Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Citazioni e considerazioni (si spera pertinenti) su scrittura, società, potere, psiche e memoria...

giu 302022

 

 

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La letteratura è minacciata dalla comunicazione di massa, al punto che Montale nel suo discorso per il Nobel nel 1975 si domanda se in una società di massa possa sopravvivere la poesia e conclude così: "Si potrebbero moltiplicare le domande con l’unico risultato che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun’altra creatura vivente può vantare. Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. E’ come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può essere un’epoca sterminata, possa ancora parlarsi)".
La letteratura è amplificata, potenziata, ma in parte deformata e resa un poco asettica dal web. Siamo sicuri che la critica non diventerà giornalismo? Il significato non prevarrà sul suono, il segno sul simbolo, l'algoritmo sul mito?
La letteratura italiana è inoltre diventata poca cosa, relegata ai margini con il dominio dell'inglese. Siamo una provincia dell'impero anglofono. Non siamo neanche più una riserva. La lingua italiana arricchita o divorata dagli inglesismi? Avrà ancora modo di esistere la letteratura italiana?
La poesia che relazione può avere con la tradizione (a chi deve rifarsi uno scrittore? Con chi deve essere uno scrittore stilisticamente e letterariamente? Oppure deve pensare: "toglietemi la storia, sennò da dove ricomincio?" come negli anni '70 scrisse Milo De Angelis)? Bisogna guardare "Conversazioni su Tiresia", monologo di Andrea Camilleri e poi magari decidere, anche se per Eliot la tradizione e il talento individuale dovrebbero sempre interagire.
Ha più senso scrivere? Cosa può comunicare oggi uno scrittore? Essere per esempio irregolari e di nicchia può servire a qualcuno? Probabilmente né agli altri né a sé stessi. Comunicare la propria incomunicabilità spesso significa parlare da soli contro un muro e sentire l'eco delle proprie parole. Niente altro che questo. E se uno invece vuole arrivare alle masse finisce di solito per non fare letteratura. In ogni caso spesso non vengono salvaguardati né lo scrittore né la letteratura.

 

 

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"Duchamp diceva: se un oggetto a tre
dimensioni proietta un'ombra a due,
dovremmo immaginare quell'ignoto
oggetto a quattro dimensioni di cui noi
siamo l'ombra. Da parte mia, mi affascina la
ricerca dell'oggetto a una dimensione che
non getta ombra".
Octavio Paz da "Corrente alterna"

 

 

Forse l'oggetto a quattro dimensioni di cui teorizzava Duchamp è ciò che ci trascende, ovvero Dio. Meglio rasentare terra col nostro volo, direbbe Bob Dylan. Quindi è del tutto legittima la ricerca di Paz dell'oggetto a una dimensione che non getta ombra. Ma noi esseri umani percepiamo il mondo in modo tridimensionale grazie alla superficie bidimensionale della nostra retina. La quarta dimensione ci sfugge, ma anche una sola dimensione ci sfugge. Una sola dimensione è al di sotto della nostra soglia di coscienza. Noi non possiamo percepirla come gli ultrasuoni, che invece sentono i cani. Noi non abbiamo neanche gli occhi mirifici della mosca. Certe cose sono precluse alla nostra percezione. Lo scrittore deve perciò fare riferimento a un'altra dimensione inaccessibile? Non è chiedere troppo?  Forse è troppo. È un dato di fatto. Dobbiamo accettarlo. Non possiamo farci niente, a meno che l'oggetto a una dimensione che non getta ombra non debba intendersi come l'inconscio (non totalmente attingibile) o il nostro Sé (sfuggente). La vera letteratura potenzialmente si dovrebbe confrontare con tutto ciò? E se scrivere significasse gettare un ponte sull'assurdo?

 

 

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Houellebecq scrive che l'uomo contemporaneo legge perché "ha bisogno di altre vite, diverse dalla sua, semplicemente perché la sua non gli basta". Leggere significa quindi avere un arricchimento esperienziale. Di solito ci arricchiamo con le parole, i pensieri, la fantasia degli scrittori morti, difficilmente degli autori contemporanei. Ma come affrontare il mondo? Con la crudezza anche se con la penetrazione psicologica di Houellebecq, che talvolta finisce nella provocazione fuori luogo e nelle forzature estremistiche? Oppure con il rigore morale di Dante, che addirittura si erge a giudice delle azioni altrui, ma anche con la sua grazia e la sua leggiadria, come per esempio in queste terzine del primo canto del Purgatorio, in cui descrive come si lascia alle spalle l'inferno. In queste terzine è Virgilio che pulisce il viso di Dante con la rugiada: 


Quando noi fummo là ‘ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada, 123

ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ‘l mio maestro pose:
ond’io, che fui accorto di sua arte, 126

porsi ver’ lui le guance lagrimose:
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l’inferno mi nascose.

 

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 La prima cosa che il potere vuole è interferire su quelli che Lewin chiamava “campi di forza”. Anche questo è un modo per imbrigliare le carte, per confonderci interiormente. È sempre più difficile trovare il modo, lo spazio e per molti il tempo di concentrarsi, di riflettere. Anche molte persone che svolgono professioni intellettuali non ci riescono e delegano perciò a intellettuali riconosciuti il compito arduo di pensare. Però a molti cittadini oltre alla possibilità di riflettere sul mondo manca la possibilità di riflettere, di meditare sulla propria psiche, sulla propria vita; per questo chiedono aiuto a un/a analista. In poesia spesso è il testo che ci fa da analista. Oppure paziente e analista coesistono in noi stessi all’interno della scrittura, della valutazione, della censura, della revisione. In poesia uno può dar libero sfogo al suo materiale spurio psichico, così come può controllare l’inconscio. Ma l’inconscio non si può rimuovere totalmente: qualcosa sfugge sempre. Esprimere il proprio inconscio oltre che una rispettabile scelta artistica è anche un atto di libertà interiore, per alcuni addirittura una necessità interiore.

Un’altra cosa che il potere vuole fare è imporre un immaginario e un inconscio collettivo che sovrasti totalmente sull’inconscio individuale. Ho già espresso a più riprese questo concetto: l’inconscio collettivo attuale non ha più archetipi decenti perché mass media, moda, cinema, televisione non sono più mitopietici come un tempo lo era la letteratura. Oggi gli archetipi propinati sono tutti negativi. È anche questo un modo per renderci senza principi, per farci mancare punti fermi e terreno sotto i piedi. Ma non c’è solo questo. Andiamo oltre.

“Se la funzione alfa non agisce sulle percezioni, ad esempio emozioni dolorose, allora l’esperienza viene espulsa, mediante un’attività pilotata dall’angoscia. Una paziente diceva: “non mi sono dovuta alzare per andare in bagno, nel bel mezzo della notte, perché ho fatto un sogno”. Intuitivamente riconosceva che il sogno trattiene qualcosa in modo che non si debba evacuare precipitosamente. Bion chiama questi elementi che non possono essere trattenuti nella mente elementi beta. […] Sono non-digeriti e danno la sensazione di essere cose-in-sé. Come corpi estranei all’interno della mente. Sono solo adatti ad essere evacuati perché non li si può pensare. Sono persecutori: pezzi di scarto dei quali la mente vuole sbarazzarsi; secondo il principio di piacere quel che provoca disagio viene espulso.” (Symington J e N. (1996), Il pensiero clinico di Bion, Raffaello Cortina, Milano, 1998. [p. 68]). Il potere tramite mass media, moda, pornografia non vuole che metabolizziamo gli oggetti del nostro desiderio. Non vuole che li comprendiamo, che li interiorizzamo globalmente, che li rielaboriamo criticamente e consapevolmente. Per Kernberg in questo modo non siamo più in grado come un tempo di “integrare le parti buone con quelle cattive”. Il potere vuole da noi la scarica, l’acting out senza naturalmente che mai avvenga l’abreazione. Così facendo il potere cerca di ridurre la funzione alfa e di aumentare gli elementi beta. La funzione alfa digerisce tutto ciò che è psichicamente negativo. Bion usa proprio la metafora della digestione. Il desiderio non è che una delle tante cose umane su cui agisce la funzione alfa. La poesia è funzione alfa allo stato puro. Ecco perché la poesia dà noia al potere e i mass media rivolgono un’attenzione insufficiente nei confronti della poesia. La poesia è conoscenza e comunicazione dal nostro profondo al profondo altrui ed è per questo che dà noia al potere, che ci vorrebbe conformisti, frivoli, superficiali, consumistici.

A ogni modo lo scrittore non può autoesaltarsi. Dovrebbe essere contro il potere. Dovrebbe denunciare il disastro ecologico, le ingiustizie economiche. Dovrebbe fare denunce sociali e/o esprimere disagio esistenziale. Ci si potrebbe accontentare quando non tratta delle grandi assurdità della vita e del mondo se riesce a mostrare quelle piccole, come un turista, che da dieci anni non va in ferie e quando va in vacanza è costretto a stare tutto il tempo in albergo a causa del maltempo, oppure come una donna che porta con sé il suo bambino, gli mette anche il casco, e poi attraversa con il rosso.

Ma non scordiamoci che l'uomo sarà sempre un "animale simbolico" come lo definì Cassirer e inoltre anche Goethe nel Faust scrisse: "Tutto ciò che passa è solo un simbolo; l'inattingibile, qui si fa evento; l'indescrivibile, qui ha compimento; l'Eterno Femminile ci fa salire".

 

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La scrittura, anche quella di infimo livello (come la mia) è memoria o suo tentativo goffo, maldestro. Quando scrivo mi ricordo, cerco di ricordarmi. Ma cosa? Per quel che mi riguarda è ricordarmi all’improvviso di pomeriggi afosi ed estivi in una stanza d’albergo in una località imprecisata del lago di Garda oppure di una delle tante sere sulla soglia dell’ingresso a guardare la vita della piazza in attesa di chiudere la cassa e il negozio. È ricordarmi all’improvviso di tutto il tempo perso a rigirarsi nel letto, rimuginando in un mix quasi letale fantasie erotiche e frustrazioni sessuali. Ricordarmi scene di vacanze da bambino o da adolescente sotto l’ombrellone a Cecina oppure al bagno Trieste a Rosignano. Ricordarmi da giovane delle mie notti brave e poi il tempo passato in sala di attesa ad aspettare il treno del mattino, che mi riportava a casa. Ricordarmi tutte le notti insonni e i giorni sonnambuli da giovane. Ricordarmi i viaggi di due/tre giorni fatti con mio padre, a giro per l’Italia e pensare che forse non andremo mai a visitare Matera o che non ritornerò più nelle Marche o all’Aquila. Ricordarmi le cene con gli amici in varie località d’Italia, amici persi, mai più rivisti. Ricordarmi i pochissimi amori e i tanti rifiuti, le delusioni cocenti. Ricordarmi le ore distratte a leggere libri da studiare e le lezioni frequentate svogliatamente. Ricordarmi il vocio indistinto di una strada principale del centro o il brusio in una osteria. Ricordare i viaggi in treno, le impressioni guardando fuori dal finestrino, le viaggiatrici nello stesso scompartimento, i giochi di sguardi, le conversazioni, i silenzi. Ricordare tutte le passanti che abbiamo guardato e che non ci consideravano minimamente. Ricordare le passeggiate col mio cane, con mia madre al parco dei Salici o alla Sozzifanti. Ricordare tutti i sogni, le aspirazioni, i voli pindarici, le albagie, le illusioni, alcuni dichiarati, altri mai minimamente confessati, tutti abbattuti dalla realtà, dalla ragione, dall’età. Ricordare tutti i viaggi, tutte le città che ho visto. Ricordare tutte le nostre metamorfosi, le nostre idee, i nostri sentimenti, la nostra rabbia, le nostre malinconie, i miti creduti. Ricordare tutti gli omicidi, le scene di violenza reali o fittizie a cui abbiamo assistito alla televisione o su Internet. Ricordare tutti i libri letti e accorgersi che è rimasto solo un senso implicito, una conoscenza implicita. Ricordare le astrazioni, gli intellettualismi che non servono a proteggersi dai colpi bassi della vita né a fare da schermo per non mettersi a nudo. Ricordare che nessuna opera d’arte rende la vita fedelmente così come è. Ricordare della maturità acquisita, della pochissima arte, della insipida e scontata saggezza. Ricordare della teoria che si fa esperienza di vita e dell’esperienza di vita che si fa teoria. Ricordarmi di tutte le nozioni apprese, interiorizzate e poi lasciate andare, perdute per sempre. Ricordarmi tutte le nostre conversazioni, le frasi dette agli amici, ai familiari, frasi di circostanza, spesso di convenienza e chiedersi quanto fosse di vero, di autentico in tutte le parole dette e scritte (ma solo io, nessun altro cretino, posso stabilire se siano autentiche o meno le mie parole e forse nel momento in cui le ho scritte o proferite erano autentiche). Ricordare tutte le persone sfiorate, intraviste e tutte le persone conosciute, apparentemente in modo profondo, ma che non abbiamo mai afferrato, mai colto totalmente. Ricordare e dopo aver fatto notevoli sforzi di memoria capire che probabilmente tutto ciò che era più importante ci è sfuggito, è passato dalle maglie della memoria, si è involato chissà dove. Quale archivio disordinato e immenso di cianfrusaglie, di cose squallide è la memoria di ognuno! Fatico a trovare un senso a tutto questo, anzi sarò più sincero: non lo trovo assolutamente. Lo smemorato di Collegno e il Funes di Borges sono due facce della stessa medaglia. L’ippocampo serve per l’apprendimento, ma poi ci vuole la reiterazione per conservare tutto a lungo termine. La memoria talvolta degenera fino alla malattia degenerativa, ma non improvvisatevi neurologi! Si può vivere senza ricordare? Ogni sera prima di addormentarci facciamo il riepilogo spesso del giorno trascorso. Si può ricordare senza vivere? Non ci si può limitare a ricordare senza più vivere perché ricordare non è vivere ma tutt'al più rivivere. Memoria e vita sono legate a doppio filo, ma forse il loro impasto è sadico, crudele, eppure così raffinato. Alcuni perdono memoria e altri si perdono nella memoria. Ci vorrebbe un uso saggio della memoria per vivere! Ma non ci sono leggi certe perché ogni vita, ogni memoria hanno le loro regole. Aveva ragione Proust: la selezione, l’archiviazione, il richiamo della memoria è grosso modo involontario. Do ragione a Proust senza erigere una cattedrale della memoria come fece lui perché non ne avrei il genio né ne scorgerei la benché minima utilità: non frequentai la crema della crema della società come fece lui. Ho in mente solo piccoli ricordi, minuscoli pensieri, pronti a ogni evenienza, spesso adibiti a scacciare la noia. Francamente ammettiamolo pure: ognuno di noi nel profondo conserva una certa ossessività, ritornano nella sua mente, anche quando essa è libera di scorrazzare liberamente, sempre le solite immagini ricorrenti.

Due parole sul male tra filosofia e letteratura...

giu 242022

 

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Monod ne "Il caso e la necessità" parla di "male dell'anima" dell'uomo contemporaneo. Per farla breve sono la mancanza di animismo (cioè non pensare più che le cose, gli animali, la natura abbiano anch'esse un anima) e il postulato di oggettività a causare il malessere dell'uomo odierno, secondo Monod. Insomma è colpa della scienza e a dirlo non è un umanista ma uno scienziato, un premio Nobel. In parole povere il vero male dell'anima è che l'uomo considera sé stesso e il mondo ormai senza anima. Nemmeno l'anima del mondo esiste più. Forse l'anima delle cose e del mondo erano riflessi dell'anima dell'uomo, ormai non pervenuta, scomparsa. Forse il problema è che noi siamo, le cose sono, la vita è e l'essere, qualsiasi essere, è dolore. Forse il dolore è anche dovuto a ciò che non siamo, a ciò che le cose e la vita non sono. Forse il male risiede, come intuì Pessoa, nella "stanchezza di esistere delle cose". In Montale abbiamo " il male di vivere", "l'anello che non tiene". Ungaretti in "La pietà" si sente "esiliato in mezzo agli uomini" e "Attaccato sul vuoto/ Al suo filo di ragno,/ non teme e non seduce/ se non il proprio grido". Eliot scrive "La terra desolata". Nessuno quindi sa con certezza se il male è nell'anima o nella vita. Nessuno sa qual è la radice del male. Tutto ciò è al di fuori della nostra portata. Di certo si sa che spesso il male sembra avere il sopravvento. C'è una quota parte di male ineliminabile, inestirpabile. Kant lo chiamava male radicale. Cristianamente il male esiste per tre motivi plausibili: 1) perché fa parte di un disegno divino imperscrutabile e non comprensibile all'uomo 2) per l'esistenza del diavolo 3) perché Dio ha dato il libero arbitrio all'uomo.
Forse per uno solo di questi motivi, forse per tutti i motivi. Fatto sta che siamo sempre circondati dal male. Ma cosa è il male? Il male può essere inteso sia come dolore, ingiustizia, peccato, mancanza, non essere, privazione del bene. Come rapportarsi a esso? Quale senso dare al male?
Per il poeta Maurizio Cucchi "il male è nelle cose" come il titolo omonimo del suo primo bel romanzo, il cui brano è molto eloquente: "Comunque, secondo me, le cose ci sono, ci sono e basta. La colpa non è di che le trova, e forse neanche di chi le adopera. In fondo il loro potenziale è sempre nel programma. E forse il male è proprio nel programma. L’uomo non crea un bel niente" (p.90).

 

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La colpa è quindi del programma, ovvero della vita e del mondo: ipotesi più che plausibile. E da questo che proviene tanto disagio? A ogni modo il romanzo di Cucchi è da leggere perché la narrazione è sapiente e non è per niente un concione. È un bel libro, scritto bene. Ne rileggo spesso alcuni brani. Penso che Cucchi come posatore sia sottovalutato,  se consideriamo  tutti i suii brani, a partire da "Il viaggiatore di città". Ogni giorno comunque la solita noia, il solito smarrimento, la solita estraneità. Poi la notte giunge improvvisa ad addormentare noi e le cose. Abbiamo un'anima rabberciata per la vita odierna. Potremmo affermare che questa vita moderna è senza anima. E se il male fosse dappertutto, sia nell'uomo che nelle cose? L'uomo fa male alle cose. Le cose fanno male all'uomo. L'uomo usa le cose per fare del male. Il circolo è vizioso. Per Husserl bisogna "ritornare al mondo della vita", mettere tra parentesi la scienza. Bisognerebbe perciò percepire le essenze, riappropriarsi della quotidianità, cogliere la bellezza della natura. L'etnometodologia studia le conversazioni comuni, le pratiche, le interazioni della vita quotidiana. E se la vita però fosse altrove, come nel romanzo di Milan Kundera? E se il male fosse nell'inafferrabilità, dell'inattingibilità dell'esistenza? E se il cerchio non fosse destinato a chiudersi? Ci sono cose buone e belle. Ci sono cose cattive. Ci sono istanti buoni e cattivi. Bisogna anche cercare di difendersi dalle cose, dagli istanti, dagli altri cattivi. Bisogna anche saper chiudere gli occhi, saper tollerare, incassare, lasciar andare, lasciar passare. La vita può far male. Egoisticamente una persona che legge o che scrive si fa del bene momentaneamente,  anche se il male sembra invincibile. 

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Forse il male sta nella morte di Dio (Nietzsche), nell'ingiustizia economica e nell'uomo ridotto a merce (Marx), nell'inautenticità dell'esistenza (Heidegger), nell'insensatezza e nell'aleatorietà dell'esistenza (Beckett, Ionesco), nella razionalità limitata (H. Simon), nella lotta per la vita (Darwin), nella civiltà repressiva e nella rinuncia pulsionale (Freud), nella crisi etica e nella perdita di valori (molti filosofi). Forse tutte le altre problematiche sono conseguenti a questi filoni di cose. Forse tutto origina dai mali individuati da Nietzsche, Marx, Heidegger, H. Simon, Darwin, Beckett, Ionesco, Freud, etc etc. Forse tutti gli altri derivano da essi, sono dei sottoproblemi. Di solito anche gli intellettuali privilegiano solo uno di questi aspetti della vita. Ci sarebbe bisogno invece di una cura che prevedesse tutti questi piani della realtà. Come sosteneva Federico II di Svevia bisognerebbe far vedere le cose come sono. Le cose però non sempre sono come appaiono. Poi il passaggio ulteriore è intuire l'essenza dell'apparenza e quindi manifestarla. Rendere evidenti le cose per quello che sono veramente è molto impegnativo. Ma ci sono anche le cose che non sono (gli "oggetti eterni" di Whitehead, ovvero le idee, i valori, le essenze). Scrive Remo Ceserani che Pascoli ha fiducia di "far parlare le cose". Ma per altri autori la coscienza è alienata e quindi non ci può essere corrispondenza veritiera con le cose oppure ontologicamente non si può giungere alle cose. Come scriveva Sant'Agostino "la verità abita nell'interiorità dell'uomo". Ma se l'interiorità è falsa, malata, alienata, inadeguata, lacerata tutto il resto percepito sarà tale anch'esso. Forse assistiamo all'impotenza delle parole. Le parole non sempre rappresentano fedelmente le cose. Il male è un corpo estraneo nell'uomo ma è anche un nemico interno. Infine bisognerebbe far vedere l'uomo come è e non è. Ma qual è con certezza la vera natura umana? L'uomo può essere bestiale o angelicato. Probabilmente l'origine di tutto è che siamo fatti male noi, ma anche le cose e il mondo. Bisognerebbe perciò fare piena luce sul male nostro e delle cose? Ne siamo davvero capaci? La letteratura sa trattare il male, lo sa affrontare, lo sa mostrare. Ma la letteratura non è mai un male. Poeti e scrittori si propongono di arrivare al fondamento dell'essere, intanto assumono un atteggiamento depressivo, nominano, sognando di ritornare nel ventre materno. Gli artisti cercano per tutta la vita quello che Borges chiamava un nuovo filone di cose. Però se non ci prepariamo al male esso ci prenderà totalmente alla sprovvista. È spesso all'improvviso che si presenta il male e per affrontare le cose bisogna essere sopratutto pragmatici. Non scordiamoci mai. La letteratura può rappresentare il male. Può condannarlo. Il male probabilmente è in me come nel mondo: è dappertutto. C'è violenza in me e nel mondo. Non ci si salva. Ogni istante almeno apparentemente è un bivio. Si brancola nel buio. Le certezze sono poche a onor del vero. La vita, stare al mondo è un compito arduo.

Sulla mancanza di gossip poetico e altre amenità letterarie...

giu 232022

 

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La prova tangibile che i poeti non se li fila nessuno è l’inesistenza del gossip poetico. Se non c’è gossip poetico è perché non interessa nessuno. Cosa volete che importi alle gossippare di professione sotto l’ombrellone o in portineria di poeti e letterati? Se qualche circolo letterario o qualche piccola casa editrice cercasse di ravvivare il mondo poetico con del gossip poetico non alimenterebbe niente, non produrrebbe niente di positivo. Nel migliore dei casi il gossip poetico finirebbe per scimmiottare maldestramente il gossip dello spettacolo. Qualcuno potrebbe sostenere, neanche troppo paradossalmente, che il vero gossip poetico dai tempi di Freud in avanti è la critica psicoanalitica o biografica, che dir si voglia (per intendersi quella che parla delle emorroidi e non degli epistemi, come annotava Montale). Certo a vantaggio di certo psicologismo va detto che il biografismo spesso determina la postura autoriale, lo stile, parte dell’opera, ma non andiamo oltre: il pessimismo cosmico di Leopardi non scaturisce totalmente dal fatto che fosse gobbo, anche se in certa parte ci può influire. Ritornando alla contemporaneità, questo disinteresse totale nei confronti della poesia va avanti da decenni; uno dei segni inequivocabili è che la poesia, almeno quella italiana, sia totalmente fuori dallo show business. La realtà è che la poesia non rientra nel mondo dello spettacolo. Tutti sono artisti nel mondo dello spettacolo, ma per un poeta o una poetessa non c’è mai posto. Nessun poeta di belle speranze ha un agente, un manager. Nessuno caga i poeti. Come distinguere poi il buono dal mediocre? Un tempo l’unico posto concesso dalla televisione generalista, parlo di anni fa, era alla Corrida: qualche spazio veniva lasciato a certi dilettanti allo sbaraglio, che si esponevano al pubblico ludibrio. Ma la stessa televisione generalista ha spesso dileggiato il mondo dell’arte. Vi ricordate quando anni fa Ezio Greggio faceva vedere un quadro e poi sentenziava scherzosamente “tavanata galattica”. La cultura, l’arte, vere o presunte, dovevano sempre subire la presa in giro in nome di una presunta superiorità goliardica. Ogni pretesto, ironico o no, era un modo per dare addosso all’arte. C’era comunque un altro modo di ammazzare l’arte ed era quello di trattarla in modo noioso e soporifero, come accadeva spesso in RAI anni fa. Talvolta oggi si ha l’impressione che qualche poeta cerchi a tutti i costi l’occasione buona per rientrare nel mondo dello spettacolo, cercando di tirare per la giacchetta alcuni cosiddetti vip. Affari loro! Si accontentino pure delle briciole di visibilità che il mondo delle cosiddette “star” danno loro! Eppure un poeta autentico non dovrebbe ambire alla fama a tutti i costi. È vero che per ogni autore esiste il diritto/dovere di essere conosciuto. Ma ciò richiederebbe un minimo di etica, di dignità, di coerenza! Capisco che vivere una vita in perfetto anonimato e con scarsissima riconoscibilità può rovinare il carattere o addirittura la psiche. È altrettanto vero che bisognerebbe avere un minimo di saggezza per godersi pienamente l’anonimato, che – diciamocelo onestamente – la poesia dà. Alcuni/e invece non si accorgono di questi benefici. In definitiva minore è il rumore del mondo circostante e più facile è raccogliersi in meditazione o ammirare le bellezze della natura. Non a tutti capita di essere citati dalla Isoardi per lasciare Salvini come accadde a Gio Evan, che a onor del vero poeta non è e infatti la critica letteraria non lo considera minimamente, nonostante la notorietà (ma tante persone si accontentano beatamente dei surrogati della poesia). Comunque è meglio così. I poeti non avranno gruppi di ammiratrici né bagni di folla, ma possono fare anche giri in centro senza essere disturbati. È vero che un poeta qualsiasi non gode di alcun privilegio, però non ha neanche hater e stalker. Alla stragrande maggioranza dei poeti e delle poetesse non tocca il benessere materiale, a meno che non abbiano una famiglia agiata alle spalle. Pubblicare, andare alle conferenze, incontrarsi con altri letterati, comprarsi libri per rimanere aggiornati sono cose che hanno un costo. È rarissimo che uno con la poesia faccia pari. Di solito ci rimette. E allora vi chiederete voi chi lo fa fare ai poeti? Semplicemente la passione, l’abnegazione, l’amore per la poesia. In fondo oggi tutti sono poeti e nessuno è poeta. Una volta un cantautore diceva molto snobisticamente che oggi scrive poesie anche la casalinga di Voghera. In quel che diceva in un modo molto sbagliato forse un fondo di verità c’era. Di sicuro oggi il tasso di scolarizzazione è aumentato rispetto a qualche decennio fa. La produzione poetica è cresciuta di pari passo. Ci sono talmente tanti premi inutili e talmente tante case editrici non selettive che le cosiddette persone comuni non sanno distinguere chi ci marcia su e chi vale. Per non sbagliare si affidano ai mass media. Così acquista credibilità solo chi viene visto in televisione. Ma i poeti non vengono invitati in televisione di solito; se va di lusso al poeta o alla poetessa viene dato lo spazio di un minuto su RAI3 in tarda serata o di notte. La verità è che la poesia non fa ascolti. Molto probabilmente decenni fa davano spazio a Montale, Ungaretti, Pasolini perché non c’era l’audience e poi i tempi sono cambiati, per alcune cose in peggio e per altre in meglio. Parliamoci chiaro: è mortificante per una poetessa avere studiato, letto, scritto per una vita e non essere considerata dai mass media, mentre la showgirl svampita, dopo qualche passaggio televisivo, ha notorietà e soldi che lei non ha mai avuto in tutta la sua esistenza. È il mercato, purtroppo. Quando Rino Gaetano cantava “allestite anche le unioni dalle dite di canzoni” erano gli anni ’70. Da anni calciatori e showgirl sono sulle prime pagine dei rotocalchi. Vengono celebrati i loro amorazzi, che talvolta sfociano in un matrimonio. Loro hanno la centralità del gossip. Loro hanno l’esclusiva. Ma vuoi mettere starsene in disparte? Ma vuoi mettere essere sconosciuti ai più? Anche perché essere conosciuti ai più come poeti o poetesse non necessariamente è una bella nomina. Molti concepiscono il poeta come persona astrusa che rincorre le farfalle ed è completamente fuori dal mondo. Per molti romani dell’epoca Amelia Rosselli era solo una che scriveva poesie e intendevano ciò in modo canzonatorio, addirittura spregiativo.

 

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Joyce in “Ritratto dell’artista da giovane” scriveva: “Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questo la casa, la patria o la Chiesa: e tenterò di esprimere me stesso in un qualunque modo di vita o di arte quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l’esilio e l’astuzia”. Queste parole sono completamente estranee a certi poeti e poetesse, presenzialisti/e, sempre pronti/e a declamare i loro versi in questo o quel festival. Alcuni/e sono come la gramigna. Sono ossessivamente presenti. Non possono fare a meno di farsi conoscere nei circoletti. Il massimo della soddisfazione e del narcisismo è quando qualcuno chiede loro degli autografi. Hanno coronato il sogno della vita. Tutto sembra basarsi sulla riconoscibilità immediata. Alcuni/e cercano il riscontro del pubblico. Invece sarebbe meglio dosare le forze, centellinare le presenze, essere più preziosi, farsi desiderare di più. Il rischio, a forza di darsi a tutti, è quello di venire a noia. Il mondo quotidiano però è avaro di gratificazioni e di successo per i poeti. Quando si incontrano i poeti talvolta diventa una piccola gara a chi ce l’ha più lungo o a chi è più bella: io ho pubblicato più copie, io ho pubblicato con una casa editrice importante, io ho pubblicato su più riviste letterarie, io ho vinto più premi, io sono in più antologie scolastiche. La cosa paradossale è che se pubblicamente dichiarano la rimozione dell’io lirico in poesia, nei fatti, nei social, nei loro siti internet, nella vita privata cercano l’affermazione del loro io a tutti i costi.

 

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(Nella foto il festival di Catelporziano)

 

Mai scoperchiare questo vaso di Pandora perché chi descrive pubblicamente questo stato di cose viene criticato, zittito, biasimato in tutte le forme. Gli anni passano per tutti, ma l’importante per certi poeti è avere qualcosa di cui vantarsi nell’angusto mondo delle patrie lettere. Chi denuncia pubblicamente la situazione comatosa in cui versa la poesia italiana è un frustrato, un deluso, un fallito, un aspirante poeta mai riconosciuto. Alcuni dicono che sono cose vere, però non vanno dette. Personalmente a casa mia meno per meno fa più. Personalmente non mi diverto a constatare questo stato di cose, ma lo faccio per spirito di servizio. Ritengo anche che sia questione di avere un minimo di onestà intellettuale e di dire come vanno le cose. Certo ci sono ripicche, invidie, gelosie, compromessi, conflitti, antipatie, simpatie, favoritismi, ostracismi. Anche i poeti sono esseri umani. Allo stesso tempo come canta De Gregori quando tra “buoni poeti ne trovi uno vero è come andare lontano, viaggiare davvero”. Eppure di poeti e poetesse buoni/e e anche ottimi/e ci sono, esistono. Allo stesso tempo non hanno visibilità né dalla critica né dai mass media. Un tempo i poeti che valevano avevano molta più importanza nella cultura. Oggi invece sono relegati a un ruolo marginale, vengono messi in un angolo nascosto. Non c’e da stupirsi se il cosiddetto popolo non considera i poeti, visto che gli stessi letterati, studiosi e appassionati non ne hanno a cuore. Ci sono troppi addetti ai lavori che si occupano di poesia e non l’amano, anzi l’hanno in odio. Eppure ci sono poeti e poetesse brave che meriterebbero successo, denaro, amore. Il sistema invece li respinge, li ricaccia indietro. E loro si estraniano, non partecipano più. La loro funzione sociale sarebbe quella di combattere il sistema dall’interno.

 

 

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Tutto ciò viene continuamente disatteso e cosa resta in fondo? Un atteggiarsi anticonformista, una posa composta di dolore talvolta mai provato, un piangersi addosso tra sodali, un’elemosinare goffo di consensi. Comunque talvolta per questo scompenso, per questa scarsa considerazione perenne alcuni, non potendo gridare al mondo quanto valgono, finiscono per immalinconirsi, incattivirsi, imbastardirsi, in taluni casi giungono alla smania di grandezza, alla megalomania, al delirio di onnipotenza. Fondamentale è passare sopra queste debolezze umane, queste piccole inezie e prendere il buono: dai poeti e dalle poetesse non bisogna prendere assolutamente le loro tare psicologiche, invece bisogna esclusivamente amare i loro versi. Forse bisognerebbe ricordarsi più spesso ciò che scriveva Rilke: “l’arte è solo una maniera di vivere, e ci si può preparare a essa vivendo”. Spesso ho constatato che poeti più o meno riconosciuti non avendo l’amore dal pubblico e non avendo talvolta pubblico vivono tra rabbia e rassegnazione, in uno stato caratterizzato da grandi delusioni e piccole illusioni. In fondo qualcuno dirà che la poesia stessa è un’illusione, ma anche la vita e il vivere quotidiano che cosa è basato se non sull’illusione costante che tutto domani possa andare meglio? Siamo costretti a vivere di piccole illusioni. Tutti quanti, poeti e no.

 

Considerazioni sul corpo, Montale, Pasolini, Ruzzante...

giu 192022

Innanzitutto il corpo. Siamo carnali e mortali. Ecco perché il corpo è un’ossessione, soprattutto per noi occidentali. Il corpo apparentemente è un tramite per il piacere. È lo strumento prediletto per noi occidentali per avere il piacere. La maggioranza dell’io di noi occidentali è corporeo. Stare bene con sé stessi per un adolescente o un giovane significa stare bene e stare bene col proprio corpo, accettarlo. I soldi sono importanti per noi perché cibano, proteggono, salvaguardano il corpo, lo fanno stare bene, lo possono migliorare con la chirurgia, addirittura lo estendono con delle protesi come per esempio la macchina, il computer, etc etc. Al corpo viene attribuita importanza anche in filosofia con Merleau-Ponty perché è esso stesso coscienza ed è grazie al nostro organismo che percepiamo il mondo. Ma Merleau-Ponty è fondamentale anche per la psicologia della Gestalt. Comunque la filosofia del ‘900 è anche materialista, pragmatica, utilitarista, realista, funzionalista e perciò mette in primo piano il corpo. L’idealismo, lo spiritualismo, il cristianesimo vengono relegati ai margini da molti intellettuali. Le fantasie di noi occidentali sono erotiche e riguardano il corpo. Noi occidentali dobbiamo quantificare il piacere, quantificare il corpo. Il corpo nostro interagendo con un altro corpo stimola il nucleo accumbens e viene raggiunto l’orgasmo. Il nostro immaginario viene stimolato dalla pornografia: corpi prestanti che si avvinghiano ad altri corpi prestanti. Viene celebrato il corpo, soprattutto la bellezza del corpo. Ogni bel corpo va mostrato, esibito, messo in evidenza. Ma il corpo viene cristianamente anche mortificato. Il corpo ci ricorda che siamo finiti e determinati biologicamente. Secoli fa le persone si flagellavano, usavano il cilicio sui loro corpi. Adesso il cilicio castiga la psiche con i sensi di colpa, coi rimorsi. Un altro nemico della libertà del corpo, dell’espressività fisica e sessuale è la rispettabilità borghese, il cosiddetto perbenismo. Alice (al secolo Carla Bissi) in una sua canzone scriveva “parenti miei, cinture di castità e di quel poco che resta”. Spesso si ha paura del giudizio dei propri cari e si viene limitati in amore proprio da persone a cui si vuol bene. Si ha meno libertà sessuale. Si guarda anche alla convenienza sociale. Così certi uomini non si fidanzano perché hanno paura di portare a casa dalla madre una donna. Ma vale anche il contrario. Le rispettive famiglie dei due fidanzati mettono alla prova, sotto esame i due. Queste dinamiche psicologiche familiari si ripeteranno in modo più o meno conflittuale per tutta la vita. Oppure alcuni/e sono costretti dalle regole borghesi alla doppia vita. La schizofrenia sessuale/morale di noi italiani si ritrova tutta nel 1975: l’anno del Nobel a Montale, poeta borghese per antonomasia, e anno dell’uccisione di Pasolini, che col corpo e la mente suscitava scandalo, era scandalo.

 

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Ancora oggi sembra che si debba scegliere tra Pasolini e Montale, due grandi poeti che si odiarono. Montale soprannominò Pasolini Malvolio in una sua poesia. Pasolini aveva criticato la raccolta Satura perché secondo lui non impegnata socialmente né politicamente, non trattando delle tematiche attuali come la guerra nel Vietnam, etc etc. Montale rispose così: 

 

Non s'è trattato mai d'una mia fuga, Malvolio,

e neanche di un mio flair che annusi il peggio

a mille miglia. Questa è una virtù

che tu possiedi e non t'invidio anche

perchè non potrei trarne vantaggio.

No,

non si trattò mai d'una fuga

ma solo di un rispettabile

prendere le distanze.

Non fu molto difficile dapprima,

quando le separazioni erano nette,

l'orrore da una parte e la decenza,

oh solo una decenza infinitesima

dall'altra parte. No, non fu difficile,

bastava scantonare scolorire,

rendersi invisibili,

forse esserlo. Ma dopo.

Ma dopo che le stalle si vuotarono

l'onore e l'indecenza stretti in un solo patto

fondarono l'ossimoro permanente

e non fu più questione

di fughe e di ripari. Era l'ora

della focomelia concettuale

e il distorto era il dritto, su ogni altro

derisione e silenzio.

Fu la tua ora e non è finita.

Con quale agilità rimescolavi

materialismo storico e pauperismo evangelico,

pornografia e riscatto, nausea per l'odore

di trifola, il denaro che ti giungeva.

No, non hai torto Malvolio, la scienza del cuore

non è ancora nata, ciascuno la inventa come vuole.

Ma lascia andare le fughe ora che appena si può

cercare la speranza nel suo negativo.

Lascia che la mia fuga immobile possa dire

forza a qualcuno o a me stesso che la partita è aperta,

che la partita è chiusa per chi rifiuta

le distanze e s'affretta come tu fai, Malvolio,

perchè sai che domani sarà impossibile anche

alla tua astuzia.

(Diario del '71 e del '72)

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Mai come in questo secolo c’è così tanta insoddisfazione sessuale: il desiderio è incessante a causa del bombardamento pornografico a cui siamo sottoposti. Ecco perché la monogamia è un’utopia. Ecco perché come scrissi tempo fa questa è l’epoca in cui gli stessi amanti sono cornuti. È l’epoca del poliamore, della pansessualità ed è totalmente legittimo: lo scrivo senza moralismi. Molti sono dipendenti dal sesso, alcuni vanno a disintossicarsi nelle cliniche. Al sesso, al corpo viene attribuita un’enorme importanza. Anche un intellettuale serissimo come Fortini in "Verifica dei poteri" non può far a meno di trattare dell’emanicipazione sessuale delle impiegate di allora. Ma il desiderio fisiologicamente scema con l’età. Ci sono la menopausa, l’andropausa, i cali del desiderio fisici e psicologici. Alcuni che hanno mancato l’appuntamento con la giovinezza si imbottiscono di Viagra, cercando l’elisir di eterna giovinezza. Passano gli anni. Il padre di un mio carissimo amico gli consigliava sempre di fare sesso, di non aspettare perché si invecchia presto. In là con gli anni spesso si trova il declino inarrestabile o la morte. Si può anche essere impossibilitati a prendere il Viagra per una cardiopatia (la famosa pillola può far male al cuore). Vivere significa per dirla alla Luzi affrontare il corpo oscuro della metamorfosi, prima di tutto le metamorfosi del nostro corpo. Riprendendo una canzone di Piero Pelù il nostro corpo cambia continuamente. Il problema della letteratura italiana è quello di essere troppo incentrata su Dante. La letteratura italiana è più spirituale e idealista; spesso reprime il corpo. Il rapporto tra i sessi viene mitizzato, idealizzato da molti letterati. Voi mi potreste dire: abbiamo anche il Boccaccio. Ma qualche pagina di Boccaccio da sola non basta, finisce per essere innocua, non prepara alla vita vera.  Parafrasando il celebre detto neoavanguardistico bisognerebbe fare tutti una salutare gita a Pernumia invece che a Chiasso! Bisognerebbe guardare anche a Ruzzante. Bisognerebbe leggere le sue storie di povera gente veneta. Troppo materialista la popolazione italiana e troppo idealista,  etereo il mainstream della letteratura italiana! Nelle scuole italiane dovrebbero far leggere anche Rabelais e Montaigne: tutta gente carnevalesca e che non reprimeva il corpo. Ma Montaigne, Rabelais, Ruzzante sapevano anche ridere di sé stessi e del corpo. In questo periodo siamo in crisi perché il pericolo nucleare minaccia i nostri corpi, le nostre vite. Molti hanno comprato pasticche di iodio per salvaguardare la tiroide da un tumore in caso di radiazioni. Stiamo uscendo dalla pandemia, che ha minacciato i nostri corpi anch’essa. Qualcuno ricordava che dopo la peste molti si diedero alle orge e alcuni  vorrebbero farlo anche loro dopo la sconfitta del Coronavirus. Oggi come sempre si inneggia alla corporeità, si celebra la fisicità. Gli uomini devono essere forti, prestanti, aitanti, vigorosi. Le donne devono essere sinuose e longilinee. Chi non rispetta o non si adegua a questi canoni è out. Chi critica tutto ciò è addirittura un nemico da abbattere. Sul corpo vengono costruiti idoli e templi. Bisogna insegnare a ridere del corpo ai ragazzi. Bisogna far leggere gli autori suddetti e non solo Dante, che era senz'altro un genio immenso per strutturare l'aldilà e il Medioevo in terzine incatenate (il primo verso della terzina rima con il terzo verso della stessa terzina, il secondo verso della terzina rima con il primo e il terzo della terzina successiva  e così via, ad libitum),  endecasillabi quasi tutti canonici (si dicono così gli endecasillabi che hanno l'accento tonico sulla quarta o sulla sesta sillaba oltre che naturalmente sulla decima), in buona parte a maiore (cioè con l'accento tonico sulla sesta sillaba oltre che naturalmente sulla decima). Non si può però far vivere i ragazzi nell'Iperuranio letterario, nel dolce stil novo. Il corpo va affrontato anche in letteratura.  Sul corpo c’è tutto un business mondiale. In Occidente esistono due polarità contrapposte: la carnalità e la spiritualità. Si creano così doppiezza, atteggiamenti schizofrenici. Sembra che non si possano coniugare le due cose. Da  una parte l’orgasmo e dall’altra l’estasi mistica. Ma c’è chi basa tutto sul sesso e non raggiunge l’orgasmo. C’è chi vuole il rapimento mistico e in realtà riduce tutto alla solita, misera preghiera interessata. Ma siamo sicuri che non ci sia un intreccio tra i due aspetti? Dopo l’Eros sperimentiamo Thanatos. Dopo Thanatos rivogliamo Eros. Le due cose si richiamano a vicenda: la vita nella morte, la morte nella vita.

 

"Casa d'altri" di Silvio D'Arzo

giu 162022

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Silvio D'Arzo con "Casa d'altri" fonde armoniosamente il minimalismo esistenziale (ovvero la noia, la povertà di stimoli, di relazioni sociali) e il minimalismo narrativo. Secondo molti critici di oggi e secondo molti esponenti della neoavanguardia si può scrivere anche di niente, senza una trama avvincente, addirittura senza una trama. È proprio questo un modo per mettere alla prova e vedere chi è un autentico narratore e chi no. D'Arzo ha superato brillantemente questo esame. Il racconto, definito perfetto da Montale e il più bel racconto italiano del Novecento da diversi critici letterari, si può riassumere tutto con queste parole: "Un'assurda vecchia: un assurdo prete: tutta un'assurda storia da un soldo". È un racconto di poche decine di pagine, scritto con grazia, leggerezza e maestria, che si legge tutto d'un fiato. D'Arzo non ha avuto il tempo, essendo morto di leucemia a soli 32 anni, di scrivere il romanzo della sua generazione come voleva e neppure di veder pubblicata da una importante casa editrice i suoi racconti. Lo scrittore ha creato il suo capolavoro "Casa d'altri" sul finire della sua vita, nei suoi ultimi mesi. D'Arzo era troppo versato nella letteratura inglese e scriveva in modo lineare, mentre la vita è complessa e contraddittoria: questo potranno obiettare coloro che hanno dimenticato il grande narratore emiliano e lo hanno relegato ai margini della letteratura italiana del Novecento. D'Arzo arriva al conquibus, arriva subito al dunque, non complica ulteriormente le cose già complicate di per sé, arriva come si suol dire al nervo delle cose, non si perde in preamboli, digressioni, astrazioni: questo possono affermare con buona ragione i suoi estimatori, infischiandosene dei canoni e della fortuna critica. Pavese, direttore dell'Einaudi, rifiutò di pubblicare "Casa d'altri", ma forse più che per motivi letterari e stilistici per ragioni prettamente esistenziali perché il tema del suicidio era un suo nervo scoperto, qualcosa che gli procurava angoscia, un vero fantasma della sua mente fin da tempi immemorabili ed insospettabili, come si può desumere leggendo il suo diario. Uno scrittore può prediligere la materia inanimata, gli altri o sé stesso. Ci sono incognite e incertezze per ognuna delle tre vie. L'importante è che, indipendentemente dalla sua scelta, si tratti di predilezioni e non di ossessioni, altrimenti uno diventa monotematico. Ma non ci sono solo queste tre dimensioni del reale. Ci sono anche lo spazio, il tempo, gli accadimenti del mondo. Tutte queste dimensioni interagiscono tra di loro. Tutto dipende dall'osservatore, dal sistema di riferimento come in fisica, ma anche dal termine di paragone. La scrittura infatti è sempre paragone, accostamento, nel caso più semplice similitudine. D'Arzo è esemplare nel trattare tutti i piani della realtà e ad intrecciarli in modo poetico ed enigmatico. Ma torniamo al suo capolavoro "Casa d'altri".
C'è chi ha a noia la vita perché ha vissuto troppo o troppo poco. Una vita noiosa è altamente stereotipata, ripetitiva, alienante. C'è la depressione endogena. C'è la depressione reattiva, causata da traumi ed eventi spiacevoli. Nel caso specifico alla donna protagonista del racconto mancano le occasioni, gli eventi, una vita accettabile. Ma c'è anche la noia che assale, la monotonia che non riesce a scalfire. Sembra una montagna insormontabile per Zelinda, vedova e lavandaia. Lo spleen di Baudelaire, l'assurdo di Camus, l'anello che non tiene e il male di vivere di Montale: i riferimenti gnoseologici e culturali possono essere molti per D`Arzo. Il peso di vivere per Zelinda si fa intollerabile. La vita si presenta a lei sempre nello stesso modo: la trafila di giorni sempre uguali, le stesse cose da fare, la solita routine. Ma è anche una vita di stenti, una vita fatta di fatica, "una vita da capra".
Scrive DArzo: "Con due si cerca meglio la verità". Nietzsche scriveva che uno solo ha sempre torto, ma con due inizia la verità. Di certo gli interrogativi incessanti di Zelinda sono un fardello troppo ingombrante e troppo peso per portarli da sola.
Non trova più ragion di essere. È disperata perché ha perso speranza. Ma nel racconto D'Arzo si sofferma più sugli interrogativi angoscianti, sul suo rovello interiore causato da essi, che sul vuoto esistenziale della donna. La domanda cruciale è se può finire prima la sua vita. Il prete non trova parole. Abbiamo due protagonisti: una vedova stanca di vivere, un prete di campagna e sullo sfondo Montelice, un paese in cui non accade mai niente ("sette case addossate..due strade, un cortile che chiamano piazza,uno stagno e un canale e montagna quanta ne vuoi. Che fanno qui a Montelice? vivono e basta e poi muoiono..qui non succede niente di niente…gli uomini al pascolo..le donne a far legna..in strada una vecchia o una capra o nemmeno quello..l’inverno dura mezzo anno. due mesi continui di pioggia, due tre mesi di neve-neve. non succede niente di niente solo che nevica e piove e la gente nelle stalle a guardare la pioggia e la neve come i muli e le capre.."). Da una parte Zelinda, ovvero la credente con il suo dubbio incessante, e dall'altra il prete, con la sua dottrina, ma anche le sue perplessità. È un dialogo tra due fedeli, tra due fedi. Da un lato l'interrogativo della donna, dall'altro il prete, per cui diventa una ossessione, un cruccio, un enigma la vita di Zelinda. Entrambi sono attraversati da esitazioni. Ci si può uccidere? È questa la domanda di Zelinda al prete. Ma è questa la risposta che deve dare la letteratura. Vale la pena vivere? I suicidi sono degli impazienti scriveva Bufalino. Vale la pena pazientare? Secondo la religione cristiana il suicidio è un atto di natura violenta contro sé stessi, è l'omicidio di sé stessi. Tutte le religioni condannano il suicidio. Secondo la moderna psichiatria la stragrande maggioranza dei suicidi sono depressi e la depressione può essere curata con gli psicofarmaci e la psicoterapia. Ma ai tempi di Silvio D'Arzo queste cose non si sapevano. Di solito si cerca sempre di rimandare. Si cerca addirittura di procrastinare l'improcrastinabile. Bisogna non pensare alla morte per vivere pienamente. Bisogna pregare per salvarsi. Ma perché pensare egoisticamente alla propria salvezza individuale? Come scrive Camus a cosa serve la mia salvezza se non si salva l'umanità? Se ognuno ha le sue certamente le sue colpe, ma anche le sue giustificazioni, i suoi alibi e la possibilità di espiare allora forse sarebbe meglio sperare in un Dio talmente misericordioso da lasciare l'inferno vuoto come teorizzato da taluni teologi.
Il suicidio è talvolta questione di un istante. Il suicida per alcuni resta prigioniero di un istante, in cui azzera ogni possibilità, ogni speranza. In questo racconto invece il suicidio sembra invece il frutto di una scelta maturata da tempo e ben ponderata.
La Chiesa ammette eccezioni? Zelinda considera il suo un caso particolare. Non ha più vitalità. Non ha più voglia di vivere. E allora chiede se se ne può andare anzitempo in punta di piedi. Ritiene di aver già mangiato il suo pane, di sapere come sia la vita. Ritiene che non ci sia più niente da conoscere e da vivere. Ha fatto il suo bilancio esistenziale. Ha tirato le sue somme. Dalle cose che le sono capitate, dalle persone che ha incontrato, dalla vita che ha fatto, dalla porzione di mondo e di realtà che ha vissuto, ha tratto le sue conclusioni: non vale più la pena vivere. È una considerazione personale che per lei diventa certezza assoluta. La sorte ormai per lei non ha più niente in serbo. Non ci sarà più nessuna sorpresa. La vita per lei sarà sempre la stessa e lei non ne può più. Zelinda si è scordata che anche la vita più arida, più grama può essere riscattata, può essere un dono. Ma lei si considera una donna di 63 anni che è ormai senza futuro. Che cosa possono fare le parole di fronte a questo dramma? Che cosa può fare la religione incarnata qui da un prete? Ma qui il dramma è doppio. Anche il prete ormai è un sacerdote da sagre di paese. È prossimo alla pensione, al congedo, all'addio, alla morte. Tutto questo si svolge in un piccolo paese, in un piccolo mondo angusto. D'Arzo narra l'inenarrabile, due vite avvolte dall'insensatezza, dall'assurdità di esistere. Il linguaggio è povero di figure retoriche, ma l'intera vicenda è una macrometafora della vita e della morte, che si intrecciano in modo indissolubile.
D'Arzo è implacabile. Crea un congegno perfetto. Scrive in modo essenziale l'essenziale della vita e della morte. Toglie nello stile e nella trama ogni orpello, ogni ridondanza. Leva tutto il superfluo. Rimane per queste poche pagine il mistero che ci irretisce e ci incupisce, la sospensione. Le vite degli uomini sono tutte diverse. La sofferenza, le vicissitudini, la stanchezza di esistere non sono uguali per tutti. Alcuni vengono messi più alla prova dalla vita di altri. Secondo la teologia cristiana il suo disegno è imperscrutabile, sfugge alla logica umana, ma Dio valuta ogni caso in modo equanime, soppesando tutto, qualsiasi cosa. "Ognuno ha una ragione valida per uccidersi", scriveva Pavese. Ma si uccidono solo coloro la cui sofferenza interiore per stati d'animo o eventi nefasti ha sorpassato ogni livello di sopportazione. Se si mette sul piatto della bilancia ci sono svariate ragioni per uccidersi e svariate ragioni per continuare a vivere. Viene considerato razionale continuare a vivere. Ma è pura convenzione. Allo stesso modo viene considerato più coraggioso continuare a vivere che farla finita. Si ritiene a torto o a ragione che quando una persona si uccida o tenti di uccidersi perda il senno della ragione. D'altronde la cultura e la società devono essere biofile. Non si può fare altrimenti. Condannare il gesto estremo è un modo per dissuadere gli indecisi o coloro che si trovano in difficoltà. È un modo per interrompere l'emulazione dell'estremo gesto. Condannare il suicidio è un modo per mandare avanti il mondo, pur ammettendo la pietà cristiana per la vittima. Alla domanda di Zelinda c'è la risposta secca del prete: non sono ammesse eccezioni. Il prete risponde che per la morte propria e altrui non si decide noi, ma decide Dio. Nessuno può anticipare i tempi. Nessuno deve disperare. Zelinda però viene trovata morta. Nessuno sa se l'ha fatta finita. Forse lo scrittore emiliano lascia alla fine alla donna la libertà di autodeterminarsi. Il prete è prossimo a lasciare il paese per tornare a casa. Ma è forse la casa del Padre? Ad ogni modo il prete, che rappresenta la religione, esce sconfitto. Sicuramente la pecorella smarrita non è tornata nell'ovile. Ma probabilmente dall'ovile, dalla ortodossia religiosa si era allontanata solo con i pensieri, con i tarli della sua mente. Sorge spontanea una domanda, leggendo D'Arzo: è giusto che Dio condanni Zelinda, che ha vissuto una vita irreprensibile per una sola cattiva azione e che ha fatto del male solo a sé stessa? Dio non potrebbe fare un'eccezione ai suoi regolamenti o alle sue presunte regole? La risposta di qualsiasi prete probabilmente è che bisogna vivere cristianamente fino alla fine, fino in fondo. Il racconto di D'Arzo tratta di una situazione senza uscita, ma nessuno sa se nella vita alla fine c'è una via di uscita oppure no. Grazie alla fede si può credere all'aldilà e alla salvezza, ma la logica umana, i fatti e la scienza lasciano in sospeso la questione proprio come D`Arzo. La vecchia è morta, le cose vanno come al solito, sta “per venire la morta stagione, gli sterpi secchi, le passere uccise dal freddo, la notte che arriva alle sei, i fossi ghiacciati, i vecchi che se ne muoiono in fila…”. Talvolta la vita sembra un contorno sfumato, una domanda mal posta, un'occasione mancata. Eppure sono tante le sfaccettature della vita. Siamo così presi e immersi dalla quotidianità che ci dimentichiamo che è un dono: forse è questo il vero messaggio dello scrittore.

 

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