violenti e fare del male? Perché un Dio buono non ha fatto gli uomini buoni? Perché ci sono uomini più propensi a fare del male, essendo più predisposti dalla loro natura e/o dalle circostanze? La colpa è degli uomini ma anche di Dio che ha dato loro il libero arbitrio? Cosa può fare la letteratura di fronte a tutto ciò? Per Carlo Bo la letteratura deve essere come la vita. Per Bo la letteratura e la vita sono "strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi". Sempre Bo scriveva: "sappiamo che la letteratura è una strada, e forse la strada più completa, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza". Però per Bo la vita del letterato doveva essere pura o quantomeno coerente all'opera. Da tempo immemorabile a questo proposito ci sono critici letterari interessati anche alla vita dell'artista e altri meno. E ancora sempre per Bo gli autori dovevano essere di specchiata moralità e agire secondo coscienza. E allora gli autori con coscienza infelice o falsa coscienza? Per Giorgio Manganelli la letteratura è menzogna. La letteratura, quando va bene, è un "come se" per il grande scrittore. Ma se il mondo è diventato favola, come scriveva Nietzsche, allora Manganelli è nel giusto perché la letteratura come menzogna rispecchia la menzogna del mondo. Ci sono diversi modi in cui approcciare la realtà per uno scrittore o un poeta:
pensare che il mondo sia vero e riprodurlo con la verità dell'artista
pensare che il mondo sia vero e opporsi con la menzogna dell'artista
pensare che il mondo sia falso e opporsi con la verità dell'artista
pensare che il mondo sia falso e riprodurlo con altrettanta falsità
Il mondo quindi può essere considerato vero o falso e poi essee capovolto, rovesciato con la scrittura. Ma qui la faccenda si complica ulteriormente perché verità e menzogna, falso e vero, possono essere mischiati e non c'è modo di dividerli, separarli. Oppure l'uomo non è più in grado di saper distinguere oggi il vero e il falso, di modo che vero e falso sono un tutt'uno inscindibile. Nessuno sa con certezza assoluta lo statuto né l'essenza della realtà. Inoltre per farla diventare letteratura la realtà va analizzata e sintetizzata correttamente. Quanti sono in grado di farlo? Riprendendo Nietzsche ne "Il crepuscolo degli idoli" non solo il vero può essere "inattingibile" ma anche il falso. Secondo l'ipotesi di Nietzsche il vero è inconoscibile. È naturale che se non si può distinguere il falso dal vero non si può neanche discernere tra il bene e il male. Noi occidentali abbiamo un'idea cumulativa del sapere, tendiamo alla verità perché pensiamo di potervi avvicinare sempre più, passo dopo passo, tassello dopo tassello, gradino dopo gradino. Come scrisse Emerson: "il saggio cerca la verità. Lo sciocco crede di averla trovata". Wittgenstein in "Della certezza" scrive: "Se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso". Ma quale è è cosa è il fondamento? La verità poggia su fondamenti instabili. Kant proponeva lo schematismo trascendentale. Le categorie con cui conosciamo la realtà per Kant erano innate e universali. Invece Umberto Eco ha messo in dubbio tutto ciò con l'esempio dell'ornitorinco che ha alcune caratteristiche dei mammiferi ma non è mammifero, bensì oviparo. Di conseguenza le categorie e gli schemi cognitivi non sono un a priori, ma spesso sono a posteriori, ovvero storicamente e culturalmente determinate. E poi anche se sapessimo la verità quale senso dovremmo darle e con esso quale senso dovremmo dare alla nostra vita? Ma c'è un altro problema insormontabile. Merleau-Ponty ne "La fenomenologia della percezione" scriveva che "la scienza non è stata per nulla capace di illuminare la natura dell'esperienza soggettiva". E ancora cosa è la coscienza? Grazie a cosa siamo coscienti?
E poi si aggiunge la difficoltà che viviamo nell'epoca delle post-verità, in cui si crede alle bufale del web, alle fake news, alla disinformazione, senza cercare la verifica e il controllo dei fatti. Trovo che questa frase sia inoppugnabile: "Il fatto moderno è che noi non crediamo più in questo mondo” (G. Deleuze, L’immagine-tempo. Ubulibri, 1989, p. 191).
E se la vita è liquida per dirla alla Bauman (ovvero precaria, imprevedibile, piena di incognite, estremamente mutevole) allora anche la verità potrebbe essere altrettanto "liquida". La vita comunque nella migliore delle ipotesi, in assenza di certezze, dovrebbe essere una ricerca incessante, spesso infruttuosa, si spera non vana. Jung scrisse che qualsiasi visione del mondo era da considerarsi solo un'ipotesi. Come cantava Enrico Ruggeri nella vita dovremmo morire crescendo.
Infine come scritto nell'Ecclesiaste il sapere accresce il dolore, ma è anche vero che la sofferenza accresce il sapere. Ma siamo così convinti di conoscere? E se la verità che ha il conforto e la sicurezza della conoscenza condivisa fosse solo un'illusione? Siamo poi così sicuri che possa verificarsi l'etica del discorso, la situazione discorsiva ideale di Habermas, secondo cui i dialoganti si dimostrano chiari, sinceri, comprensibili, onesti intellettualmente? Siamo certi che si possa mettere in pratica i dettami di Habermas sull'agire comunicativo? E se tutta la vita fosse illusione? Se questa vita non fosse che sogno?