Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Due parole di numero sulla collana bianca dell'Einaudi...

dic 032023

 

undefined

 

La collana di poesia Einaudi, detta anche "collana bianca" o semplicemente "bianca" per via del colore della copertina, è il non plus ultra della poesia italiana. È la pubblicazione più prestigiosa. È molto selettiva, molto esclusiva; infatti di solito vengono pubblicati ogni anno dagli 8 ai 10 volumi e alcuni talvolta sono di autori stranieri. La poesia non vende in Italia: in media i nuovi volumi vendono  2000 copie con picchi di 4000, ma l'Einaudi fa cassa con l'intero catalogo, visto e considerato che è dal 1964 che pubblica poeti autorevoli, molti memorabili. Essendo molto selettiva e pubblicando pochissimi poeti c'è anche del risentimento tra gli esclusi. Essere pubblicati nella bianca significa diventare personaggi, significa assurgere alla notorietà, seppur di nicchia, perché la poesia è di nicchia. In primis i poeti sperimentali lanciano i loro strali e parlano a chiare lettere di ingiustizia, accusando poi per estensione tutta la grande editoria di marginalizzare la poesia di ricerca. Altri invece criticano negativamente i poeti einaudiani, sostenendo che siano antiquati, che si limitino a fare il compitino, che non abbiano da dire niente, etc, etc. È vero che la maggioranza dei poeti "einaudiani" sono neolirici con alcune eccezioni, come ad esempio Attilio Lolini e Cesare Viviani, che, pur essendo a grandi linee lirici, sono a tratti anche assertivi-aforistici. Se ci limitiamo a una classificazione in neolirici e poeti di ricerca, però si capisce che questa distinzione è troppo limitante, dato che Aldo Nove e Tiziano Scarpa sono di difficile collocazione a mio modesto avviso.  Un tempo vennero pubblicati nella bianca anche poeti sperimentali come Roberto Roversi, Paolo Volponi, Andrea Zanzotto. Sorge spontanea una domanda: se oggi i poeti sperimentali non vengono pubblicati, è per via di una scelta ideologica e stilistica dell'Einaudi o perché i nuovi autori di questo filone non sono ritenuti degni, non sono ritenuti all'altezza? I critici della bianca sono apocalittici: per loro non si salva nessun poeta pubblicato nella bianca. Ci sono poeti veri, aspiranti o sedicenti però che hanno ambizioni sbagliate e sono megalomani: bisogna sapersi accontentare e accettare le scelte editoriali, anche se sono sfavorevoli. Un poeta deve accettare non solo premi, consensi ma anche rifiuti e no. Poi ci sono alcune critiche a mio avviso legittime: se scorriamo l'intero catalogo le poetesse sono poche e lo stesso dicasi per i poeti meridionali. A mio modesto avviso, vista la grande scrematura che fa l'Einaudi, per utilizzare una terminologia medica e psicologica, sono molti di più i falsi negativi dei falsi positivi, ovvero ci sono molti poeti validi non pubblicati nella bianca ma molto spesso i poeti pubblicati lì sono validi e originali. Insomma la bianca è sinonimo di alta qualità e tutti ambiscono a pubblicare lì. Un motivo ci sarà. Un tempo i letterati sostenevano che i poeti memorabili pubblicassero con grandi case editrici e le piccole case editrici fossero una fossa comune per i restanti poeti su cui sarebbe sceso l'oblio. Oggi è sempre più difficile dire chi passerà alla storia o meno. Di certo ci sono una miriade di blog letterari, di riviste di poesia online, di piccola editoria a pagamento che riescono a dare una visibilità insperata già venti o trenta anni fa e che sono il segno inequivocabile di un grande fermento poetico che esiste in Italia. Ma la bianca resta la bianca e ve lo scrive uno che ha smesso da qualche anno di scrivere "poesie" e non ha mai inviato i suoi versi all'Einaudi. Queste due realtà poetiche non devono essere mondi paralleli: blog e riviste online continuino a fare da cassa di risonanza ai poeti riconosciuti e l'Einaudi cerchi anche del buono tra i poeti del web. Le due cose non si devono considerare mutuamente esclusive, perché non lo possono essere se si ha a cuore la poesia italiana contemporanea.

Analisi e commento di "Ha un bel dire con tutti i suoi platani Firenze" di Mario Luzi

set 082022

 

 undefined

Ha un bel dire con tutti i suoi platani Firenze.
Non è uguale la musica, non può esserlo.
Ma uguale a che, la stessa di quando -
discetta perdutamente il senso
non trovando fondale a quel risucchio
di mancamento o rimorso.
Né so cosa m'intenerisce di lei,
se davvero la spina che le è infissa della mia vita
o quell'aria di congedo in lei da me, in me da lei. O il niente
di questo.

 


Mario Luzi è stato uno dei protagonisti della poesia italiana del Novecento. Attraversò quasi tutto il secolo breve. É stato anche senatore a vita. Fu candidato per anni al Nobel della letteratura. Consiglio a tutti di leggere le sue opere e magari anche di leggere  "Saggio su Mario Luzi" di Anna Panicali. Luzi fu uno dei protagonisti al Caffè delle Giubbe Rosse. Fu professore universitario e saggista oltre che grande poeta. Apparentemente in questa lirica sembra che Luzi vada a capo quando vuole senza rispettare alcuna regola. In realtà si tratta di versi liberi che rispecchiano i canoni della metrica italiana, tutti con i giusti accenti tonici, anche se senza rime e con alcuni enjambements. Luzi utilizza alcune volte la sinalefe perché questa è la consuetudine tra poeti, mentre la dialefe è l'eccezione. La sinalefe infatti è più eufonica, mentre la dialefe è più disarmonica e più entropica. Ci sono anche degli endecasillabi canonici in questo testo. Non vi traggano in inganno alcuni versi più lunghi del componimento perché sono anch'essi metricamente ineccepibili. Mario Luzi nel corso di tutta la sua carriera poetica non è mai andato a capo a caso, come molti versoliberisti (forse a torto, più probabilmente a ragione). Il primo verso ad esempio è un doppio settenario con sinalefe. Il terzultimo verso è un doppio novenario, scandendo normalmente le sillabe. Il penultimo verso è un doppio ottonario con sinalefe. Certamente la sua prima produzione poetica era metricamente più rigorosa di quella in età matura e in vecchiaia, ma il poeta ha dimostrato sempre grande prolificità, capacità di rinnovarsi, una scrittura impeccabile. In questa poesia esprime sia un'idea che un sentimento. Non si perde nel dettaglio del dettaglio. È una lirica che va presa nella sua gestalt globale. È una poesia breve, ma solo apparentemente semplice.
"Ha un bel dire con tutti i suoi platani Firenze" è una personificazione. Firenze sembra parlare con i suoi platani. Luzi non cita la Firenze celebrata da cartolina, dei grandi capolavori artistici. Non rievoca neppure Firenze come grande città di marmo, come lui stesso ebbe modo di definirla. I platani appartengono al campo semantico della natura ma anche a quello associativo della familiarità (leggi anche della consuetudine).
Luzi è un grande poeta ermetico, che usa sapientemente le analogie e le metafore.
In questo senso è anche simbolista. Per lui fare poesia significa ricercare "corrispondenze", come nella celebre lirica di Baudelaire, e allora dopo aver trovato corrispondenze tra i propri stati d'animo e i paesaggi ogni città diventa un luogo dell'anima, un posto interiore, una "foresta di simboli", sempre per riprendere il poeta maledetto francese. Ma cosa significa "Non è uguale la musica, non può esserlo"? Significa che le corrispondenze cambiano continuamente, incessantemente perché cambia continuamente la città e cambiano sempre i moti dell'animo dell'autore. "Discetta" significa esamina. "Non trovando fondale a quel risucchio/ di mancamento o rimorso" significa che se la parola per Luzi deve volare verso il vertice della significazione (lo zenit) la memoria invece è un abisso, non ha fondo, eppure è un grande vortice, un grande gorgo. Ma di cosa? Di assenza (mancamento), perché mancano visi, volti, luoghi di un tempo, e di rimorso, ovvero di sensi di colpa per gli errori commessi. Si noti anche tutta l'umiltà e il basso profilo del grande poeta fiorentino che naturalmente non attribuisce niente di negativo a Firenze (non parla di nessun borgo selvaggio), ma paragona la propria vita a una spina infissa dentro la sua città. Ma cosa significa "quell'aria di congedo in lei da me, in me da lei"? Significa probabilmente che la Firenze di quei giorni non sarà più la stessa e forse non avrà più tutti i suoi bei platani, ma anche qui Luzi pensa alla sua dipartita. Oppure una terza opzione: Luzi chiude con "...o il niente di/ questo", con un versicolo ungarettiano di una sola parola, una clausola dal tono dimesso, che però significa che il poeta non è certo di niente, non sa davvero il senso della sua tenerezza, sa solo dell'affetto profondo che lo lega a quei luoghi senza saperne i motivi. Firenze per Luzi non è un posto come un altro. Leggendo questi versi sorgono in me alcuni interrogativi. Quanti anni bisogna vivere una città per conoscerla veramente? Quante strade bisogna conoscere? Quanti luoghi bisogna aver frequentato? Quante persone bisogna aver incontrato? Quante storie bisogna aver avuto? E se questo rapporto fosse una catena indissolubile? Cosa è che ci lega veramente a questo posto? Di cosa sentiremo la mancanza? Non ci sono risposte, ma solo impressioni e un vago sentore di essere abitudinari o recidivi. Approssimativamente posso solo dire che ogni paese ha il suo cielo e ogni cittadino ha un angolo di cielo, a cui spesso rimane fedele negli anni. Ma questa poesia mi dice altre cose, mi suggerisce altre cose. Quando descriviamo un paesaggio in realtà descriviamo il nostro punto di vista. Quando parliamo del mondo in realtà parliamo della nostra visione del mondo. L’umanità è una moltitudine incredibile di punti di vista, di visioni del mondo. Ognuno è una sintesi di interno ed esterno, di idee e cose, di soggettività e oggettività. Forse siamo fatti male, ma è così ad onor del vero. Questo è ciò che mi fa ricordare questa poesia. In definitiva Firenze sembra voler dire tante cose e sembra voler significare molte cose al grande poeta. Sempre Mario Luzi in una sua intervista dichiarava riguardo alla città: "La raffigurazione, naturalmente, è reale e simbolica nello stesso tempo e vuole denunciare che la città umana senza idea vitale si sfascia". Non a caso a conti fatti è difficile, anzi è quasi impossibile trovare il senso compiuto di una città, anche se è cara e familiare.

Carmina non dant panem, anzi...ovvero poesia quanto mi costi!!!

giu 282022

 

undefined

 

 

Non è così tanto alla luce del sole, ma chi scrive versi non deve farsi nessuna illusione. Nel migliore dei casi la strada è impervia e in salita. Uno pensa bonariamente che il mondo della poesia sia senza macchia e alieno da ogni forma di mercificazione, di compromesso commerciale. Pensa che sia un'isola felice, un'eccezione in questo mondo consumista. È vero che il business poetico è poca cosa e che c'è poco giro di denaro. Ai tempi degli antichi romani dicevano che carmina non dant panem (lo sosteneva Orazio per l'esattezza). Oggi scrivere versi e venire un minimo riconosciuti non è un atto gratuito ma addirittura una spesa. Non è così ovvio e scontato, ma comunque per fare carriera poetica ci vogliono soprattutto i soldi. Sono un requisito indispensabile, una conditio sine qua non. Oltre a un minimo di talento ci vogliono gli schei detto alla veneta, i danee detto alla milanese. Non è richiesta una grande quantità di capitale, ma bisogna avere uno stipendio oppure una famiglia alle spalle disposta a investire/spendere per arricchire la nota biografica/il curriculum artistico del figlio o della figlia. La carriera poetica può dipendere dalle opportunità economiche o quantomeno da quanto una persona è disposta a spendere per la sua passione. Non è un atto di accusa, un'invettiva o chissà che. È un dato di fatto assodato ormai. Sono rarissimi i casi in cui ciò non avviene come ora vi esporrò. Non succede se un poeta pubblica con Einaudi, Mondadori, Garzanti, Crocetti o Feltrinelli e poi si ritira dalle scene. Nei restanti casi, anche i poeti affermati sono costretti a spendere qualcosa e difficilmente fanno pari o guadagnano. Non c'è niente di male: la mia è solo la presa di coscienza dello stato in cui versa la poesia italiana attuale. I poeti affermati non campano come poeti ma lavorano come giornalisti, impiegati, editor, insegnanti, non parlando di quelli non integrati come erano la Merini o Zeichen.

 

"Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti.

Di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori, detti pensieri,
di rose, dette presenze,
di sogni, che abitino gli alberi,
di canzoni che faccian danzar le statue,
di stelle che mormorino all'orecchio degli amanti...

Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia le pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi."

Alda Merini, Terra d'Amore (Bari, Acquaviva 2003).

 

 

undefined

 


Una parte delle proprie entrate economiche, una voce in bilancio per le spese poetiche va messa in conto. Innanzitutto un poeta nella stragrande maggioranza dei casi deve pubblicare a pagamento. Spesso come costo ulteriore c'è l'editing che viene fatto. Autopubblicarsi non è visto di buon occhio dalla critica. Gli ebook, anche se pubblicati gratis su riviste online pregevoli, non vengono presi in considerazione. Inoltre il poeta deve spendere per la prefazione, per organizzare un aperitivo per la presentazione del suo libro. Non solo ma deve spedire decine e decine di copie a critici, direttori di riviste online e blog letterari perché questi poi recensiscano la sua opera: spedire un semplice pdf significa non essere presi in considerazione; non è comunque una grande spesa, se si invia tramite posta ordinaria e non per raccomandata. Un poeta deve partecipare a dei premi letterari, nella maggioranza dei casi deve pagare la tassa di iscrizione e poi se vince il premio o concorso deve viaggiare, pernottare nella località della premiazione, deve bere e mangiare, quindi presenziare alla cerimonia. I rimborsi spese non esistono per poeti effettivi, aspiranti e sedicenti. Per non farsi mancare niente qualche poeta si rivolge a un'agenzia letteraria, che lo promuove, lo istrada, lo avvantaggia, lo fa entrare nel giro giusto. Ma tutto ciò ha anch'esso un costo. Quindi ci sono le antologie di poesia. Molto spesso si tratta di antologie non scolastiche e dopo essere stati inseriti i poeti devono acquistare almeno una o due copie: spese irrisorie, ma pur sempre delle spese. Ci sono anche i libri di poesia e di critica letteraria comprati per acculturarsi ulteriormente, per approfondire o estendere le conoscenze culturali. Non sempre le biblioteche comunali, anche quando esiste una rete efficiente di prestito interbibliotecario nella provincia come a Pisa, si trovano i libri attuali. Quindi ci sono le riviste letterarie a cui abbonarsi per informarsi ulteriormente e per aggiornarsi. Ma la comunità poetica non è solo online. Bisogna anche frequentarsi, andare alla presentazione dei libri, frequentare i festival poetici, incontrarsi con poeti affermati e critici, partecipare alle conferenze universitarie o a quelle delle associazioni culturali. Non solo ma un poeta o una poetessa che si rispetti ha un suo sito personale con un suo dominio registrato, con la sua brava informativa della privacy, con la sua grafica accattivante creata da un webmaster professionista: insomma altri soldi da spendere. Quindi ci sono poeti che pagano per appartenere a un'associazione culturale o un'accademia poetica. Poi ci sono alcuni siti di poesia che mettono in vetrina online i propri iscritti, ma bisogna versare una quota annua. Come se non bastasse ci sono anche delle scuole di scrittura e alcuni sia per migliorare a scrivere che per entrare in contatto con critici o scrittori importanti spendono centinaia di euro per frequentare. Infine ci sono i poetry slam e uno spende per recarvisi. Inoltre per combattere l'ansia beve qualche birra oppure spende bevendo qualche birra per avere maggiore comprensione empatica nei confronti dei partecipanti: in ogni caso dopo un certo tasso etilico anche i mediocri sembrano Montale nella notte in cui tutte le vacche sono nere e le poesie sono capolavori. Però anche viaggi, panini, piadine, birre costano.

 

undefined

 

 

Inoltre bisogna offrire qualcosa al bar o al pub al cronista, che molto spesso non si intende assolutamente di poesia contemporanea, perché scriva un trafiletto su un quotidiano in modo da certificare alla comunità locale che uno esiste come poeta. Non solo ma va considerato tutto il tempo speso a occuparsi di poesia e che poteva essere occupato in attività più remunerative, Molte di queste cose non l'ho mai fatte (qualcuna sì, ma pochissime e le più economiche), però per fare carriera poetica è questo ciò che legittima culturalmente. Non dico che tutto ciò sia giusto o sbagliato. La mia è una pura e semplice constatazione di fatto. I soldi sono una grande facilitazione, aprono molte porte, anche nel mondo apparentemente puro e incontaminato della poesia. Nel mondo della poesia un poco di soldi da spendere sono una premessa indispensabile. Ci sono poeti che mettono al primo posto nei loro valori e come priorità nella loro vita la carriera poetica. Così si ritrovano con la casa piena di libri pubblicati a proprie spese e di premi e targhe di scarsa importanza, ma in ristrettezze economiche e con pochissimi soldi per fare la spesa. Pur con tutta la solidarietà dell'intera comunità poetica forse potrebbero gestire in modo più avveduto e oculato i loro soldi. Ma molto spesso dopo tutti questi sforzi economici e dell'impegno profuso la maggioranza dei poeti ha successo oppure diventa memorabile? Assolutamente no. Ogni sforzo spesso è vano. Tutto è destinato a finire nel dimenticatoio. Poi i soldi non vanno considerati lo sterco del diavolo. Di solito si assiste a questo doppio sacrificio: 1) i genitori hanno speso soldi per mandare all'università i poeti con scarso o addirittura nessun ritorno economico 2) i poeti sacrificano tempo e denaro per la loro passione, vivendo un'esistenza precaria.
Mi è stato riferito da alcuni che conoscono a menadito la comunità poetica che la maggioranza dei poeti proviene da famiglia benestante, ma nel corso della vita sono destinati di solito a impoverirsi tra mancati guadagni di una educazione umanistica che non dà frutti economici e le spese per partecipare all'agone lirica.

 

undefined


Di solito però quando un poeta recita le sue liriche alla maggioranza della gente questa gli dice che le sue poesie sono belle, come contentino. In realtà la poesia contemporanea è vista dai più come oziosa, inutile, noiosa, incomprensibile. Alla cosiddetta gente non importa nulla della poesia e dei poeti contemporanei. Come scrive il critico e poeta Davide Brullo fino a quando non ci saranno soldi statali per finanziare i poeti e fino a quando non verrà istituito un centro di ricerca per la poesia statale ci sarà un grande bailamme di poeti, alcuni veri ma anche molti presunti, pronti a fare un baccano inenarrabile. La poesia, anche la migliore, viene considerata solo un hobby. I poeti quindi dovrebbero rimanere con i piedi per terra. Spesso ai poeti manca il senso pratico e un poco di sano realismo. Non c'è niente di male in questo. Ognuno ha le sue pecche. Nessuno è perfetto, come la celebre battuta di Casablanca. Basta esserne consapevoli. Non sempre il talento viene riconosciuto. Lo pensavo proprio stamani che ero seduto al bar e solo dopo che se ne è andata ho riconosciuto una bella donna come la sorella di una ragazza che trent'anni fa mi aveva rifiutato. Allo stesso modo non sempre si riconosce la poesia come tale, anche se è bella. Comunque la poesia può essere considerata per alcuni un atto di pace, per altri un atto di insubordinazione nei confronti della società attuale (scrivere in questo senso è un piccolo atto "rivoluzionario" anche da parte di chi non è rivoluzionario politicamente), per altri ancora un atto d'amore che poche persone, forse nessuno raccoglierà. Questo bisogna tenerlo presente, pur tra molte difficoltà per i poeti e tra tanta ilarità delle persone pragmatiche. Se è vero che i poeti in Italia suscitano ilarità, la libertà di scrivere è concessa. Qui non accade come a Brodskij che nel regime russo decenni fa fu accusato perfino di parassitismo. A ogni modo i poeti non possono fare a meno di scrivere. Quindi si sobbarcano, più o meno incoscientemente,  costi e crisi reputazionali.

Alcune caratteristiche della poesia contemporanea in sintesi...

giu 282022

 

undefined
Il verso libero:

Nel corso del '900 si è diffuso il verso libero. Questo è avvenuto non solo tra quelli che vengono definiti dai cattedratici poeti dilettanti ma anche da grandi poeti stranieri e italiani. Laforgue fu il primo grande poeta ad adoprare il verso libero e a tal proposito scrisse: "mi dimentico di rimare, mi dimentico il numero delle sillabe, mi dimentico la distribuzione delle strofe". Anche Pound fece un uso moderato nelle proprie liriche del verso libero. I poeti dell'imagismo scrivevano tutti in versi liberi. E. Lee Masters nella celeberrima Antologia di Spoon River adoprò spesso nei suoi epitaffi versi liberi e non prestò molta attenzione al rispetto della metrica. Per quel che riguarda il nostro paese i crepuscolari Corazzini, Gozzano, Govoni, pur utilizzando anche forme metriche tradizionali, introdussero il verso libero nella poesia italiana. Anche il poeta simbolista Gian Pietro Lucini scriveva soprattutto versi liberi e dichiarò che al momento della creazione non cercava "misure prestabilite (versi), né sequenze numerate di misure (strofe)", né il posizionamento di accenti tonici. Inoltre bisogna ricordare che i poeti vociani Jahier e Boine scrissero solo prose poetiche. Infine i futuristi utilizzarono solo ed esclusivamente il verso libero. Se in poesia e in letteratura devono essere messe delle regole forse devono riguardare il rapporto tra l'arte e il tentativo di ideologizzazione dell'arte stessa. Ritornando al verso libero alcuni intellettuali ritengono che la vera libertà si acquisisca nell'ambito delle regole imposte e degli schemi precostituiti o almeno questa è la loro giustificazione alla loro concezione di una poesia, che per essere tale deve adoprare le forme metriche classiche. Altri intellettuali ritengono invece che nell'arte la libertà non esista, per cui devono essere accettate le regole imposte dalla tradizione. Per il poeta Robert Frost "scrivere versi liberi è come giocare a tennis senza rete».
Ma non è detto che chi scriva versi liberi e non rispetti la metrica tradizionale non si imponga altre regole riguardanti altri ambiti. Un tempo erano presenti dei canoni estetici. Oggi forse è più problematico valutare un poeta. Sono rari i casi di coloro che scrivono endecasillabi canonici. I più scrivono in versi liberi.

undefined


La crisi della poesia:


Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall'osservazione o dalla trasfigurazione. Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel Novecento tutto diventa ancora più complesso. Basta pensare a Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio. Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del Novecento l'Ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l'Orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli, analogie e sinestesie. Negli anni Sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l'Ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anch'essi non erano di facile comprensione. Da un lato i poeti di Officina avevano buoni intenti: volevano il rinnovamento, erano contro l'intimismo degli ermetici, erano contro i reazionari. Dall'altro lato erano anche contro il Neorealismo, uno dei pochi ismi del Novecento (insieme ai crepuscolari) i cui autori si facevano capire da tutti. Forse nel Neosperimentalismo erano presenti troppe premesse teoriche. Anche la Neoavanguardia era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l'egemonia culturale e l'estetica dominante, contro la mercificazione dell'arte. Però spesso spiazzava i lettori per i suoi non sensi, il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi. Infine la poesia degli anni Settanta con il Neo-orfismo cambia di nuovo le carte in tavola perché prende le distanze sia dalla Neoavanguardia che dal Neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico è sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: "La parola innamorata" e "Il pubblico della poesia". Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C'è anche troppa creazione ma è scarsa la fruizione. La poesia contemporanea è determinata talvolta dall'egocentrismo, dal narcisismo, dall'autobiografismo. È una poesia talvolta autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio talvolta non è chiaro. Il gradimento del pubblico è scarso. I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. Il fatturato dei libri di poesia in Italia è inferiore all'1% del fatturato globale. I libri di poesia nella stragrande maggioranza dei casi finiscono al macero. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori. Sono molteplici i motivi di questa situazione e non li analizzeremo ora. Comunque oggi i poeti viventi sono sconosciuti al grande pubblico. Come sono cambiati i tempi da quando Vico scriveva che i poeti sono i primi storici delle nazioni! Oggi è innegabile che la poesia di questi anni è in crisi e alcuni critici l'hanno definita minimalista. La lirica di questi tempi è talvolta illeggibile e non memorabile. Comunque non bisogna essere ottimisti né apocalittici.


Poesia e moralità:


È sempre difficile giudicare la qualità delle poesie. È vero che è improponibile il paragone tra la poesia di un bambino di prima elementare e una di Montale. Ma spesso le differenze non sono così marcate. Un tempo si consideravano la metrica e l'eufonia. Oggi non più. Decenni fa in Italia si considerava anche la persona del poeta, che doveva essere assennato e ponderato. Al poeta si richiedevano delle virtù come una certa moralità e la saggezza. Se era sregolato allora era solo un erudito e/o un immaturo. Non poteva considerarsi persona di cultura. Si guardava il comportamento. Si considerava soprattutto l'etica. Si giudicava la condotta. C'era molto moralismo. D'altronde anche la Neoavanguardia valutava la persona (che doveva essere schierata ideologicamente). Loro erano gli unici puri e onesti. Consideravano anche la poetica. Quindi il contenuto veniva giudicato in modo fazioso perché secondo loro il linguaggio era "ideologia". Insomma si doveva combattere. Erano in trincea. Bisognava condannare la borghesia. Quindi bisognava per forza di cose odiare i piccoli borghesi. È chiaro che la Neoavanguardia ha avuto anche dei meriti come quello di rinnovare il linguaggio, inventare il pluristilismo, etc etc. Le due "chiese" comunque si sono appropriate della cultura nella seconda metà del Novecento. La maggioranza della gente se ne fregava. Negli anni Settanta le nuove generazioni erano perse nella droga o nella politica. La letteratura era ritenuta cosa di poco conto e non incisiva. Addirittura era ritenuta evasione. Molti giovani di allora pensavano ad altro e si rovinavano con altro: l'eroina o il terrorismo. La stessa poesia da allora è stata relegata ai margini e non si è più ripresa. Giudicare le poesie è sempre impresa ardua e risente di una certa soggettività. Spesso è questione di gusto più che di criteri estetici.

 

 

undefined

 

Poesia e ideologia:


Quali qualità deve possedere un artista per essere tale? Sono sicuro che a questa domanda molti risponderebbero che deve avere talento. Ma forse questo è un prerequisito fondamentale ma non sufficiente. Vittorio Sgarbi in "Lezioni private" scrive che un artista deve avere uno stile. Per esempio un poeta deve avere una visione del mondo. Successivamente avrebbe una poetica (ovvero una dichiarazione di intenti) e uno stile. Un artista di conseguenza secondo tale concezione deve anche essere un intellettuale, che riflette sul mondo e che rappresenta una coscienza critica per gli altri. Secondo Sgarbi l'artista è tale innanzitutto per il proprio pensiero (che deve contraddistinguersi per una certa originalità) e questo è valido sia per chi appartiene alla tradizione che per chi appartiene ad una avanguardia. Secondo altri si può scrivere anche senza una piena consapevolezza di sé stessi e del mondo, ma in fondo sono un'esigua minoranza. Molti critici la pensano come Sgarbi. Altra cosa importante oltre al pensiero è quella che alcuni chiamano la posizione intellettuale. Un artista può esprimere dissenso, consenso o non schierarsi rispetto alla politica e al potere. Per Gramsci ogni artista doveva essere un intellettuale organico. Sartre nella presentazione a "I tempi moderni" proponeva l'engagement. Lo scrittore era da ritenersi sempre responsabile. Non doveva scrivere per i posteri ma per i contemporanei. Non doveva evadere dalla realtà ma essere sempre testimone. Però molti altri erano per una posizione intellettuale meno impegnata politicamente. Per Saba i poeti dovevano essere "sacerdoti dell'eros". Anche D'Annunzio faceva dire a Claudio Cantelmo ne "Le vergini delle rocce" che gli artisti dovevano soltanto difendere la bellezza. Ma in fondo era in buona compagnia. Lo stesso Dostoevskij scriveva che la bellezza avrebbe salvato il mondo. Chissà cosa avrebbero pensato oggi di questa epoca in cui l'arte è soprattutto ricerca del nuovo a tutti i costi e provocazione fine a sé stessa?
Lo stile comunque può essere giudicato subito dai critici letterari, mentre le scelte politiche devono essere comprese e interpretate almeno dopo qualche decennio. Il rischio infatti è quello di essere troppo faziosi e di confondere l'estetica con l'ideologia. In alcuni casi c'è la possibilità di confondere l'estetica con l'etica. Non ci scordiamo che in alcuni autori l'appartenenza politica è più che una presa di posizione politica una scelta dettata da idealismo. Per alcuni artisti il liberalismo, il comunismo, il socialismo, la socialdemocrazia, l'anarchia sono categorie dello spirito. Non dimentichiamoci neanche che furono pochi gli intellettuali a opporsi all'entrata in guerra e al fascismo. Condanniamo pure il loro fascismo ma bisogna anche considerare obiettivamente le loro opere artistiche. Lo stesso dicasi per altre ideologie e altri regimi. Facciamoli però processare dagli storici, anche se si può legittimamente mostrare una certa repulsione per i loro atteggiamenti e comportamenti. Condanniamoli pure come uomini ma non rimuoviamo totalmente gli artisti che sono stati e neanche quello che hanno rappresentato per gli uomini della loro epoca.

 

Poeti di ricerca e neolirici:

Forse è troppo riduttiva la distinzione tra poesia di ricerca (sperimentatori del verso) e poesia neolirica. Non è detto che tutto lo sperimentalismo porti per forza di cosa sempre al rinnovamento del linguaggio e al rovesciamento di prospettive. In fondo anche alcuni poeti lirici o neo-orfici possono essere originali ed innovativi: non è assolutamente detto che siano sempre dei manieristi o degli epigoni. Non è detto inoltre che questa distinzione tra i due generi di poesia possa racchiudere tutte le dicotomie concettuali ed espressive (comprensibile/difficile, tradizione/innovazione, impegnato/reazionario, etc. etc.). Per quanto riguarda la comprensibilità dei testi la Dickinson scriveva che si doveva dire la verità in modo criptico, mentre K. Popper sosteneva che niente è così facile che scrivere in modo difficile e che tutti coloro che scrivono devono porsi come dovere la chiarezza espositiva (però era un filosofo). La realtà in poesia è che i componimenti dovrebbero in teoria cercare sempre di raggiungere i vertici della significazione. Però i poeti spesso cercano termini ricercati, talvolta antiquati, perché li considerano più consoni. I poeti tra gambo e stelo scelgono sempre il secondo vocabolo, anche se non sarebbe necessario. Anche i poeti in fondo hanno il loro gergo. Mi sembra che Pasolini avesse dichiarato a riguardo che esistesse in poesia un codice classista del linguaggio. Ma non è forse riduttiva questa distinzione tra poesia di ricerca e neolirici? Non potrebbe essere considerata anche una poesia aforistica come quella dell'ultimo Montale, degli Shorts di Auden, dell'ultimo Cesare Viviani? Non sarebbe forse originale se questo genere di poesia aiutasse a chiarire i pensieri, portasse talvolta a "pensare contro sé stessi" per dirla alla Cioran (il riferimento è alla sua opera "La tentazione di esistere")? Naturalmente una scrittura aforistica rischia sempre di essere troppo didascalica oppure ostensiva. Ma in fondo anche gli sperimentatori o i neolirici rischiano anch'essi di perdersi in virtuosismi, di innamorarsi troppo delle parole. I rischi ci sono per tutti. Comunque la distinzione autentica che dovrebbe essere fatta è tra chi cerca di descrivere/raggiungere/ rendere tutta la complessità del reale (il rischio è quello di rendere ancora più complicato e di più difficile comprensione ciò che è già complesso) e tra chi cerca di semplificare la realtà (il rischio è quello di rendere tutto troppo semplicistico, di creare delle smagliature da cui evade il reale). Queste dovrebbero essere le due scuole di pensiero (ma forse sarebbe meglio dire due atteggiamenti esistenziali) di una poesia, che allora potrebbe essere veramente ricerca di senso. Ma forse è solo una utopia. Però la distinzione basilare è tra chi cerca di raggiungere la soglia del dicibile e chi cerca la sostanza delle cose, l'essenziale. Questi a mio modesto avviso sono i due modi di porsi in estrema sintesi. Poi a prescindere dal tipo di atteggiamento chiunque può essere o meno innovativo. Per cercare l'essenziale intendo l'estrema sintesi del reale. La soglia del dicibile non è detto che sia estrema sintesi. L'essenziale lo si raggiunge con il levare. È la caratteristica tipica della scrittura epigrammatica. La soglia del dicibile invece la si raggiunge con il battere, con l'accumulo: significa cercare di descrivere in modo esaustivo la realtà, di comprenderla in modo totalizzante.

 

 

Due parole sul Novecento italiano...

giu 262022

 

 

undefined

Il secolo, che ci siamo appena lasciati alle spalle, è stato un secolo policromo, ricco di ismi, correnti letterarie, correnti critiche. Per quanto riguarda la creatività letteraria si è assistito a una molteplicità di forme espressive e comunicative. Diverse sono state le correnti letterarie in Italia: il Decadentismo, il Crepuscolarismo, il Futurismo, l’Ermetismo, il Neorealismo, la Neoavanguardia, il  Postermetismo, il Neosperimentalismo, il Neo-orfismo. Se consideriamo anche l'Europa bisogna ricordarci anche dell'Espressionismo, del Simbolismo, del Dadaismo e del Surrealismo. Non sono naturalmente mancate le polemiche, come quelle tra tradizione e Neoavanguardia e come quelle tra neorealisti e postermetici. Mai come nell’arco del ’900 la letteratura ha registrato dei mutamenti così radicali. Nel primo Novecento la letteratura italiana passò dall’estetismo dannunziano all’Ermetismo, che stilisticamente si distingueva per le sue analogie, le sue sinestesie e per l’assolutezza della parola poetica; da un punto di vista etico si registrava il passaggio dai vizi e dal lusso sfrenato di D’Annunzio a una letteratura - come quella ermetica - intesa come impegno e testimonianza civile. Se si considera le riviste questo cambiamento di rotta, questa svolta dal dannunzianesimo a un ruolo nuovo di letterato avvenne ancora prima. Infatti “La Voce”, nella prima fase diretta da Prezzolini, fu una rivista “militante”, che si pose problematiche filosofiche e sociali, come la questione meridionale e la politica del trasformismo giolittiana. In prosa si passò dagli epigoni del Verismo all’antiromanzo, cioè ad un romanzo-saggio in cui si dissolveva il personaggio e predominavano il contenutismo, i sociologismi e gli psicologismi. I protagonisti dei romanzi del '900 sono quasi tutti inetti e/o nevrotici a cominciare dai personaggi di Svevo. Ma nella maggioranza dei casi la causa del disagio esistenziale è ignota. Solo nel "Memoriale" di Volponi la paranoia del protagonista ha un motivo certo, ovvero l'espulsione dalla fabbrica a causa della tubercolosi.

 

undefined

 

 

Molti scriveranno della nevrosi, ma Tobino con "Le libere donne di Magliano" sarà colui che affronterà il tema della follia nel modo più realistico. Uno dei pochi che resiste alla tentazione dell'inettitudine è Fenoglio. Per lui si tratta semplicemente di osservare e trascrivere ("see and transfer"), come riesce a fare magistralmente ne "Il partigiano Johnny". Raramente il malessere esistenziale dell'uomo contemporaneo passa in secondo piano. Le tematiche dell'inettitudine e della follia vengono però eluse da alcuni grandi romanzi del '900, che trattano in modo esemplare le conseguenze del nazi-fascismo: "Il giardino dei Finzi-Contini" di Bassani (l'emarginazione degli ebrei), "Se questo è un uomo" di Primo Levi (il lager), "Cristo si è fermato ad Eboli" di Carlo Levi (il confino). Durante il periodo della guerra e dell'immediato dopoguerra la letteratura italiana è contrassegnata dall'impegno morale e politico. L'unico che si concede un divertissment è Vasco Pratolini con "Le ragazze di San Frediano". Anche in poesia avvennero dei mutamenti radicali. Si passò dalle reminiscenze petrarchesche-leopardiane del Canzoniere di Saba a un frammentismo, talvolta prosaico. Il Novecento non è stato caratterizzato solo dall'originalità delle correnti letterarie, ma anche da quella dei singoli autori. Si pensi per esempio alle innovazioni introdotte da Ungaretti, che fu il creatore del versicolo. Nel Novecento comparve nel mondo della scrittura anche l'altra metà del cielo. Furono protagoniste della scena letteraria la poetessa Ada Negri ed Elsa Morante, che scrisse capolavori come "L'isola di Arturo" e "La storia". Ci si ricordi anche di Natalia Ginzburg, che in "Lessico famigliare" ritrasse l'ambiente culturale torinese antifascista, di cui fecero parte Pavese, Adriano Olivetti, Carlo Levi, Giacomo Debenedetti, Carlo Levi. Diverse sono state le correnti della critica: lo storicismo marxista, il crocianesimo, lo strutturalismo, la critica psicanalitica. Non vanno nemmeno dimenticati gli apporti più recenti della semiotica e dell’ermeneutica nell'ambito della critica letteraria. La letteratura nel secolo appena trascorso non è stata considerata solo a livello sintattico, stilistico, simbolico, ma i critici del ’900 hanno indagato a 360 gradi sul rapporto autore-opera e sul rapporto lettore-opera. Attualmente non è ancora possibile fare il bilancio del '900, valutare obiettivamente la portata di correnti letterarie e autori, stimare effettivamente l'eredità di questo secolo, appena trascorso. Può accadere anche che autori, che nel corso della loro vita ebbero fortuna critica, vengano dimenticati e che autori, che non conobbero grande notorietà un tempo, vengano rivalutati. Ciò sta in parte avvenendo con D'Arzo, Silone, Comisso, Brancati, Manganelli, Guido Morselli, D'Arrigo. La letteratura del ’900 è stata contrassegnata da innumerevoli svolte epocali e da profonde trasformazioni. Tutto ciò per aderire maggiormente alle realtà sociali, economiche, politiche, antropologiche di un secolo colmo di errori, orrori, nefandezze di ogni genere. Tutto ciò per riuscire a decifrare la successione, mai fino ad allora così veloce, di avvenimenti. Il Novecento è stato un secolo intenso; ricco di paradossi e rompicapi da risolvere, di enigmi da decifrare.

 

undefined

 

 

Illustri filosofi hanno cercato di rintracciare la causa principale della crisi della modernità. Freud scrisse del "disagio della cività", Max Weber della "gabbia di acciaio". Per Nietzsche l'origine di tutti i mali è il nichilismo, per i marxisti il plusvalore, l'alienazione, i rapporti di produzione, i mezzi di produzione, per i cattolici la secolarizzazione, per gli esistenzialisti l'angoscia della scelta. Per Husserl il mancato ritorno al mondo della vita, per Mounier l'individualismo, per Dewey il fatto che il mondo sia aleatorio e rischioso. Per Niezsche Dio è morto, gli strutturalisti invece annunciano la morte dell'uomo. Ma forse non esiste una sola causa alla crisi della modernità. Forse sono molte le cause. La letteratura italiana del '900 ha cercato di intraprendere la sfida al labirinto gnoseologico-culturale, di cui parlò Calvino. Una sfida difficile, ma allo stesso tempo anche affascinante. La letteratura italiana del '900 proprio come uno dei personaggi più famosi di Pirandello - il fu Mattia Pascal - ha dovuto rischiare più volte il proprio patrimonio (in questo caso la propria tradizione) come chi gioca al casinò, darsi per morta e cambiare identità per ritrovarsi e ritrovare il senso di un mondo, sempre più arcano e sfuggente. Talvolta ha assunto rischi folli in modo ludico, presentando i lati più grotteschi e più comici della realtà. Si pensi ad esempio a Landolfi, a Zavattini, a Malerba, ad Achille Campanile, a Cavazzoni.

 

"Il poeta sei tu che leggi"...

giu 172022

 

undefined

(Nella foto Davide Morelli a Marina di Cecina)

"Il poeta sei tu che leggi” si trova scritto dappertutto ormai. È scritto anche sul Lungotevere Vaticano. Lo scrivono in tanti sul web. Sembra che la paternità sia da attribuirsi al poeta di strada Ivan Tresoldi, certamente un personaggio creativo. Il vero autore sarebbe quindi il lettore. Sarebbe lui il maggior costruttore di significato, il vero responsabile del senso ultimo del testo. Di fronte all'ambiguità semantica è proprio il lettore che decide cosa significhi questa o quell'opera. Una parola, una frase, un intero testo possono avere significati diversi a seconda del contesto (inteso in senso lato) e della sensibilità individuale. Ogni testo in un certo qual modo è polisemico. La stessa connotazione, quella che Umberto Eco definiva come la coloritura emotiva di ogni parola, di ogni frase varia da persona a persona. La denotazione non è oggettiva (nel senso che non è oggettuale come le cose nella scienza), ma è certa perché convenzionale. La denotazione è decisa dalla comunità linguistica. La connotazione è incerta perché soggettiva. Ogni testo quindi dipende anche, forse soprattutto, dallo stato mentale, dall'umore, dallo stato d'animo del lettore in quel particolare frangente. Era questo il punto debole dello strutturalismo,  prima ancora che Chomsky parlasse di psicolinguistica. Possiamo perciò anche essere d'accordo. Gli artisti inoltre non esistono senza pubblico. I poeti non esistono senza lettori. Adam Smith ne "La ricchezza delle nazioni" considerava gli artisti degli assistiti. In quell'epoca la maggioranza erano cortigiani oppure secoli prima per esempio pittori e scultori venivano finanziati da dei mecenati o avevano come committente la Chiesa. Oggi gli artisti sono assistiti dai loro ammiratori, estimatori, seguaci. Aveva capito tutto il cantautore Claudio Rocchi quando gli chiedevano l'autografo, lui chiedeva le generalità del richiedente e poi firmava con il nome e cognome del suo fan. Senza il pubblico l'artista non ha modo di esistere. Oggi è poeta chi legge. Al bando quindi il copyright, i diritti di autore, l'autorialità. In questo modo nessuno è più autore e tutti sono autori. Ma io mi domando: se uno non legge cosa è? Molto probabilmente molti non vogliono leggere perché non vogliono essere poeti. Di solito comunque leggono poesia soprattutto gli aspiranti poeti, coloro che vogliono diventare poeti. Come esistono le preghiere interessate anche queste sono letture interessate in un certo modo. Tuttavia "il poeta sei tu che leggi" significa senza ombra di dubbio che non si può essere poeti senza essere lettori forti. Ma la situazione è a ogni modo desolante in Italia.  Certamente i giornali non aiutano. La cosiddetta terza pagina viene sempre messa in ennesima pagina. Sono anche scomparsi e non più sostituiti grandi maestri dell'elzeviro. Non scrivono più ormai Luca Goldoni, Alberto Arbasino, Pier Francesco Listri, Luigi Maria Personè. Mi ricordo che anni fa mi incuriosivano molto gli aneddoti letterari di quest'ultimo, morto centenario, grande letterato, che aveva conosciuto tutti i più grandi letterati del Novecento italiano e non. Poi le terze pagine dei quotidiani trattano di società, mondo dello spettacolo, tendenze. Trattano spesso di cose futili, leggere, tanto per intrattenere più che per acculturare, se va bene per informare più che per formare. Ma i direttori dei giornali sono messi alle strette e loro, se interpellati a riguardo, direbbero prontamente: i quotidiani vendono sempre meno copie e bisogna dare ai lettori ciò che vogliono. Il potere in questo modo si deresponsabilizza tramite la presunzione di ignoranza del popolo. Così facendo il popolo non si accultura. Inoltre come ho sempre avuto modo di dire: oggi tutto è cultura tranne la cultura. C'è spazio per tutti in televisione tranne che per la letteratura, la poesia, la scrittura. Eppure la fruizione culturale è aumentata notevolmente in questi anni. Ma la cultura è noiosa, soporifera. La scuola non aiuta. I programmi ministeriali sono quelli che sono. Poi con la vecchia retorica che non bisogna dare la pappa pronta diversi critici letterari si sono dimostrati criptici, oscuri, allontanando di fatto le persone dalla cultura. Diversi letterati non vogliono correre il rischio della banalizzazione, della volgarizzazione, neanche quando di tratta di un'utile semplificazione. Anche in letteratura bisognerebbe utilizzare il rasoio di Occam, ovvero non moltiplicare gli enti inutili. Invece sembra che diversi letterati abbiano a cuore il loro gergo specialistico e allora usano grecismi, latinismi, inglesismi, francesismi. La cultura diventa talvolta perciò un fardello pesante. Ci sono ancora oggi diversi letterati, che pur essendo politicamente progressisti, hanno una concezione elitaria e snobistica della letteratura, nutrendo talvolta dei pregiudizi nei confronti della cosiddetta gente. Insomma secondo costoro la letteratura deve essere difficile, non alla portata di tutti. Un tempo il preside della facoltà di ingegneria di Pisa,  Piero Villaggio, amava dire "ingegneria deve essere difficile" agli studenti che si lamentavano della severità dei docenti. Ogni ingegnere ha delle responsabilità civili, sociali, etiche, umane. Deve saper fare bene i calcoli per non far crollare i ponti o se è un ingegnere gestionale deve saper fare i conti per non far fallire un'impresa. Ma un letterato ha soprattutto il dovere di farsi capire ai più. Così scriveva Claudio Chieffo: "Dicevano gli antichi che non c'è nulla di peggio di un popolo che dimentica i suoi poeti; e invece c'è di peggio: un poeta che dimentica il suo popolo". In un certo qual modo diversi letterati complicano le cose; sono esoterici, nel senso più deteriore del termine. Ma a questo proposito secondo una scuola di pensiero nessun uomo è depositario di grandi verità. Le cose della vita sono sempre quelle trite e ritrite. I letterati sono uomini come gli altri. Invece secondo un'altra scuola di pensiero non si può spolpare la letteratura perché poi alla fine ci resta un torsolo di mela. Secondo questi pensatori aveva ragione Cioran quando scriveva che se togliessimo il belletto alla letteratura non resterebbe niente. La domanda da un milione di dollari è la seguente: si può rappresentare la vita anche in modo comprensibile ai più oppure bisogna riprodurla fedelmente nella sua complessità? E ancora i letterati devono abbassarsi al livello del pubblico o devono cercare di elevarlo? Meglio arrivare a tutti o invece essere per pochi eletti? Nel frattempo la poesia è di nicchia. Di solito le espressioni  "nicchia di mercato" o "mercato di nicchia" possono avere anche molti risvolti positivi. Si sente dire che nel mondo economico c'è parecchia crisi, ma tizio e caio hanno trovato una bella nicchia di mercato e si sono arricchiti. Non fatevi illusioni: la poesia è una nicchia di mercato che non vende, non arricchisce, se non interiormente. Eppure le facoltà umanistiche sono sovraffollate. Mai tarpare le ali. Mai uccidere i sogni. Ci penserà poi la realtà a disilludere, a deludere, a disincantare. Un altro problema è che oggi tutti sono poeti tranne i poeti. Sono poeti i cuochi, i cantanti, gli influencer, i lestofanti, i piacioni, gli addetti alle pubbliche relazioni, i latin lover e gli arrivisti vari. La poesia sembra essere di tutti, tranne che dei poeti. E i veri poeti? Non pervenuti. Lasciano poche tracce di sé. Disseminano i loro versi in angoli remoti del web. Pubblicano libricini che vendono poco o addirittura pochissimo. La poesia d'altronde è di tutti o di nessuno. Parafrasando un celebre detto, la poesia è quella cosa che tutti pensano di sapere che cosa sia. In tutta onestà penso che valga la regola opposta e inversa: nessuno può sapere con certezza che cosa sia la poesia. Quindi, concludendo, è vero: il poeta sei tu che leggi, a patto che tu legga e legga roba buona.

Valentino Zeichen o della sopravvivenza...

giu 122022

 

 

 

 

 

undefined

 

Valentino Zeichen (Fiume 1938- Roma 2016) è stato un grande poeta italiano. Tommaso Landolfi scriveva che gli artisti dovevano stare a contatto con il popolo, dovevano quindi viaggiare in terza classe. Ma il grande Landolfi, scrittore sopraffino, fu un giocatore dissoluto, che dilapidò parte del patrimonio di famiglia: almeno nacque e visse per un certo periodo di tempo in una certa agiatezza economica. Zeichen fu anche lui un dandy ma povero scannato. Da giovane conobbe anche il riformatorio. Visse in una baracca lungo fiume a Roma. Zeichen visse perciò sempre in terza classe e poco mancò che lo mandassero via anche da lì. Sapeva cosa fossero gli stenti. Conosceva quanto fosse difficile mettere insieme il pranzo con la cena. La sua arte di arrangiarsi può ricordare in piccola parte “Seminario sulla gioventù” di Aldo Busi. Ma se Busi visse per alcuni anni in ristrettezze economiche invece Zeichen fece la miseria per tutta la vita con grande dignità. Se è vero che frequentava salotti della Roma bene lo faceva più per rompere la solitudine, per essere nel mondo, per aggiornarsi sulle tendenze culturali e su ciò che capitava in Italia che per vendersi al migliore offerente. Era un autodidatta. Non aveva compiuto studi regolari. Ma non era naif. Ormai di poeti naif non ne esistono più. Conosceva a menadito la tradizione letteraria, filosofica, in senso lato tutta quella umanistica. Era un intellettuale vero e non solo a grandi linee, onnivoro e versatile. Noi nel pisano diciamo di un cane che tutto gli fa filo, nel senso che sta attento a tutto e a tutti. Ebbene Zeichen era così, annusava tutto e tutti, bastava un piccolo spostamento d’aria per metterlo in allerta: lo incuriosivano tutto e tutti, era incuriosito da tutto e da tutti. Non era solo il grande talento o la sua biografia originale ad averlo fatto diventare un grande poeta ma una spiccata vivacità intellettuale. Ciò che colpisce di Zeichen è che nonostante la vita grama, agra (ricordando Bianciardi) sia riuscito a mantenere una grande onestà intellettuale, a coniugare coerenza e lucidità, oltre che avere un grande senso di ironia. Sapeva anche essere autoironico, prendersi in giro senza autocommiserarsi più di tanto su dove lo avesse portato la sua vita. Insieme a Luigi Di Ruscio e Alda Merini il nostro fu un grande irregolare delle patrie lettere. Rispetto alla Merini Zeichen fu più stabile psicologicamente, mentre a differenza di Di Ruscio fu consacrato poeticamente molto prima, pubblicando subito con Guanda e Mondadori. Inoltre tutti gli altri poeti, a torto o a ragione, si prendevano più sul serio o forse prendevano solo più sul serio la funzione sociale dell’artista in questa società. Erano gli anni in cui molti si perdevano in un finto ribellismo o facevano i rivoluzionari da salotto. Il nostro invece non aveva queste illusioni, se così si possono definire. Eppure lui molto più di altri avrebbe potuto rivendicare il fatto di essere un artista non appartenente a nessuna borghesia, né per estrazione né per formazione. Molti credevano nell’impegno politico, diventavano militanti. L’unico modo che aveva il nostro di fare politica era scrivere ironicamente della sua condizione, senza atteggiarsi a maestro di vita o a grande saggio. In definitiva dopo aver fatto diversi lavori “il suo rifiuto sdegnoso del lavoro” , così descritto da Valerio Magrelli, era anch’esso un atto politico oltre che poetico. Dario Bellezza, per quanto suo amico, gli diceva che doveva alzare l’asticella e fare più sul serio. Zeichen riusciva a scrivere tra il serio e il faceto, arrivando a fare autentica poesia da una arguta battuta di spirito; aveva questa rara qualità quando il motto di spirito spesso non raggiunge la letterarietà nei più. Non a caso il poeta pubblicò un libro di aforismi poetici. Zeichen era un grande poeta perché sapeva scrivere d’amore, cosa più unica che rara di questi tempi, ma non solo: sapeva parlare di tutto e mettere a disposizione la sua cultura a tutti, nonostante la sua poesia fosse caratterizzata da un alto coefficiente intellettuale (trattava anche di Kafka, Rubens, Popper, Bruno Giordano, Giotto, Duchamps, Umberto Eco e delle bellezze artistiche di Roma). La compianta poetessa e professoressa Biancamaria Frabotta scrisse: «Chi non intende la differenza che esiste fra un poeta intelligente e un poeta dell’intelligenza, legga la raccolta completa delle poesie di Valentino Zeichen […]. Zeichen scrive come vive, e viceversa. Il che, a un secolo di distanza da D’Annunzio, può fare anche notizia. E notizie della sua insolita biografia non ne son mancate, a causa della ghiotta curiosità dei media che ancora non cessano tributare incensi al personaggio, trascurando il poeta che è oggi in Europa, io credo, uno dei più originali e duraturi». Se qualcuno, aspirante suicida, mi chiedesse se la vita vale la pena di essere vissuta oppure se mi confessasse di non saper come tirare avanti gli consiglierei di leggere le poesie di Zeichen. Aveva moltissimi motivi per farla finita, ma tirò sempre avanti. Questo non solo perché sapeva prendere la vita alla leggera secondo alcuni o così com’è secondo altri, ma perché era anche uomo di fortemente tempra morale. Certo i suicidi sono quasi sempre depressi, ma leggere Zeichen consola, conforta e il poeta ti indica la strada maestra. La sua intera opera può essere letta anche come un manuale di sopravvivenza interiore, come un libro di istruzioni per non autodistruggersi. Zeichen non era depresso (e questo non è un merito né una virtù), ma a differenza di alcuni non era neanche deprimente (alcuni sono farraginosi, tortuosi, arzigogolati, pesanti). Nonostante mille difficoltà, innumerevoli lavori, Zeichen sapeva che aveva una missione nella vita: scrivere, scrivere, scrivere. Si ricordi che il poeta in “Area di rigore” scherzava addirittura sulla sua insufficienza cardiaca e con la sua poesia, per quanto elaborata e mai facilona, riusciva a fare della “metafisica tascabile”. Un altro grande merito del poeta fu quello di smarcarsi totalmente dalla tradizione lirica precedente e anche di non farsi abbindolare dalle mode letterarie, che imperversavano in quegli anni. Zeichen sapeva prendere da tutti, ma sentiva, pensava, scriveva senza rifarsi a nessuno: aveva uno stile tutto suo, inconfondibile. Nel tratteggiare la sua figura ho finito per parlare poco della sua poesia, ma quello che mi stava più a cuore era l’esempio umano e non solo quello letterario. Zeichen fu esemplare perché non si abbatteva mai; un’altra cosa che mi piace è il suo vitalismo sereno, mai accattivante né disperato; per il resto leggendo le sue poesie ognuno può farsi un’idea e constatare la sua bravura, almeno quella quasi universalmente riconosciuta dalla critica. Sicuramente Zeichen è importante perché pochissimi sono i poeti poveri e autodidatti. Molti autori diventano poveri, facendo i poeti. Zeichen lo fu sempre. Fu un’eccezione. Dispiace che sia conosciuto soltanto dalla ristretta cerchia dei letterati e della comunità poetica. Purtroppo quando cala il sipario di un protagonista della poesia contemporanea scendono sulla sua figura il silenzio e l’oblio. Eppure dimenticarlo è un piccolo torto e non conoscerlo è anche un’ingiustizia più grave, soprattutto nei confronti di sé stessi. Per come ha vissuto e per come è stato dimenticato possiamo affermare che la società civile italica, la stessa cultura italiana hanno compiuto un’altra ingiustizia. Senza Zeichen si può vivere, ma sensibilmente peggio. Riconoscere di aver bisogno di leggerlo è un piccolo passo avanti della propria evoluzione interiore, se di evoluzione si può parlare. Non a caso quando sono un poco giù di morale mi metto a rileggerlo. Non sono poesie che so a memoria, ma sono i suoi componimenti che mi mettono di buon umore. Talvolta mi illuminano l’esistenza. Spesso mi rispecchio nei suoi versi, talvolta mi ci ritrovo fedelmente. E lo ammiro perché nelle sue condizioni materiali ed esistenziali precarie non si è mai perso d’animo, non si è mai abbattuto, non si è mai affranto. Da Zeichen si può apprendere non solo qualche lezione di poesia ma anche molte lezioni di vita. Nonostante mille problemi non se la prendeva mai col mondo. Forse perché Zeichen in fondo la pensava come Montale quando faceva dire a una svampita che se il mondo va male non è solo per colpa degli uomini.

Atom

Powered by Nibbleblog per Letteratour.it